Rovereto preistorica: la Fondazione Museo Civico Rovereto propone “Paolo Orsi e l’inizio dell’archeologia lagarina” per scoprire la Busa dell’Adamo, piccola grotta scoperta e scavata da Paolo Orsi, abitata fra la fine del Mesolitico e l’inizio del Neolitico (VI millennio a.C.)
Tornano le uscite alla scoperta della Rovereto preistorica, per conoscere storia e storie di Rovereto insieme agli archeologi della Fondazione Museo Civico di Rovereto. Sabato 5 settembre 2020, alle 10, con “Paolo Orsi e l’inizio dell’archeologia lagarina” per scoprire la Busa dell’Adamo. L’iniziativa è organizzata in collaborazione con il Comune di Rovereto ed è gratuita, ma con posti limitati per rispettare le normative legate all’emergenza Covid-19. Prenotazione consigliata. Punto di ritrovo al parcheggio in via Al Bersaglio a Lizzana di Rovereto. Gli archeologi del museo civico di Rovereto accompagnano i visitatori al sito, per riscoprire le origini dell’archeologia lagarina e il ruolo fondamentale di Orsi. In caso di pioggia l’iniziativa è annullata.

La grotta Busa dell’Adamo (Rovereto) scoperta e scavata da Paolo Orsi, frequentata tra Mesolitico e Neolitico (foto Fmcr)
Il sito archeologico “Busa dell’Adamo” è situato ai Lavini di Marco. Si tratta di una piccola grotta frequentata fra la fine del Mesolitico e l’inizio del Neolitico (VI millennio a.C.). Scoperta e scavata dall’archeologo roveretano Paolo Orsi nel 1882, ha restituito numerose schegge e strumenti in selce, alcuni strumenti in osso, alcuni frammenti ceramici e vari resti faunistici riferibili a maiale, capra, bue e cervo. Purtroppo la maggior parte di questo materiale è andata dispersa a causa degli stravolgimenti causati dalle due guerre mondiali. La “Busa dell’Adamo” è, in ogni caso, un sito archeologico di notevole rilevanza perché copre un arco cronologico molto importante: quello del passaggio da una società predatrice ad una società produttrice, ossia da bande semi-nomadi di cacciatori-raccoglitori a gruppi insediativi stabili ad economia agro-pastorale.
Parma. Al museo Archeologico nazionale (ora chiuso per restauri) nel Complesso monumentale della Pilotta una vetrina con un bifacciale acheulano e selci paleolitiche anteprima del nuovo allestimento

Il “bifacciale acheuleano” che è andato ad arricchire le collezioni preistoriche del museo Archeologico nazionale alla Nuova Pilotta di Parma (foto Pilotta)
Il museo Archeologico nazionale di Parma al Complesso monumentale della Pilotta è chiuso dal dicembre 2019 per lavori di restauro e riallestimento. Intanto la collezione preistorica si arricchisce di un prezioso strumento in selce che arriva da molto lontano: dal Paleolitico. Proviene infatti dal Paleolitico Inferiore (che nel nostro continente viene collocato tra i 750mila e i 120mila anni fa) la stupefacente selce che gli esperti definiscono come “bifacciale acheulano”, datata attorno al mezzo milione di anni fa, che una donazione davvero illuminata dell’associazione degli Amici dell’Istituto ha consegnato al Complesso monumentale, contribuendo all’ampliamento delle collezioni del museo Archeologico nazionale della Nuova Pilotta. “Si tratta di un oggetto, una scheggia di roccia silicea di dimensioni davvero stupefacenti”, sottolinea Simone Verde, direttore della nuova Pilotta, “che segna il sorgere nella specie umana dell’esigenza di fare, oltre a ciò che le è necessario per sopravvivere, anche qualcosa di “bello”. La superficie della roccia è infatti precisamente modellata dal nostro ignoto progenitore, alla ricerca di una forma simmetrica, che fosse bella, appunto, sfuggendo a fini utilitaristici e per la prima volta forse disponendosi a un uso di tipo simbolico, ovvero sociale”. Ombretta Sarassi, presidente dell’associazione “Amici della Pilotta” non può che essere soddisfatta per avere contribuito con la donazione del “Bifacciale” ad aggiungere al museo della Pilotta più prestigio e interesse, grazie anche alla bellissima esposizione che il direttore Simone Verde ha curato. Il museo della Pilotta sta procedendo a grandi passi a un’idea di museo sempre più innovativo e aperto ai cittadini e ai turisti. La nostra associazione “Amici della Pilotta” ha colto questo momento ed opera ad una promozione sempre più efficace delle nostre bellezze”.

Il “bifacciale acheuleano” al centro della vetrina visibile già dalla strada, appena superato il portale preceduto dai due leoni marmorei che sembrano voler difendere l’ingresso al museo (foto Pilotta).
Ma vediamo cosa sta dietro la definizione scientifica di questa preziosa selce. “Bifacciale” (o anche “amigdala”) perché la scheggia di roccia è stata lavorata creando due facce simmetriche, convesse, e per farlo quel nostro progenitore ci ha messo un bell’impegno. Mentre l’aggettivo “acheulano” richiama il quartiere Saint-Acheul della attuale città di Amiens, dove questo tipo di manufatti è stato ritrovato per la prima volta. Il reperto, acquistato sul mercato parigino, ci riporta ai primordi della creatività umana ed accoglierà i visitatori del nuovo museo Archeologico. Posto al centro di una vetrina che non potrà non catturare ogni sguardo, sarà visibile già dalla strada, appena superato il portale preceduto dai due leoni marmorei che sembrano voler difendere l’ingresso al Museo.
Il “bifacciale acheulano” non è da solo nella grande vetrina. A fargli da contorno sono diverse decine di selci provenienti da rinvenimenti nel territorio parmense. Esibendo il massimo della capacità “artistica” nota del suo tempo, al centro dei manufatti provenienti invece dalle aree di competenza archeologica della Pilotta, funzionerà come elemento cardine di una metafora museologica. Se la sua straordinaria forma è simbolo dell’attitudine universale del genere Homo a modificare l’ambiente perseguendo un ideale di ordine e di bellezza, in contrappunto con gli altri suoi simili di dimensioni più modeste ma provenienti dall’Emilia non farà che declinare nel particolare del territorio parmense e della sua storia cosmopolita ben rappresentata dalle collezioni della Nuova Pilotta, il senso di domande universali che costituiscono la missione di qualsiasi museo: cosa è l’arte? cosa è l’uomo? cosa ci distingue dalle altre specie?
Il museo Archeologico nazionale di Parma è uno dei più antichi musei d’Italia: istituito nel 1760 per ospitare il prezioso materiale proveniente dagli scavi della città romana di Veleia, si è arricchito in più di due secoli con l’acquisizione di materiali Egizi, Etruschi e Romani, ma soprattutto è stato sin dalla fondazione punto di riferimento per le ricerche archeologiche nel Ducato. Conserva infatti i reperti provenienti dagli scavi scientifici condotti nel corso dell’Ottocento e del Novecento in tutto il parmense, raccontando la storia del territorio dal Paleolitico all’Alto Medioevo.
Luigi Pigorini, divenuto direttore del Museo nel 1867, si occupò di allestire una sezione preistorica (una delle prime in Italia), organizzandola secondo l’esempio delle più avanzate istituzioni europee, ovvero mettendo a confronto le testimonianze della preistoria locale con quelle di altri paesi e con testimonianze etnografiche. Apre questa sezione la raccolta degli strumenti del Paleolitico, dovuta ad un altro padre degli studi preistorici italiani, Pellegrino Strobel: i materiali scelti illustrano i principali tipi di utensili (punte, lame, raschiatoi), tecniche di lavorazione e tipi di pietra impiegati dalle comunità umane del Paleolitico. Al Neolitico risalgono le prime comunità di agricoltori stanziatosi nella provincia di Parma: scavi moderni hanno portato in luce villaggi e necropoli che hanno restituito i molti materiali, come le asce in pietra levigata. Particolarmente abbondanti sono le testimonianze della c.d. cultura dei “Vasi a Bocca Quadrata” (prima metà del V millennio a.C.) rinvenute in diversi siti: tra questi, notevole è l’insediamento di Gaione – Case Catena, che ha restituito molto materiali non locali quali l’ossidiana da Lipari o dalla Sardegna, il cristallo di rocca, la steatite e la selce alpina. Alla medesima cultura appartiene la necropoli di Vicofertile, da cui proviene l’eccezionale statuetta di divinità femminile – rinvenuta deposta all’interno della sepoltura di una donna matura. Si prosegue poi con l’ampio spazio dedicato all’età del Bronzo. L’epoca del Bronzo antico è testimoniata da pochi ma significativi contesti, in particolare dai rinvenimenti di oggetti in legno in eccezionale stato di conservazione da Castione Marchesi. Durante la media età del bronzo (XVI-XII sec. a.C.) il territorio di Parma era fittamente costellato di villaggi “palafitticoli” difesi da fossati e terrapieni, indagati archeologicamente già dalla seconda metà del 1800. Tra queste si segnalano le terramare di Parma, Quingento, Castione, Vicofertile. I numerosi reperti testimoniano le principali attività che vi si svolgevano, quali la filatura e la tessitura, la lavorazione del metallo e dell’osso e del corno, e naturalmente l’agricoltura.
A Reggio Emilia convegno internazionale nel 200° della nascita del concittadino don Gaetano Chierici, scienziato, sacerdote, patriota, insegnante, ma soprattutto il fondatore e il padre della paletnologia italiana

Don Gaetano Chierici, scienziato, sacerdote, patriota, insegnante, ma soprattutto il fondatore e il padre della paletnologia italiana
Fu sacerdote per scelta e vocazione e, pur subendo negli anni ostracismi e punizioni, non abbandonò mai la Chiesa né la fede. Fu patriota, monarchico, liberale e antitemporalista. Fu insegnante di vasta cultura, sia nelle discipline umanistiche sia in quelle matematiche. Fu impegnato nel sorgere delle prime istituzioni cattoliche a carattere sociale. Fu animatore dell’associazionismo culturale, come testimoniano gli incarichi ricoperti nella Deputazione di Storia Patria e nel Cai. Fu soprattutto un archeologo, in rapporto con gli ambienti più avanzati di questa disciplina, che partendo da studi classici approdò alla Paletnologia e contribuì a gettare le basi in Italia di questa “novissima scienza”. Don Gaetano Chierici fu tutto questo. Ma soprattutto con Luigi Pigorini e Pellegrino Strobel è stato il fondatore e il padre della paletnologia italiana. La sua città natale Reggio Emilia è pronta a ricordarlo alla grande l’anno prossimo, 2019, nel 200° anniversario della nascita. Gaetano Chierici nacque infatti a Reggio Emilia da Nicola e Laura Gallinari il 24 settembre 1819. E sempre a Reggio Emilia morì il 9 gennaio 1886.

Ricostruzione di una terramara realizzata da Gaetano Chierici (Archivi del musei civici di Reggio Emilia)
Il Comitato scientifico d’accordo con il Comitato promotore delle Celebrazioni per il bicentenario della nascita di don Gaetano Chierici ha deciso così di promuovere un Convegno sulla figura dello scienziato, del sacerdote, del patriota, dell’insegnante. Il convegno si terrà a Reggio Emilia nei giorni 19, 20, 21 settembre 2019. Sono previste escursioni in provincia di Reggio Emilia nei luoghi delle ricerche paletnologiche ed archeologiche di Gaetano Chierici. Fu proprio Chierici a introdurre nello studio della preistoria il metodo dello scavo stratigrafico. Scoprì i primi villaggi dell’Età della Pietra nell’Appennino Reggiano e contribuì notevolmente allo studio delle terramare e all’identificazione dell’Età del Rame come periodo compreso tra Neolitico ed Età del Bronzo. Inoltre fondò e diresse il Bullettino di paletnologia italiana ed istituì il museo di Storia patria di Reggio Emilia, di cui fu direttore.
Museo “Gaetano Chierici” di Paletnologia Diretta espressione del lavoro culturale del fondatore, il sacerdote Gaetano Chierici, il museo reggiano è preziosa testimonianza della scienza e della museologia del tardo Ottocento. Nel 1862 Chierici ordina il Gabinetto di Antichità Patrie, ampliato nel 1870 come museo di Storia Patria, il cui nucleo fondamentale è la Collezione di Paletnologia. Conservata negli arredi e con l’ordinamento originari, essa rappresenta la più diretta espressione del lavoro di un paletnologo nell’età in cui la ricerca preistorica si afferma anche in Italia. L’esposizione si articola in tre serie. La prima riunisce i materiali archeologici della provincia di Reggio Emilia. Rimangono ad essa subordinate le due serie con materiali extraprovinciali, che illustrano rispettivamente l’archeologia di altre regioni d’Italia, e con quelli pertinenti a culture archeologiche ed etnologiche di altri Paesi europei e di altri continenti. Una quarta sezione espone “sepolcri” trasportati intatti in museo. Nella serie locale i materiali, esposti integralmente, sono ordinati entro sequenze cronologiche e suddivisi per provenienza, per materia, per tecnologia, per tipologia. In questo metodo di lavoro, di impronta positivistica, si valorizzano gli apporti della Geologia, delle Scienze Naturali, dell’Antropologia. Alla morte del suo fondatore (1886) la Collezione fu ribattezzata museo “Gaetano Chierici” di Paletnologia.

Ricostruzione deal tomba di Cenisola nell’allestimento ottocentesco del museo Chierici (archivi dei musei civici di Reggio Emilia)
Il convegno scientifico internazionale “Don Gaetano Chierici a 200 anni dalla nascita” si articolerà in tre sessioni: 1 : il paletnologo e l’archeologo; 2 : il museologo, la tutela dei beni culturali nella seconda metà del XIX sec.; 3: il sacerdote, l’insegnante, il patriota, l’animatore dell’associazionismo culturale. Per ciascuna sessione sono previste relazioni, comunicazioni e posters. Le relazioni, a cura dei componenti il Comitato scientifico, avranno la durata di 20′. Si prevedono i seguenti titoli provvisori delle singole sessioni: 1: il paletnologo e l’archeologo: Gaetano Chierici nella Storia della Paletnologia, Gaetano Chierici e Luigi Pigorini, Gaetano Chierici e il metodo multidisciplinare, Gaetano Chierici e l’archeologia del territorio, Gaetano Chierici e il comparativismo etnografico, Gaetano Chierici e il Neolitico, Gaetano Chierici e l’Eneolitico, Gaetano Chierici e l’Età del bronzo, Gaetano Chierici archeologo classico, Gaetano Chierici e l’Età del ferro, Gaetano Chierici e l’Archeologia medievale. 2 : il museologo, la tutela dei beni culturali nella seconda metà del XIX sec.: Gaetano Chierici museologo, Gaetano Chierici e la politica degli scambi fra musei, Gaetano Chierici ispettore dei monumenti e scavi. 3: il sacerdote, l’insegnante, il patriota, l’animatore dell’associazionismo culturale: Gaetano Chierici sacerdote, Gaetano Chierici insegnante, Gaetano Chierici patriota, Il fondo “Don Gaetano Chierici” nella Biblioteca “Panizzi” di Reggio Emilia, Gaetano Chierici e la Deputazione di Storia Patria, Gaetano Chierici e il Club Alpino Italiano, Gaetano Chierici: l’uomo e la famiglia. Ogni comunicazione non potrà superare la durata di 15′. I riassunti delle comunicazioni e dei posters (non più di 1000 battute) dovranno essere inviati entro e non oltre il 30 settembre 2018 alla segreteria della Deputazione di Storia Patria Sezione di Reggio Emilia (deputazionereggioemilia@gmail.com), che le sottoporrà all’esame del Comitato Scientifico, cui è demandata la loro accettazione e la scelta se tradurle in comunicazioni orali o in posters.
Archeoastronomia. Per il Solstizio d’Inverno nelle Stonehenge d’Italia la prova che i megaliti trovati in Basilicata, Cilento, Valle del Belice e Puglia sono dei “calendari astronomici” dell’età del Bronzo testimoni di riti arcaici
Stonehenge: basta solo pronunciare il nome del famoso sito megalitico inglese per evocare misteriosi riti legati al solstizio d’estate, quando il sole, all’alba del 21 giugno, si allinea con le grandi pietre del circolo preistorico. Ma non è l’unico luogo dove si può ritrovare un “calendario astronomico” risalente alla preistoria. Anche in Italia. Qui le “Stonehenge” si animano però per il solstizio d’inverno, il 21 dicembre, il giorno più corto dell’anno, quando il Sole nel suo moto apparente nelle costellazioni dello Zodiaco raggiunge la massima distanza rispetto al piano dell’equatore terrestre. Da questo periodo in poi le ore di luce cominciano ad allungare e per questo, osserva l’archeoastronomo Vito Francesco Polcaro, dell’istituto nazionale di Astrofisica (Inaf), “sin dalla preistoria è stato attribuito al solstizio d’inverno il significato sacro del trionfo della luce sulle tenebre”. Significato che, in epoca storica, ritroviamo con i romani che festeggiavano il “Sol Invictus” e, poi, con i cristiani il Natale di Cristo. In Italia, da Petre de la Mola in Basilicata ai megaliti della valle del Belice in Sicilia, i calendari in pietra risalgono quasi tutti alla tarda età del Bronzo e sono stati costruiti con la stessa tecnica di Stonehenge in Gran Bretagna, “che consiste nell’osservare la posizione del sole nel giorno più corto o più lungo dell’anno e creare dei punti di mira”, spiega Polcaro.

Il complesso megalitico di Petre de la Mola nel parco di Gallipoli Cognato nelle Piccole Dolomiti Lucane
Fra gli ultimi siti archeoastronomici scoperti c’è Petre de la Mola sulle Dolomiti Lucane che dai reperti archeologici trovati nelle vicinanze pare sia stato frequentato dalla tarda età del Bronzo fino al IV secolo a.C. “Ma per una datazione precisa dovremo aspettare gli esiti degli scavi archeologici, in programma grazie al finanziamento della Regione Basilicata, attraverso il Parco di Gallipoli Cognato”, interviene l’archeologo Emmanuele Curti, consigliere del Parco di Gallipoli Cognato. Il complesso di Petre de la Mola è un affioramento naturale di roccia calcarea che è stata modificata sovrapponendo una lastra ad una spaccatura naturale della roccia per creare una galleria che permette di osservare il sole al tramonto del solstizio d’inverno. Lo stesso giorno, e solo in quello, a mezzogiorno il Sole appare dallo stesso punto di osservazione in una piccola fenditura artificiale a sinistra della galleria, dando l’avviso del fenomeno che si verificherà al tramonto.

Al tramonto del solstizio d’inverno si può traguardare il sole attraverso la galleria del complesso megalitico di Petre de la Mula
“Un gruppo di ricerca interdisciplinare composto da archeologi, geofisici, geologi ed astronomi dell’università della Basilicata, della Faber Srl di Matera, dell’istituto nazionale di Astrofisica e dell’università La “Sapienza” di Roma ha iniziato lo studio del complesso megalitico chiamato “Petre de la Mola”, non lontano dalla cima del Monte Croccia, nel Parco di Gallipoli Cognato Piccole Dolomiti Lucane”, interviene Rocco Rivelli, presidente del parco lucano. “Sofisticati rilevamenti, effettuati attraverso l’impiego delle più avanzate tecnologie attualmente in uso anche nel campo dei Beni Culturali, hanno rivelato che il complesso presenta allineamenti diretti alla posizione del sole al mezzogiorno ed al tramonto del solstizio d’inverno ed altri che segnalano quella agli equinozi ed al solstizio d’estate. È quindi probabile che il megalite sia stato utilizzato dagli antichi abitanti del Monte Croccia come un “calendario di pietra” per segnalare date particolari dell’anno, a scopo rituale ed a fini pratici”. Secondo l’esperto il luogo potrebbe essere stato usato a scopo religioso per celebrare cerimonie che coinvolgevano più persone perché nelle vicinanze sono stati scoperti anche altri punti di osservazione: sono rocce contrassegnate da graffiti e a volte da bacini artificiali nella roccia. “L’intera area archeologica, frequentata dal neolitico al IV secolo a.C., copre una superficie di circa 6 ettari e include, oltre al megalite, un insediamento fortificato lucano (IV secolo a.C.), posto sulla cima della montagna. Questo insediamento è circondato da più cinte murarie realizzate in blocchi perfettamente squadrati; il tratto meglio preservato della cinta, variamente restaurata, ha una lunghezza di oltre 2 chilometri e la sua porta principale traguarda, attraverso il megalite, il punto dell’orizzonte ove sorge il Sole agli equinozi. L’eventuale conferma di questo dato indicherebbe la conservazione di una memoria e del valore sacro del megalite fino alla fine dell’occupazione del sito”.

Il 21 dicembre visita guidata con Giovanni Ricciardi per assistere al fenomeno del “Solstizio d’Inverno”: osservare l’ultimo raggio di sole che penetra nella fenditura del Megalite
Per il solstizio d’inverno a Petre de la Mola il Comune e la Pro loco di Oliveto Lucano (Matera) hanno organizzato una due giorni di appuntamenti il 20 e 21 dicembre 2017. Si è iniziato il 20 dicembre con il convegno “Il megalite, con valenza archeoastronomica, di Petre de La Mola ed i suoi contermini in Italia Meridionale” nel Salone del complesso architettonico di Cristo flagellato (ex Ospedale S. Rocco) a Matera. Nel pomeriggio gli ospiti hanno raggiunto Oliveto Lucano per una visita guidata nel centro storico, cui è seguito nella Chiesa Madre “Maria SS. Delle Grazie” il concerto di Arpe Viggianesi e una passeggiata tra i forni ed i portoni del centro storico con musiche natalizie e gli Zampognari di Terranova del Pollino. In serata “Gran Falò” con mercatini natalizi, “Banda Olivetese La Cima e Il Maggio” e degustazione di prodotti tipici. Mercoledì 21 dicembre in mattinata visita al Frantoio Oleario della Famiglia Sica e ai panifici locali con degustazioni della tradizione natalizia olivetese. Alle 14.30 il raduno e partenza per il monte Croccia – località “Petre de La Mola”- per assistere al fenomeno del “Solstizio d’Inverno” ovvero per osservare l’ultimo raggio di sole che penetra nella fenditura del Megalite con visita guidata a cura di Giovanni Ricciardi. Alle 15.30 osservazione della “Ierofania” e a seguire sarà servito Te e cioccolata calda ai piedi del monte Croccia al suono di musiche della tradizione natalizia. “Proficua collaborazione stipulata dal 2009 con il Gruppo Archeologico Lucano”, commenta il presidente della pro loco “Olea”, Saveria Catena, “in particolare con il professor Leonardo Lozito che essendo vice direttore nazionale Gruppi Archeologici d’Italia, contribuisce a valorizzare il sito archeologico facendo giungere in Basilicata esperti di fama internazionale provenienti dal mondo dell’astronomia e dell’archeologia”.
Anche sul monte Stella nel Cilento, c’è un calendario simile. Si chiama Preta ru Mulacchio che nel dialetto cilentano, significa “Pietra del Figlio Illegittimo” perché era associato anche ai riti di fertilità. “Il complesso”, ricorda Polcaro, “è stato frequentato fino agli anni ’50: le donne passavano nella galleria perché nelle credenze popolari la roccia fecondata dal Sole diventava capace di fecondare”. La Preta è sostanzialmente costituita da tre massi che si sono separati da un singolo blocco per cause naturali: tra questi tre massi, si sono formate due “gallerie”. Tuttavia, la Preta è stata profondamente modificata dal lavoro dell’uomo: grosse pietre sono state incastrate in posizioni precise tra i tre blocchi originari, o poste a generare un piano di copertura del complesso. Inoltre, alcuni bacini sono stati scavati sulla parte superiore della Preta, visitabile grazie ad una scala di legno predisposta dall’Ente Parco. “La Petra è divenuta così un raffinato “calendario di pietra”, che indica con straordinaria precisione la data del solstizio d’inverno”, continua Polcaro. “Pur in assenza di una datazione precisa, il megalite va attribuito probabilmente alla Cultura Proto-Appenninica (inizio del II millennio a.C.)”. La Preta ru Mulacchio è raggiungibile dal parcheggio del Santuario, dove staziona il pullman, con un facile sentiero di circa 400 metri e un dislivello di circa 100 metri. Dal santuario è possibile osservare lo straordinario panorama delle coste del Cilento. Un archeo-astronomo spiega come è stato costruito, ne illustra il funzionamento come “calendario di pietra” e racconta le millenarie tradizioni popolari che, fino a pochi decenni fa, ne dimostravano l’associazione a riti di fertilità.

Nell’alta valle del Belice, in Sicilia, dietro San Cipirello, il complesso megalitico di U-Campanaro
Altri megaliti di questo tipo si trovano anche in Sicilia, nel territorio dell’Alta Valle del Belice, e più esattamente nelle campagna sulle alture che stanno dietro San Cipirello c’è il complesso di U-Campanaro. Risalgono al 1700 a.C. e sono delle grandi lastre a forma di triangolo che servono a osservare la posizione del Sole quando sorge nel giorno del solstizio di inverno e d’estate. Per riuscire a raggiungere il megalite forato di monte Arcivocalotto, bisogna inoltrarsi lungo la strada provinciale 42. Si tratterebbe di oggetti costruiti appositamente per misurare il tempo in aderenza ai cicli vegetativi della natura, che indicava le fasi delle attività agricole che venivano svolte ogni anno in determinati periodi. La funzione astronomica del calendario solare di San Cipirello è stata accertata da più studiosi, secondo i quali questo è unico megalite indica il Solstizio d’Inverno. Infine in Puglia, a Trinitapoli, ci sono buche scavate nella roccia, allineate con la direzione del Sole, nel solstizio d’inverno e d’estate.
Fabio Martini da Rovereto: “Rinato in 3D il cervello del ragazzino di 17mila anni fa della grotta paleolitica del Romito in Calabria”. Team di scienziati tra Firenze, Roma e California punta a studiare l’evoluzione del linguaggio nell’Homo Sapiens e a curare la dislessia
Dall’Homo Sapiens di 17mila anni fa all’Homo Sapiens di oggi: sono passati quasi 20 millenni ma il cervello dell’uomo, nel suo aspetto esterno, non sembra cambiato. Stessa disposizione delle vene, stesse volumetrie delle diverse aree. Un risultato eccezionale della ricerca che potrebbe portare grandi risultati nella moderna medicina, ad esempio nella cura della dislessia. Lo ha annunciato a Rovereto Fabio Martini, docente di archeologia preistorica all’università di Firenze, a margine della sua seguita e apprezzata conversazione “L’origine dell’arte. Documenti e problemi di interpretazione” in “Arte, culto e spiritualità”, sezione speciale della 27. Rassegna internazionale del Cinema archeologico diretta da Dario Di Blasi. “Oggi possiamo sapere e toccare con mano un cervello di un nostro antenato di 17mila anni fa, grazie alla ricostruzione in 3D che un team ha realizzato negli Usa partendo dalla scatola cranica di un ragazzo ritrovato nella grotta del Romito a Papasidero in Calabria, uno dei siti archeologici italiani più interessanti per la presenza di scheletri paleolitici, frequentato dall’Homo sapiens tra 23mila e 10mila anni da oggi”, spiega Martini. “Naturalmente non possiamo dire come quel cervello “funzionava”, come pensava, come interagiva col mondo esterno, ma sicuramente questo risultato raggiunto è destinato a fornirci importanti informazioni nuove e finora impensabili. Prima della fine dell’anno – annuncia — saranno pubblicati su una importante rivista scientifica i risultati di questo progetto che, insieme alla ricostruzione 3D del cervello, prevede anche la ricostruzione del Dna dell’antico preadolescente”. Due elementi che rappresentano una prima tappa per la raccolta dei dati che permetteranno di disegnare l’evoluzione del cervello umano, in particolare delle aree e dei geni che sovrintendono al linguaggio. Con risvolti pratici anche immediati, come la possibilità di trovare forme di cura per la dislessia. Allo studio sta lavorando un’equipe eterogenea di studiosi italiani di diversi atenei – archeologi, neuroscienziati, fisici, antropologi molecolari – coadiuvati dall’università della California Irvine.

La grotta del Romito a Papasidero in calabria, dove è stato trovato lo scheletro di un ragazzino di 17mila anni fa
Tutto parte dallo scheletro del Romito 9, ritrovato a Papasidero nel 2011 (insieme altri due scheletri: Romito 7 e Romito 8) dall’equipe di Fabio Martini, a distanza di alcuni decenni da ritrovamento dei primi 6 resti. “Romito 9”, spiega Martini, “è lo scheletro di un ragazzino di 10 anni morto tra le aspre colline di quella che oggi è la Calabria. La causa della sua morte non è nota. Ma la presenza di decorazioni con conchiglie e ocra rossa trovate attorno al suo corpo deposto delicatamente fa pensare che il piccolo fu amato e pianto. Le ossa del cranio a quell’età sono ancora plastiche, in sviluppo, tanto da lasciare, seppure in maniera invisibile all’occhio umano, l’impronta del cervello, rilevabile con le tecnologie sofisticate di oggi. Un ritrovamento dunque eccezionale”. A “leggere” queste “tracce” invisibili ci ha pensato il fisico Claudio Tuniz del Centro Internazionale di Fisica Teorica Abdus Salam di Trieste, il quale ha realizzato il modello informatico, che poi ha permesso di stampare in 3D, negli Usa, il cervello di 17mila anni fa. Tuniz ha fatto la ricostruzione teorica, grazie alle tecnologie avanzate del suo laboratorio. Ha preso il cranio, lo ha posto in modo da permettere una rotazione completa e ha realizzato circa 4mila radiografie, più o meno 10 per ogni grado della rotazione completa. La mappa ha permesso la stampa del cervello – come si diceva -, in California, dove sono disponibili le strutture necessarie e dove opera un altro specialista italiano, Fabio Macciardi, studioso di neuroscienze dell’università della California e docente di genetica medica all’università di Milano.
Per raggiugere l’altro grande obiettivo ambizioso, l’estrazione del Dna dallo scheletro Romito 9 di 17mila anni fa è intervenuta la professoressa Olga Rickards, ordinario di antropologia molecolare all’università di Tor Vergata di Roma, che è riuscita a sequenziarlo. Risultato non facile. “Oggi molti ricercatori lavorano per trovare i geni legati alle patologie del linguaggio”, interviene Macciardi, che si occupa di schizofrenia, autismo e disturbi le linguaggio. “Ma si tratta di una competenza molto complessa e si rischia di perdersi in un mare di informazioni genetiche. Serve scegliere solo quelle importanti che sono, probabilmente, sia quelle conservate nei millenni, sia quelle sviluppate nell’evoluzione”. Ciò vale anche per il cervello in 3D e la sequenza del Dna “archeologico”. “Sui dati ottenuti abbiamo realizzato molti confronti con quelli contemporanei. E il nostro obiettivo è realizzare lo stesso lavoro su 70 scheletri molto più antichi. Potremmo così ottenere una vera e propria mappa dell’evoluzione del cervello e del linguaggio degli ultimi 200mila anni. Sapere con precisione quali sono i geni del linguaggio”. Ma anche ‘datarli’. “Alcuni antropologi – continua Macciardi – pensano che il linguaggio sia nato insieme all’arte, al pensiero simbolico (50 – 60mila anni fa). Altri addirittura pensano a 500mila anni fa. Due estremi su cui potremmo essere più chiari incrociando i dati morfologici e genetici delle diverse fasi evolutive. Ma si tratta di studi costosi che hanno bisogno di finanziamenti che bisognerà trovare”.

Denti (canini atrofici) di cervo perforati, utilizzati come pendenti, dipinti di ocra rossa posti attorno al corpo del ragazzino Romito 9
Lo scheletro del ragazzino di 17mila anni fa, riprende l’archeologo Martini, “ha raccontato e racconterà molto. Gli strumenti di oggi ci permettono di realizzare molte ricerche. È la prima volta che la tecnologia ci permette di toccare con mano un cervello antico. Possiamo vedere chiaramente che l’area del linguaggio, è quasi uguale, nella morfologia, ad oggi. È lo studio più completo su un individuo così antico”. Anche da un punto di vista storico-archeologico il ragazzo denominato Romito 9 – l’ultimo dei nove scheletri trovati nella grotta del Romito, il più antico – ha permesso ai ricercatori di fare passi avanti. “È la prima volta che troviamo una sepoltura di quell’epoca. E abbiamo molte indicazioni. Si colma così una lacuna su riti funerari sconosciuti in quell’età. Abbiamo ora un tassello che ci mancava”.
Preistoria. Da settembre 2016 missione italiana nel Borneo (Indonesia) con due archeologi molisani (Università di Bali e di Ferrara) alla ricerca dell’Uomo di Giava (Homo Erectus) nella grande grotta di Batu Hapu
Due archeologi di origine molisana alla ricerca dell’uomo di Giava (Homo Erectus) nell’isola indonesiana del Borneo. Il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, con l’appoggio dell’ambasciata d’Italia a Giacarta (Indonesia), ha approvato la missione italiana nel Borneo, al via in questi giorni di settembre 2016. Il progetto di ricerca è diretto dal prof. Michele Raddi, dell’università Udayana di Bali (Indonesia), e dal dott. Giuseppe Lembo, dell’università di Ferrara, direttore scientifico della missione che si ripromette di studiare e tentare di ricostruire il primo insediamento della popolazione indonesiana con l’applicazione delle più recenti metodologie e tecnologie di ricerca archeologica. Il prof. Raddi è già a Giacarta dal 9 agosto “per preparare per così dire il terreno alla missione”, fa sapere, “missione che si svolge in uno dei luoghi più selvaggi ma che considero più affascinanti ed interessanti del pianeta: prezioso scrigno di biodiversità e archeologia che ha tanto da raccontare”. Raddi dirigerà l’attività tecnica e rappresenterà la componente indonesiana del progetto come professore dell’università di Bali. Il collega Giuseppe Lembo dell’Università di Ferrara è invece – come si diceva – il direttore della missione italiana in Borneo e partecipa alle ricerche archeologiche del sito con un gruppo di ricercatori dell’università di Ferrara, di Roma La Sapienza, dell’universitat Roviri et Virgili di Terragona e dell’università Udayana di Bali.

Il prof. Michele Raddi del’università Udayana di Bali, direttore del progetto di ricerca a Batu Hapu
Le ricerche si concentreranno nella grotta di Batu Hapu, nell’area del Kalimantan, Borneo indonesiano, una perla ambientale, terra degli orang hutan (in indonesiano significa “persona della foresta”), terra anche della scimmia Nausica o Narvalis Larvatus, che ha il naso a forma di una piccola proboscide. “È un luogo meraviglioso”, spiega Raddi, “un luogo difficile da affrontare. Perciò bisogna prepararsi bene: non solo per quanto riguarda l’equipaggiamento ma soprattutto fisicamente. Sono luoghi selvaggi. È necessario essere in salute per recarvisi. Ma posso dire che noi archeologi siamo piuttosto vaccinati per questi luoghi, siamo preparati: insomma abbiamo gli anticorpi”.
La missione opererà dunque nella grotta di Batu Hapu, una grotta enorme, che è anche un sito archeologico vastissimo, posto su più livelli, frequentato fin dalla preistoria. “È uno dei siti archeologicamente più importanti e più interessanti del Borneo. Si trova in un territorio molto esteso e ricco che potrà raccontare e testimoniare la presenza e la vita dell’uomo di Java (Homo Erectus), dei primi insediamenti all’interno delle grotte”. Purtroppo, come rileva Raddi, “non è un sito conservato come si dovrebbe: nel tempo è stato utilizzato per la raccolta del guano degli uccelli per l’agricoltura, alcune pareti sono state intaccate, tuttavia data la grandezza del sito si possono raccogliere e studiare tantissimi altri reperti, disegni, pitture e così via”. Il progetto ha anche lo scopo di insegnare agli studenti locali le nuove metodologie di scavo, come condurre uno scavo in maniera corretta, come documentare e catalogare i vari reperti. Raddi chiude con un auspicio e un appello: “La missione è al via, inizia ma servono fondi per farla poi continuare il più possibile. Servono sponsor che ci aiutino in questo progetto così scientificamente importante. Speriamo che qualcuno si faccia avanti per poter dare la possibilità di approfondire la conoscenza e lo studio delle nostre origini: delle origini del mondo”.
Preistoria. In una grotta in Sudafrica trovato su un piede di un fossile di ominide di 1,7 milioni di anni fa il tumore maligno più antico finora noto

Il frammento di osso del piede di ominide di 1,7 milioni di anni fa con la presenza di un tumore maligno
Chi pensava che il tumore fosse legato alle cattive abitudini e all’inquinamento della vita moderna si dovrà ricredere. La smentita ci arriva da molto lontano: dalla preistoria. Risale infatti a ben 1,7 milioni di anni fa il primo tumore maligno – un osteosarcoma – mai rinvenuto in un antenato dell’uomo. Lo ha scoperto un team internazionale di ricercatori guidato da scienziati della University of the Witwatersrand’s Evolutionary Studies Institute e del South African Centre for Excellence in PalaeoScience, che ne hanno dato notizia in due articoli su “South Africa Journal of Science”. Il tumore maligno è stato rinvenuto su un osso del piede datato appunto a circa 1,7 milioni di anni fa proveniente dal sito di Swartkrans in Sudafrica. Questa prova spinge indietro alla più remota preistoria la testimonianza più antica di questa malattia. Ma la ricerca continua. Come ricorda sempre la stessa rivista scientifica, un team di scienziati ha identificato un tumore – ma questa volta benigno – nelle vertebre di un esemplare bambino di Australopithecus sediba, noto come Karabo, scoperto nel sito di Malapa, sempre in Sudafrica, risalente a quasi due milioni di anni fa. Prima del ritrovamento nella grotta di Swartkrans, il tumore più antico era stato trovato nella costola di un uomo di Neanderthal “vecchio” circa 120mila anni. Per Edward Odes, dottorando della Wits e autore principale dello studio, “la medicina moderna tende a ritenere che i tumori negli esseri umani siano malattie causate da stili di vita e ambienti moderni. I nostri studi mostrano che l’origine di queste malattie è più antica, e che erano colpiti anche i nostri parenti, milioni di anni prima che esistessero moderne società industriali”.
Preistoria. La fronte sporgente, le sopracciglia arcuate, il naso molto grande e schiacciato: eccolo il volto ricostruito dell’Uomo di Altamura, un neanderthal vissuto 150mila anni fa, il cui scheletro è ancora imprigionato nella grotta di Lamalunga. Suggestiva la ricostruzione proposta dai paleo-artisti olandesi Adrie e Alfons Kennis. Il paleoantropologo Manzi: “Ma quello scheletro deve ancora dirci molte cose”

Fronte sporgente, sopracciglia arcuate, naso schiacciato: ecco il volto dell’uomo di Altamura, un Neanderthal di 150mila anni fa
La fronte sporgente, le sopracciglia arcuate, il naso molto grande e schiacciato (forse dovuto a un adattamento alla penultima glaciazione), il cranio allungato posteriormente: dopo 150mila anni è tornato ad avere un volto l’uomo di Altamura, e un corpo: tarchiato, bacino largo, una statura non elevata, circa 1 metro e 65 centimetri. Lo scheletro fossile dell’antico Neanderthal ritrovato nella grotta di Lamalunga nell’ottobre 1993 è stato infatti ricostruito a grandezza naturale dai paleo-artisti olandesi Adrie e Alfons Kennis, fra i più qualificati al mondo in ricostruzioni paleoantropologiche: “Ci abbiamo lavorato circa un anno. Abbiamo ricevuto dall’Italia i dati digitali sulla scansione laser e li abbiamo ricostruiti usando il silicone. Per barba e capelli ci siamo fatti mandare dal Canada del pelo di bue muschiato”. La ricostruzione iperrealistica, appunto con tanto di capelli lunghi, baffi e barba incolta, è stata svelata al pubblico in una cerimonia emozionante con le autorità del comune in provincia di Bari, e i paleoantropologi Giorgio Manzi dell’università di Roma La Sapienza (“Vederlo mi ha fatto un effetto straordinario. È davvero suggestivo. La ricostruzione è totalmente ispirata alle informazioni raccolte finora dagli scienziati. Siamo solo all’inizio di un percorso”), Maryanne Tafuri, Fabio Di Vincenzo, Antonio Profico e David Caramelli, dell’università di Firenze (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2016/04/25/preistoria-luomo-di-altamura-ha-un-volto-sara-svelato-il-26-aprile-2016-realizzato-da-paleo-artisti-a-un-anno-dalla-scoperta-del-suo-dna-era-un-antico-neanderthal-di-150mila-anni-fa-prog/). Proprio Manzi e Caramelli dal 2009 coordinano il progetto condotto da un gruppo interdisciplinare in collaborazione con autorità locali e la soprintendenza Archeologia della Puglia, sull’Uomo di Altamura, i cui risultati sono stati pubblicati solo un anno fa, confermando si tratta di un fossile di Neanderthal.

Adrie e Alfons Kennis, i due fratelli olandesi, paleo-artisti (qui con una loro “creatura”) che hanno realizzato l’uomo di Altamura
“Il progetto della ricostruzione voluto dal Comune di Altamura e gestito in stretta collaborazione con la soprintendenza Archeologia della Puglia”, interviene il sindaco, Giacinto Forte, “rappresenta una anteprima della Rete museale Uomo di Altamura, di prossima inaugurazione”. L’operazione di ricostruzione iperrealistica dell’Uomo di Altamura, che si è avvalsa di tutti i dati raccolti dai ricercatori in 5-6 anni di lavoro e dalla soprintendenza Archeologia della Puglia, è costata circa 80-90mila euro ed ha impegnato i due esperti paleo-artisti olandesi per diversi mesi. Quello di Altamura è forse il più antico Neanderthal del mondo scoperto finora, vissuto circa 150mila anni fa. “Gli artisti”, sottolinea il prof. Manzi, “lo hanno rappresentato così, con una espressione che rivela quasi un ghigno, quasi voglia dirci sto aspettando che mi veniate a liberare dalla mia prigione di calcare”. La posa dell’uomo di Altamura, con il peso tutto su una gamba e le mani unite dietro alla schiena, è stata infatti scelta con cura dai fratelli Kennis che raccontano: “Non volevamo che la posizione sembrasse artificiale. Abbiamo immaginato un uomo della Papua Nuova Guinea o della Mongolia di oggi intento a fissare dei turisti al giorno d’oggi. Con lo stesso sguardo fiero e perplesso allo stesso tempo”. Conclude Manzi: “È una ricostruzione suggestiva. Ma non significa che questo Neanderthal lo abbiamo capito totalmente. Lo scheletro, questo reperto di straordinaria importanza, deve ancora dirci tante cose”.
Nel corso dell’incontro è stata anche mostrata la ricostruzione 3D del cranio dell’Uomo di Altamura, estratto virtualmente dal suo scrigno carsico nell’ambito dello stesso progetto di ricostruzione. Un primo e unico frammento dello scheletro, estratto fisicamente nel 2009 da una scapola, ha consentito di raccogliere dati sul Dna, quantificare alcuni aspetti sulla morfologia e risalire ad una data: è stato così possibile collocare cronologicamente l’Uomo di Altamura in un intervallo finale del Pleistocene Medio compreso tra i 172 e i 130mila anni.
Tra mammuth e tigri dai denti a sciabola: riapre il museo Paleontologico di Montevarchi, uno dei più antichi d’Europa: allestimento innovativo multimediale per conoscere il Valdarno tre milioni di anni fa

L’impressionante fossile di Mammuthus meridionalis “simbolo” del museo Paleontologico di Montevarchi in Valdarno
Il Valdarno si distende tra il massiccio di Pratomagno e le dolci colline ridisegnate ad arte dai vigneti del Chianti, con l’orizzonte mosso da filari di cipressi che impettiti resistono al vento, e la base dei poggi ricca di opifici tra le moderne vie di comunicazione: un paesaggio accogliente valorizzato dai molti agriturismi, oasi di relax e di tentazioni per il palato. Ma ora chiudiamo gli occhi e prepariamoci a un viaggio indietro nel tempo di alcuni milioni di anni. Quando li riapriremo, davanti ai nostri occhi apparirà un mondo fantastico: una giungla equatoriale che lascia via via il posto a una tundra popolata di animali terrificanti, come l’immenso mammuth o la temibile tigre dai denti a sciabola. Non siamo su set di un sequel di Jurassik Park, ma all’ingresso del rinnovato museo Paleontologico di Montevarchi in Valdarno, uno dei più antichi d’Europa con quasi due secoli di vita, museo che sabato 6 dicembre riapre al pubblico dopo oltre sei anni di chiusura impiegati per dotare la celebre istituzione di un allestimento al passo con i tempi. Il restauro si deve a un forte impegno economico della Regione Toscana e del Comune di Montevarchi, proprietario di gran parte della struttura in cui il nuovo museo può finalmente valorizzare le sue ricchezze, ovvero l’ex convento trecentesco di San Lodovico: una delle più interessanti raccolte europee di fossili, tutti estratti da quell’immensa “miniera” che è il territorio del Valdarno. Qui tra il Pliocene superiore e il Pleistocene inferiore, ovvero tra 5,332 e 2,588 milioni di anni fa, una giungla equatoriale si trasformò gradualmente in una tundra sotto la quale, per una singolare fortunata combinazione chimico fisica, i resti degli antichi animali si fossilizzarono perfettamente. Le scoperte datano già in epoca medicea ma il sottosuolo continua a offrire sempre nuove sorprese. “Le potenzialità del rinnovato museo Paleontologico sono fortissime”, assicurano i responsabili dell’accademia Valdarnese, titolare del museo. “Fortissime soprattutto in ambito didattico, vista la possibilità e l’ambizione di proporre numerose attività anche in orario extrascolastico per bambini e famiglie. Ma siamo anche convinti che il “nuovo” Paleontologico con la storia naturalistica di un territorio come il Valdarno avrà un grande appeal turistico soprattutto all’estero”.
Il museo Paleontologico di Montevarchi, che – come detto – appartiene all’accademia Valdarnese del Poggio, nasce intorno al 1809 da una raccolta donata dal monaco di Vallombrosa Luigi Molinari. Poco dopo Georges Cuvier, fondatore della paleontologia moderna, studiò questi primi reperti che erano allora conservati nei locali del convento dei Minori Francescani di Figline Valdarno. Nel 1818 la raccolta, assieme alla sede dell’accademia e al fondo librario nel frattempo costituitosi, fu trasferita nei locali attuali di Montevarchi e fu aperta al pubblico ufficialmente nel 1829. Mezzo secolo dopo, fra il 1873 e il 1880, il prof. Paolo Marchi di Firenze e il prof. Forsyth Major di Glasgow classificarono i 732 reperti fino allora raccolti e iniziarono a compilare il relativo catalogo. Fu poi il prof. Giovanni Capellini, geologo e paleontologo cui è dedicato il museo Geologico e Paleontologico dell’università di Bologna, a continuare la catalogazione mentre il museo si arricchiva di nuovi pezzi. La raccolta nel tempo si è ampliata con nuove scoperte per lo più in ambito locale, cui hanno sostanzialmente contribuito le segnalazioni da parte di contadini e abitanti del territorio.
L’allestimento originale, che rispecchiava il concetto ottocentesco di esposizione museale, articolato in quaranta vetrine disposte in tre gallerie, è stato sostituito da un allestimento moderno che disegna un percorso didattico in grado di stimolare l’interesse e arricchire la conoscenza del visitatore. Dopo un primo corridoio in cui si ripropone un saggio dell’allestimento ottocentesco, si passa al nuovo, in cui ogni reperto esposto nelle vetrine è illustrato da didascalie. Ci sono poi pannelli su alcuni aspetti peculiari del territorio come le trasformazioni delle faune, delle flore e delle condizioni climatico – ambientali che hanno accompagnato la storia del Valdarno negli ultimi tre milioni di anni.
Il museo di
Montevarchi accoglie circa 2600 reperti. Fra essi si distinguono fossili vegetali, come le noci di Juglans tephrodes e le foglie di Platanus aceroides e una ricca collezione di fossili animali, provenienti quasi esclusivamente dal Valdarno Superiore e di età compresa fra il Pliocene superiore e il Pleistocene inferiore. Tra gli esemplari più interessanti del museo un gigantesco scheletro di elefante – Mammuthus meridionalis – quasi completo con enormi zanne di oltre tre metri di lunghezza di 320 cm, popolarmente noto come “Gastone l’elefantone”, il cranio della tigre dai denti a sciabola – Homotherium crenatidens -, chiamata così per le dimensioni dei canini superiori, i crani di Hystrix etrusca, e il cranio del Canis etruscu, il “Tipo”, cioè il primo che ha dato origine ad una nuova specie. Una delle ultime acquisizioni sono i resti fossili di Palaeoloxodon antiquus, giovane elefantessa divenuta subito popolare col nomignolo di “La Giulia”. Questo ritrovamento, avvenuto nel 2001 nell’Aretino in località Campitello, vicino a Bucine, è particolarmente importante perché associato a tre strumenti litici con ancora i resti delle legature originali.
Numerosi sono i disegni, le tavole di confronto e soprattutto le ricostruzioni paleoambientali che si articolano lungo il percorso. Il visitatore può approfondire dinamicamente la storia del Valdarno Superiore soffermando la sua attenzione su una serie di video, dislocati lungo il tracciato, nei quali vengono ricostruite le cause e gli effetti delle oscillazioni glaciali-interglaciali, i caratteri della foresta equatoriale caldo-umida diffusa nel Valdarno 3.1 milioni di anni fa e infine altri video nei quali sono approfonditi i caratteri delle singole specie rinvenute nella argille e nelle ligniti della fase a foresta. Prospettive scenografiche in cui le figure si compongono e si scompongono a seconda del punto di osservazione, ricostruzioni di uomini primitivi e multimedialità fanno da cornice capace di suggestionare il visitatore e di incantare soprattutto i più piccoli.
Il percorso del museo Paleontologico è completato da una nuova sezione archeologica dedicata allo studioso locale Alvaro Tracchi, con reperti etruschi provenienti dal territorio del Valdarno, ma anche dalla zona del Viterbese. “Gli apparati didattici e la multimedialità”, spiegano in accademia, “permetteranno di proporre una didattica archeologica innovativa, capace di approfondire tematiche sulla vita quotidiana in età lontanissime”. Infine la nascita di un laboratorio di restauro interno, che permetterà di monitorare lo stato di conservazione del materiale e di intervenire tempestivamente, ma anche di svolgere attività didattiche per bambini per lo sviluppo della manualità o corsi di formazione per adulti.
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