I catasti di Verona testimoni di due momenti topici della romanizzazione della città: l’estensione del diritto latino e la concessione della cittadinanza romana. Così i due pezzi unici trovati nel criptoportico rivivono con le parole degli esperti

La ricostruzione del Capitolium di Verona e del triportico, dove erano collocate le tavole catastali
Unici sono unici. Ma certo chi ha visitato la mostra “Le istituzioni di Gaio e gli antichi catasti di Verona. Rari documenti del diritto privato e della proprietà fondiaria nel mondo romano” aperta fino a sabato 30 gennaio nella sala Maffeiana della Biblioteca Capitolare di Verona, senza un’adeguata spiegazione diventa difficile la lettura dei due preziosi frammenti bronzei di oltre duemila anni. Non dimentichiamo che prima della scoperta dei catasti di Verona si era a conoscenza solo del catasto di Orange (su pietra) e di Lacimurga (di cui non si conosce il contesto di scavo). Per questo sono state molto apprezzate le visite guidate proposte in questi giorni dagli esperti dell’associazione Archeonaute, capitanate da Marzia Bersani, che gestisce l’apertura dell’area archeologica di Corte Sgarzerie, cioè dell’antico criptoportico romano sotto il Capitolium di Verona, cioè proprio dove quei frammenti di tavole catastali furono trovati nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso. Cerchiamo allora di saperne di più su questi due speciali reperti con l’aiuto degli archeologi che li hanno studiati.

Ricostruzione dell’interno del triportico di Verona con i frammenti ritrovati e la loro collocazione nella tavola catastale originale
LA SCOPERTA. Entrambi i frammenti – come si diceva – sono stati rinvenuti nello scavo del criptoportico del complesso capitolino in corte Sgarzerie. “Il primo frammento bronzeo ritrovato, che oggi chiamiamo catasto A”, ricorda Giuliana Cavalieri Manasse, già responsabile a Verona della soprintendenza ai Beni archeologici del Veneto, e maggior studioso dei catasti veronesi, “è stato scavato nell’agosto 1996 da Simon Thompson, che aveva subito riconosciuto si trattasse di una lastra con la registrazione di celle di centuriazione. L’entusiasmo fu contagioso. E si cercò subito sperando di trovare altri frammenti della stessa tavola catastale, ma solo tre anni dopo si recuperò il secondo frammento che, comunque, apparteneva a un altro catasto”. Il criptoportico di Verona, dove da un anno è attiva l’associazione Archeonaute con visite guidate, è un’imponente struttura sotterranea, a doppia galleria e pianta a , che sosteneva la terrazza su cui era posto il più importante tempio cittadino, dedicato alla triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva). Tale edificio, il più grande di Verona e tra i più vasti dell’Italia romana (35 metri di larghezza, 42 m di lunghezza e circa 26 di altezza) era inquadrato da un triportico a due navate, il cui impianto ricalcava quello del sottostante criptoportico. “Costruito nel corso della seconda metà del I secolo a.C.”, continua Cavalieri Manasse, “il grandioso complesso capitolino (esteso su un’area di circa 6000 mq) ripeteva uno schema architettonico (criptoportico, terrazza, triportico, tempio) assai comune nelle città romane a partire da quest’epoca”. Nel criptoportico, oltre ai due frammenti di tavole catastali, sono stati rinvenuti numerosi minuti pezzi di lastre inscritte, di vario genere e di diverse epoche, lavorate con grande accuratezza e spesso in marmi di pregio. “Leggendo i testi, si deduce che si trattava di atti ufficiali: decreti, liste di magistrati e di imperatori. Questi, insieme alle “formae” (tavole catastali), dovevano essere in origine esposti nel triportico soprastante il criptoportico, che svolgeva quindi funzione di archivio cittadino (tabularium)”. Dopo l’abbandono e il successivo spoglio del complesso, tra la seconda metà del IV e il V secolo d.C., di tali documenti pubblici, demoliti e asportati per riusi e rifusioni, rimasero solo piccoli residui, finiti nel criptoportico quando le sue volte collassarono. “Negli sconvolgimenti che accompagnarono la fine dell’impero romano”, sottolinea l’archeologa della soprintendenza, “gli atti fondiari vennero accuratamente distrutti per cancellare ogni traccia dell’antico regime proprietario. Da qui dipende l’eccezionale rarità dei reperti veronesi”.

La ricostruzione della tavola originale cui apparteneva il catasto A di Verona con la sua posizione nell’angolo alto sinistro
CATASTO A. Il Catasto A è un frammento di bronzo delle dimensioni di 24.1 x 16 cm e dello spessore di 0.4 cm, databile tra il 40 e il 30 a.C. “Osservando la lastra di bronzo”, spiega Cavalieri Manasse, “si capisce che costituiva l’angolo superiore sinistro di una tavola di bronzo, con terminazione superiore a doppio spiovente, che reca incisa una serie di righe orizzontali e verticali formanti un reticolo: sono le celle della centuriazione”. Nei riquadri sono segnate le coordinate relative al posizionamento dei fondi sul terreno centuriato (DD sta per “dextra decumanum”: a destra del decumano massimo; VK per “ultra kardinem”: al di là del cardine massimo), le loro misure in iugeri e sottomultipli dello iugero (l’unità di misura dei terreni agricoli in età romana pari a 2518 mq), i nomi dei proprietari. “Si tratta di un rarissimo esempio di catasto rurale inciso su bronzo (“forma”, in latino)”, continua l’archeologa. “Fu realizzato subito dopo un intervento di centuriazione dell’agro di pertinenza della città, ovvero dopo le operazioni di bonifica, generale riassetto e suddivisione dei terreni, in vista di assegnazioni anche ai veterani delle guerre augustee. In tali documenti che svolgevano al tempo stesso funzione amministrativo-fiscale, venivano registrate anche le proprietà già esistenti come è il caso per i personaggi menzionati nelle iscrizioni di tre delle sei caselle interamente conservate che non sono nuovi assegnatari, ma da tempo proprietari dei terreni”.

La grafica del catasto A di Verona con la posizione dei terreni e dei proprietari all’interno delle celle della centuriazione
Partendo da sinistra, nella prima cella è indicato Caio Cornelio Agatone padrone di un podere di poco più di 43 ettari; nella seconda invece compaiono due proprietari: Caio Minucio, figlio di Tito, e Marco Clodio Pulcro, rispettivamente con circa 35 e 9 ettari. Infine nella terza compaiono Marco Magio e Publio Valerio, che possiedono l’uno intorno a 28 ettari, l’altro poco più di 13. “I nomi di costoro, con l’eccezione del solo Minucius”, ricordano gli studiosi, “sono frequenti nelle iscrizioni veronesi e appartengono a famiglie attestate nella zona già dalla prima metà o dai decenni centrali del I sec. a.C.”. Nella parte superiore della tavola invece le caselle non recano iscrizioni: si potrebbe trattare di “subseciva”, cioè di terreni che per varie ragioni, tra cui la cattiva qualità dei suoli, non potevano essere assegnati o non lo erano ancora stati.
Sul catasto A sono dunque registrate grosse porzioni di terreno appartenenti a personaggi del notabilariato veronese che, secondo Giuliana Cavalieri Manasse, si riferiscono alla centuriazione della Val d’Illasi. Come si è giunti a questa ipotesi? Il territorio veronese in età romana era molto più vasto dell’attuale provincia perché occupava aree oggi sotto Brescia e Mantova. Eppure sono giunti fino a noi solo poche zone che conservano indizi di antiche suddivisioni agrarie. Tracce di centuriazione sono state individuate in val d’Illasi, a nord e a sud della via Postumia (oggi SR 11), che forse ne costituisce il decumano massimo, e nelle Valli Grandi Veronesi, tra il Bastione di San Michele e il Naviglio Bussè e tra il Naviglio Bussè e il Tartaro. L’ipotesi che il frammento di catasto A sia riferibile alla centuriazione della val d’Illasi si basa sulla coincidenza cronologica tra l’epoca di realizzazione di tale intervento agrario e quella di redazione del documento e sul fatto che nel ricco patrimonio epigrafico del territorio tra Tregnago e Colognola ai Colli, in più casi, ricorrono gli stessi gentilizi (nomi di famiglia) presenti nel frammento bronzeo. In particolare a Colognola, presso Pontesello, era conservata almeno fino agli inizi del ‘900 un’epigrafe funeraria, incisa su roccia, menzionante Lucio Magio figlio di Marco. Costui doveva essere il fratello di Marco Magio, figlio di Marco, che figura nel catasto A. È probabile che i due fratelli possedessero terreni nella stessa area centuriata, che andrebbe quindi identificata con la zona della val d’Illasi.

Il frammento bronzeo del catasto B di Verona che certifica la presenza di proprietari terrieri celti
CATASTO B. Una situazione completamente diversa è quella rappresentata dal secondo frammento di bronzo, il catasto B, che misura 12 x 17.5 cm ed è spesso 0.2 cm. “È un inedito”, interviene Giovannella Cresci Marrone, docente di Storia romana all’università Ca’ Foscari di Venezia, che ha approfondito lo studio del frammento. “I due frammenti non appartengono alla stessa lastra. Quella del catasto B è meno spessa, quindi è un catasto diverso che censiva sempre delle proprietà terriere ma in questo caso i proprietari erano celti, e non cittadini romani. Rispetto al catasto A qui sono registrate proprietà terriere più piccole che non sono comprese all’interno di una centuriazione. E poi c’è un elemento anomalo: una linea discontinua che potrebbe rappresentare una strada o un confine”. Vediamo meglio il frammento. Fa parte di una lastra di bronzo, probabilmente una piccola porzione interna, suddivisa come il catasto A in caselle quadrangolari. Si conservano tracce di sette celle, quattro delle quali iscritte. Tra queste è ben leggibile la sola casella centrale, quasi integra. Vi figurano incolonnati a sinistra i nomi dei proprietari (sette in tutto, singoli o famiglie) e a destra le misure delle terre possedute. Lo stesso schema presentavano altre tre celle, a giudicare dai resti di testo superstiti. Anche questo frammento appartiene a una lastra identificabile come una “forma” del territorio veronese, ma diversa da quella di cui fa parte il catasto A. Differenti sono infatti le caratteristiche tecniche della tavola, di spessore molto più sottile, e quelle dell’incisione (reticolo tracciato con segno leggerissimo, grafia con caratteri molto più accurati). Le celle inoltre sono più ampie e non vi figura alcuna coordinata di localizzazione di centuriazione.
“Lo schema a campi quadrangolari”, continua l’esperta, “qui è solo un espediente grafico per posizionare topograficamente le proprietà terriere che, a giudicare dai nomi, sembrano appartenere a vecchi proprietari indigeni. Si tratta senza dubbio di personaggi appartenenti al sostrato celtico della popolazione; tipicamente celtica è infatti l’onomastica (Bitunci, Vindilli, Segomari, ecc). Costoro, diversamente dai personaggi del catasto A, sono proprietari di appezzamenti di terreno di dimensioni piuttosto ridotte (da tre quarti di ettaro a circa 12 ettari)”. Infine, mentre nell’altro documento sono assenti indicazioni connesse alle caratteristiche fisiche del territorio, questo è caratterizzato da una notazione topografica: un solco fortemente inciso, dapprima rettilineo e poi piegato verso destra con andamento spezzato, in cui è forse da riconoscere –come si diceva- una strada”. Il pezzo, parte di una mappa censitaria, è rispetto al precedente di qualche decennio più antico o contemporaneo. “Per ora non abbiamo dati per chiarirlo”, ammette Giovannella Cresci. “Se fosse coevo al catasto A dimostrerebbe l’esistenza a Verona di una enclave di famiglie galliche prive della cittadinanza romana. Se fosse precedente, allora si potrebbe collocare dopo l’89 a.C. quando fu concesso il diritto latino ai transpadani. Comunque i due catasti fissano due momenti importanti della fase di romanizzazione del territorio veronese nel I sec. a.C.: l’estensione del diritto latino e la cittadinanza romana a Verona”.
Bell’articolo, puntuale e chiaro.