Milano. Ancora un mese per visitare alle Gallerie d’Italia la mostra “GRAND TOUR. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei”: 130 opere ricostruiscono quello straordinario fenomeno che tra Sei e Ottocento fece dell’Italia la meta privilegiata di letterati, artisti, giovani signori, membri della società aristocratica e colta europea

Tra la fine del Seicento e la prima metà dell’Ottocento, l’Italia fu la meta privilegiata di letterati, artisti, giovani signori, membri della società aristocratica e colta europea. Fu questo il Grand Tour, uno straordinario fenomeno di carattere universale che ha contribuito in modo determinante a creare quella percezione dell’Italia, legata alla bellezza del suo ambiente e della sua arte, ancora oggi di grande attualità che rende davvero unica l’identità del nostro Paese.

La locandina della mostra “GRAND TOUR. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei” alle Gallerie d’Italia di Milano fino al 27 marzo 2022
Alle Gallerie d’Italia a Milano c’è ancora un mese di tempo (fino al 27 marzo 2022) per visitare la mostra “GRAND TOUR. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei” a cura di Fernando Mazzocca, con Stefano Grandesso e Francesco Leone, e con il coordinamento generale di Gianfranco Brunelli. Il catalogo della mostra è pubblicato nelle Edizioni Gallerie d’Italia | Skira. “La mostra sul Grand Tour, allestita nelle Gallerie di piazza della Scala”, interviene Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa Sanpaolo, “è la prima ideata e realizzata in Italia capace di offrire uno sguardo d’insieme su un tema così vasto. I capolavori esposti offrono al visitatore odierno l’opportunità di comprendere e rivivere l’emozione provata secoli fa dai protagonisti del Grande Viaggio di fronte alla bellezza senza tempo dei paesaggi e degli antichi luoghi d’arte italiani, elementi fondanti non solo della nostra identità nazionale, ma anche di quella europea. L’iniziativa, che si avvale della prestigiosa partnership del museo Ermitage di San Pietroburgo e del museo Archeologico nazionale di Napoli, conferma il ruolo di primo piano che Intesa Sanpaolo ha conquistato nel corso degli anni nel panorama culturale e artistico del nostro Paese”.

Solo in Italia, la cultura classica poteva raggiungere una compiuta sintesi di natura e di storia. Il grande viaggio (l’espressione fu utilizzata per la prima volta nel 1697, nel volume di Lassel, An Italian Voyage) fu presto inteso come momento essenziale di un percorso educativo e formativo, nonché segno di un preciso status sociale. L’Italia rappresentava una tappa obbligata per artisti e studiosi amanti dell’architettura, della pittura e della scultura, sia antica, sia moderna. Le straordinarie scoperte archeologiche del Settecento ad Ercolano e Pompei aggiunsero nuovi motivi di interesse. Questo momento di formazione, diventato obbligatorio per le élite europee, ma poi anche per quelle provenienti da altri continenti, ha coinvolto sovrani, aristocratici, politici, uomini di chiesa, letterati, artisti, tutti affascinati dalla varietà del paesaggio italiano ancora intatto, dalla maestà delle città, dei monumenti e delle opere d’arte che facevano, e ancora oggi fanno, del nostro territorio una sorta di meraviglioso museo “diffuso”.
L’esposizione, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e in partnership con il museo Archeologico nazionale di Napoli e il museo statale Ermitage di San Pietroburgo, presenta circa 130 opere provenienti dalla collezione Intesa Sanpaolo, collezioni private e numerose istituzioni culturali italiane e internazionali come The National Gallery di Londra, musée du Louvre di Parigi, The Metropolitan Museum of Art di New York, museo nacional del Prado di Madrid, Rijksmuseum di Amsterdam, Victoria and Albert Museum di Londra, Österreichische Galerie Belvedere di Vienna, Statens Museum for Kunst di Copenaghen, musée des Beaux-Arts di Lione, Gallerie degli Uffizi di Firenze, musei Capitolini di Roma, musei Vaticani, museo e real bosco di Capodimonte di Napoli. Tra i prestiti anche due opere provenienti dal Regno Unito e appartenenti alla Royal Collection della Regina Elisabetta II, oltre ad altre opere provenienti da grandi residenze reali come la Reggia di Versailles, la Reggia di Caserta e la Reggia di Pavlovsk a San Pietroburgo.

Dipinti, sculture, oggetti d’arte, allestiti in un suggestivo dialogo, intendono riproporre, in una mostra di grande attualità, l’immagine dell’Italia amata e sognata da un’Europa che si riconosceva in radici comuni di cui proprio il nostro Paese era stato per secoli il grande laboratorio, un’Italia composita, raffigurata nella sua struggente bellezza dagli artisti che fecero sorgere il mito del “bel paese”. Sono esposte opere dei principali artisti del tempo come Piranesi, Valadier, Volpato, Canaletto, Panini, Lusieri, Hubert Robert, Jones, Wright of Derby, Hackert, Volaire, Ducros, Granet, Valenciennes, Catel, Batoni, le due pittrici Vigée Lebrun e Angelica Kauffmann, Ingres.

Particolare rilievo assumono i luoghi (le città tradizionali come Venezia, Firenze, Roma e Napoli, e i borghi storici) e i paesaggi (dalle Alpi, al Vesuvio, all’Etna). La meta principale del Grand Tour è stata certamente Roma, la città universale ed eterna, prima capitale dell’antichità e poi della cristianità, dove si venivano a studiare i segreti e i canoni del bello, depositato non solo nei marmi antichi ma anche nei capolavori del Rinascimento e del Classicismo seicentesco. Mentre nel Lazio si ripercorrevano i luoghi celebrati dalla letteratura classica che, attraverso Orazio e Virgilio, erano entrati nel mito. La magnificenza del paesaggio del golfo e della zona vesuviana, unita al fascino delle testimonianze dell’antichità, soprattutto dopo la riscoperta delle due città di Pompei e Ercolano, sepolte dalla catastrofica eruzione del Vesuvio del 79 d.C., hanno fatto di Napoli l’altra irrinunciabile meta di questo viaggio di istruzione e formazione, che si estese poi anche, sempre in Campania, alla recuperata area di Paestum dove era possibile emozionarsi di fronte allo spettacolo sublime dei magnifici templi dorici, in un periodo in cui la Grecia, ancora sotto il dominio ottomano, era interdetta ai viaggiatori. Sempre le testimonianze della Magna Grecia spinsero i viaggiatori più ardimentosi, e uno dei primi fu Goethe nel suo famoso viaggio in Italia, verso la più lontana e sconosciuta Sicilia, destinata a incantare con l’asprezza dei suoi paesaggi primitivi e l’imponenza dei templi di Segesta, Selinunte e Agrigento, o del teatro greco di Siracusa.

Altri luoghi privilegiati del Grand Tour furono città piene di eventi come Venezia; Vicenza, dove era possibile ammirare i palazzi di un genio universale come Palladio, imitato in tutto il mondo; Firenze che nelle sue chiese e nelle sue collezioni, in particolare le Gallerie medicee, schiudeva agli occhi ammirati dei viaggiatori le meraviglie dell’antico come del Rinascimento. Più avanti anche Milano, grazie soprattutto alla presenza di Leonardo e del suo leggendario Cenacolo, e i vicini laghi, per lo splendore delle loro rive e delle ville famose sin dall’antichità, diventarono delle mete per i viaggiatori più esigenti.

L’Italia divenne per un lungo periodo il maggiore mercato non solo dell’arte antica, ma anche di una produzione contemporanea ispirata alla memoria dell’antico. Sicuramente il più originale protagonista di questo gusto fu il genio di Piranesi che nelle sue incisioni visionarie, nei suoi estrosi arredi aveva proposto ad una raffinata clientela internazionale una visione molto personale dell’immaginario classico. Sulla sua scia si registra una impressionante ripresa delle manifatture artistiche più prestigiose che, dalla bronzistica all’oreficeria al mosaico alla glittica, hanno raggiunto livelli pari a quelli del Rinascimento. I prestigiosi assemblages in metalli e pietre preziosi di Valadier hanno incantato tutto il mondo, mentre le immagini delle più popolari sculture antiche sono state diffuse nelle regge e nelle dimore aristocratiche europee dai bronzetti di Boschi, Zoffoli, Righetti, Hopfgarten o dalle meravigliose statuine in biscuit di Volpato.

Dalle richieste dei collezionisti stranieri ha tratto un nuovo slancio anche la pittura, soprattutto un genere prima considerato minore come la veduta e il paesaggio. Anche in questo campo grazie ad artisti della originalità e della grandezza di Canaletto, Panini, Joli, Lusieri e degli stranieri venuti al seguito dei viaggiatori, come Hubert Robert, More, Wilson, Jones, Wright of Derby, Hackert, Volaire, Ducros, Granet, Valenciennes, Catel è stato raggiunto tra Sette e Ottocento un livello prima impensabile, passando dalla razionalità scientifica dei vedutisti all’emozione del paesaggio visto come espressione di uno stato d’animo dei romantici.

Ma il genere più richiesto e amato dai collezionisti stranieri, insieme alle vedute dei luoghi visitati, è stato il ritratto. Alla celebrazione del proprio rango si sostituisce l’esaltazione del carattere e della cultura. Da qui la scelta di farsi rappresentare accanto ai monumenti e alle sculture antiche ammirate in Italia. Assoluto maestro in questo campo è stato Batoni, uno dei maggiori ritrattisti di tutti i tempi. I suoi ritratti hanno rappresentato uno status symbol, come quelli del suo rivale Mengs, delle due pittrici in competizione Vigée Lebrun e Angelica Kauffmann, di Von Maron, Tischbein, Sablet, Zoffany, Fabre, Gérard, Ingres.

I viaggiatori erano attratti anche dalla singolarità dei nostri costumi e dalla bellezza di una popolazione, apparentemente felice, che viveva la maggior parte dell’anno all’aria aperta proprio per la mitezza del clima. Un illustratore e pittore straordinariamente popolare come Pinelli e pittori come Sablet, Géricault, Robert, Schnetz, Delaroche hanno saputo rappresentare la vita domestica nei suoi aspetti più avvincenti e commoventi, rivendicando la dignità del popolo. Il maggior giro di affari ha riguardato la scultura, a partire dal commercio dei marmi antichi, il loro restauro e spesso la produzione di copie in cui è stato il maggiore protagonista Cavaceppi. Verso la fine del Settecento, grazie a Canova e ai suoi validissimi seguaci, si è affiancata la produzione di una scultura originale che, pur ispirata all’antichità, ha saputo interpretare la sensibilità moderna, assicurando a questa arte, diventata l’orgoglio dell’Italia, una straordinaria fortuna nel corso del XIX secolo in tutto il mondo.
La “Venere Ligabue” superstar a Venezia della mostra “Idoli. Il potere dell’immagine”: una particolare “Dama dell’Oxus”, esemplare unico della “Civiltà dell’Oxus” che si sviluppò nel III millennio a.C. lungo l’alta valle dell’Amu Darya tra gli odierni Turkmenistan, Afghanistan settentrionale, Iran nord-orientale, Uzbekistan meridionale e Tagikistan occidentale

La cosiddetta “Venere Ligabue”, star della mostra, in clorite, capolavoro della Civiltà dell’Oxus (2200-1800 a.C.), proveniente dall’Iran Orientale: fa parte della Collezione Ligabue

La locandina della mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” a Venezia dal 15 settembre 2018 al 20 gennaio 2019
È alta solo 11 centimetri. Eppure la “Venere Ligabue” è l’autentica superstar della mostra “Idoli. Il potere dell’immagine”, aperta fino al 20 gennaio 2019 a Palazzo Loredan di Venezia, a cura di Annie Caubet, conservatrice onoraria del Louvre, e promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/08/15/a-venezia-la-mostra-idoli-il-potere-dellimmagine-terzo-grande-evento-della-fondazione-giancarlo-ligabue-una-finestra-sulla-rivoluzione-neolitica-e-la-ra/). In una vetrina con altri oggetti della stessa cultura rischierebbe di passare inosservata se non fosse per il fascino che questa particolare “dama dell’Oxus” emana, in grado di catturare l’attenzione anche del visitatore più frettoloso. “La civiltà dell’Oxus o Complesso archeologico battriano-margiano, come è definito dagli inglesi”, scrive Annie Caubet sul catologo Skira della mostra, “rappresenta un momento particolarmente felice nella storia di questa area geografica. Sviluppatasi alla fine del III millennio a.C. lungo l’alta valle dell’Amu Darya, il fiume Oxus dei greci, questa civiltà diede vita a monumentali centri urbani, con palazzi ed edifici di culto, venuti alla luce in particolare presso Gonur Depe, in Turkmenistan. I cimiteri delle élite ci hanno restituito statuette femminili composite, vasellame in metallo prezioso e merci esotiche importate dalla valle dell’Indo e dalla Siria-Mesopotamia. Proprio il commercio con terre così lontane – continua – è stata una delle probabili cause del rapido sviluppo di questa regione collocata strategicamente a metà strada. Gli intensi rapporti con l’altopiano iranico portarono alla formazione nell’Asia centrale di un’identità mista e multiculturale, che da qui si estendeva fino all’Elam. Jiroft o Tepe Yahya, nell’Iran orientale, furono i centri di produzione di manufatti figurativi in stile multietnico che venivano esportati fino in Arabia, in Mesopotamia e nel nord della Siria. La fiorente civiltà dell’Oxus si estinse intorno al 1700 a.C. per ragioni ancora ignote”.

“Dama dell’Oxus” seduta (2200-1800 a.C.) dall’Iran orientale/Asia centrale, tipica della Civiltà dell’Oxus, conservata nella collezione Sofer di Londra (foto Graziano Tavan)

“Dama dell’Oxus” con il corpo di uccello, Civiltà dell’Oxus, da una collezione privata del Regno Unito (foto Graziano Tavan)
La civiltà dell’Oxus produsse due nuclei figurativi di base: la cosiddetta “dama dell’Oxus” (che sostituisce la vecchia denominazione di “principessa battriana”) e il cosiddetto “Sfregiato”, una sorta di genio, incrocio tra uomo, serpente e drago. A questi due gruppi di base, sono stati aggiunti – per la prima volta proprio nella mostra “Idoli” di Venezia – due tipologie iconografiche identificate di recente: lo “Spirito-uccello”, probabile alter ego della “Dama dell’Oxus”, e il giovane inginocchiato dalle belle fattezze, incarnazione antitetica dello “Sfregiato”. “Tutte queste statuine”, riprende Caubet, “ furono realizzate assemblando insieme materiali dai colori contrastanti con una particolare predilezione per la clorite (o pietre simili di colore verde scuro), per il calcare biancastro, l’alabastro screziato o le conchiglie pescate nell’oceano Indiano; sono attestati anche esemplari in una lega di rame o in lapislazzuli, pietra semipreziosa di colore blu, estratta nelle montagne afgane”. “Le figure femminili”, spiega la curatrice della mostra, “hanno il corpo completamente avvolto in un mantello scolpito in pietra scura che contrasta con il candore del volto e delle braccia, laddove invece le statuette dello “Sfregiato” presentano uno schema cromatico invertito, con il corpo interamente in pietra scura e un gonnellino a contrasto (di solito) di colore chiaro; i giovani inginocchiati possono avere il corpo sia chiaro sia scuro, il gonnellino colorato e i capelli scuri”.
La “Venere Ligabue”, una maestosa “Dama dell’Oxus”, è seduta con il busto eretto e le gambe piegate e nascoste dal pesante mantello che le ricopre interamente il corpo e le braccia. Fu realizzata nella tipica tecnica composita assemblando all’altezza della vita, sotto il busto eretto, pezzi diversi di clorite scura. La testa e il lungo collo in calcare chiaro emergono da una scollatura circolare incassata; il volto è caratterizzato da grandi occhi in rilievo e da labbra e naso finemente modellati. Al pari dell’abito, la resa dell’acconciatura, parzialmente danneggiata al di sopra di un orecchio, è giocata sul contrasto di colori scuri. La capigliatura, percorsa da sottili striature, è raccolta in un lungo boccolo che ricade al di sopra del petto, in una foggia piuttosto rara, riscontrabile con maggiore frequenza nelle raffigurazioni di giovani tecnici. “La postura e la tecnica composita”, conclude Caubet, “sono comuni a un gran numero di statuette dell’Oxus ma, al momento, la Venere Ligabue è l’unico in cui la veste è liscia e non incisa con il motivo che riproduce il vello di lana ispirato al kaunakes sumero. Le marcate linee diagonali sul petto e sulla schiena creano l’effetto di un solido armonioso. Tutta la figura veicola un’impressione di imperturbabilità e di serena fiducia”.
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