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Settembre speciale al parco archeologico di Ercolano: i “Venerdì” con le passeggiate serali; i “Venerdì Close-Up” nei cantieri; e soprattutto il World Heritage Volunteers 2019 promosso dall’Unesco con volontari impegnati nelle attività del Parco

Ercolano di notte: visite guidate serali per 11 venerdì al parco archeologico di Ercolano

Locandina de “I Venerdì a Ercolano”: luci nell’ombra

Il parco Archeologico di Ercolano non è andato in ferie e, anzi, con il rientro dalle vacanze moltiplica la propria offerta culturale. Oltre alla continuazione, fino al 21 settembre, dei “Venerdì di Ercolano”, i percorsi serali che registrano da luglio il tutto esaurito, il mese di settembre al Pa-Erco si annuncia denso e stimolante. Il pubblico anche a settembre potrà continuare ad assistere da protagonista al lavoro in diretta di restauratori e archeologi all’opera all’interno delle sito, si rinnoveranno infatti i fortunati appuntamenti del venerdì mattina “Close-Up” ogni venerdì di settembre (6, 13, 20 e 27 settembre) alle 11 e alle 11.30 presso i cantieri affidati agli studenti dell’ISCR presso la Casa del Colonnato Tuscanico. “Si tratta del senso di tutto il progetto “close up”, precisa il direttore Francesco Sirano, “dove il nostro pubblico viene coinvolto nei cantieri che conducono alla fruizione in un’ottica di partecipazione e trasparenza”.

Volontari in azine nel parco di Ercolano

Il manifesto del progetto World Heritage Volunteers a Ercolano

Ma l’appuntamento più importante vede il Parco promotore di un progetto accolto nella prestigiosa iniziativa World Heritage Volunteers 2019. Si tratta di un progetto scientifico Unesco che, a livello internazionale, coinvolge giovani e organizzazioni nella conservazione e promozione del Patrimonio Mondiale. Fino al 14 settembre 2019 i volontari saranno protagonisti partecipando alle attività di conservazione del sito con un piano di lavoro che ha l’obiettivo di sensibilizzare sulla tematica e di condividere le conoscenze sul patrimonio culturale dell’area di Ercolano tra la comunità locale e giovani partecipanti che provengono da tutto il mondo. “Sono particolarmente soddisfatto della partecipazione a tale progetto”, dichiara il direttore Francesco Sirano, “è dai tempi di Amedeo Maiuri che il Parco non si rendeva protagonista di un progetto di questo genere aperto ai non professionisti. Da quando è stato pubblicato il bando siamo stati sommersi di richieste di partecipazione davvero da ogni parte del mondo. È stato duro selezionare solo 10 volontari, ma la giovane età e lo straordinario successo della manifestazione ci incoraggiano a progettare per l’anno prossimo un Action Camp ancora più grande. Oltre a mirare a espandere l’apprendimento interculturale tra volontari e comunità locale, il sito verrà promosso a livello internazionale. Si tratta del primo progetto di volontariato del parco Archeologico di Ercolano permesso anche grazie alla collaborazione con i Comuni di Ercolano e Portici, con il parco nazionale del Vesuvio, con la Youth Action for Peace Italia e con la Pro Loco Herculaneum Association”. E continua: “I volontari entreranno nel ”dietro le quinte” e apprenderanno le basi del funzionamento del motore del Parco collaborando ed essendo coinvolti in prima persona in un programma disegnato per loro dai nostri archeologi e restauratori molto articolato che copre l’intero spettro delle nostre attività: dall’accoglienza alla conservazione”. I volontari saranno coinvolti fianco a fianco con il personale di accoglienza e di manutenzione del sito e avranno il privilegio di fare da “assistenti in erba” per gli interventi sugli affreschi. Nell’antiquarium del Parco lavoreranno sulla gestione dei flussi e dell’accoglienza dei visitatori, oltre a essere di supporto per i disabili nella visita della mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano”.

Il museo Archeologico nazionale di Napoli firma a settembre una convenzione con il Comune di Piedimonte Matese per la tutela e la valorizzazione del museo Mucirama

Il Corridore del monte Cila, bronzetto sannitico scoperto nel 1927 a Piedimonte Matese

Gli ambienti dell’antico chiostro quattrocentesco di San Tommaso d’Aquino sede delmuseo Mucirama di Piedimonte Matese

Si dice Mucirama e sta per museo civico “Raffaele Marrocco” di Piedimonte Matese, nell’Alto Casertano, ai piedi di quel monte Cila, che ha restituito un importante sito di epoca sannitica. Ed è proprio qui che, tra la fine del 1927 e l’inizio del 1928, Laura e Simone Fantini, mentre eseguivano lavori agricoli nel loro uliveto ubicato sulle pendici del Monte Cila, poco distante dalla parte alta di Piedimonte Matese, scoprirono un bronzetto, databile intorno al 460 a.C., alto poco più di 11 cm, che raffigura un giovanetto completamente nudo nell’atto di avanzare col braccio destro sollevato in alto che regge un cinturone. È il cosiddetto Corridore del Monte Cila, ed è il reperto più famoso e importante del Mucirama. Ancora per poco. Perché a breve il bronzetto dovrebbe trasferirsi a Napoli, al museo Archeologico nazionale, per essere restaurato. In realtà per il Corridore del Monte Cila il viaggio a Napoli sarà un ritorno a casa. Dopo la sua scoperta, infatti, Raffaele Marrocco, al tempo direttore del museo Alifano (che oggi porta il suo nome) informò subito Amedeo Maiuri, regio soprintendente alle Antichità della Campania e del Molise, dell’eccezionale ritrovamento. Il Maiuri annunciò la scoperta con una pubblicazione scientifica basata sulle indicazioni di Marrocco e decise di affidare il reperto al museo Archeologico nazionale di Napoli. Quando nel 2013 fu inaugurato il Mucirama negli ambienti dell’antico chiostro quattrocentesco di San Tommaso d’Aquino, il Corridore del Monte Cila fu lasciato in deposito temporaneo a Piedimonte Matese. Ma il museo non è mai decollato veramente. Ma stavolta qualcosa è cambiato per la tutela e la valorizzazione del Mucirama.

Una sala del museo civico “Raffaele Marrocco” di Piedimonte Matese

Il museo Archeologico nazionale di Napoli e il Comune di Piedimonte Matese stipuleranno entro il mese di settembre 2019 una convenzione per promuovere il locale museo Mucirama – museo civico “Raffaele Marrocco”. L’accordo sarà concentrato sugli ambiti della tutela e della valorizzazione: da un lato, infatti, sarà previsto un supporto da parte del personale scientifico del Mann per determinare le criticità in merito alla sicurezza e all’esposizione dei reperti; d’altra parte, saranno garantiti standard efficaci di didattica e comunicazione. In seconda battuta, saranno organizzate, con cadenza periodica, esposizioni temporanee per diffondere la conoscenza del patrimonio del museo di Piedimonte, soprattutto della fase sannitica, anche in riferimento alla riapertura della collezione Magna Grecia del Mann: il calendario culturale e di attività sarà presentato nel prossimo autunno. “La Città di Piedimonte e l’amministrazione tutta ringraziano il direttore Paolo Giulierini per la disponibilità e per aver preso a cuore, tra mille impegni, anche il rilancio e il rinnovo del nostro Mucirama. Siamo onorati di poter collaborare con il Mann per proporre anche nel Matese parte della sua ricchezza”, commenta il sindaco del Comune di Piedimonte Matese, Luigi di Lorenzo. E il direttore Giulierini: “Un grande portale culturale verso il Mezzogiorno. Questo vuole essere il Mann e in questa ottica siamo felici di poter collaborare alla valorizzazione dell’importante museo di Piedimonte Matese, città ricca di storia che, dai tempi di Amedeo Maiuri, ha avuto rapporti con l’Archeologico di Napoli”.

Ercolano, da aprile a luglio al venerdì mattina “Close-up Restauri Porte Aperte”: visite ai cantieri con i conservatori al lavoro. Si inizia con l’Augusteum, la sede degli Augustali

Veduta generale del sito archeologico di Ercolano all’ombra del Vesuvio (foto Graziano Tavan)

“Close-up cantieri”: la locandina dell’iniziativa a Ercolano tra aprile e luglio 2019

Con aprile a Ercolano il venerdì è il giorno “Close-up Restauri Porte Aperte”: a partire dal 19 aprile 2019 e fino al 19 luglio 2019, ogni venerdì mattina, dalle 11 alle ore 12, i visitatori del Parco archeologico di Ercolano potranno accedere ai cantieri di restauro in corso nell’area archeologica nell’ambito delle campagne di manutenzione sia programmata che straordinaria, e parlare con i conservatori per scoprire il loro lavoro. “L’apertura al pubblico dei cantieri di Manutenzione Programmata”, dichiara il direttore Francesco Sirano, “corrisponde a una gestione partecipativa dei processi che vede da una parte anche la richiesta del nostro pubblico, sempre più appassionato e interessato, dall’altra il dovere di essere accessibili e trasparenti anche nella nostra pratica quotidiana in modo tale da rendere per tutti Ercolano laboratorio aperto. Il tutto avviene in coerenza con quanto voluto già dal grande studioso e soprintendente Amedeo Maiuri di rendere vivo un luogo in apparenza non vivo ma che invece ha tanto da trasmettere e tramandare attraverso una modalità di fruizione aperta”. Si tratta di un servizio offerto dal Parco senza alcun costo aggiuntivo per essendo già compreso all’interno del biglietto di ingresso al sito.

Modello tridimensionale dell’Augusteum di Ercolano: elaborazione dell’università L’Orientale di Napoli con la soprintendenza (foto Graziano Tavan)

Si parte venerdì 19 aprile 2019 con la visita del cantiere della sede degli Augustales, che si presenta come un’ampia sala con un sacello centrale riccamente decorato con affreschi parietali. Nella parte centrale della sala si conservano anche le grandi travi lignee, interamente carbonizzate, che servivano da supporto per il piano sovrastante. L’intervento conservativo prevede la mappatura, la pulizia e il consolidamento dei dipinti murali e degli intonaci. Per la pavimentazione è prevista la rimozione dei depositi incoerenti e coerenti, il trattamento biologico e il consolidamento della coesione e dell’adesione degli strati preparatori. In merito agli elementi di legno carbonizzato, è in corso lo smontaggio, la pulizia e il rimontaggio dei vassoi protettivi in plexiglass. Un’ulteriore operazione è prevista sui vetri protettivi posti a protezioni di frammenti lignei carbonizzati lungo la facciata nord, che, se facilmente asportabili, potranno essere rimossi e puliti adeguatamente o, altrimenti, verranno puliti in situ senza smontaggio.

Marmi e rilievi in stucco dell’arco quadrifornte orientale dell’Augusteum di Ercolano (foto Graziano Tavan)

“L’articolazione dell’Augusteum, ancora sepolto sotto la città moderna”, spiegano gli archeologi del Parco, “è nota grazie alle descrizioni e alle planimetrie delineate nel Settecento, quando fu esplorato attraverso gallerie sotterranee con contestuale asportazione di numerose pitture, sculture e iscrizioni ora conservate al museo Archeologico nazionale di Napoli. L’edificio, costruito negli anni centrali del I sec. d.C., si configurava come una grande piazza bordata da portici e con un’esedra rettangolare al centro del lato di fondo, inquadrata da due absidi laterali. Il lato di ingresso era preceduto da un portico ad arcate, compreso da due grandi quadrifronti rivestiti di marmi e di rilievi in stucco. Questo è l’unico settore attualmente in luce e si impone alla vista l’Arco quadrifronte orientale. Come tutti i grandi portici pubblici dell’Italia romana anche quello ercolanese poteva assolvere a molteplici funzioni, ma la grande quantità di sculture di imperatori e di personaggi delle loro famiglie e l’enfasi posta sull’esedra di fondo fanno propendere per l’identificazione con un edificio dedicato al culto imperiale (Augusteum)”.

Ercolano. Riaperto, dopo i restauri, l’Antiquarium con la mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano”: un centinaio di monili e preziosi appartenuti agli antichi ercolanesi sorpresi dall’eruzione del Vesuvio

Uno splendido bracciale a semisfere d’oro da Ercolano (foto parco archeologico di Ercolano)

La locandina della mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano” all’antiquarium di Ercolano fino al 30 settembre 2019

Nella mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano” esposti oggetti trovati negli scavi a Ercolano

Un centinaio di monili e preziosi, una collezione unica per quantità e valore dei pezzi, presentati al pubblico sul luogo stesso del ritrovamento, Ercolano, nella mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano”; la prima grande mostra del Parco Archeologico di Ercolano, visitabile all’Antiquarium del Parco fino al 30 settembre 2019. Nelle vetrine oggetti appartenuti agli antichi ercolanesi, alcuni ritrovati con gli abitanti nel tentativo di porli in salvo dalla imminente catastrofe dell’eruzione, altri ritrovati nelle dimore dell’antica città. Ogni materiale esposto è messaggero di una storia di antico artigianato e manifattura, di rango e di simbolo, di protezione e bellezza, oltre che dell’ulteriore valore acquisito per essere appartenuto ad un abitante e essere stato coinvolto nella tragedia della città distrutta dalla furia del Vesuvio. “La mostra pilota pone le basi per la definitiva esposizione nel museo del sito di tutti i reperti che dal 1927 in poi Amedeo Maiuri volle che restassero qui e non confluissero più nelle collezioni del museo Archeologico nazionale di Napoli. Parte così un processo museografico”, dichiara il direttore Francesco Sirano, “che non resterà confinato ai laboratori ma coinvolgerà il pubblico come parte attiva della costruzione di un museo che garantisca un’effettiva esperienza di conoscenza inclusiva e partecipata. Il processo nasce dalla volontà di colmare in tempi rapidi una terribile lacuna nell’esperienza di visita del sito e interrompere il silenzio che dura da oltre 40 anni: il pubblico deve potere ascoltare proprio nell’area archeologica il racconto proveniente dai numerosissimi oggetti d’uso comune: arredi, ornamenti personali e strumenti di lavoro, decorazioni, mobili in vario materiale, dell’incredibile mole di reperti organici proveniente direttamente dalle case, dalle strade, dalle mense degli antichi ercolanesi”. Per ragioni logistiche gli ingressi all’Antiquarium avverranno per gruppi e con numero massimo limitato.

Nella mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano” oggetti “ambientati” nel luogo di ritrovamento

Un’armilla in oro da Ercolano (foto parco archeologico di Ercolano)

“I temi della ricchezza, del valore economico sociale e della bellezza”, spiega la direzione del Parco, “rappresentano i contenuti del percorso espositivo che trova la sua dimora nell’Antiquarium del Parco Archeologico, per la prima volta aperto al pubblico al termine di lavori di adeguamento, con particolare riferimento alla sicurezza dei reperti e alle condizioni ambientali, per la gran parte imposti dai tanti anni trascorsi dall’oramai lontana data di collaudo di questo edificio nel 1978”. La mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano” si propone dunque di presentare al visitatore non semplicemente monili d’oro e oggetti preziosi, ma manufatti di uso personale e quotidiano che ci appaiono non comuni, per fattura e materiale, e provengono da contesti trasversali ai quali saranno riferiti. Questi contesti di provenienza sono illustrati sotto una luce particolare, quella della declinazione del lusso, concetto che assomma in sé molto più del mero valore intrinseco e venale, ma si carica di significati ideologici, politici, sociali, culturali, religiosi. Ambientazioni ideali domestiche e botteghe, oggetti dall’Antica Spiaggia carichi di valori simbolici e (non solo) di tipo economico, significativamente portati con sé dai rifugiati che attesero invano salvezza dal mare, restituiscono uno spaccato di vita con un taglio ben preciso che predilige ed esalta quest’aspetto della società ercolanese in tutte le sue sfaccettature.

Francesco Sirano, direttore del parco archeologico di Ercolano

I gioielli di Ercolano “ambientati” nel luogo di ritrovamento (foto parco archeologico di Ercolano)

“Gioielli, monete, gemme, arredi e strumenti preziosi per i banchetti delle occasioni speciali sarebbero solo “cose” per quanto preziose se non fossero inserite in un racconto”, dichiara Francesco Sirano, “che ne evoca il profondo significato sociale e le inserisce nel loro contesto di ritrovamento, di utilizzo e di produzione, se non tornassero nelle mani e sui colli dei loro proprietari. I materiali provengono da edifici pubblici, dalle Domus e dalle botteghe dell’antica Herculaneum e restituiscono un’immagine vivida, complessa e felice di questa comunità. Un cospicuo gruppo di reperti fu trovato nel corso degli scavi sull’antica spiaggia, dove come noto si era rifugiato con i propri averi e nell’abbigliamento confacente al rango di ciascuno, un folto gruppo di abitanti della sventurata città in attesa della missione di salvataggio che almeno per loro non andò a buon fine. Mi piace sottolineare – conclude – i prestiti concessi dal Mann e dal Parco di Pompei, il corredo di gemme e strumenti da lavoro di una bottega di gioielliere e parte del tesoro in argento di Moregine, segno concreto della stretta collaborazione che ci vede uniti nei progetti culturali”.

Pubblico “coinvolto” nella mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano”

La mostra sviluppa modalità di esposizione in linea con i tempi dove il visitatore viene condotto in maniera attiva e partecipata attraverso logiche di coinvolgimento e partecipazione, che via via lo rendono protagonista sino all’ultima sala dove in uno spazio dedicato si possono scattare foto, quasi selfie dal passato, indossando idealmente gioielli e condividere con il mondo, diventando così ambasciatore del Parco. La mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano” è inoltre animata con attività di laboratorio organizzate in collaborazione con il Tarì e con l’istituto di istruzione superiore “Francesco Degni” di Torre del Greco, per rendere partecipi i visitatori dei processi di produzione e della tradizione artigianale plurisecolare che si è sedimentata in Campania.

Ercolano. Il direttore Francesco Sirano presenta il progetto culturale per il rilancio del sito: tre mostre (l’espressione del lusso, la grande tradizione artigianale legata alla lavorazione del legno, i piaceri della tavola) per preparare l’apertura del museo di Ercolano atteso da 40 anni

Scavi borbonici nell’area vesuviana in una stampa dell’epoca

Era il 1738 quando, durante la costruzione della Reggia di Portici, voluta da Carlo III di Borbone re delle Due Sicilie, il funzionario Roque Joaquin de Alcubierre avviò la prima esplorazione di Ercolano: furono rinvenuti statue, pezzi di marmo e frammenti di iscrizioni e cornici. Sono passati 280 anni e il parco archeologico di Ercolano – dopo un 2018 che ha visto un incremento die visitatori del 9% – si prepara al rilancio nel 2019, che passa dalla realizzazione del museo che offra al pubblico la possibilità di ammirare i tesori ercolanesi in loco: lo fa con un progetto culturale ambizioso e il programma espositivo “Ercolano 1738-2018 talento passato e presente” per dare nuovo stimolo alla valorizzazione dell’inestimabile patrimonio culturale rappresentato dai reperti provenienti dagli scavi novecenteschi e destinati al museo del sito. Tre tappe nel 2019 accompagneranno i visitatori alla scoperta di aspetti salienti e identitari dell’antica Herculaneum: l’espressione del lusso, la grande tradizione artigianale legata alla lavorazione del legno, i piaceri della tavola.

Il famoso mosaico di Ercolano con Nettuno e Anfitrite

Preziosi oggetti dai depositi di Ercolano nella mostra “SplendOri”

L’archeologo Andrea Maiuri

“Esporre all’attenzione dei visitatori l’interessantissimo materiale archeologico conservato nei depositi, e sinora illustrato in modo episodico”, dichiara il direttore Francesco Sirano, “lo ritengo un obiettivo imprescindibile della mia direzione, accanto alla conservazione programmata. Con queste mostre intendiamo porre le basi per la definitiva esposizione nel museo del sito di tutti i reperti che dal 1927 in poi Amedeo Maiuri volle che restassero qui e non confluissero più nelle collezioni del museo Archeologico nazionale di Napoli. Con queste mostre parte un processo museografico che non resterà confinato ai laboratori ma coinvolgerà il pubblico come parte attiva della costruzione di un museo che garantisca un’effettiva esperienza di conoscenza. È necessario colmare in tempi rapidi una terribile lacuna nell’esperienza di visita del sito e interrompere il silenzio che dura da oltre 40 anni: il pubblico deve potere ascoltare proprio nell’area archeologica il racconto proveniente dai numerosissimi oggetti d’uso comune: arredi, ornamenti personali e strumenti di lavoro, decorazioni, mobili in vario materiale, dell’incredibile mole di reperti organici proveniente direttamente dalle case, dalle strade, dalle mense degli antichi ercolanesi. Finalmente dobbiamo portare a compimento lavori, studi, restauri condotti per decenni dall’amministrazione dello Stato con tanto sacrificio e passione da parte di tanti colleghi e studiosi e, non da ultimo, con notevole investimento finanziario. Sullo sfondo il dialogo intenso e la ultra decennale collaborazione con la Fondazione Packard con il cui presidente, dr. David Packard, si stanno valutando possibili scenari di cooperazione e partenariato proprio per imprimere una definitiva svolta storica per il Parco e il suo Museo. Adeguamenti impiantistici e per il risparmio energetico, limitate opere strutturali, nuova videosorveglianze e impianto antintrusione. Tutte opere che ci mettono a disposizione uno spazio di più di 400 mq coperto e climatizzato di cui il Parco ha impellente bisogno per compiere adeguatamente la propria missione”.

La locandina della mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano” all’antiquarium di Ercolano fino al 30 settembre 2019

Locandina della mostra “L’ebanistica e l’arte dell’arredo ligneo” a Ercolano

Locandina della mostra “La civiltà del cibo e i piaceri della tavola nell’antica Ercolano”

Dopo la mostra “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano”, inaugurata il 20 dicembre 2018 e aperta all’antiquarium fino al 30 settembre 2019, il parco archeologico di Ercolano – come si diceva – ha in programma nel 2019 di offrire al pubblico ulteriori occasioni per approfondire la conoscenza dei luoghi, della storia e delle tradizioni dell’area vesuviana con la diffusione in sedi prestigiose del territorio (la Villa Campolieto e la Reggia di Portici) di altre due mostre che approfondiranno i temi dell’arte lignea e dell’alimentazione, “esibizioni che – dichiara il direttore – si arricchiranno anche di valori simbolici e dimostreranno, attraverso la concreta prassi amministrativa e tecnico organizzativa, come sia possibile e necessario che, all’interno della buffer zone del sito Unesco di Herculaneum, tutte le istituzioni e le realtà culturali ed economiche sane concorrano a ‘fare sistema’ per restituire a questo territorio centralità culturale e qualità della vita che lo hanno caratterizzato per secoli”. Con questa iniziativa il Parco vuole intrattenere con il territorio un rapporto sempre più stretto e svolgere una funzione di catalizzatore delle migliori energie e competenze: ognuna delle esposizioni avrà una sezione dedicata all’attualizzazione delle tematiche per creare un ponte concreto tra passato e presente attraverso le competenze artigianali e di creatività. Inoltre mentre “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano” si svolge nell’edificio dell’Antiquarium all’interno del Parco, le mostre sull’ebanistica e gli arredi lignei (“L’ebanistica e l’arte dell’arredo ligneo”) e quella sul cibo e i piaceri della tavola (“La civiltà del cibo e i piaceri della tavola nell’antica Ercolano”) saranno allestite nella Villa Campolieto e nella Reggia di Portici. In questa maniera, esplodendo i valori culturali archeologici sul territorio, il Parco intende scardinare le proprie barriere e favorire il godimento e l’attenzione per due eccezionali monumenti la cui storia è intrecciata a doppio filo con quella degli scavi.

“Mann at work”- Il museo Archeologico nazionale di Napoli, forte dei risultati del 2018, presenta la programmazione 2019-2020: grandi mostre, il restyling delle collezioni e degli spazi espositivi, l’identità glocal definita dalla proiezione internazionale e dalla capacità di dialogo con il territorio

I corridori dalla villa dei Papiri di Ercolano, il gruppo in bronzo tra i simboli del Mann

La locandina della presentazione della programmazione del Mann 2019-2020

“Le Tre Grazie”, il famosissimo gruppo scultoreo di Antonio Canova esposto all’Ermitage di San Pietroburgo: arriverà a Napoli (foto Graziano Tavan)

Corre il Mann verso obiettivi sempre più ambiziosi. Corrono i numeri del museo Archeologico nazionale di Napoli più dei Corridori della villa dei Papiri di Ercolano, che sono uno dei suoi simboli: visitatori 452531 nel 2016, 529799 nel 2017, 613426 nel 2018; aree espositive, 6366 mq aperti al pubblico, saranno 14616 mq entro il 2020; giardini aperti al pubblico, 0 mq nel 2016, 3190 nel 2020. Il museo cresce, come conferma “Mann at work”, la programmazione 2019-’20 presentata nei giorni scorsi in cui si capisce subito, fin dalle prime battute del direttore Paolo Giulierini, che ha ottenuto da Artribune la menzione “Migliore Direttore di Museo” del 2018, come il biennio 2019/2020 sarà decisivo per il Mann, il “Museo che cresce” tra le grandi mostre, il restyling delle collezioni e degli spazi espositivi, l’identità glocal definita dalla proiezione internazionale e dalla capacità di dialogo con il territorio. Le premesse di questa dimensione “at work” non soltanto sono state definite nel piano strategico triennale del museo, ma sono state confermate dall’attività messa in campo nel 2018, anno dei record per il Mann: come abbiamo visto, al 31 dicembre scorso, sono stati 613426 i visitatori che hanno ammirato collezioni permanenti ed esposizioni temporanee, in aumento del 15.8% rispetto alle 529799 presenze del 2017; ancora, l’abbonamento “OpenMann”, unicum nel panorama dei musei autonomi nazionali, ha registrato 3728 adesioni nella fase promozionale, lanciata tra 1° dicembre 2018 e 7 gennaio 2019 (prevalente la sottoscrizione dell’opzione card per adulti, con 3120 iscrizioni; ancora, sono state vendute 296 card “family” per due adulti over 25, 217 “young” per giovani tra i 18 ed i 25 anni, 95 “corporate” per aziende ed associazioni). “Il 2019 è l’ anno del nuovo Mann, delle grandi mostre a partire da Canova fino a Thalassa, ma anche di importanti opere nel palazzo con l’apertura delle sezioni Magna Grecia e Preistoria, il restyling delle pompeiane, una straordinaria sezione tecnologica lì dove la immaginò Maiuri, il rifacimento e allestimento del terzo giardino, quello della Vanella”, commenta il direttore Paolo Giulierini. “Un discorso a parte merita l’immensa opera di riordino e razionalizzazione, mai fatta sinora, dei depositi Mann, il nostro ‘tesoro’: già avviata nel 2018 ne presenteremo a breve i primi risultati. Nel 2020 Napoli avrà il suo museo Archeologico come le ultime generazioni non l’hanno mai visto: alla massima fruibilità degli spazi espositivi (basti pensare alle splendide sale con colonne dell’ala occidentale, chiuse da 50 anni, che ospiteranno la statuaria campana) si affiancheranno servizi moderni che porranno il Mann all’avanguardia tra i grandi siti mondiali consentendoci, ad esempio, di ospitare eventi in un auditorium di 300 posti tecnologicamente all’avanguardia”.

Con il progetto ExtraMann il museo fa rete con i siti culturali della città di Napoli

Molto apprezzato l’abbonamento “Open Mann”, un unicum nei musei autonomi nazionali

Il “Museo che cresce” diviene, così, un’architettura virtuosa, capace non soltanto di dinamizzare se stessa, ma anche di fare sistema con diverse realtà: guardando oltre i confini nazionali, l’organizzazione di mostre, spesso realizzate con reperti provenienti dai ricchissimi depositi senza depauperare le collezioni visitabili dai turisti, è un’occasione concreta per promuovere il brand del Mann. “Il Mann nel mondo è sempre più autentico ambasciatore della cultura italiana. Solo le nostre mostre in tournée in Cina contano a oggi oltre due milioni e mezzo di visitatori. Grazie un innovativo protocollo per i prestiti internazionali ideato con l’università Federico II le nostre opere oggi viaggiano nel mondo con supporti multimediali, audiovisivi e un vero e proprio ‘corredo’ di comunicazione che racconta Napoli, la Campania, l’Italia: sono praticamente ‘a lavoro per noi’, oltre a generare introiti per circa 750mila euro in media ogni anno. Abbiamo appena chiuso un anno entusiasmante festeggiando un nuovo record, con oltre 613mila visitatori. Quasi quattromila persone nel corso delle ultime festività hanno acquistato l’abbonamento annuale: ora vogliamo che Open Mann diventi anche Open City e faccia rete sul territorio, cosi come Extramann del progetto Obvia fa rete tra i siti culturali cittadini. Un grande lavoro e tante esaltanti sfide ci aspettano”, conclude Giulierini.

Rendering del progetto di restauro e valorizzazione del cosiddetto Braccio Nuovo (studio architetti Giuseppe Capuozzo e Maria Rosaria Infantino)

Tra 2019 e 2020: il Museo che cambia volto. Le principali attività che hanno caratterizzato e caratterizzeranno, in prospettiva 2020, il restyling delle collezioni e l’ampliamento delle aree espositive del museo rientrano in due diversi framework progettuali: a) il Fondo di Sviluppo e Coesione/FSC 2014-2020 (Piano Stralcio Cultura e Turismo, di cui alla Delibera CIPE 3/2016), che prevedrà interventi di sistemazione del piano interrato del Mann, con la finalità di sviluppare nuovi spazi per la collocazione dei reperti ed allestire aree visitabili nei depositi; b) il PON “Cultura e Sviluppo 2014-2020”, che seguirà quattro linee progettuali: 1. Riallestimento delle aree museali poste al piano terra dell’ala occidentale con una nuova sistemazione di parte della statuaria campana; 2. Ristrutturazione della copertura; 3. Completamento, restauro e valorizzazione del cosiddetto “Braccio Nuovo”; 4. Museo accessibile: nuove tecnologie della comunicazione al servizio del processo di fruizione del visitatore del Mann. Nell’ambito dei suddetti interventi, si segnalano, di seguito, le più importanti operazioni di modernizzazione degli spazi museali.

Bronzi dal santuario di Locri nei laboratori di restauro in vista dell’apertura della sezione Magna Grecia (foto dal sito http://www.ilroma.net)

Maggio 2019: nuova apertura della sezione Magna Grecia. La Collezione Magna Grecia è uno dei nuclei storici del museo Archeologico nazionale di Napoli: il suo ultimo allestimento risale al 1996. La direzione del Mann ne ha definito la riapertura perseguendo due obiettivi principali: l’esigenza di assicurare un programma di comunicazione chiaro, attraente e corretto rispetto ai contenuti ed alla ricostruzione storica dei contesti; il rispetto delle finalità complessive del sistema museale per costruirne un’identità riconoscibile nelle forme e nell’immagine della rappresentazione. Il tema delle culture a contatto sarà centrale nella comunicazione espositiva, soprattutto per spiegare la complessità delle coesistenza e dei sistemi di relazione tra le diverse comunità dell’Italia meridionale prima della Romanizzazione. Tra i maggiori nuclei espositivi risalta la presenza del materiale votivo da Locri, in particolare quello proveniente dal santuario in contrada Parapezza. Questo complesso votivo permette di rappresentare in maniera esemplare l’importanza del rituale religioso nel sistema di organizzazione sociale dei Greci nelle città e nei territori dipendenti. Da Locri provengono anche numerosi bronzi di eccezionale qualità artistica, uno dei prodotti più pregiati dell’artigianato magno-greco; i più antichi sono rappresentati da un elmo calcidese con paragnatidi a forma di testa di ariete con occhi in avorio, databile agli ultimi decenni del VI sec. a.C.; un’hydria lavorata a sbalzo e a cesello decorata con testa di Gorgone degli inizi del V sec. a.C. e un cinturone con ganci a freccia della seconda metà del IV secolo a.C. Così, nell’antica sede espositiva, ovvero nelle sale prospicienti al Salone della Meridiana, i visitatori potranno ripercorrere il “mondo” della Magna Grecia attraverso alcuni grandi sentieri tematici (ad esempio, l’architettura, la religione, la pratica del banchetto e le forme di interrelazione tra le diverse popolazioni dell’Italia meridionale). Saranno esposti reperti che, nel corso del XIX secolo, appartenevano a collezioni private o provenivano dagli scavi condotti nel Regno di Napoli.

Ceramica da Pithecusa (Ischia) nella sezione di Preistoria e Protostoria del Mann

Giugno 2019: nuova apertura della sezione Preistoria. La collezione raccoglierà gli antichi reperti provenienti da vari centri della Campania, con lo scopo di ripercorrere le vicissitudini, spesso complesse ed alterne, legate al popolamento della Regione. Riconsegnare queste particolari e rarissime opere al visitatore significherà effettuare un vero e proprio viaggio della conoscenza, per comprendere in che modo veicolare la diffusione del nostro patrimonio: così, la sezione Preistoria vivrà un restyling nell’allestimento e nella comunicazione dei contenuti informativi. La creazione di segnali e pannelli user friendly, la definizione di un iter di visita che sarà, allo stesso tempo, ascendente e a ritroso (si salirà di livello, andando dall’età del ferro sino al più remoto periodo paleolitico) contribuirà ad incrementare le suggestioni del percorso museale. Un percorso che si adeguerà ai nuovi standard della ricerca scientifica, seguendo le diverse stagioni dei ritrovamenti archeologici, intercorsi dalla fine dell’Ottocento sino agli anni Novanta del secolo scorso.

Il giardino prospiciente il cosiddetto Braccio Nuovo del Mann in una foto del 1932 (foto Archivio del Mann)

Giugno 2019: nuova sistemazione del giardino della Vanella. Rimasta chiusa per anni e andata distrutta, per la maggior parte, dalla costruzione della grande teca espositiva di acciaio e vetro (ora demolita) e dalle lavorazioni del cd. Braccio Nuovo, finalmente nel 2019 verrà riaperta la seconda parte del giardino della Vanella, cui seguirà, dopo breve tempo, la terza di completamento: in tal modo, sarà ampliata l’offerta di spazi verdi del museo, iniziata nel 2016 con il recupero dei due giardini storici adiacenti l’atrio, il Giardino delle Camelie e quello delle Fontane. Il progetto di recupero, che prevede un restauro delle parti ancora esistenti del precedente giardino (l’ipogeo di Caivano, la fontana, il colonnato, i muretti in mattoni) e un ripensamento in chiave moderna degli spazi ormai liberati dai detriti con abbattimento delle barriere architettoniche, cerca di creare un legame ancora più solido tra la città e il museo, inserendo anche elementi in grado di valorizzare il rapporto tra passato e presente attraverso l’utilizzo di elementi architettonici e naturali. L’impianto ippodameo della Napoli antica troverà spazio nella sistemazione dei vialetti che, intrecciandosi, inquadreranno grandi aiuole, dalle quali spunteranno alberi, arbusti e fiori in gran parte legati alla storia del giardino e alle collezioni del museo. Il tema dell’acqua verrà riproposto grazie al restauro della fontana voluta da Amedeo Maiuri e posta al centro del giardino, fontana che è la riproduzione in scala di una peschiera di epoca romana. Il richiamo al mondo antico troverà la sua massima espressione nel restauro dell’Ipogeo di Caivano: si tratta di una tomba gentilizia romana databile tra il I ed il II sec. d.C., affrescata con scene di paesaggi idillico-sacrali; la tomba (rinvenuta a Caivano nel 1923 e poi smontata e rimontata nel giardino della Vanella) per le sue caratteristiche strutturali rimarrà quasi completamente interrata e sarà visitabile dal pubblico solo attraverso una scalinata (per i diversamente abili, sarà creato un sistema di accessibilità virtuale tridimensionale).

Il Braccio Nuovo del museo Archeologico nazionale di Napoli con l’ampliamento a monte

In corso nel 2019: attività di completamento del braccio nuovo. Dopo la collocazione di alcuni uffici (restauro e didattica) e l’apertura della caffetteria, che sarà spazio per rilassarsi e gustare prodotti tipici della tradizione partenopea, entro l’autunno di quest’anno termineranno i lavori nel cosiddetto “Braccio Nuovo”: non soltanto verrà allestita, in collaborazione con il museo “Galileo Galilei”, una nuova sezione tecnologica dedicata all’antica Pompei, ma verrà inaugurato l’auditorium, spazio dedicato agli eventi ed alla didattica.

Il museo Archeologico nazionale di Napoli in rapporto con il centro storico

Prospettiva 2020: un nuovo quartiere della cultura per il centro storico di Napoli. Il Mann fa rete con la città: grazie ad uno studio realizzato dall’università di Roma Tre e dal Dipartimento di Architettura dell’Università “Federico II”, il processo di rinnovamento del Museo non si limita alle collezioni ed agli spazi espositivi, ma entra in rapporto sempre più stretto con il centro storico di Napoli. Prevista, infatti, la valorizzazione delle strade e dei giardini limitrofi al Museo e rientranti nel perimetro compreso tra il Mann, l’Accademia di Belle Arti e l’istituto Colosimo: la fruizione dell’arte, così, non viene iscritta nella pertinenza di un solo istituto, ma rientra in un percorso più complesso all’interno di un vero e proprio quartiere cittadino dedicato alla cultura.

Pompei. Riaperta la Schola Armaturarum restaurata dopo il crollo del 2010. Primi visitatori e prime immagini della Casa dei Gladiatori recuperata al grande pubblico

Gli affreschi recuperati con i restauri della Schola Armaturarum a Pompei (foto Parco archeologico di Pompei)

Il direttore generale Massimo Osanna alla riapertura della Schola Armaturarum di Pompei (foto Parco archeologico di Pompei)

Giovedì 3 gennaio 2019: i primi visitatori – in questo caso i giornalisti – sono entrati nella Schola Armaturarum, la Casa dei Gladiatori di Pompei, come non succedeva dal 2010, quando il 6 novembre le immagini del crollo del soffitto fece il giro del mondo suscitando l’indignazione generale. “A Pompei i crolli negli scavi archeologici sono un capitolo chiuso”, ha affermato Massimo Osanna, direttore generale del parco archeologico di Pompei, aprendo con non poca soddisfazione il nuovo percorso tra le mura della Schola Armaturarum, a restauri completati. E sarà così ogni giovedì negli orari di apertura del sito, per gruppi contingentati di visitatori. Primo passo – anticipava ieri archeologiavocidalpassato (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2019/01/02/pompei-riapre-al-pubblico-la-schola-armaturarum-a-otto-anni-dal-crollo-che-indigno-il-mondo-costo-il-posto-al-ministro-bondi-e-in-seguito-al-quale-sarebbe-nato-il-grande-progetto-pompei-obiettivo/) verso un più articolato progetto di fruizione e di musealizzazione, esteso anche ai vani retrostanti, che consentirà di vedere i dipinti e gli oggetti nel loro luogo di rinvenimento. E allora vediamo meglio la storia degli interventi alla Schola Armaturarum riprendendo l’articolo di ieri arricchito con le prime immagini rese pubbliche dal Parco archeologico di Pompei.

Le anfore rinvenute durante gli scavi del 2017-2018 alla Schola Armaturarum (foto Parco archeologico di Pompei)

La Schola Armaturarum durante gli scavi dello Spinazzola del 1915-16 (foto Parco archeologico di Pompei)

Scavata da Vittorio Spinazzola tra il 1915 e il 1916, la Schola Armaturarum era probabilmente un edificio di rappresentanza di un’associazione militare, come si può dedurre dalle decorazioni e dal rinvenimento di armi custodite al suo interno. Gli ultimi scavi eseguiti per la messa in sicurezza delle strutture, sembrano rafforzare questa ipotesi. Sul retro dell’edificio sono infatti venuti alla luce ambienti di servizio dove si custodivano anfore contenenti olio, vino pregiato e salse di pesce provenienti dal Mediterraneo (Creta, Africa, Sicilia, Spagna), prodotti di qualità da servire in occasioni conviviali o di rappresentanza.

La ricostruzione della Schola Armaturarum ad opera di Amedeo Maiuri (foto Parco archeologico di Pompei)

La Schola Armaturarum dopo i bombardamenti del 1943 (foto Parco archeologico di Pompei)

Quello del 2010 non fu l’unico crollo dell’edificio. Durante i bombardamenti alleati del ’43, la struttura venne semidistrutta e andarono perduti in maniera irreparabile gran parte degli elevati e degli apparati decorativi .Nei successivi restauri condotti da Amedeo Maiuri tra il 1944 e il 1946, si procedette a una ricostruzione integrale delle pareti laterali fino a 9 m di altezza e alla realizzazione di una copertura piana in cemento armato. Come avvenne per molti restauri dell’epoca, l’intervento ricostruttivo, finalizzato a riproporre i volumi originari dell’edificio, fu eseguito con materiali impropri (ferro e cemento) rispetto alle tecnologia costruttiva antica.

Dettaglio degli affreschi recuperati nella Schola Armaturarum (foto Parco archeologico di Pompei)

Una restauratrice mostra gli eccezionali risultati degli interventi alla Schola Armaturarum (foto Parco archeologico di Pompei)

Consolidamento degli intonaci della Schola (foto Parco archeologico di Pompei)

Pulitura degli affreschi della Schola (foto Parco archeologico di Pompei)

Ricomposizione dei frammenti di crollo della Schola (foto Parco archeologico di Pompei)

Gli interventi di recupero hanno avuto inizio nel 2016 con il supporto tecnico di Ales, la struttura interna del Mibac che si occupa da più di tre anni della manutenzione programmata di Pompei. Realizzata una copertura temporanea che consentisse l’avvio dei lavori, si è proceduto inizialmente alla messa in sicurezza delle strutture e degli apparati decorativi, per evitare l’ulteriore perdita di porzioni originali. È stato cioè necessario in una prima fase ripristinare la stabilità delle murature e degli intonaci superstiti, fortemente compromessa dalle sollecitazioni dovute al crollo della copertura e delle pareti laterali. Successivamente si è intervenuti sulle superfici dipinte agendo in parallelo, sulle pareti conservate all’interno dell’edificio e ricomponendo in laboratorio i frammenti recuperati dopo il crollo.

Parete Est prima degli interventi (foto Parco archeologico di Pompei)

Parete Est dopo gli interventi (foto Parco archeologico di Pompei)

Particolare della reintegrazione pittorica a tratteggio nella Schola Armaturarum (foto Parco archeologico di Pompei)

Trattamento delle lacune con la tecnica del tratteggio (foto Parco archeologico di Pompei)

Si è scelto di ripristinare la leggibilità figurativa attraverso un’attenta pulitura e un’accurata presentazione estetica, pur garantendo la riconoscibilità dell’intervento. In particolare il trattamento delle lacune presenti sulle pareti dipinte è stato oggetto di un’approfondita riflessione critica. Si è scelto di adottare il tratteggio, una tecnica messa a punto dall’Istituto Centrale del Restauro negli anni ’40, che consiste nell’accostamento di leggerissimi tratteggi verticali ravvicinati che ripropongono la policromia originale e consentono di ripristinare l’unità dell’immagine perduta, garantendo tuttavia la possibilità di distinguere da vicino l’intervento di restauro.

Pompei: riapre al pubblico la Schola Armaturarum a otto anni dal crollo che indignò il mondo, costò il posto al ministro Bondi, e in seguito al quale sarebbe nato il Grande Progetto Pompei. Obiettivo aprire anche gli ambienti retrostanti la Casa dei Gladiatori con i dipinti recuperati e le anfore in situ

Quanto restava della Schola Armatorarum dopo il crollo del 2010 (foto coordinamento Uil beni culturali)

Sono passati poco più di otto anni da quel tragico 6 novembre 2010 quando le immagini drammatiche del crollo della Schola Armaturarum di Pompei sollevarono l’indignazione del mondo intero. “Gravissimo danno al patrimonio artistico italiano: a Pompei è crollata l’intera Domus dei Gladiatori, così chiamata perché al suo interno gli atleti si allenavano e nella quale deponevano le armi all’interno di alcuni incassi ricavati nei muri”: così iniziava l’articolo del Corriere della Sera on line del 6 novembre 2010, annunciando il crollo della Schola Armaturarum (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2016/01/11/pompei-si-restaura-la-schola-armaturarum-a-piu-di-cinque-anni-dal-crollo-che-costo-il-posto-al-ministro-bondi-dalle-macerie-della-domus-dei-gladiatori-al-grande-progetto-pompei/). Ma le immagini di quel disastro, che costò il posto all’allora ministro Sandro Bondi, e in seguito al quale, un anno, dopo avrebbe preso forma il Grande Progetto Pompei, stavolta sono destinate ad essere archiviate definitivamente come una brutta pagina dei beni culturali italiani. Dal 3 gennaio 2019 la Schola Armaturarum torna visitabile al pubblico ogni giovedì negli orari di apertura del sito, per gruppi contingentati di visitatori, primo passo verso un più articolato progetto di fruizione e di musealizzazione, esteso anche ai vani retrostanti, che consentirà di vedere i dipinti e gli oggetti nel loro luogo di rinvenimento. Il racconto di questo luogo simbolo della rinascita di Pompei sarà affidato ai restauratori che illustreranno il minuzioso intervento di restauro sugli affreschi, e gli ambienti retrostanti oggetto dell’ultima campagna di scavo che ha contribuito a chiarire la funzione di questo edificio.

I teli bianchi che in questi anni hanno protetto le decorazioni della Schola Armaturarum

Il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi a Pompei

Dopo il crollo del novembre 2010, il governo Berlusconi, attraverso i ministri prima Galan, subentrato a Bondi, e poi Fitto, avviò su sollecitazione del commissario europeo Johannes Hahn un progetto straordinario di messa in sicurezza e di manutenzione degli scavi, perfezionato dal governo Monti (ministri Barce e Ornaghi). L’area venne intanto sottoposta a sequestro dalla procura di Torre Annunziata. Il Grande progetto Pompei da 105 milioni di euro fu inviato all’Ue a dicembre 2011 e approvato a febbraio 2012, i primi bandi pubblicati ad aprile. Ma per lunghi mesi la Schola è rimasta così, recintata e inaccessibile, coperta da teli bianchi a ricordare a visitatori e istituzioni che Pompei resta un luogo fragile, dove non bisogna mai smettere di vigilare e intervenire. “Il dissequestro della Schola Armaturarum avvenuto nel corso dell’anno appena conclusosi (2015, ndr) e, finalmente, l’inizio dei lavori di copertura delle pareti affrescate originali, ovvero di quelle porzioni di mura che già miracolosamente si salvarono al bombardamento del 1943 cui seguì il restauro delle parti crollate e il rimpiazzo in cemento armato del soffitto”, sottolineava nel novembre 2016 il soprintendente Massimo Osanna, “si colloca in un momento “storico” che non può che risultare simbolico. I lavori partiti due settimane fa sono anch’essi espressione di quella rinascita generale del sito che, finalmente, viene percepita dal pubblico e dalla stampa, ma che soprattutto coincide con attività concrete, quelle dei cantieri del Grande progetto e di interventi a lungo attesi, come questo della Schola. L’obbiettivo finale al quale stiamo lavorando è, al momento, quello di proteggere le strutture dell’edificio per poi pensare alla migliore soluzione di restauro dello stesso, che soprattutto consenta al pubblico di continuare a godere tangibilmente di un altro pezzo della storia di questa città antica”.

Massimo Osanna, direttore generale del parco archeologico di Pompei

Il soprintendente, oggi direttore generale del costituito parco archeologico di Pompei, ha mantenuto la promessa: la Schola Armaturarum è un altro tassello del grande patrimonio dell’antica città romana recuperato e reso fruibile dal pubblico. “Da metafora dell’incapacità italiana di prendersi cura di un luogo prezioso che appartiene all’intera umanità, la riapertura della Schola Armaturarum rappresenta un simbolo di riscatto per i risultati raggiunti a Pompei con il Grande Progetto, e più in generale un segnale di speranza per il futuro del nostro patrimonio culturale”, dichiara Massimo Osanna. “Da quel crollo avvenuto nel novembre del 2010, la cui risonanza mediatica determinò un coro d’indignazione internazionale, si è affermata una nuova consapevolezza della fragilità di Pompei e la necessità di avviare un percorso di valorizzazione, fatto non solo d’interventi straordinari ed episodici, ma soprattutto di cure e di attenzioni quotidiane”.

La Schola Armaturarum di Pompei alla fine degli scavi (1916) vista dall’angolo di via dell’Abbondanza e Vicolo di Ifigenia (archivio fotografico Soprintendenza Pompei)

Il deposito di anfore intatte trovato negli ambienti mai scavati della Schola Armaturarum in via dell’Abbondanza a Pompei

Scavata da Vittorio Spinazzola tra il 1915 e il 1916, la Schola Armaturarum era probabilmente un edificio di rappresentanza di un’associazione militare, come si può dedurre dalle decorazioni e dal rinvenimento di armi custodite al suo interno. Gli ultimi scavi eseguiti per la messa in sicurezza delle strutture, sembrano rafforzare questa ipotesi. Sul retro dell’edificio sono infatti venuti alla luce ambienti di servizio dove si custodivano anfore contenenti olio, vino pregiato e salse di pesce provenienti dal Mediterraneo (Creta, Africa, Sicilia, Spagna), prodotti di qualità da servire in occasioni conviviali o di rappresentanza. La notizia delle prime scoperte nel cantiere della Schola erano state date nel novembre 2017: “Siamo solo all’inizio di questa avventura”, sottolineavano in soprintendenza, “e già iniziano a emergere reperti intatti che aggiungono elementi nuovi alla lettura della storia dell’antica città” (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/11/24/pompei-nuove-scoperte-negli-ambienti-dietro-la-schola-armatorarum-crollata-nel-2010-trovato-un-deposito-di-anfore-intatte-osanna-importanti-per-capire-la-vera-destinazione-della-domus-de/).

Effetto del bombardamento alleato del 1943 a Pompei

Quello del 2010 non fu l’unico crollo dell’edificio. Durante i bombardamenti alleati del ’43, la struttura venne semidistrutta e andarono perduti in maniera irreparabile gran parte degli elevati e degli apparati decorativi. Nei successivi restauri condotti da Amedeo Maiuri tra il 1944 e il 1946, si procedette a una ricostruzione integrale delle pareti laterali fino a 9 m di altezza e alla realizzazione di una copertura piana in cemento armato. Come avvenne per molti restauri dell’epoca, l’intervento ricostruttivo, finalizzato a riproporre i volumi originari dell’edificio, fu eseguito con materiali impropri (ferro e cemento) rispetto alle tecnologia costruttiva antica. L’indagine della Procura non ha individuato cause o responsabilità del crollo del 2010. È tuttavia probabile – ipotizzano in soprintendenza – che il collasso fu determinato da una serie di concause, aggravate dall’intensità delle piogge di quei giorni: il probabile malfunzionamento dei sistemi di smaltimento dell’acqua e il conseguente peso eccessivo della copertura moderna; la spinta del terreno retrostante; l’incompatibilità dei materiali utilizzati nella ricostruzione postbellica; la mancanza di un sistema programmato di monitoraggi e manutenzione. Il crollo aveva interessato in maniera preponderante la ricostruzione moderna di Maiuri e in misura minore le pitture originali.

Un affresco restaurato della Schola Armatorarum di Pompei

Gli interventi di recupero hanno avuto inizio nel 2016 con il supporto tecnico di Ales, la struttura interna del Mibac che si occupa da più di tre anni della manutenzione programmata di Pompei. “Realizzata una copertura temporanea che consentisse l’avvio dei lavori”, spiegano gli archeologi della soprintendenza, “si è proceduto inizialmente alla messa in sicurezza delle strutture e degli apparati decorativi, per evitare l’ulteriore perdita di porzioni originali. È stato cioè necessario in una prima fase ripristinare la stabilità delle murature e degli intonaci superstiti, fortemente compromessa dalle sollecitazioni dovute al crollo della copertura e delle pareti laterali. Successivamente si è intervenuti sulle superfici dipinte agendo in parallelo, sulle pareti conservate all’interno dell’edificio e ricomponendo in laboratorio i frammenti recuperati dopo il crollo. Si è scelto di ripristinare la leggibilità figurativa attraverso un’attenta pulitura e un’accurata presentazione estetica, pur garantendo la riconoscibilità dell’intervento. In particolare il trattamento delle lacune presenti sulle pareti dipinte è stato oggetto di un’approfondita riflessione critica. Si è scelto di adottare il tratteggio, una tecnica messa a punto dall’Istituto Centrale del Restauro negli anni ’40, che consiste nell’accostamento di leggerissimi tratteggi verticali ravvicinati che ripropongono la policromia originale e consentono di ripristinare l’unità dell’immagine perduta, garantendo tuttavia la possibilità di distinguere da vicino l’intervento di restauro”.

1937-2017: ottant’anni fa veniva aperta al pubblico la visita delle rovine di villa Jovis, il primo palazzo imperiale romano, il “nido di falco” voluto da Tiberio su un promontorio dell’isola di Capri davanti alla penisola sorrentina. Fu scavata dall’archeologo Amedeo Maiuri che si ha lasciato una romantica descrizione

Veduta aerea delle rovine di villa Jovis, abbarbicata sul monte Tiberio a Capri

L’archeologo Andrea Maiuri che ha scavato villa Jovis a Capri

Ottant’anni: tanti ne sono passati dall’apertura al pubblico di villa Jovis, la residenza ufficiale dell’imperatore Tiberio, sul promontorio del versante orientale di Capri, isola particolarmente cara al successore di Augusto, tanto che qui fece costruire altre undici ville. Ma fu villa Jovis quella più amata, per il clima mite e gli ampi panorami. Quando il sito archeologico di villa Jovis fu aperto al pubblico era il 1937, anno speciale perché scadeva il bimillenario della nascita dell’imperatore Augusto, celebrato con grande enfasi e solennità dal regime fascista. Il recupero e la riscoperta della residenza imperiale fu affidata a un maestro dell’archeologia, quell’Amedeo Maiuri che, dopo aver scavato con successo nell’Egeo, assumendo anche la direzione del museo Archeologico di Rodi, dal 1924 era stato nominato soprintendente alle Antichità di Napoli e del Mezzogiorno, nonché direttore del museo Archeologico di Napoli. Quando all’inizio degli anni Trenta del Novecento Maiuri venne a Capri il sito di villa Jovis, come lui stesso avrebbe scritto nel 1938 sul Corriere della Sera, “era un cumulo informe di macerie da cui erompevano, quasi paurosamente, le occhiaie vuote delle volte delle cisterne: fulmini, nembi e terremoti, abbattendosi su quel picco di roccia, avevano scrollato le mura della gran fabbrica e sulle malte sgretolate i venti avevano seminato una prodigiosa macchia di ginestre e allevato qualche querciuolo contornato; la grande rampa che saliva all’umile chiesetta aveva sepolto la parte migliore del palazzo; corridoi, logge, terrazze erano coperti da magri filari di vigna; all’ingresso un torracchione sgretolato, la Torre del Faro, quella che aveva dato con il suo crollo un sinistro presagio di morte, pencolante sull’abisso, e di quell’abisso la leggenda aveva fatto la rupe del sangue, della carneficina. Il mito di Tiberio riviveva in quella selvaggia e deserta solitudine, e uomini e natura sembravano congiurare a rendere il suo nome più esecrabile”.

Un modello 3D delle strutture architettoniche di villa Jovis riportate alla luce da Amedeo Maiuri

Planimetria di villa Jovis, il palazzo imperiale di Tiberio a Capri

Villa Jovis costruita sul monte Tiberio a strapiombo sul mare

La prima campagna di scavo iniziò nell’inverno 1932-1933. In pochi anni, è ancora Maiuri a scrivere, “le ricerche al gran sole di Capri, o al soffio rabbioso dello scirocco, hanno fatto di questa tragica e muta rovina uno dei più grandiosi complessi che la romanità ci abbia dato. E l’imperatore che non ha lasciato fama di gran costruttore e al quale si faceva anzi colpa di estrema parsimonia di opere pubbliche, ci ha dato invece un superbo esempio di organicità struttiva e architettonica che non è possibile non attribuire a suo personale gusto e a una deliberata volontà preordinatrice. Era facile quassù fare opera di grandiosa scenografia architettonica, di superflua magnificenza, e invece ci troviamo dinanzi alla rude e austera saldezza di una rocca, di una cittadella attanagliata alla rupe, di un palazzo abbarbicato al nudo sasso come un eremo di solitudine o un castello di difesa. E tutto appare subordinato ad una rigorosa, razionale funzionalità delle strutture, con una serrata logica di ideazione e di esecuzione: le immense cisterne affondate nel vivo della roccia, che occupano tutto il cuore del palazzo come il mastio di un castello; il quartiere del bagno degno di un ospite imperiale collegato direttamente a quelle cisterne; il quartiere degli alloggi del seguito disposti lungo i corridoi di servizio dei quattro piani del palazzo, come altrettante celle monastiche d’una badia di frati; la grande sala di ricevimento in forma di esedra-ninfeo; la sua stanza, la più remota e appartata, al di sotto della più alta terrazza del belvedere, proprio ai piedi della chiesetta; e il quartiere della loggia, dell’ambulatio imperiale, aerea, sospesa sulle rupi, tutt’aperta sull’immenso scenario del golfo di Napoli. Segno e suggello infine del soggiorno imperiale – conclude Maiuri la sua descrizione – la torre massiccia del Faro, piantata sul crinale delle rupi, in modo da non servire solo di faro ai naviganti. Ma da lanciare segnalazioni e messaggi al vicino Capo di Sorrento e al più lontano porto di Miseno dove ormeggiavano al sicuro, pronte ai comandi, le navi della flotta tirrena”.

Ricostruzione di villa Jovis, il “nido di falco” voluta dall’imperatore Tiberio a Capri

La planimetria di villa Jovis con evidenziati i diversi settori toccati dal percorso dei visitatori

Il panorama mozzafiato da villa Jovis sulla penisola sorrentina (foto Graziano Tavan)

Per raggiungere il promontorio di monte Tiberio e ammirare le rovine della splendida villa Jovis e conoscere le tecniche geniali di costruzione dei romani bisogna affrontare una salita di 45 minuti a piedi dalla famosa Piazzetta tra giardini di ville e viste su Marina Grande. Vicino all’ingresso della villa si trova il cosiddetto “salto di Tiberio”, una scogliera di 297 metri, che, secondo la leggenda, era da dove Tiberio faceva gettare sotto i suoi nemici. Villa Jovis, considerata il primo palazzo imperiale romano e un importante testimone dell’architettura romana del primo secolo, copre una superficie di 7mila metri quadrati. Dall’alto del promontorio il panorama è mozzafiato: a nord, il blu del Golfo di Napoli e l’isola di Ischia fino a Punta Campanella; a sud, il centro di Capri. “Già la scelta del luogo era d’eccezione”, scriveva Maiuri. “I romani amavano disporre le loro ville a mezza costa o lungo il litorale, in vista di una valle o a specchio della marina, innanzi ad aspetti sereni e dolci di colli e di piano o entro seni anfrattuosi di mare; e Capri pur aspra e petrosa aveva dovizia di questi luoghi, e Augusto aveva scelto per sé il più agevole, il più comodo, la bella spianata tutta verde di selva e di vigneti di Palazzo a mare, presso la marina; Tiberio volle invece per sé il picco più solitario, le rupi più abissali, il luogo più remoto da ogni altro abitato, e vi costruì il suo nido di falco. Fu una villa fortezza, più castello che palazzo, più eremo che magione imperiale; a guardarla oggi con la sua gran mole che copre il cocuzzolo del monte, si direbbe il vecchio castello di un signore feudale che imponesse chissà quale odioso diritto di preda ai naviganti: e fu invece la casa di un imperatore che consolidò saldamente sul mare e sulla terra l’impero di Augusto”.

Nobile e solenne: l’Efebo di via dell’Abbondanza ti accoglie nel tablino della domus ricostruita a Vetulonia per la mostra “L’Arte di Vivere al tempo di Roma” insieme a una quadreria con i pinakes, piccoli affreschi staccati dalle case pompeiane. E poi l’angolo della musica con l’Apollo Citaredo e il giardino arricchito da fontane, erme, oscilla e statue

Rendering dell’allestimento del tablino a cura dell’arch. Luigi Rafanelli per la mostra “L’Arte di Vivere al tempo di Roma” a Vetulonia

Ti affacci all’uscio e lui, l’Efebo di via dell’Abbondanza, è lì che ti accoglie, il suo sguardo pensoso, il suo portamento solenne, “nell’armonica disposizione del corpo e nella nobile compostezza del volto”, come sottolinea Simona Rafanelli, direttore del museo Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia dove, nella mostra “L’Arte di Vivere al tempo di Roma. I luoghi del tempo nelle domus di Pompei” (aperta fino al 5 novembre; catalogo de “L’Erma” di Bretschneider), è stata ricreata una domus pompeiana, con un centinaio di reperti provenienti dalle colonie romane dell’area vesuviana, Pompei, Ercolano, Stabia, e conservati al museo Archeologico nazionale di Napoli. Dopo aver fatto la conoscenza con gli ambienti che davano sull’atrio, il luogo più rappresentativo e privato della domus (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/08/15/nellatrio-di-una-domus-pompeiana-a-vetulonia-nella-mostra-larte-di-vivere-al-tempo-di-roma-si-scoprono-tesori-e-oggetti-comuni-degli-ambienti-del-cuore-di-una-cas/),continuiamo il nostro viaggio nel tempo e nello spazio sempre accompagnati dall’archeologa Luisa Zito entrando nel tablino, “l’ambiente più importante della mostra”, spiega l’architetto Luigi Rafanelli, che ha curato l’allestimento, “perché ospita il famosissimo Efebo in bronzo, che campeggia al centro di esso, ed è decorato alle pareti da affreschi che formano una immaginaria quadreria”. L’Efebo, a Vetulonia, diversamente da quando era esposto al Paul Getty Museum di Los Angeles (ultima tappa straniera prima del suo rientro in Italia), non è circoscritto da uno spazio delimitato e definito, ma è libero da tutte le parti, in modo che può essere visto e goduto (circostanza eccezionale) dai visitatori a 360°, come sospeso nel tempo e nello spazio. “Non c’è altra luce nella stanza – continua Luigi Rafanelli – se non quella speciale che lo illumina, e il chiarore che proviene dalle pareti con gli affreschi è soffuso e non se ne percepisce la provenienza”.

L’archeologa Luisa Zito davanti all’Efebo di via dell’Abbondanza nella mostra di Vetulonia (foto Graziano Tavan)

Era in piedi, nell’atrio della domus di Publius Cornelius Tages, una delle più grandi di Pompei, quando fu trovato da Amedeo Maiuri in quel lontano 25 maggio 1925. “E se oggi possiamo ammirare l’Efebo in tutta la sua bellezza”, ricorda l’archeologa Zito, “è perché quando ci fu l’eruzione la grande casa era in ristrutturazione, e quindi – come si fa ancora oggi – il padrone aveva provveduto a spostare nel grande atrio parte della mobilia, proteggendola con teli. Così è stato anche per l’Efebo che deve proprio la sua sopravvivenza al suo ricovero negli spazi aperti dell’atrio che non conobbero il crollo dei piani superiori della domus”. Alla preservazione eccezionale della patina bronzea – continua Simona Rafanelli -, al di sotto di una superficiale doratura, dovette inoltre contribuire il tessuto abbondante con  il quale l’Efebo, con i due sostegni per le lampade in forma di tralci vegetali, di cui era stato munito, ed unitamente ad altri pregiati arredi bronzei recuperati accanto alla statua, era stato completamente avvolto. In mostra, però, l’Efebo presenta un solo sostegno portalampade: “L’altro”, precisa Zito, “era in uno stato di conservazione precario, che ha consigliato la sua non esposizione”. La statua fu realizzata tra il 20 e il 10 a.C. in una bottega artigiana pompeiana che ha riadattato a uso portalampade un bronzo greco che si rifaceva ai canoni del V sec. a.C. con riferimenti diversi: “La lieve torsione del corpo è di ispirazione policletea”, spiega Zito, “mentre il volto ha analogie con l’Athena Lemnia di Fidia”.

Donna con filo: intonaco dipinto dalla Casa di Giuseppe II di Pompei, oggi al Mann (foto Graziano Tavan)

La direttrice Simona Rafanelli con il maestro Stefano Cocco Cantini

Rapiti da tanta bellezza notiamo solo ora la calda atmosfera che ci ha accolti nel tablino: le dolci note di un flauto riempiono tutta la sala e si diffondono fino al giardino. “È un’antica musica etrusca”, precisa Zito. Proprio Simona Rafanelli con il maestro e compositore Stefano Cocco Cantini da anni sta studiando gli antichi strumenti emersi dagli scavi archeologici e le fonti coeve per recuperare suoni e ritmi della musica etrusca (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2014/03/05/dalle-tombe-dipinte-di-tarquinia-alla-musica-perduta-degli-etruschi-a-firenze-live-coinvolgente-con-letruscologa-simona-rafanelli-e-il-jazzista-stefano-cocco-contini/). Sulle note degli antichi etruschi l’occhio comincia a scorrere sulle pareti decorate del tablino, l’ambiente di rappresentanza della casa, che qui ospita una eccezionale quadreria, composti da sedici bellissimi quadri-affreschi, provenienti da Pompei e dall’area vesuviana. “L’allestimento”, interviene Luigi Rafanelli, “suggerisce l’idea di come erano sistemati, nella “pinacoteca” di una villa romana/pompeiana i piccoli dipinti (pinakes) che rappresentavano soggetti mitologici , domestici, naturalistici, con una tecnica pittorica mutuata dai greci. In questo modo diventava uno spazio fantasioso pieno di immagini, da cui l’abitante e l’ospite si sentivano avvolti, così per il visitatore odierno costituisce una immaginifica messa in scena per ritornare con la mente a quei luoghi e a quei tempi”. Gli affreschi, come fa notare l’archeologa Zito, sono stati staccati da soggetti più grandi e ricomposti senza rispettare la sequenza originale ma rispondendo al gusto estetico dell’epoca borbonica.  “In questa maniera”, stigmatizza Fiorenza Grasso, “gli scavatori borbonici distruggevano i complessi decorativi da cui i singoli soggetti (amorini, scorci di paesaggi, uccelli, …) erano tratti, e solo in rarissimi casi si ordinava un preventivo disegno dell’intera decorazione”. Gli affreschi o, meglio, i quadretti-affresco nel tablino ricreato di Vetulonia, appartengono per la maggior parte al cosiddetto IV stile pompeiano, definito anche “stile fantastico” che si sviluppa negli ultimi decenni di vita di Pompei prima dell’eruzione: “si torna all’illusione spaziale ottenuta con arditi scorci, quinte sceniche, portici e architetture complesse, baroccheggianti nella fase claudio-neroniana e di ispirazione teatrale”.

Statua in bronzo di Apollo con la lira dalla Casa di Apollo di Pompei, oggi al Mann (foto di Giorgio Albano, Mann)

Dal tablino, attraverso una grande apertura, si accede al portico in cui è posto l’angolo della musica, forse la disciplina più importante della paideia (educazione) giovanile. Il tema della musica è sviluppato in una vetrina con reperti eccezionali. Si è subito rapiti dall’Apollo citaredo in bronzo: “Prima della scoperta dell’Efebo di via dell’Abbondanza”, ricorda Zito, “questa era la più importante scultura in bronzo rinvenuta a Pompei”. Nudo, con le gambe incrociate, il capo reclinato, il braccio sinistro disteso lungo il corpo e in mano il plettro, mentre il destro piegato a reggere la lira poggia su un pilastrino; capelli raccolti sopra la nuca, occhi resi con la tecnica dell’ageminazione: lega d’argento per la cornea e rame per l’iride. “La domus dove fu scoperto l’Apollo, che da allora è ricordata come la casa del Citaredo”, continua Zito, “fu scavata tra il 1810 e il 1840, all’estremità dell’insula VII”. Accanto all’Apollo citaredo, un sistro, caratteristico strumento in bronzo molto comune nelle cerimonie in onore di Iside, Cibele e Dioniso; e un prezioso flauto in bronzo, argento e avorio: era usato dai musicisti nei funerali, ai banchetti e nelle rappresentazioni teatrali.

Rendering della vista dal tablino sul giardino chiuso dalla riproduzione del grande affresco della domus pompeiana del Bracciale d’oro

Venere accovacciata: piccola statua in marmo dalal Casa del triclino a Pompei, oggi al Mann (foto Giorgio Albano, Mann)

E siamo nel giardino, che chiude il nostro viaggio nel tempo e nello spazio. “Nelle pareti che delimitano idealmente uno spazio aperto”, precisa Luigi Rafanelli, “è riportata graficamente una scena continua di giardino”. È la riproduzione del grande affresco della Domus pompeiana del Bracciale d’oro. “Nella trasformazione della casa, con la nuova moda ellenistica”, spiega Grasso, “il giardino diventa il luogo più adatto per creare sfarzosi giochi d’acqua, importanti scenografie evocative, del mondo nilotico e bacchino da godere distesi negli adiacenti letti triclinari all’aperto”, Al centro del nostro giardino vediamo una vasca-fontana (labrum) in marmo bianco da Pompei: le fontane erano parte importante della ornamentazione del giardino, immancabilmente abbinate a erme, oscilla e statuette marmoree e bronzee. Anche nell’ideale giardino ricreato a Vetulonia troviamo alcune erme (pilastrini con sopra un busto di Dioniso), gli oscilla (i caratteristici dischi in marmo a vari soggetti o maschere teatrali che venivano appesi lungo il peristilio e, perciò, oscillavano al vento), alcune statuette: “Bellissima”, indica Zito, “la piccola Venere accovacciata, in marmo, oggi bianco, ma in origine dipinta: all’altezza del seno sono ancora visibili tracce di colore rosso. La Venere al bagno decorava l’impluvio dell’atrio della Domus del Triclinio: questa copia miniaturistica si rifà, come moltissime altre trovate, alla Venere lavantem sese realizzata nel III sec. a.C. da Doidalsas di Bitinia ed esposta nel tempio di Giove, nel portico di Ottavia a Roma”. In primo piano il rigoglioso giardino ricostruito con essenze arboree (finte) presenti all’epoca, chiuso da una staccionata a maglie romboidali, molto comune nella recinzione di orti e giardini. Superiamo anche questo cancelletto, e torniamo alla Vetulonia dei giorni nostri.

(3 – fine; i precedenti post il 7 agosto e il 15 agosto 2017)