Reggio Calabria. Accordo del museo Archeologico nazionale con l’École Française de Rome per progetti congiunti di studio, ricerca, valorizzazione, promozione e comunicazione culturale. Primo risultato la fotomodellazione delle terrecotte dell’antica Medma (oggi Rosarno) scoperte da Orsi nel 1913 confluita nella mostra a Roma “Le korai di Medma tra noi”

La locandina della mostra “Le korai di Medma tra di noi. Gli ex voto di un santuario greco restituiti tramite fotomodellazione” allestita fino al 9 aprile 2022 nelle sedi dell’École Française de Rome e dell’Accademia d’Ungheria a Roma
La classe più nota dei reperti archeologici rinvenuti nel territorio dell’antica Medma, l’odierna Rosarno, è senz’altro quella delle statuette di terracotta, presentate al mondo scientifico in termini professionali per la prima volta da Paolo Orsi, nel 1914. Testimoni di un gusto plastico originale e nello stesso tempo strettamente legato alla cultura visiva greca del tardo arcaismo e del periodo classico, le statuette, grandi busti e protomi, hanno conquistato i musei del mondo con la loro varietà e coerenza stilistica. Manca però tuttora uno studio basato sulla documentazione esaustiva dei complessi archeologici che ne rappresentano il contesto. Proprio le terrecotte figurate della “Grande Favissa” scavata da Paolo Orsi nel 1913, la più importante classe di reperti votivi che testimoniano le attività rituali nell’area sacra di “Contrada Calderazzo” dell’antica Medma, sono le protagoniste della mostra “Le korai di Medma tra di noi. Gli ex voto di un santuario greco restituiti tramite fotomodellazione” allestita fino al 9 aprile 2022 nelle prestigiose sedi dell’École Française de Rome e dell’Accademia d’Ungheria, e organizzata dalle due importanti istituzioni scientifiche internazionali in collaborazione con l’università Mediterranea di Reggio Calabria – dipartimento Patrimonio Architettura Urbanistica e dall’università Cattolica Péter Pázmány di Budapest, e con la soprintendenza ABAP Reggio Calabria-Vibo Valentia, il museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria, l’Accademia nazionale dei Lincei, e il CeRCoLoc – Centro di Ricerche sulle Colonie Locresi. La mostra è curata dall’archeologa Ágnes Bencze, professore associato dell’università Cattolica Péter Pázmány di Budapest e responsabile scientifica del centro di ricerca CeRCoLoc, e dall’architetto Franco Prampolini, professore associato di Rilievo dell’Architettura, fondatore e responsabile scientifico del laboratorio di Modellazione multiscala dell’Architettura e Archeologia (SuMMA Lab.) del dipartimento PAU dell’università Mediterranea di Reggio Calabria. Membro del Comitato Scientifico del CerCoLoc all’università Cattolica Péter Pázmány. Il progetto, di cui sono illustrati in questa mostra alcuni aspetti metodologici legati alla digitalizzazione, porterà anche alla creazione di una banca dati illustrata con riproduzioni virtuali 3D dei reperti, grazie anche alla collaborazione degli sponsor NET – Natura Energia e Territorio (Polo d’innovazione ambiente e rischi naturali della Calabria) e PoliArt.

Teste di statuette femminili (korai) dall’antica Medma (attuale Rosarno) esposte al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria (foto MArRC)
La mostra è un primo risultato della collaborazione tra il MArRC e l’École Française de Rome. Il museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria prosegue infatti l’apertura alle grandi istituzioni internazionali in cui rientra l’accordo firmato dal direttore Carmelo Malacrino di collaborazione con Brigitte Marin, direttrice dell’École Française de Rome, volto all’ideazione e alla realizzazione di progetti congiunti di studio, ricerca, valorizzazione, promozione e comunicazione culturale. Una prospettiva che vede anche la partecipazione di Agnes Bencze, professoressa alla Pázmány Péter Catholic University di Budapest, da anni impegnata nello studio delle terrecotte figurate prodotte a Medma, l’attuale Rosarno. “L’attività di ricerca”, dichiara Malacrino, “è fondamentale per ogni luogo della cultura e, in particolare, per un museo archeologico. La collaborazione con prestigiose istituzioni internazionali, quali l’École Française de Rome e l’Accademia di Ungheria di Roma, consolida la missione del MArRC di accogliere studiosi da tutto il mondo per valorizzare, anche attraverso l’attività scientifica, le ricche collezioni archeologiche esposte o conservate nei depositi. L’attività di restauro svolta in questi anni – prosegue il direttore del Museo – è senza precedenti; ora migliaia di reperti provenienti da tutta la Calabria sono pronti per essere studiati e presentati al pubblico. Ringrazio la direttrice Marin e la prof.ssa Bencze per aver voluto potenziare con questo accordo le prospettive di ricerca avviate in questi anni”.

L’attività di modellazione tridimensionale ad altissima risoluzione delle terrecotte da Medma svolta al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria (foto MArRC)
“Nell’ambito di questo accordo tra l’École Française de Rome e il MArRC”, spiega la prof.ssa Bencze, “per la ricerca sulla coroplastica medmea condotta dal Centro per la Ricerca sulle Colonie Locresi (CeRCoLoc), l’8 febbraio 2022 si è svolta una campagna di riprese fotogrammetriche di alcuni reperti provenienti dagli scavi condotti da Paolo Orsi nel 1913 nell’area sacra di contrada Calderazzo a Rosarno”. L’attività si è concentrata sulla modellazione tridimensionale ad altissima risoluzione di una selezione di terrecotte di età greca, sotto la supervisione del funzionario archeologo del Museo, Daniela Costanzo. “L’intervento”, dichiara il prof. Prampolini, “è stato effettuato presso il gabinetto fotografico del MArRC dal gruppo di lavoro del Laboratorio SuMMA del Dipartimento PAU, che coordino all’università Mediterranea. Alcune elaborazioni, alle quali ha collaborato il PhD Cons. Antonio Gambino, sono presentate nell’ambito della mostra che abbiamo inaugurato a Roma la settimana scorsa”.
Siracusa. Al museo Archeologico regionale “Paolo Orsi” apre la mostra “Castelluccio. Ambiente, commercio e simboli nella Sicilia Sud Orientale” con reperti provenienti dagli scavi dell’abitato di Castelluccio di Noto, il sito più importante in Sicilia nel Bronzo antico (scavato proprio da Paolo Orsi), esposti per la prima volta affiancati da reperti coevi da Eolie, Puglia e Malta

Sabato 18 dicembre 2021, alle 17, al museo Archeologico regionale “Paolo Orsi” di Siracusa apre la mostra “Castelluccio. Ambiente, commercio e simboli nella Sicilia Sud Orientale” dove sono esposti per la prima volta reperti provenienti dagli scavi dell’abitato del sito più importante in Sicilia nel Bronzo antico. Parliamo di Castelluccio di Noto, sito archeologico localizzato in provincia di Siracusa, tra i comuni di Noto e Palazzolo Acreide e che ha dato il nome all’omonima cultura di Castelluccio. Il sito venne localizzato dall’archeologo Paolo Orsi che lo datò tra il XIX ed il XV secolo a.C. e, pertanto, alla prima età del Bronzo siciliana. Gli studiosi hanno individuato il piano dell’abitato, posto su uno sperone roccioso, una sorta di acropoli fortificata e, la necropoli. La necropoli consta di oltre 200 tombe a grotticella artificiale, scavate nelle pareti ripide della vicina cava della Signora. La più monumentale è la cosiddetta “Tomba del Principe” con un prospetto costituito da quattro finti pilastri. Dal sito vengono numerosissimi materiali ceramici, oggi esposti al museo archeologico “Paolo Orsi” di Siracusa, oltre a reperti in bronzo e due famosissimi portelli tombali con incisi simboli spiraliformi.

La mostra “Castelluccio. Ambiente, commercio e simboli nelle Sicilia Sud Orientale”, dal 18 dicembre 2021 al 28 febbraio 2022, suddivisa in sette sezioni, è arricchita da reperti della cultura di capo Graziano concessi in prestito dal parco archeologico delle Isole Eolie. Uno spazio avrà la necropoli di contrada Travana a Buccheri e, infine, si potranno ammirare gli ossi a globuli ritrovati a Malta e in Puglia, grazie alla collaborazione con il parco archeologico di Leontinoi, il national museum of Archaeology di Malta e il museo Archeologico nazionale di Altamura. La mostra offre uno spaccato delle condizioni di vita di più di 3500 anni fa grazie alle rivelazioni fornite dalle moderne analisi condotte negli ultimi anni sui reperti faunistici, gli studi sui carboni e sui residui organici sopravvissuti all’interno dei vasi che hanno permesso di ricostruire l’ambiente, la fauna e la metodologia di costruzione delle capanne. Numerosi i reperti che saranno esposti, anche se il pezzo più interessante è un grande pithos, ricomposto da centinaia di frammenti dopo un accurato lavoro di restauro. Il vaso, proveniente proprio da Castelluccio, in origine, conteneva olio d’oliva, e rappresenta la testimonianza più antica in Sicilia e in Italia della coltivazione dell’ulivo. “Le scoperte archeologiche ci consegnano ogni giorno nuove rivelazioni sulla storia della nostra “, sottolinea l’assessore regionale dei Beni culturali dell’Identità siciliana Alberto Samonà, “soprattutto relativamente alle fasi più antiche. Un impegno, quello del potenziamento della ricerca archeologica, sul quale siamo costantemente proiettati nella consapevolezza che le pagine della nostra storia sono il patrimonio più significativo che possediamo, sia in termini collegamenti con gli studiosi di tutto il mondo che di attrattività verso quanti ogni anno scelgono la Sicilia come meta delle loro vacanze”.

La mostra è un’occasione per presentare al grande pubblico reperti, finora inediti, provenienti sia dallo scavo dell’abitato effettuato da Giuseppe Voza tra il 1989 e il 1993, che da altri siti contemporanei della Sicilia e delle isole Eolie. Dopo gli scavi nella necropoli effettuati da Paolo Orsi alla fine dell’Ottocento, il sito è risultato uno tra i più interessanti in Sicilia, tanto che Luigi Bernabò Brea diede il nome di “fase di Castelluccio” al periodo del Bronzo Antico siciliano, che datiamo tra la fine del III e l’inizio del II millennio a.C. È da Castelluccio che provengono i famosi portelli tombali con motivi decorativi a bassorilievo interpretati come la stilizzazione dell’atto sessuale e, ancora, gli ossi a globuli, enigmatici oggetti dall’incerta funzione preziosamente decorati ad incisione, ritrovati anche in Grecia, a Troia, a Malta e in Puglia (questi ultimi due giungono a Siracusa per la prima volta in prestito temporaneo).
Il paesaggio protagonista al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria: nel terzo e ultimo incontro l’archeologa Daniela Costanzo su “Sacro, paesaggio, frontiera. Il santuario di Apollo Aleo” nell’antica città achea di Krimisa (oggi Cirò Marina), in un paesaggio naturale e culturale riconosciuto già in passato


Carmelo Malacrino, direttore del museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria (foto MArRC)
Terzo e ultimo appuntamento sul tema “Paesaggi della storia. La Calabria e il suo territorio attraverso le collezioni del MArRC” per i canali social del museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria. La conferenza, introdotta dal direttore Carmelo Malacrino, è stata tenuta da Daniela Costanzo, funzionario archeologo al MArRC, dedicata a “Sacro, paesaggio, frontiera. Il santuario di Apollo Aleo”. Una nuova occasione per conoscere meglio le straordinarie collezioni esposte al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria, ricordando l’importanza di tutelare il paesaggio quale patrimonio non solo naturalistico, ma anche culturale. “L’iniziativa si inserisce nell’ambito delle attività programmate per celebrare la Giornata nazionale del Paesaggio, istituita dal ministro Dario Franceschini”, dichiara il direttore Malacrino. “In questi mesi abbiamo registrato il grande successo ottenuto da questi appuntamenti, che hanno consentito di mostrare al grande pubblico le straordinarie collezioni del Museo. Per questo motivo ci siamo impegnati a lavorare sul tema del paesaggio anche ben oltre i tempi delle cerimonie istituzionali. Da qualche settimana abbiamo finalmente riaperto il museo al pubblico, ma vogliamo continuare a promuovere il fascino della Calabria antica anche attraverso queste occasioni. Siamo convinti – conclude Malacrino – che anche attraverso il digitale sia possibile far crescere cultura e tutela del nostro patrimonio culturale”.
Sacro, paesaggio, frontiera. Il santuario di Apollo Aleo. “La scelta di trattare il santuario di Apollo Aleo, situato nel territorio dell’attuale Cirò Marina (KR), deriva sia dalle peculiarità del paesaggio antico sia dalle straordinarie testimonianze materiali che esso ha restituito, intimamente legate alla storia delle collezioni del Museo reggino”, commenta Costanzo. “Proprio nel nostro Museo sono, infatti, conservati i reperti provenienti dal tempio di Apollo Aleo, scoperto e indagato da Paolo Orsi quasi un secolo fa. Se l’acrolito in marmo è la testimonianza artistica sicuramente più pregevole, tutte le offerte del santuario e la sua stessa architettura narrano l’eccezionalità di un paesaggio naturale e culturale riconosciuta già in passato. La zona, nota in antico con il nome di Krimisa, rappresentava uno dei capisaldi territoriali e religiosi della potente colonia di Crotone: a nord l’Apollo Aleo di Krimisa, a sud l’Hera di Capo Lacinio definivano i limiti della città achea, ponendosi al tempo stesso come frontiera, luogo di scambio e interazione fra popolazioni diverse. Le popolazioni indigene attive nel territorio già dall’VIII secolo a.C., infatti, continuarono a mostrare una notevole strutturazione sociale anche dopo la fondazione di Crotone, frequentando inoltre questo luogo sacro. Non è un caso che nel complesso sistema mitico locale “la sacra Krimisa” fosse legata al culto dell’eroe tessalo Filottete: guarito da un’incurabile ferita grazie all’intervento di Apollo, dopo la guerra di Troia egli avrebbe proseguito le sue peregrinazioni fondando nell’odierna Calabria i centri indigeni di Petelia, Macalla e Chone. Prima di morire Filottete avrebbe fondato il tempio di Apollo a Krimisa, consacrando qui il suo invincibile arco e le frecce ricevuti da Eracle. Un personaggio emblematico dunque: greco, ma fondatore di vari centri indigeni, egli stesso eroe del margine, Filottete si poneva come figura di raccordo tra componenti etniche differenti e come tale particolarmente adatta a presidiare una realtà di “frontiera” come quella del santuario di Apollo Aleo”.
Dantedì al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria sotto l’insegna del “Buono Appollo”: l’omaggio al Sommo Poeta con le testimonianze del culto del Dio in Calabria

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro / fammi del tuo valor sì fatto vaso, / come dimandi a dar l’amato alloro… Con questi celebri versi del Canto I del Paradiso anche il museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria celebra il Dantedì, la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri nell’anno in cui ricorre il settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta, avvenuta nel 1321. L’iniziativa, promossa dal ministero della Cultura e voluta dal ministro Dario Franceschini, ricorda l’inizio del viaggio di Dante nell’aldilà. Secondo gli studiosi, infatti, il percorso verso la salvezza cantato nella Divina Commedia iniziò proprio nel giorno del 25 marzo della Settimana Santa del 1300. Il MArRC ha ripreso i celeberrimi versi del proemio del I canto del Paradiso, con la nota invocazione al dio Apollo, legandola alle testimonianze del culto di questa divinità nelle grandi città greche della Calabria. A partire proprio da Rhegion, di cui il figlio di Zeus e di Leto fu divinità poliade. Proprio uno dei reperti più celebri del Museo, il magnifico Kouros in marmo pario esposto al Livello D, è stato identificato da alcuni studiosi come l’Apollo reggino. Un’opera realizzata tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., che solo di recente ha riacquistato l’antica bellezza grazie a un accurato intervento di restauro realizzato dall’équipe del restauratore Sante Guido ed effettuato nell’ambito del progetto Restituzioni di Intesa Sanpaolo. Senza dimenticare che al livello B del Museo, dedicato alle città e ai santuari della Calabria greca, è esposto il grande acrolito di Apollo Aleo, uno dei capolavori della scultura del V secolo a.C., scoperto da Paolo Orsi durante gli scavi nel tempio di località Punta Alice a Cirò Marina, in provincia di Crotone. O ancora la statuetta in oro del dio, realizzata nel IV secolo a.C. e anch’essa proveniente dal santuario dell’antica Crimisa. Immagini di divinità antiche che oggi ci affascinano maggiormente, avvicinandoci ai celebri versi creati dal Sommo Poeta per l’inizio del suo viaggio nel Paradiso.
Rovereto preistorica: la Fondazione Museo Civico Rovereto propone “Paolo Orsi e l’inizio dell’archeologia lagarina” per scoprire la Busa dell’Adamo, piccola grotta scoperta e scavata da Paolo Orsi, abitata fra la fine del Mesolitico e l’inizio del Neolitico (VI millennio a.C.)
Tornano le uscite alla scoperta della Rovereto preistorica, per conoscere storia e storie di Rovereto insieme agli archeologi della Fondazione Museo Civico di Rovereto. Sabato 5 settembre 2020, alle 10, con “Paolo Orsi e l’inizio dell’archeologia lagarina” per scoprire la Busa dell’Adamo. L’iniziativa è organizzata in collaborazione con il Comune di Rovereto ed è gratuita, ma con posti limitati per rispettare le normative legate all’emergenza Covid-19. Prenotazione consigliata. Punto di ritrovo al parcheggio in via Al Bersaglio a Lizzana di Rovereto. Gli archeologi del museo civico di Rovereto accompagnano i visitatori al sito, per riscoprire le origini dell’archeologia lagarina e il ruolo fondamentale di Orsi. In caso di pioggia l’iniziativa è annullata.

La grotta Busa dell’Adamo (Rovereto) scoperta e scavata da Paolo Orsi, frequentata tra Mesolitico e Neolitico (foto Fmcr)
Il sito archeologico “Busa dell’Adamo” è situato ai Lavini di Marco. Si tratta di una piccola grotta frequentata fra la fine del Mesolitico e l’inizio del Neolitico (VI millennio a.C.). Scoperta e scavata dall’archeologo roveretano Paolo Orsi nel 1882, ha restituito numerose schegge e strumenti in selce, alcuni strumenti in osso, alcuni frammenti ceramici e vari resti faunistici riferibili a maiale, capra, bue e cervo. Purtroppo la maggior parte di questo materiale è andata dispersa a causa degli stravolgimenti causati dalle due guerre mondiali. La “Busa dell’Adamo” è, in ogni caso, un sito archeologico di notevole rilevanza perché copre un arco cronologico molto importante: quello del passaggio da una società predatrice ad una società produttrice, ossia da bande semi-nomadi di cacciatori-raccoglitori a gruppi insediativi stabili ad economia agro-pastorale.









Nel 2021, dopo 31 fortunate edizioni, la formula del tradizionale festival documentaristico roveretano autunnale “Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico” della Fondazione Museo Civico si rinnova dunque allargando i temi archeologici alla più ampia tematica della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale sia materiale che immateriale e su nuovi stili comunicativi come l’animazione. Il focus si amplia sulla città ospitante, che diventa protagonista della manifestazione. La memoria RAM è universalmente conosciuta in informatica ed elettronica come la memoria operativa del computer. Analogamente anche il RAM film festival si pone come una memoria fattiva, uno strumento per la conservazione e valorizzazione attiva, attraverso il cinema documentario e la voce di esperti e testimonial, di ciò che non deve essere dimenticato, il patrimonio dell’umanità.

“La Rassegna del Cinema Archeologico di Rovereto ha tracciato un percorso lungo oltre trent’anni, ispirato dal desiderio di valorizzare il contributo dato dalla città alla storia dell’archeologia, grazie ad alcuni suoi concittadini illustri come Paolo Orsi e Federico Halbherr, ricercatori e viaggiatori riconosciuti a livello internazionale”, sottolinea l’assessore Micol Cossali, che con il Comune di Rovereto sostiene da vicino l’iniziativa RAM Film Festival, “raccoglie questa eredità e la rilancia ampliando i suoi interessi per la storia dei popoli, del loro modo di vivere e di pensare, e scommettendo sul coinvolgimento di un nuovo pubblico con particolare attenzione alle generazioni più giovani. Il nuovo nome racconta in modo efficace questo importante progetto, radicato nel tempo e rivolto al futuro, alla scoperta delle molteplici tracce lasciate da un’umanità in continua trasformazione”.





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