“On the road”: la mostra di Reggio Emilia propone una riflessione sulla storia della via Emilia e sul suo fondatore, sul significato della strada nella contemporaneità, in un itinerario che va dalle popolazioni preromane, ai romani, all’avvento del Cristianesimo e Medioevo. Oltre 400 reperti, molti inediti, “messi in scena” con la mediazione di spezzoni di celebri film peplum e il concorso della multimedialità e della tecnologia digitale
Immaginate di essere un centurione romano che marcia al fianco dei legionari agli ordini del console: loro stanno andando a consolidare la sicurezza della Gallia Cisalpina. I Boi sono stati gli ultimi a cadere nell’ultimo scorcio del III sec. a.C. A pochi decenni dalle decisive battaglie di Cremona (200 a.c.) e Mutina (194 a.C.) è ora più facile raggiungere velocemente la pianura Padana: c’è un’asse rettilineo che si incunea come una spada affilata nel cuore della Cisalpina, da Rimini a Piacenza. È la via Emilia, voluta dal console Marco Emilio Lepido nel 187 a.C. Da allora sono passati 2200 anni e noi, come gli antichi legionari, possiamo ancora percorrere fisicamente quella via consolare il cui nome e tracciato rimasti sono così peculiari da dare il nome all’intera regione, l’Emilia-Romagna. Ma possiamo scegliere anche un percorso virtuale che ci permette di conoscere i segreti della via Emilia, la sua costruzione, le sue strutture, i suoi servizi, ma anche le città sorte lungo il suo tracciato e le popolazioni che le abitavano. È quanto proposto dalla mostra “On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017” aperta fino al primo luglio 2018 in una città simbolo, Reggio Emilia, che ha preso il nome dal console che tracciò la via Emilia, Marco Emilio Lepido appunto, il quale giocò un ruolo da protagonista anche nel dare forma istituzionale al Forum che da lui prese il nome, Forum o Regium Lepidi.

Lo straordinario ritratto del console Marco Emilio Lepido proveniente dal museo Archeologico nazionale di Luni (foto Carlo Vannini)

La presentazione della mostra “On the road”: da sinistra, l’architetto Italo Rota, il soprintendente Luigi Malnati, il ministro Graziano Delrio, il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi, la vicepresidente dell’Emilia Romagna Ottavia Soncini, e il direttore dei civici musei Elisabetta Farioli
“On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017”, curata da Luigi Malnati, Roberto Macellari e Italo Rota, è promossa dai Musei Civici del Comune di Reggio Emilia, dal Segretariato regionale del ministero dei Beni e delle Attività culturali e Turismo (Mibact) per l’Emilia-Romagna unitamente alla stessa soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna e la Fondazione Pietro Manodori, con il contributo Art Bonus di Credem e Iren, il patrocinio di Anas, sponsor CarServer. Nell’ambito del progetto di promozione della cultura e del territorio “2200 anni lungo la Via Emilia”, Reggio Emilia – con la grande mostra “On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017” propone specificamente una riflessione sulla storia della via Emilia e sul suo fondatore, sul significato della strada nella contemporaneità, in un itinerario che include Età Romana, pre-Romana (Etruschi, Celti, Liguri), avvento del Cristianesimo e Medio Evo, Contemporaneità. Reggio è l’unica città emiliana che conserva nel proprio nome il ricordo del fondatore (eponimo), ma anche della strada su cui si impostava l’intero popolamento della regione che, a sua volta, da essa avrebbe preso nome. Particolare attenzione è dedicata perciò alla riscoperta della figura di Marco Emilio Lepido, il geniale costruttore che, sgominati i Celti e i Liguri, decise la costruzione di una lunghissima strada che collegava le colonie di Rimini e Piacenza, ma anche alla sua fortuna nel corso dei secoli.

Nella suggestiva immagine da satellite dell’Italia si riconosce subito il rettilineo della via Emilia
“C’è tanto di noi in questa On the road “, ha detto il sindaco Luca Vecchi all’inaugurazione, “mostra archeologica in chiave dichiaratamente contemporanea, dedicata a una strada nata come linea di confine tra la civiltà romana e altre popolazioni e divenuta ben presto sistema di connessione e integrazione fra persone, luoghi, città, merci, culture diverse. Edmondo Berselli, a millenni dalla loro fondazione, ha scritto delle città emiliane che sono tanto simili tra loro e quanto sono diverse le une dalle altre: è lo stesso effetto Via Emilia giunto intatto sino a noi, ovvero il saper convivere nelle diversità, connettendole”. E l’architetto Italo Rota, curatore dell’allestimento: “La Via Emilia è per me uno dei grandi gesti dell’umanità. Non a caso è uno dei pochi luoghi perfettamente distinti dai satelliti, e forse non a caso la sua direttrice coincide con tante rotte aeree. Le strade evolvono, possono scomparire senza lasciare traccia: non la Via Emilia, che esiste, vive nei territori che attraversa, si moltiplica senza cambiare percorso ed è nel contempo una miniera di antichi reperti. L’archeologia è materia difficile. Abbiamo pensato di proporre questo grande scenario, che rappresenta una cosa astratta quale la linea della Strada nello spazio e nel tempo, declinando accanto a essa in miniature i luoghi di vita, lavoro, viaggio, che raccontano ai visitatori un luogo antico, contemporaneo, molteplice”.

La statua 3D di Marco Emilio Lepido posta in piazza del Monte, sulla via Emilia, nel cuore di Reggio Emilia
“On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017” è articolata in più sedi: quella principale è al Palazzo dei Musei di Reggio Emilia, alla quale si affiancano il Palazzo Spalletti Trivelli del gruppo bancario Credem e il Museo Diocesano. Ma anche non si possono dimenticare altri luoghi pertinenti, fra cui la sede del Municipio, dove è stata restaurata la scultura settecentesca di Marco Emilio Lepido, che accoglie il visitatore ai piedi dello scalone d’onore. E una riproduzione 3D del monumento dedicato al console, realizzata con stampanti digitali e in polistilene è stata collocata nel cuore di Reggio Emilia, in piazza del Monte, sulla Via Emilia e da qui indica la sede espositiva di Palazzo dei Musei. Proprio al Palazzo dei Musei, l’allestimento su tre piani, a cura dello stesso architetto Italo Rota, si pone l’ambizioso obiettivo di restituire alla sensibilità contemporanea i preziosi reperti archeologici esposti – più di 400: della città, della regione e prestati da grandi istituzioni nazionali, quali il museo nazionale Romano e il museo della Civiltà romana di Roma, il museo Archeologico di Bologna e il museo Archeologico nazionale di Luni – nella ferma convinzione che l’antico non possa non essere oggi osservato se non con occhi contemporanei. Persone, vicende storiche, società romana vengono restituite in raffinati display che ricostruiscono in piccola scala i principali ambienti di vita dell’antica strada romana valorizzando e contestualizzando i materiali archeologici originali, “messi in scena” anche tramite la mediazione di spezzoni di celebri film peplum e il concorso della multimedialità e della tecnologia digitale.

Il prezioso bicchiere da Vicarello (Bracciano) con la più antica rappresentazione figurata di una strada (su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Museo Nazionale Romano)
Per tutta l’età romana e fino alla caduta dell’impero, la strada ha costituito un elemento fondamentale di coesione e collaborazione tra le città che attraversava, veicolo indispensabile per persone, merci e idee. Le diverse popolazioni che avevano abitato la regione dalla protostoria proprio attraverso la via Emilia vennero incluse via via nel modello culturale e civile portato da Roma, che successivamente poté essere adottato anche dalle popolazioni che da tutte le parti dell’impero e da oltre il limes confluirono in Emilia. La mostra è l’occasione per presentare le novità provenienti dagli scavi degli ultimi venti anni a Reggio Emilia e nel suo territorio, ma anche per illustrare col prestito di reperti molto significativi l’itinerario della strada. Tra le opere esposte, alcune hanno lasciato per la prima volta la loro sede originaria, come il bicchiere d’argento da Vicarello (Bracciano) del museo nazionale Romano, con la più antica rappresentazione figurata di una strada; il ritratto di Marco Emilio Lepido da Luni; la stele etrusca con la raffigurazione di un carro dal recente scavo di via Saffi a Bologna; o il fregio d’armi di età romana repubblicana di Piacenza. È tempo dunque di conoscere meglio la Via Emilia. “Camminiamo, idealmente e realmente, lungo la via Emilia: quale luogo migliore per avere consapevolezza di noi stessi e per farci conoscere?”, è l’invito del sindaco di Reggio Emilia, Vecchi. E allora mettiamoci in cammino… on the road.
(1 – continua)
Primo Maggio con gli etruschi di Marzabotto: apertura straordinaria del museo nazionale Etrusco “Pompeo Aria” e dell’area archeologica di Kainua. Un tuffo nel passato in un ambiente unico
Primo Maggio con gli etruschi di Marzabotto. È la proposta della soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara che annuncia l’apertura straordinaria di lunedì 1° Maggio 2017 (Festa del Lavoro) del museo nazionale Etrusco “Pompeo Aria” (orario: 9-18-30) e dell’area archeologica di Marzabotto (orario: 8-19). L’area archeologica dell’antica città di Kainua (a monte dell’odierna Marzabotto) è una testimonianza unica nell’ambito della civiltà etrusca. La straordinaria conservazione dell’impianto originale della città – dovuta all’abbandono del luogo a partire dall’invasione celtica- consente un tuffo nel passato che coniuga al grande interesse scientifico una particolare suggestione ambientale. In nessun altro sito etrusco al mondo è possibile visitare il vasto pianoro su cui si snodano i resti dell’abitato e le ampie strade che si incrociano ortogonalmente suddividendo in modo regolare lo spazio urbano orientato secondo i canoni dell’etrusca disciplina, salire alle costruzioni sacre dell’acropoli e ridiscendere alle aree funerarie situate subito al di fuori della città dei vivi. Nel museo dedicato a Pompeo Aria – organizzatore del primo nucleo della collezione – si possono ammirare le testimonianze della vita della città che prosperò dalla fine del VI alla metà del IV secolo a.C., dai ricchi corredi delle necropoli alle ricostruzioni dei tetti e degli alzati delle case, dalle statuette votive in bronzo alla testa di Kouros, fino alle testimonianze recuperate a Sasso Marconi e nel territorio circostante.
“I resti dell’antica Marzabotto/Kainua non cessano mai di stupire”, assicurano gli archeologi della soprintendenza. “Gli Etruschi avevano non solo progettato la città secondo un modello assunto direttamente dal mondo greco (seppur “mediato” dall’etrusca disciplina) ma alimentavano quotidianamente i legami culturali e commerciali con l’Ellade tramite il fiume Reno (che all’epoca sfociava nel ramo spinete del Po), il porto di Spina e l’Adriatico. Di questa grecizzazione sono segno evidente sia la ceramica attica, la cui presenza nei corredi tombali conferma la completa acquisizione dell’ideologia del vino e del banchetto nell’Aldilà, sia gli splendidi reperti come la testa di kouros in marmo greco o la grande kore in bronzo che suggeriscono la possibilità di una produzione anche locale atteggiata fedelmente al mondo greco seppur tradotta in stilemi specificamente etruschi”.
“Risale ai primi anni del Duemila”, ricordano gli esperti etruscologi, “la scoperta nella parte bassa della città di un imponente tempio a pianta greca dedicato al dio Tinia, somma divinità degli Etruschi, corrispondente allo Zeus dei Greci. Questo tempio integra la sacra acropoli situata sull’altura – dove si trovano i resti di tre strutture templari, di due altari e della sede augurationis, cioè il punto da cui l’augure eseguiva i riti di fondazione della città- e il cosiddetto Santuario fontile, legato al culto delle acque e a riti di sanatio, situato al di fuori del perimetro urbano”.
“… comunicare l’archeologia …”: il gruppo archeologico bolognese nel ciclo di incontri d’autunno illustra il territorio bolognese dai villanoviani agli etruschi, dal tardo impero al medioevo
Con il viaggio alla scoperta dei “Miti sulla pietra: il poema Ramayana in Indonesia” proposto dall’archeologa Silvia Romagnoli, martedì 18 ottobre 2016, è ufficialmente iniziato il tradizionale ciclo di conferenze del quarto trimestre 2016 “… comunicare l’archeologia …” promosso dal Gruppo Archeologico Bolognese che quest’anno ha concentrato su Bologna e il suo territorio regionale il focus degli incontri: dai villanoviani agli etruschi, dai templari all’archeologia cristiana e medievale, con un excursus sull’alimentazione in età imperiale. Quindi, ancora una volta, un programma ricco in grado di interessare gli appassionati più esigenti, programma reso possibile grazie alle collaborazioni scientifiche che il Gabo ha attivato con il museo della Preistoria “Luigi Donini” di San Lazzaro di Savena, l’università di Bologna, e il museo nazionale Etrusco “Pompeo Aria” di Marzabotto. Costituito nel 1991, il Gruppo Archeologico Bolognese conta tra i suoi iscritti insegnanti di scuole superiori, studenti universitari, archeologi e appassionati di vario tipo, accomunati dal medesimo interesse per la storia della cultura e dell’arte antica. In questi anni di attività, i soci del gruppo si sono occupati di organizzare cicli di lezioni, incontri e visite guidate che avessero come fine quello di supportare la conoscenza e la tutela del patrimonio archeologico, storico e artistico, locale e non solo. Anche quest’anno il centro sociale “G.Costa” in via Azzo Gardino 48 a Bologna ospiterà, salvo rare eccezioni, gli incontri, sempre alle 21, a ingresso libero. Vediamo il programma.
Martedì 25 ottobre 2016, Valentina Manzelli, funzionario archeologo della soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Bologna, sezione Archeologia, propone “Alla ricerca della chiesa perduta. Sant’Agnese in piazza Kennedy a Ravenna”. Martedì 8 novembre 2016, ci sarà il primo incontro con gli archeologi del dipartimento di Storia Culture e Civiltà dell’università di Bologna. L’assegnista Stefano Santocchini Gerg parla di “Felsina Princeps Etruriae. Novità su Bologna villanoviana”. E il martedì successivo, 15 novembre 2016, nel secondo incontro con gli archeologi dell’ateneo felsineo, un altro assegnista, Andrea Gaucci, illustra “Kainua. La nuova fisionomia della città etrusca di Marzabotto tra recenti scoperte e innovazioni della ricerca archeologica”. Da non perdere martedì 22 novembre 2016 l’’intervento di Giampiero Bagni, storico alla Nottingham Trent University, su “I Templari a Bologna. Indagini e ricerche alla Magione Templare di Bologna”. Nel week end successivo (25-27 novembre) gli incontri si interrompono per lasciare spazio a “Imagines: obiettivo sul passato”, rassegna del documentario archeologico, di cui parleremo più avanti.

“Città cristiana, città di pietra”, percorso storico-fotografico alle origini della Chiesa di Bologna
Si riprende in dicembre con gli ultimi due incontri. Ma attenzione. Martedì 6 dicembre 2016 l’incontro è alle 18 e in un’altra sede: la Raccolta Lercaro di via Riva di Reno 57 a Bologna. Isabella Baldini, professore associato di Archeologia Cristiana e Medievale all’università di Bologna, farà scoprire un aspetto interessante e spesso poco conosciuto del capoluogo felsineo: “Città cristiana, città di pietra. Itinerario alle origini della chiesa di Bologna”. Al termine della conferenza sarà possibile la visita al percorso storico-fotografico “Città cristiana, città di pietra. Itinerario alle origini della chiesa di Bologna”. Ultimo incontro, martedì 13 dicembre 2016, prima della cena sociale del successivo martedì 20. Si torna al centro sociale “G.Costa” dove alle 21 Alessandro Degli Esposti, già professore di Letteratura latina e socio del Gabo, approfondirà “Il valore simbolico del cibo in età imperiale”.
Toscana. Il 27 agosto dichiarato Giornata degli Etruschi che apre le “Celebrazioni etrusche”. Eventi in 20 Comuni. A Firenze mostra dei tesori inediti dell’antico santuario etrusco di Poggio Colla in Mugello. Convegno a Chiusi sulla collezione Paolozzi, nucleo del museo nazionale Etrusco di Chiusi

La bolla papale del 27 agosto 1569 con la quale Papa Pio V assegnava a Cosimo de Medici il titolo di Granduca di Toscana
Il 27 agosto 1569 Pio V concesse con bolla papale il titolo di Granduca di Toscana, “Magnus Dux Etruriae”, per Cosimo dei Medici, ossia “la legittimazione storica di quella che era stata la terra degli Etruschi e che possiamo considerare la Toscana moderna”, come ha proclamato il presidente del Consiglio regionale della Toscana, Eugenio Ciani, nell’annunciare che quest’anno, 2016, il 27 agosto viene istituita la Giornata degli Etruschi che apre le Celebrazioni Etrusche, iniziativa dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale, per celebrare l’origine etrusca del territorio toscano, anche attraverso il sostegno a iniziative tematiche promosse dagli enti locali e da musei civici della Toscana, con un ricco programma che coinvolge venti Comuni (vedi http://www.consiglio.regione.toscana.it/upload/COCCOINA/documenti/ETRUSCHI%20Le%20Celebrazioni%20nei%20Comuni(1).pdf). “Il giorno della bolla papale sarà il riconoscimento che ogni anno riserveremo ai nostri progenitori, gli Etruschi, un popolo che ha vissuto un vasto territorio italiano passando dal Lazio all’Umbria, traversando gli Appennini, nella Pianura Padana fino al Golfo di Napoli”, sottolinea Giani. “Un popolo che ha avuto un’influenza determinante e che per mille anni ha in qualche modo dominato prima di essere progressivamente assorbito dai romani. Finora abbiamo fatto meno di quanto dovremmo per valorizzare i nostri progenitori, coloro che mille anni prima di Cristo già indicavano la strada per estrarre i metalli e arrivare all’età del Ferro. Erano il popolo più evoluto in Italia e in generale in questa parte di Europa mediterranea. Cercheremo di fare molto di più con iniziative, manifestazioni, illustrazioni di scoperte che sono sempre più frequenti”.
Sabato 27 agosto 2016 è dunque dichiarata ufficialmente Giornata degli Etruschi. Articolato il programma. Alle 12, consegna della pergamena di riconoscimento alle città che, in periodi diversi ma in Toscana, hanno fatto parte della dodecapoli, ovvero della lega delle principali città Etrusche: tra queste, Arezzo, Volterra, Cortona, Chiusi, Fiesole, Vetulonia (Castiglione della Pescaia), Populonia (Piombino), Grosseto. Poi consegna di uno speciale riconoscimento ad Andrea Pessina della soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato (“Ha fatto tanto per la Toscana”, assicura Giani). Nel pomeriggio, alle 17, a palazzo Panciatichi, in via Cavour 2 a Firenze, sede del Consiglio regionale della Toscana, si inaugura la mostra “Scrittura e culto a Poggio Colla: un santuario etrusco nel Mugello” (27 agosto – 31 dicembre 2016) che per la prima volta mostra reperti inediti rinvenuti nel sito di Poggio Colla, presso Vicchio del Mugello in provincia di Firenze, dove ancora sono in corso gli scavi, reperti archeologici di inestimabile importanza non solo per la conoscenza del territorio, ma anche per lo studio della lingua etrusca. La mostra sul sito etrusco di Poggio Colla è promossa in collaborazione tra Consiglio regionale, soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato e il concessionario di ricerca e scavo, Mugello Valley Archeological Project (Mvap). Il progetto scientifico, elaborato da soprintendenza e MVAP, è seguito dal professor Gregory Warden della Franklin University Switzerland e dall’archeologo Susanna Sarti della soprintendenza. “Siamo consapevoli”, continua Giani, “che degli Etruschi conosciamo ancora molto poco. Ogni giorno arriva notizia di un nuovo rinvenimento, emerge una loro tavola che ci porta a conoscerne meglio la scrittura. È il caso del complesso di Vicchio, dove è stata recentemente scoperta una stele che qualcuno ha paragonato a quella di Rosetta. Non sappiamo se questo sia vero o meno ma sappiamo che i reperti di Poggio Colla sono importanti e per la prima volta pezzi inediti saranno in Consiglio regionale”.
La mostra mira a fare luce sul periodo più antico del santuario etrusco di Poggio Colla, dove – come ricorda Giani – di recente è stata scoperta una stele arcaica in arenaria con caratteri etruschi iscritti. Il ritrovamento è di grande rilevanza perché non solo permette “di comprendere la natura del sito etrusco nel VII-VI secolo a.C.”, come si legge nel progetto scientifico della mostra, “ma accresce la conoscenza della lingua e la scrittura etrusca. Il fatto che la stele fosse collocata nelle fondazioni del podio del monumentale tempio tuscanico costruito intorno al 490, 480 a.C. suggerisce che il santuario di Poggio Colla fosse importante già nella fase più antica, ipotesi confermata da altri preziosi ritrovamenti che vengono qui per la prima volta esposti al pubblico”. Della stele, ancora in fase di studio e restauro, è esposto un ologramma. Il manufatto, che contiene la più lunga iscrizione lapidea conosciuta sino a oggi, è eccezionale per la lunghezza dell’iscrizione, la sua antichità e il suo contesto, ma anche perché non è un oggetto di carattere funerario. Il testo fa infatti riferimento a divinità etrusche e in particolare ricorda il “luogo di Uni”, la più importante divinità femminile degli etruschi, paragonabile alla Giunone dei Romani o alla greca Era. La possibilità che il culto di Uni esistesse a Poggio Colla è testimoniata dal ritrovamento di un frammento di bucchero che, assicurano gli etruscologi, “ha restituito la più antica rappresentazione di parto conosciuta nell’arte europea”, verosimilmente un parto sacro. Altro materiale ritrovato testimonia la ricchezza di attività culturali e rituali tra il VII e il V sec. a.C. Così una raffinata produzione di bucchero decorato, vasi che possono essere associati al banchetto e che testimoniano la presenza di ricche élite già prima della costruzione del tempio monumentale. Sono esposte anche quattro figure in bronzo che sono parte di contesti rituali connessi sia con la fondazione che con la distruzione del tempio. Una figura arcaica mostra tracce di fuoco e abrasioni, probabilmente dovute ad azioni rituali: era parte, spiega il comitato scientifico, di una stipe che doveva contenere più di 400 oggetti e frammenti di bronzo. Una eccezionale testa arcaica in bronzo, probabilmente raffigurante una divinità, ha caratteri grecizzanti e indica la qualità delle importazioni nel santuario. Infine, una base di arenaria di forma piramidale, iscritta con il nome di chi, appartenente alla élite etrusca di Poggio Colla, l’aveva dedicata. Essa attesta, come la stele, l’importanza della parola scritta in una fase molto antica del santuario di Poggio Colla.
Da Firenze a Chiusi per un altro importante appuntamento nell’ambito del ricco programma delle Celebrazioni etrusche. Domenica 28 agosto 2016 al teatro Mascagni di Chiusi è in programma il convegno “Il patrimonio archeologico etrusco a Chiusi”, dedicato principalmente alla collezione Paolozzi, che costituisce un nucleo importante delle collezioni del museo nazionale Etrusco di Chiusi, e vuole essere propedeutico alla pubblicazione integrale della raccolta. Infatti, anche se la figura di Giovanni Paolozzi è stata già oggetto di diversi contributi e alcuni dei materiali della collezione sono stati ben studiati, manca ancora una ricerca di insieme che renda conto del valore quantitativo e qualitativo della raccolta e presenti al contempo, oltre alla famiglia Paolozzi, documenti e donazioni che l’hanno accompagnata, quali ad esempio il busto in marmo che raffigura il collezionista, opera, nel 1873, di Vincenzo Consani, ceduto nel 1907 al museo chiusino. Intenso il programma della Giornata che prevede anche laboratori didattici per i più piccoli al museo nazionale Etrusco di Chiusi e la visita guidata ai musei cittadini e alla necropoli di Poggio Renzo. La mattinata alle 10.30 apre con i saluti del presidente del Consiglio regionale della Toscana, Eugenio Giani, e del sindaco di Chiusi, Juri Bettolini. Seguono gli interventi di Giulio Paolucci (“Giovanni Paolozzi e il patrimonio Archeologico di Chiusi”), Maria Angela Turchetti (“I materiali della Collezione Paolozzi nel museo nazionale Etrusco di Chiusi), Mattia Bischeri (“I materiali della collezione Paolozzi di provenienza visentina”), Alessandra Minetti (“La Tomba della Pania”), Giuseppe Venturini (“Il Cinerario Paolozzi: note tecniche di restauro”). Nel pomeriggio dalle 15, visite guidate al museo civico “La Città Sotterranea”, al museo della Cattedrale – Labirinto di Porsenna, al museo nazionale Etrusco di Chiusi, alla Necropoli di Poggio Renzo. Grazie a questo convegno si pone all’attenzione del pubblico una delle collezioni archeologiche più importanti del territorio chiusino formatasi grazie alla famiglia Paolozzi e soprattutto grazie alle ricerche e acquisizioni di Giovanni Paolozzi che per lascito testamentario ha donato, nel 1907, la parte più cospicua della sua ingente raccolta all’allora museo civico, dal 1962 museo nazionale Etrusco di Chiusi. La collezione – ricorda la soprintendenza Archeologia della Toscana – annovera al suo interno reperti di eccezione quali il Cinerario Paolozzi, il Canopo di Dolciano, le sculture del monumento fatto costruire dalla gens Allia e il mosaico tardo-repubblicano di Monte Venere. L’acquisizione, nel 1876, della Collezione Terrosi permise a Giovanni Paolozzi di entrare in possesso, fra l’altro, del corredo della Tomba della Pania che rappresenta ad oggi il più completo esempio della sepoltura di un princeps chiusino della seconda metà del VII sec. a.C., nota per la pregevole pisside in avorio, (parzialmente riprodotta in locandina) appartenuta ad uno degli individui sepolti nell’ipogeo ed oggi conservata al museo Archeologico nazionale di Firenze.
“L’ombra degli etruschi”: a Prato una mostra ricostruisce le radici etrusche dei popoli a nord dell’Arno, tra pianura e collina
Trenta reperti, alcuni mai visti, una produzione di pregio tra cippi, stele e bronzetti per raccontare una storia ricca di suggestioni, che ricostruisce le lontane radici etrusche di Prato, un tesoro archeologico da Fiesole ad Artimino passando per Gonfienti. La mostra “L’ombra degli Etruschi. Simboli di un popolo fra pianura e collina”, allestita negli spazi a piano terra del museo pratese di Palazzo Pretorio, in programma fino al 30 giugno, è dedicata alle popolazioni etrusche stanziate a Nord del fiume Arno, lungo la direttrice della piana di Firenze-Prato-Pistoia, del Mugello/Val di Sieve e del Montalbano. Una produzione unica. L’allestimento, curato dall’architetto Francesco Procopio, punta a catturare l’attenzione del visitatore evocando suggestioni di altre epoche: un gioco di luci e ombre per esaltare il nucleo dei materiali pratesi (bronzetti e coppa attica) e il profilo austero ed elegante delle “pietre fiesolane”. E per orientare meglio il visitatore in questo viaggio nel tempo e nello spazio c’è una gigantesca mappa che mostra la collocazione geografica dei reperti, ricostruendo al tempo stesso i principali collegamenti etruschi. I monumenti sepolcrali esposti provengono in buona parte dalle collezioni del museo Archeologico di Firenze (come lo straordinario cippo di Settimello o la stele di via di Camporella) oltreché dal museo di Casa Buonarroti di Firenze (stele di Larth Ninie), dal museo Archeologico di Artimino, dal museo di Fiesole, dal museo di Dicomano e dalla Villa Medicea di Cerreto Guidi.
“La maggior parte dei bronzetti votivi – spiegano gli organizzatori – proviene da una collezione privata, cui si affianca un inedito che arriva dagli scavi di Gonfienti (area Interporto) e mai esposto prima. Questi reperti erano destinati a un ceto medio “allargato” piuttosto che all’aristocrazia etrusca; venivano prodotti in loco e rappresentavano la dedica dell’offerente alla divinità. Due esemplari si distinguono per l’alta qualità artistica e per la ricchezza dei dettagli: l’Offerente di Pizzidimonte conservato al British Museum di Londra dalla fine dell’Ottocento, di cui si espone una riproduzione e il giovane nudo, forse proveniente dalla stessa area, che faceva parte delle collezioni più antiche del museo Archeologico nazionale di Firenze. La seconda sezione (Figure di pietra) illustra la produzione delle “pietre fiesolane”, parte integrante dei tumuli sacri che costellavano le grandi vie di comunicazione fluviali e terrestri lungo il corso dell’Arno e dei suoi affluenti. Terre di viaggio e luoghi sacri per gli etruschi che non di rado si fermavano lungo il cammino per pregare”.
Per chi desidera approfondire i temi affrontati dalla mostra come la distribuzione sul territorio, l’iconografia e la storia degli studi, delle iscrizioni e dei collegamenti culturali, è disponibile il catalogo (edito da Edifir – Edizioni Firenze) in cui per la prima volta viene pubblicato l’intero repertorio aggiornato delle “pietre fiesolane” (circa cinquanta esemplari) con le ultime scoperte. Preziosa la collaborazione dell’etruscologo Adriano Maggiani sulle iscrizioni etrusche presenti sulle pietre e dell’archeologo Gregory Warden per una nuova scoperta dall’area di Vicchio.
A Cortona la mostra “Etruschi maestri di scrittura. Cultura e società nell’Italia antica”. Per la prima volta assieme i più importanti testi in etrusco: dalla mummia di Zagabria alla Tabula Cortonensis, dalla Tegola di Capua alle lamine auree di Pyrgi, dal Cippo di Perugia al fegato di Piacenza. Tutte le novità su una scrittura in parte ancora avvolta dal mistero
A scorrere l’elenco dei “pezzi pregiati” ti sembra di sfogliare una pagina di un qualsiasi manuale di Etruscologia alla voce “Scrittura etrusca”: dal Liber Linteus della Mummia di Zagabria (200 righe, 1200 parole leggibili, la testimonianza più estesa arrivata ai giorni nostri) alla Tegola di Capua (un calendario di cerimonie funerarie), dalla Tabula Cortonensis (atto giuridico riguardante una compravendita, o forse un’eredità), alle lamine auree di Pyrgi (testo bilingue etrusco/fenicio), dal Cippo di Perugia (arbitrato su possedimenti terrieri), al Fegato di Piacenza (un modellino in bronzo di fegato di ovino utilizzato dagli aruspici per l’arte divinatoria), fino al Piombo di Magliano (una lamina a forma di cuore che riporta indicazioni di preghiere). Ci sono proprio tutti i principali testi in etrusco. Ma qui non si tratta di ripercorrere le straordinarie quanto scarne testimonianze epigrafiche della civiltà etrusca giunte fino a noi, quanto di vederle tutte insieme eccezionalmente. Succede nella mostra “Etruschi maestri di scrittura. Cultura e società nell’Italia antica” aperta al Maec di Cortona (Arezzo) dal 19 marzo al 21 luglio 2016. L’ospite di riguardo più atteso, una delle testimonianze più importanti dell’epigrafia etrusca, la Mummia di Zagabria, il testo etrusco finora conosciuto più lungo al mondo, è già arrivato in questi giorni al museo dell’Accademia etrusca e della Città di Cortona. Per la Mummia è la prima volta in Italia: ad accoglierla il sindaco Francesca Basanieri con Laurent Haumesser, curatore del museo del Louvre, e alcuni funzionari della soprintendenza Archeologia della Toscana e del Museo di Zagabria. L’esposizione “Etruschi maestri di scrittura”, spiegano i curatori, intende dimostrare, con il nuovo catalogo, i progressi negli studi nella sintassi e nella grammatica, attraverso una rilettura e una nuova interpretazione di molti epigrafi e alcune novità assolute. Le iscrizioni (siano esse su oggetti di uso quotidiano, su oggetti di culto, su statue o su atti) saranno classificate in mostra per settori di appartenenza: dalla sfera del rito a quella del sacro, dall’ambito funerario a quello giuridico.
Sono più di trent’anni che non si organizzano mostre internazionali sulla scrittura etrusca. È per questo che, alla luce delle recenti scoperte di epigrafi etrusche vicino a Montpellier e al ritrovamento a Cortona del terzo più lungo testo etrusco esistente, la Tabula cortonensis, il museo del Louvre, il museo Henri Prades di Lattes (dove la mostra è rimasta fino al 29 febbraio) e il Maec di Cortona hanno deciso di progettare questo grande evento archeologico che illustra ai visitatori, come mai prima d’ora era stato fatto, la diversità dei supporti e delle tecniche di scrittura, così come le scoperte degli ultimi anni di studi in materia. Sono 77 testimonianze epigrafiche, provenienti da 18 musei italiani ed esteri (tra cui Louvre, Villa Giulia e Museo di Zagabria), lasciate in eredità su anfore di bucchero, tegole di terracotta, lamine d’oro, specchi bronzei, cippi in pietra, e perfino sull’unico libro di lino pervenuto dall’antichità, utilizzato per avvolgere una mummia e contenente un calendario rituale che potrebbe — stando a recenti scoperte ermeneutiche — avere elementi cerimoniali comuni alla liturgia cristiana. Tutte queste testimonianze hanno contribuito a districare il mistero che avvolge le parole degli Etruschi che restano per certi versi ancora misteriose. Sono infatti irrisolti i significati specifici di molte parole, in particolare quelle che non presentano parentele con le lingue antiche più note. La difficoltà di comprensione della scrittura etrusca dipende infatti essenzialmente dalla scarsità di testi lunghi e dalla ripetitività dei testi brevi in nostro possesso, spesso di natura funeraria, giuridica o commerciale. “Cortona”, sottolinea la vicepresidente e assessore alla Cultura della Regione Toscana, Monica Barni, “è il polo attrattore regionale della rete toscana di un centinaio di musei archeologici nell’ambito del programma di valorizzazione del patrimonio storico-artistico che vogliamo completare nei prossimi anni. Sono convinta che le lingue rappresentino un legame di comprensione e sentimento tra i popoli fuori dai canoni; distrutto nel racconto della Torre di Babele, quel legame si potrà riallacciare a partire dalla rinascita della comprensione reciproca anche attraverso il confronto linguistico e la conoscenza delle radici”.
“Da sempre”, spiegano gli organizzatori, “un alone di mistero — creato spesso intenzionalmente — avvolge il mondo degli Etruschi, che vissero in Italia 2700 anni fa, prima di venire assorbiti dai Romani, a seguito di una profonda contaminazione sociale, culturale e religiosa. In realtà, dei cosiddetti Rasenna sappiamo molto: da dove provenivano (dalla Lidia, nel rispetto della versione tramandata da Erodoto), cosa mangiavano, cosa commerciavano, quali divinità veneravano. Sappiamo che erano tanto raffinati nelle manifatture e nelle arti figurative quanto feroci nelle imprese per mare (e pare ovvio, visti i coinquilini europei del I Millennio avanti Cristo). Inoltre, siamo a conoscenza del fatto che scrivevano: utilizzavano un alfabeto di derivazione greca e una struttura sintattica elementare simile al latino, e ci hanno consegnato qualche migliaio di vocaboli (soprattutto toponimi, antroponimi e appellativi) dei quali troviamo corrispondenza nella lingua dell’antica Roma, come fa notare il noto linguista sardo Massimo Pittau”. “Con l’arrivo della scrittura in Etruria”, interviene l’etruscologo Giovannagelo Camporeale, “siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione antropologica e la mostra vuole esaltare questa eccezionalità. Ancora conosciamo poco la lingua etrusca, perciò i pannelli illustrativi sono di carattere generale e si limitano a fornire un inquadramento storico- culturale dei testi”. Ma per Massimo Pittau, che da 35 anni studia i testi etruschi e che recentemente ha avanzato due proposte di traduzione per il complicatissimo Liber Linteus e per il Piombo di Magliano, “la lingua etrusca non è un mistero. Possediamo un patrimonio lessicale di oltre 200mila voci latine e greche, ed è un’assurdità pensare che un popolo che è stato in contatto con i greci e i latini, non abbia condiviso questo rapporto di reciproca influenza linguistica”. Grande attenzione è stata riservata all’allestimento della mostra nelle sale di Palazzo Casali, un’esposizione che vuole trasformare il segno della scrittura etrusca in una forma d’arte, al limite del design, con una grafica innovativa e coinvolgente. Di qui a luglio saranno numerose le iniziative culturali previste: conferenze, convegni, mostre di arte contemporanea. “Etruschi maestri di scrittura” rappresenta un appuntamento imperdibile per chi ama gli etruschi nonché una delle più importanti mostre archeologiche in Italia nel 2016. Il catalogo della mostra è di Silvana Editoriale e rappresenta un approfondimento fondamentale per una comprensione della lingua etrusca.
Parco archeologico di Vulci. Scoperto nella “tomba dello Scarabeo d’oro” (fine VIII sec. a.C.), inviolata, il tesoro di una principessa etrusca bambina salvato al saccheggio dei tombaroli. Ad aprile scavi sistematici nell’area vulcente con archeologi internazionali
La chiamano “archeologia d’emergenza”. E stavolta non solo è stata tempestiva, ma anche coronata di successo. Succede a Vulci lo scorso febbraio. Una tomba nel parco archeologico di Vulci è a rischio saccheggio da parte dei tombaroli. Il pronto intervento della soprintendenza insieme all’ente Parco di Vulci permette di salvare una tomba dagli scavatori clandestini, riportando alla luce un piccolo tesoro appartenente a una principessa bambina: il corredo di una inumazione intatta, datata all’Orientalizzante Antico, cioè tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C., il periodo più antico dell’Etruria. Una scoperta importante che ha convinto un gruppo internazionale di archeologi ad avviare a Vulci una nuova campagna di scavo sistematica dal prossimo 4 aprile.

Il tesoro della principessa bambina: corredo funebre intatto della Tomba dello scarabeo d’oro nei laboratori della Fondazione Vulci

Lo scarabeo, di produzione egizia, incastonato in argento con foglia d’oro, che ha dato il nome alla tomba etrusca della fine VIII sec. a.C.
Gli oggetti rinvenuti a febbraio sono stati portati nel Laboratorio di Analisi e Diagnostica di Montalto di Castro e prontamente sottoposti a un accurato intervento di conservazione da parte dei restauratori della Fondazione Vulci che ora hanno ricomposto il risultato del microscavo di emergenza nella cosiddetta Tomba dello Scarabeo d’oro (dall’oggetto più importante rinvenuto) nella necropoli di Poggio Mengarelli all’interno del Parco Archeologico Naturalistico di Vulci: tomba a fossa con cassa (anche detta “sepoltura a cassetta”) in materiale tufaceo inviolata, con all’interno un sarcofago di una fanciulla, presumibilmente deceduta intorno ai 13-14 anni di vita, seppellita insieme al suo preziosissimo corredo funebre: una rara “torque” fenicia (sorta di girocollo in ambra), due scarabei egizi (uno dei quali splendido incastonato in argento con foglia d’oro), fibule e vasellame di rara fattura. Si tratta verosimilmente di gioielli che le sono stati regalati alla nascita e servivano a testimoniare il suo alto lignaggio nell’aldilà. Della principessa restano solo alcune ossa, avvolte in un prezioso telo. Gli approfondimenti antropologici del sarcofago hanno portato anche a formulare l’ipotesi che la defunta fosse una principessa etrusca, una dignitaria da collocare nella nascente aristocrazia etrusca.
“Con la Grande campagna di scavi vulcenti che partirà in aprile, a Vulci, si aprirà una nuova pagina dell’archeologia etrusca, considerando che i ritrovamenti vulcenti sono tra i più ricchi del patrimonio di quella civiltà”, sottolinea Alfonsina Russo, soprintendente per l’Etruria meridionale del Lazio, alla conclusione del microscavo col ritrovamento del “tesoro della principessa”. E l’archeologo Carlo Casi, direttore scientifico del Parco archeologico di Vulci: “All’epoca della tomba dello Scarabeo d’oro, cioè alla fine dell’VIII sec. a.C., Vulci era una megalopoli straordinaria, estesa su oltre 100 ettari, dall’entroterra al mare, abitata da molte migliaia di persone. La sua eccezionalità è che nulla è stato più edificato sopra quelle aree. Una vasta campagna di scavi non può quindi che portare a risultati di grande importanza internazionale”.
Tomba ipogea etrusca del III secolo a.C. di Città della Pieve (Pg): recuperato il grande sarcofago e urne cinerarie

La tomba etrusca ipogea scoperta in località San Donnino Fondovalle, nel comune di Città della Pieve (Perugia)
Trenta quintali di storia tutta da studiare. È stato recuperato nel tardo pomeriggio di sabato 28 novembre 2015 anche l’ultimo sarcofago dalla camera funeraria etrusca del III secolo a.C. scoperta un mese fa in un terreno agricolo nei pressi di Città della Pieve, in provincia di Perugia. L’intervento, di particolare delicatezza, date le dimensione del manufatto appunto di oltre trenta quintali, è stato possibile grazie al contributo di attrezzature e uomini del corpo dei Vigili del fuoco, sotto l’assiduo controllo di Francesco Giordano, funzionario della soprintendenza.

Il pesante sarcofago con il defunto ritratto sdraiato, con patera in mano, sul fianco sopra il coperchio
La tomba era stata scoperta in modo fortuito (come spesso accade) sul finire dell’ottobre scorso in località San Donnino Fondovalle, nel comune di Città della Pieve: una sepoltura ipogea, scavata nel terreno naturale, che presenta un ambiente a pianta rettangolare di circa 5 mq, parzialmente interrato da movimenti franosi. Al suo interno – già al momento della scoperta – erano visibili due grandi sarcofagi, uno dei quali recante una lunga iscrizione etrusca, riferibile al defunto, oltre a due urne cinerarie con personaggio maschile sdraiato su un fianco, in travertino alabastrino, una pietra bianca con venature e tessitura fine. Immediatamente il soprintendente per i beni archeologici dell’Umbria Elena Calandra si era recata con l’archeologa di zona Clarita Natalini dal sindaco di Città della Pieve Fausto Scricciolo e dall’assessore alla cultura Carmine Pugliese, per definire un pronto intervento sul sito costantemente presidiato dai carabinieri. Di lì a pochi giorni sarebbe iniziato lo scavo, che si è concluso sabato scorso, sotto la direzione di Clarita Natalini, della Soprintendenza, si sono avvalse delle archeologhe Silvia De Fabrizio, Francesca Bianco, Benedetta Droghieri e Andrea Pagnotta.
Nei giorni precedenti la rimozione del pesante sarcofago, dopo lo scavo del “dromos” (il corridoio che conduce all’ingresso della sepoltura) e la rimozione della porta a doppia anta, sono stati messi in sicurezza gli altri materiali rinvenuti. In particolare una terza urna, della stessa tipologia delle altre, che reca un coperchio con sopra un defunto in posizione coricata, la cui testa presenta tracce di colore e pupille disegnate. Dallo stesso scavo sono emersi anche una serie di vasetti miniaturistici in ceramica acroma, oltre a un’olla e un’anfora dal corpo ovoidale. Tra i reperti metallici, emersi frammenti di uno strigile e un’olletta in bronzo. Ai piedi del sarcofago con iscrizione – riferisce la soprintendenza umbra – è stata rilevata la presenza di una testa, con evidente frattura alla base del collo, che ritrae un personaggio maschile, calvo, di cui al momento non è chiaro il contesto di appartenenza. Tutto il materiale è stato trasportato al museo civico di Santa Maria dei Servi, a Città della Pieve, dove sono previsti interventi di consolidamento e restauro. “Sarà così possibile – concludono in soprintendenza – una più accurata lettura del complesso di età ellenistica, di cui si darà conto alla collettività”.
Etruria. Dopo quasi mezzo secolo di odissea il Cratere e la Kylix di Eufronio, capolavori della ceramica attica del V sec. a.C., tornano a casa a Cerveteri. Per sempre
Un’odissea durata quasi mezzo secolo. Ma ora è stata detta la parola fine: il Cratere e la Kylix di Eufronio, due capolavori assoluti della ceramica attica del V sec. a.C., rimarranno per sempre a Cerveteri, la loro casa. Lo ha annunciato il ministro per i Beni culturali e il turismo, Dario Franceschini. E il direttore regionale del polo museale del Lazio, Edith Gabrielli, ha già firmato l’atto che prevede il trasferimento definitivo delle due opere dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma al museo nazionale Cerite di Cerveteri, dove entrambi i capolavori sono esposti in via provvisoria dal dicembre 2014 per la mostra “I capolavori di Eufronio”, che chiuderà il 20 gennaio 2016. Fu proprio in occasione della vernice della mostra ceretana che il ministro Franceschini, pressato dal giovane sindaco Alessio Pascucci, non escluse la possibilità che le due opere di Eufronio, simbolo della lotta contro il traffico illecito di reperti archeologici, potessero in futuro rimanere definitivamente a Cerveteri (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2014/12/22/il-cratere-di-eufronio-capolavoro-del-v-secolo-torna-con-una-mostra-a-cerveteri-a-40-anni-dal-trafugamento-ora-e-accanto-allaltro-capolavoro-di-eufronio-la-kylix-e-si-pensa-farlo-restare/). E così è stato. “Da anni gli storici dell’arte ci ricordano che l’unicità e la forza del nostro Paese sta nel collegamento musei/territorio”, sottolinea Franceschini. “Questa scelta va concretamente nella direzione di rafforzare questo legame. Anche i numeri poi ci danno ragione ricollocare le opere d’arte nei loro luoghi d’origine e puntare su un turismo sostenibile e diffuso, che non si concentri solo sulle grandi città d’arte, è una carta vincente. Il ritorno a casa del cratere e della kylix di Eufronio fa parte di una strategia nazionale di attenzione al territorio che incrocia i piani strategici di promozione turistico-culturale con la ricerca di un turismo colto, di qualità, capace di apprezzare un’offerta rinnovata”.
Trafugato dai tombaroli nel 1971 ed esportato illegalmente negli Usa dove è stato esposto per lunghi anni in una teca del Metropolitan di New York il Cratere di Eufronio, capolavoro dell’arte attica del V secolo a.C, era poi rientrato in Italia nel 2006 e collocato al Museo di Villa Giulia a Roma. A dicembre 2014 era stato trasferito temporaneamente a Cerveteri, sua casa d’origine, dove ora resterà in via definitiva insieme all’altro capolavoro di Eufronio, la Kylix (coppa da vino) anch’essa uscita dall’Italia illegalmente e al centro di una travagliata contesa internazionale che l’ha vista restituire definitivamente all’Italia alla fine degli anni novanta dal Getty Museum di Malibù.

La kylix di Eufronio a Cerveteri da maggio 2014, era stata restituita nel 1999 dal Getty Museum di Malibu
La presenza dei due capolavori nel museo di Cerveteri, fa notare ancora Franceschini, “ha avuto effetti significativi sull’indotto turistico locale: nel solo 2014, grazie al rientro temporaneo del Cratere di Eufronio e della kylix, i visitatori del Museo Nazionale Cerite sono aumentati del 75%, mentre nei primi nove mesi del 2015 il totale dei visitatori del museo ha superato quello dell’intero 2014 – da gennaio a settembre sono stati 23075 contro i 22164 registrati tra gennaio e dicembre dell’anno scorso. Un effetto trainante che ha coinvolto anche la Necropoli della Banditaccia dove nei primi nove mesi di quest’anno il totale dei visitatori è stato di gran lunga superiore a quello dell’intero 2014 (69255 ingressi da gennaio a settembre contro i 49770 registrati da gennaio a dicembre dell’anno scorso). Crescite significative hanno riguardato anche il museo nazionale etrusco di villa Giulia a dimostrazione che la crescita dei visitatori di Cerveteri non è avvenuto a discapito della storica sede espositiva”.
Incontenibile la soddisfazione del sindaco della cittadina laziale Alessio Pascucci all’annuncio del ministro: “Oggi Cerveteri è protagonista del mondo proprio come tremila anni fa. Dopo essere stati trafugati e portati lontano dalla nostra città più di 40 anni fa tornano a casa per rimanerci. È un risultato storico, la notizia più importante che potevamo ricevere e che premia il duro lavoro di questi tre anni e gli incredibili risultati di presenze turistiche avute nella nostra città”. A lui fa eco il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: “Ringrazio il ministro Dario Franceschini per la decisione di lasciare al Museo di Cerveteri il Cratere di Eufronio. È un’ottima notizia e un fatto di straordinaria importanza. Valorizza il territorio e va incontro alla comunità di Cerveteri che ha avanzato con forza questa richiesta. Questa scelta rilancia sicuramente un’area che con il museo, la necropoli etrusca, e a pochi chilometri il Castello di Santa Severa, sta assumendo un ruolo sempre più importante nella nostra regione e in Italia. Noi continueremo a fare di tutto per essere vicini al Comune e alle soprintendenza in questo lavoro di rilancio di una vocazione turistico culturale”.
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