Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina


Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024
Quante volte ci siamo interrogati sul significato delle scene rappresentate sui vasi conservati nelle collezioni dei Musei? Un patrimonio di storie figurate tramandate fino a noi: paesaggi in fermo immagine, personaggi in movimento, miti perduti o metafore di storie contemporanee. Tutto questo traspare dalla lettura delle opere riemerse dalle sabbie di Spina, oltre cento anni fa, quando la sorpresa e la meraviglia colse gli operai impegnati nei lavori di bonifica delle valli Trebba e Pega. Attraverso quelle raffigurazioni possiamo conoscere molto dell’immaginario collettivo nel mondo antico, possiamo rileggere il mito e anche riprodurre la realtà, con gli occhi dei Greci. Comincia così l’introduzione al quarto episodio del video-racconto in 19 puntate “Rasna. Una serie etrusca”, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, prodotto dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, approfondimento della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Dopo aver conosciuto i primi tre episodi – 1. la Grande Etruria, 2. Ulisse ed Eracle, 3. Caere/Pyrgi e Delfi – (vedi Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco i primi tre episodi: la Grande Etruria, Ulisse ed Eracle, Caere/Pyrgi e Delfi | archeologiavocidalpassato) ecco altri tre video-racconti: il 4, 5 e 6.

Cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore dei Satiri Villosi, con gigantomachia, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“I Greci avevano una parola precisa per designare condotte che si allontanavano dalla loro idea di morale o del vivere civile: hybris”, spiega Valentino Nizzo. “In italiano la rendiamo solitamente con un termine un po’ desueto, tracotanza, che tuttavia sarebbe assai opportuno ancora per descrivere molte situazioni che affliggono il nostro quotidiano. La hybris per eccellenza negli scenari del mito era quella dei Giganti, esseri divini dalla forza iperbolica, nati dalla terra e dunque a partire dall’ellenismo – ma io ritengo anche prima – rappresentati con la parte inferiore del corpo anguipede, cioè terminante con dei serpenti. Una delle loro rappresentazioni più efficaci è quella dei rilievi dell’altare di Pergamo, oggi a Berlino. Nel V secolo, tuttavia, la loro immagine non differisce da quella degli Dei con i quale avevano intrapreso una drammatica lotta per il controllo dell’Olimpo, come possiamo vedere nei due splendidi vasi con gigantomachia del museo Archeologico nazionale di Ferrara protagonisti del quarto video di “Rasna. Una serie etrusca”. L’unica differenza, tuttavia essenziale, riguarda le modalità di combattimento che li vede agire unicamente lanciando pietre colossali, grandi spesso come isole, al punto che i Greci riconducevano alla loro azione alcuni dei loro arcipelaghi. Si trattava dunque di un modo barbaro e incivile di lottare, al quale gli Dei dell’Olimpo contrapponevano le loro molteplici abilità, chi col fulmine, chi con il tridente, chi con forse meno efficaci kantharoi o fiaccole. Se, tuttavia, non avessero avuto l’aiuto di un mortale gli Dei non sarebbero mai riusciti a prevalere. Ma non un mortale qualunque. Eracle che con questa impresa, più che con le dodici fatiche, aveva meritato la sua apoteosi sull’Olimpo. Ma cosa c’entrano con tutto questo gli Etruschi? – si chiede Nizzo -. La loro tracotanza era proverbiale, sempre agli occhi dei Greci e la loro presunta discendenza da un popolo semidivino e immerso nel mito come i Pelasgi aveva forse favorito la loro assimilazione ai figli della terra, abili con le pietre così come si riteneva lo fossero i proverbiali costruttori delle mura cosiddette pelasgiche. Ma a questa analogia si aggiungevano forse anche degli elementi storici legati alla prima battaglia di Cuma nella quale Aristodemo nel 524 a.C. aveva sconfitto una temibile armata guidata dai Tirreni del golfo Ionio, quelli dell’area Padana dove contemporaneamente nasceva Spina”.
“4. ETRUSCHI E GIGANTI”. “Tra le più grandi perdite del mondo antico figura senza dubbio la scomparsa di gran parte e degli affreschi in cui i Greci eccellevano”, spiega Nizzo. “Li conosciamo attraverso racconti indiretti, testimonianze frammentarie come quelle di Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia o di Pausania o di Strabone. Fanno rabbrividire rispetto a quello che possiamo immaginare sia andato perso per sempre. I pittori greci erano in grado di ingannare addirittura con effetti 3D. Ci sono racconti che descrivono uccelli che provano ad afferrare i grappoli d’uva dipinti così realisticamente da ingannare anche la natura. Tutta quest’arte, al di là delle descrizioni delle poche fonti superstiti, la conosciamo indirettamente attraverso testimonianze figurate che sono grandi opere, ma dell’artigianato, non della grande arte.

Ceramiche esposte nella mostra “Spina etrusca: un grande porto del Mediterraneo” al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-emilia-romagna)
“Il museo Archeologico nazionale di Ferrara – continua Nizzo – custodisce uno degli scrigni più importanti anche da questo punto di vista, grazie alle migliaia di vasi attivi integri o in frammenti e di dimensioni cospicue come questi grandi crateri che per le loro dimensioni consentono di avere una lontana idea di quello che dovevano essere le grandi pitture perse per sempre. Chiaramente i colori sono quelli piatti della ceramica attica, quella più antica a figure nere, quella più recente a figure rosse. Non potremo mai recuperare la policromia o dettagli e sfumature. Polignoto all’inizio del V secolo era riuscito a imprimere nei suoi personaggi il pathos, a fargli dischiudere la bocca mostrando addirittura i denti, un particolare che viene notato dai critici del tempo, a infondere naturalezza, a creare dei paesaggi, delle sovrapposizioni tra i personaggi. Un altro aspetto interessante di questo discorso è legato al linguaggio che queste pitture consentivano di esprimere, che non è mai un linguaggio soltanto per intrattenere il pubblico che le osservava. Come nelle grandi cattedrali, si volevano raccontare storie a un pubblico prevalentemente analfabeta ed erano storie collegate al mito, al patrimonio mitico e all’immaginario dei greci, ma anche alla storia contemporanea reinterpretata attraverso il mito. La saga dei “Sette contro Tebe” è tra le realtà maggiormente evocate all’inizio del V secolo per richiamare lo scontro fratricida che divideva i Greci e che gli unì contro i Persiani. Lo scontro fratricida di Eteocle contro Polinice che è una sorta di metafora delle contese che separavano le città greche del tempo, unite finalmente contro il barbaro persiano.

Cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore dei Niobidi con raffigurata una Gigantomachia, proveniente dalla Tomba 313 della necropoli di Valle Trebba di Spina, e conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“Un altro mito che evocava lo stesso orizzonte della libertà riconquistata – approfondisce Nizzo – è quello della gigantomachia. I Greci percepiscono se stessi come gli dei dell’Olimpo che, con l’aiuto di un uomo diventato semidio, Eracle, riescono a contrastare i Giganti che volevano conquistare l’Olimpo. I figli di Gea, che combattevano soltanto con delle pietre colossali, ambiscono per la loro forza, le loro dimensioni sovrumane, a contendere il potere agli dei dell’Olimpo di un’altra generazione. E qui vediamo una delle diverse gigantomachie che sono state restituite dalle sabbie di Spina. Risale al 460-450 a.C. ed è attribuita al Pittore dei Niobidi o alla sua cerchia. È stata rinvenuta in una delle migliaia di tombe della necropoli di Valle Trebba e qui, sul suo lato principale, vediamo raffigurato l’unico essere umano che partecipa a questa contesa: Eracle. Un oracolo aveva detto che gli dei dell’Olimpo avrebbero potuto sconfiggere i Giganti solo grazie all’aiuto di un uomo e quest’uomo era Eracle che meritò, non solo per le sue dodici fatiche, ma per l’aiuto dato agli dei dell’Olimpo, quell’unione con loro, tra gli dei, la vita eterna, la giovinezza eterna, e la compagnia della giovinetta Ebe, un premio dopo tutte le fatiche che avevano caratterizzato la sua esistenza. Qui è con il suo celebre arco che sta scagliando una freccia contro forse il capo dei giganti Porfirion, qui ormai atterrato, aggredito anche da Atena, la dea che protegge e segue in tutte le peripezie di Eracle, che lo sta anch’essa trafiggendo. I serpenti della sua egida lo mordono e dal cielo cade uno dei fulmini scagliati da Zeus. E così lungo il seguito del vaso ognuno degli altri dei dell’Olimpo contrasta un gigante. Abbiano Ares, Efesto, Ecate, Hera. Insomma non ne manca nessuno. Nemmeno Dioniso, Apollo e Artemide si sottraggono a questo scontro.

Dettaglio con la falce di luna: cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore dei Satiri Villosi, con gigantomachia, da Spina, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“Ma in un altro vaso lo vediamo raccontato con un linguaggio leggermente diverso. Sono passati tra i dieci e i venti anni, siamo intorno al 440-430 a.C. Questo cratere a calice è attribuito al Pittore di Polignoto o a un gruppo a lui vicino, al Pittore dei Satiri Villosi. Rappresenta la stessa scena, ma occupando tutta l’ampiezza del corpo del cratere, creando quindi una sovrapposizione tra i personaggi, proprio nello stile dell’arte e delle megalografie dell’inizio del secolo. Siamo in un cratere recuperato sempre a Spina, ma purtroppo senza il contesto. È un recupero della Guardia di Finanza. E tuttavia siamo di fronte a un’opera integra come poche altre. E qui quello che colpisce, e colpì l’attenzione dei primi interpreti, è in questo spicchio di luna che appare nel cielo accanto alla quadriga guidata da Nike, la dea della vittoria, quella che coronerà di successo l’impresa degli dei dell’Olimpo e di Eracle. Sembra che sia un riferimento al mito che voleva che la Luna e il Sole fossero stati eclissati per impedire a Gea, alla dea della Terra, madre dei Giganti, di aiutarli con un farmaco. Questa oscurità impedisce quindi di aiutare i Giganti che soccombono grazie appunto anche all’aiuto di Eracle. È il loro trionfo, e quello dell’uomo che diventerà dio grazie a questa impresa, il protagonista di questi vasi. Qui il tutto viene raccontato tramite ispirazione diretta alle raffigurazioni di questo mito fatte da Fidia nel Partenone, sullo scudo della grande Atena cui probabilmente si ispira quest’opera. E da cui ricaviamo la cronologia di questo vaso.

Mappa dall’Egeo al Tirreno: segnati il monte Olimpo e i Campi Flegrei (foto etru)
“Cosa c’è dietro questi miti? L’ho già detto, c’è la volontà di richiamare la capacità degli uomini di primeggiare sulla brutalità dei Giganti – sottolinea Nizzo -. C’è un rifermento agli eventi della storia contemporanea, in particolare a quelli che riguardano i Persiani, ma questo mito è stato utilizzato probabilmente anche come metafora di altri barbari, gli Etruschi, che alla pari dei Persiani, dovevano essere sembrati ai Greci dei giganti da sconfiggere e questo, secondo alcuni, giustifica lo spostamento del luogo della battaglia tra gli dei dell’Olimpo con i Giganti dall’area ai piedi del monte Olimpo, la piana di Flegra, ai Campi Flegrei in Campania, caratterizzati da acque sulfuree che dovevano ricordare i Giganti fulminati da appunto il fulmine di Zeus. Sono i fenomeni tellurici che caratterizzano i Campi Flegrei e che lasciano l’idea di Giganti imprigionati al di sotto della terra, ma forse anche un’allusione a quella grande battaglia che a Cuma si svolge nel 524 a.C. e che vede primeggiare, quasi fosse un dio, Aristodemo, destinato a divenire tiranno come Eracle. L’uso ideologico della Gigantomachia potrebbe quindi avere avuto una localizzazione in Occidente ed essere stato applicato non solo a barbari come i Giganti e i Persiani, ma anche a dei giganti come gli Etruschi, o almeno agli occhi dei Greci così dovevano apparire, forse anche in virtù di quella discendenza presunta dai Pelasgi che, per la loro capacità di costruire grandi murature in opera poligonali, avevano assunto quasi la parvenza di esseri più simili agli dei che agli uomini, esseri divini. E i Tirreni, essendo i discendenti dei Giganti, potevano favorire nel mito e nell’ideologia questa assimilazione. Questo e molte altre cose vasi come questi ce lo raccontano, imprimendo in questo piccolo spazio la grande arte, altrimenti destinata a scomparire, e raccontando la grande storia, ricordando sempre che qui dentro si miscelava l’acqua con il vino per servirlo durante il simposio e durante il simposio questi racconti dovevano essere cantati accompagnati da fiati, da una bella musica e dai piaceri dello stare insieme.

Dettaglio del cratere con i Sette contro Tebe da Spina, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto etru)
“Il cratere dei Sette contro Tebe è certamente la raffigurazione più completa del ciclo dei Sette contro Tebe sopravvissuta nella ceramica attica del V secolo quella del cratere della tomba 579 di Valle Trebba a Spina. Risale probabilmente all’epoca di Cimone, l’età d’oro della talassocrazia ateniese. “Siamo dunque intorno al 460-450 a.C. e gli Ateniesi celebrano le proprie glorie piegando le immagini del mito alle proprie ambizioni e ideologie”, spiega Valentino Nizzo. “La gigantomachia, di cui abbiamo parlato nel precedente episodio, e i Sette contro Tebe sono i due più fulgidi esempi di tale approccio. Sia l’uno che l’altro alludevano infatti al trionfo sui temibili Persiani di pochi anni prima. Tracotanti come i Giganti. Agli usurpatori d’oriente si erano colpevolmente alleati i Tebani, tradendo i loro connazionali e, dunque, divenendo meritevoli della condanna e della punizione divina che aveva colpito la stirpe del re di Tebe, Edipo, culminata con lo scontro dei suoi due figli, Eteocle e Polinice, morti l’uno per mano dell’altro nella contesa fratricida per il trono paterno. Il cratere di Spina mostra sia lo scontro dei Sette che quello risolutivo dei loro figli, gli epigoni. Una associazione rarissima e carica di significati che sarebbe stata magnificamente immortalata in quegli stessi anni da Eschilo.

Frontone del Tempio A di Pyrgi conservato al museo nazionale di Villa Giulia a Roma (foto etru)
“Ma anche gli Etruschi adottarono questo mito per i propri scopi ideologici in uno dei loro capolavori più importanti, l’altorilievo di Pyrgi realizzato anch’esso intorno al 460 a.C. In occasione della mostra Spina Etrusca a Villa Giulia ho voluto collocare per la prima volta il cratere e l’altorilievo l’uno accanto all’altro. Una occasione unica per osservare e comprendere un messaggio che non ha tempo e che dall’antichità ad oggi continua a rappresentare un monito contro ogni forma di barbarie e inciviltà. Come ho provato a raccontare in meno di 10 minuti con questo 5° video di “Rasna. Una serie etrusca”.
“5. IL CRATERE DEI SETTE CONTRO TEBE”. “Sono davanti a uno dei capolavori della ceramografia attica”, precisa Valentino Nizzo. “È un’emozione vedere così da vicino una delle più importanti raffigurazioni del mito dei Sette contro Tebe, una delle leggende più importanti dell’antichità greca, carica di significati ideologici, particolarmente cara al mondo greco del V sec. a.C. Questo cratere è stato rinvenuto nel 1926 nella Tomba 579 di Valle Trebba. Non era comune trovare quasi integralmente conservato un monumento come questo, fragile ma così comunicativo, ancora oggi, dopo più di 2500 anni. È attribuito al Pittore di Bologna 279. Il nome non rende l’idea della capacità di questo ceramografo che si è confrontato con un tema che era andato alla ribalta all’indomani della vittoria dei Greci contro i Persiani nelle guerre persiane, quelle descritte da Erodoto. Una vittoria che aveva visto trionfare i Greci contro il barbaro invasore orientale. Non tutti i Greci però erano stati uniti in questa battaglia. Alcuni si erano schierati dalla parte sbagliata. I Tebani si erano collocati a favore dei Persiani e tutto questo sarà rappresentato nelle pitture realizzate all’interno del tempio di Atena Arèia a Platea, dove si voleva comunicare l’idea del fratricidio che i Tebani avevano commesso a danno degli altri Greci, evocando quella che è stata la guerra fratricida per eccellenza, quella tra Eteocle e Polinice che, in presenza di Edipo, lo vediamo qui, si contendono il regno di Tebe lasciato dal padre, perché Eteocle non aveva voluto cedere il trono, allo scadere dell’anno che gli era destinato come regno, al fratello Polinice, il quale si reca ad Argo dal re Adrasto chiedendo di mettere su una schiera di guerrieri, un esercito per riconquistare il suo trono. I due fratelli si scontreranno di fronte alle mura di Tebe. Tutti e due soccomberanno, l’uno contro l’altro, armati. Di fronte agli occhi della madre, Giocasta, e del padre Edipo, figlio di quella madre Giocasta, che aveva dato alla luce questi due figli maledetti. Gli altri guerrieri sono qui rappresentati nell’atto di combattere, distinguibile solo uno di loro, Anfiarao, alla base del vaso. L’indovino, prossimo a un destino divino per la sua capacità di pronosticare il futuro, era venerato quasi come un dio nel V secolo a.C. e qui lo vediamo nel momento in cui sprofonda nel ventre della terra, lui che aveva previsto il destino funesto di questa battaglia. Si vedono i quattro cavalli e colui che li guidava nel mentre che scompare. Gli altri guerrieri non sono facilmente riconoscibili. Vi era sicuramente Tideo, Capaneo.

Particolare di Zeus che fulmina Capaneo dall’altorilievo del Tempio A di Pyrgi, al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)
“Li conosciamo attraverso una straordinaria raffigurazione in ambito etrusco, quello dell’altorilievo di Pyrgi che mostra il terribile atto crudele e barbaro di Tideo che in punto di morte divora il cervello attraverso il cranio di Melanippo, venendo destinato alla morte per colpa di questo atto scellerato. Atena doveva dargli l’immortalità, era pronta a fargli bere attraverso un’ampolla, ma lo scopre in un atto brutale da cui si ritrae disgustata e la sua immortalità passerà al figlio Diomede. Capaneo, l’altro eroe, sta per superare le mura di Tebe, bestemmia, appare Zeus e lo fulmina. Diomede è tra coloro i quali beneficiano della sorte funesta di Tideo. Conseguendo l’immortalità, lui si trasferirà in Occidente, sarà venerato lungo l’Adriatico e considerato addirittura il fondatore di Spina e probabilmente è da riconoscere tra questi personaggi. Secondo le interpretazioni più recenti accreditate di questo vaso, su quest’altro lato ci troviamo di fronte agli Epigoni, i figli dei Sette che riusciranno a conquistare finalmente Tebe, ricevendo il premio a distanza di una generazione. Diomede, fuggito in Occidente, fonderà Spina e altre città secondo la tradizione. Qui li vediamo un attimo prima però del loro trionfo. Vanno da Atena e hanno uno scopo, quello di dare giusta e onorata sepoltura ai loro padri, cosa che avverrà sul suolo sacro di Eleusi per l’intercessione del re di Atene Teseo, che è riconoscibile qui in questo guerriero con lo scudo che rappresenta un’amazzonomachia. Atene troneggia in questo messaggio ideologico che è un inno alla civiltà contro la barbarie. È un appello a non essere fratricidi – conclude Nizzo – e a rispettare le norme della giustizia e del vivere civile. Alla fine gli Epigoni trionfano e sono celebrati in tante opere della tragediografia, tra le quali l’Eschilo dei “Sette contro Tebe”, rappresentati dieci anni prima di questo capolavoro. Dieci anni circa. Che si data alla metà del V secolo a.C. ed è ancora pulsante delle sue innumerevoli storie”.

La sala delle Carte geografiche al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
La sesta puntata di “Rasna. Una serie etrusca” è ospitata nel Salone delle Carte Geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara. Cornice del racconto che ripercorre le fasi cruciali della eccezionale scoperta della città di Spina. Ricca, potente, importante: non c’erano più dubbi sulla grandezza di questa città. Oltre 1200 corredi straordinari emergevano dal fango e offrivano una testimonianza senza precedenti della peculiarità di questo contesto. Il museo Archeologico nazionale di Ferrara nasceva nel 1935 come Regio Museo di Spina, sede naturale per accogliere i tesori delle campagne di scavo che dal 1922 al 1936 si susseguono senza sosta per restituire alla cittadinanza gli oggetti materiali di un glorioso passato. Se volete scoprire la città perduta di Spina, venite ad ammirare i capolavori in mostra. Sono oltre 700, legati fra loro da una storia comune, testimonianze di altissima qualità artistica, simboli della maestria di un popolo, ma anche oggetti parlanti che ancora oggi ci raccontano la fama e l’importanza del porto di Spina in tutto il Mediterraneo.
“6. LA SCOPERTA DI SPINA”. “Il 20 ottobre 1935 – ricorda Valentino Nizzo – un pubblico a festa gremiva questa sala, la Sala delle Carte geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara. Era il giorno di inaugurazione del regio museo di Spina. Erano passati pochi anni dal 3 aprile 2022 quando l’ingegner Aldo Mattei aveva comunicato alla soprintendenza Archeologica di Bologna una scoperta straordinaria che avrebbe cambiato la conoscenza dell’archeologia della pianura Padana, ma in generale dell’archeologia dell’Italia preromana e degli Etruschi, soprattutto. Era stata finalmente identificata una delle città sulle quali maggiormente si erano soffermate le fonti letterarie antiche, quella Spina che aveva avuto il privilegio con Cerveteri di possedere un thesauros a Delfi. Era stata una città ricca, potente, importante, grazie alla sua ardita collocazione geografica alla foce del Po e al controllo di quel mare Adriatico che costitutiva una via privilegiata di contatto con il mondo greco e in particolare con quello ateniese, almeno quanto il Po, con i suoi affluenti, costituiva una fondamentale via di penetrazione verso le Alpi, verso il centro e nord Europa. E poi fino a Spina arrivavano materie prime importanti dal Baltico, l’ambra, e dall’Etruria mineraria materie prime come il ferro, il rame. Insomma un epicentro economico che giustifica la ricchezza degli oltre 1200 corredi che vennero alla luce in una serie ininterrotta di campagne di scavo che dal 1922 al 1936 consentirono di completare l’esplorazione della necropoli di Valle Trebba. Quella che è evidenziata su una delle più importanti carte geografiche presenti in questa sala, la carta che mostra quello che era l’assetto delle opere di bonifica che portarono alla scoperta della necropoli di Spina, qui delimitata in azzurro. La Sala delle Carte geografiche celebra attraverso questa peculiare forma di comunicazione quanto dicevo prima in merito all’importanza strategica ed economica della collocazione di Spina. Lo fa ricostruendo quello che il protagonista di questo racconto, il Po, nella sua evoluzione attraverso il tempo, così come poteva essere ricostruita sulla base delle cartografie antiche, qui riprodotte in dimensioni monumentali, e delle conoscenze che si avevano appunto intorno agli anni ’30 del Novecento. Un’immagine della Tabula Peutingeriana evoca quello che è stato l’impero romano, erede chiaramente di quello etrusco, così come due grandi carte geografiche, di fronte a me, riproducono la massima espansione raggiunta dall’Etruria e quella che è stata la divisione in regioni voluta da Augusto, che recuperava molte delle tradizioni etniche dell’età preromana.

L’ultima parte dell’Ode a Ferrara di Giosuè Carducci nella Sala delle Carte geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“In cima a queste piante – indica Nizzo – l’Ode a Ferrara di Giosuè Carducci evoca la tensione e l’attesa di quella Spina che in quel momento era ancora ignota, almeno rispetto alla sua localizzazione. E lo fa evocando le tante fonti che richiamavano l’importanza di questa città. Diomede, ritenuto il fondatore di Spina in alcune fonti, è all’inizio di questa citazione: “Diomede avea di delfic’oro e argivo onor vestita d’Adria reina Spina pelasga. Ahi nome vano or suona. Sparì, del vespro visione, in faccia alla sorgente con in man la croce ferrea Ferrara”. In questo parallelepipedo il taglio della poesia racchiude quella che è concettualmente la volontà di Ferrara di sentirsi erede di Spina. Questo ha spinto gli archeologi e gli uomini politici del tempo a individuare in questo luogo la sede più adatta del regio museo di Spina, in uno dei palazzi rinascimentali più importanti della nostra penisola e di questa città. Opera mirabile, anche se incompiuta, di Biagio Rossetti. Palazzo Costabili, detto di Ludovico il Moro, dalla tradizione che collegava Costabili a Ludovico il Moro, in quanto suo ambasciatore. Siamo nella Ferrara estense nel suo momento di massima floridezza. E questo palazzo, appena acquisito al Demanio dello Stato, fu oggetto di un complesso lavoro di restauro per trasformarlo in un museo archeologico. E fu certamente audace la volontà di arricchire con affreschi moderni, lo ricordo, degli anni ’30 del Novecento, quanto rimaneva di pareti spoglie delle originali decorazioni. Un modo per rendere idealmente questa sala, un tempo destinata a balli e feste, quella che oggi definiremmo una sala didattica ante litteram. È straordinario tutto questo. Dà l’idea della percezione dell’importanza di ciò che era stati scoperto in un’Italia che era l’Italia fascista e che a Ferrara aveva in un gerarca come Italo Balbo uno dei più entusiasti promotori di questo progetto con la Cassa di Risparmio e il Comune, ricordati in quelle lapidi dipinte alle mie spalle. Insomma un’opera collettiva che per una volta non celebrava la grandezza dell’impero, al quale il fascismo di ispirava, ma la grandezza di quel passato etrusco che aveva a sua volta reso grande Roma.

In azzurro l’area della necropoli di Valle Trebba dipinta nella Sala delle Carte geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“Per me è emozionante raccontare tutto questo tenendo in mano un testimone di queste imprese, uno dei giornali di scavo redatti dall’assistente Francesco Proni, con una cura, un’attenzione per i dettagli, una capacità di disegno davvero straordinarie. È incredibile per l’epoca la cura nella registrazione di dettagli minutissimi riguardanti la disposizione degli oggetti di corredo rispetto al cadavere, oggi indispensabile per l’interpretazione ideologica del significato di quegli oggetti, e per la ricostruzione della storia di quelle persone che li possedevano e che i loro familiari avevano voluto che li accompagnassero nell’ultima sepoltura. Francesco Proni era un modesto assistente di scavo diretto all’inizio dall’archeologo Nigrioli e poi dal soprintendente Salvatore Aurigemma. Ma ci ha lasciato davvero qualcosa di unico di cui oggi siamo tutti quanti debitori. Il 3 aprile 1922 l’ingegnere Mattei compie un gesto importante: segnalare la scoperta di una città che avrebbe restituito migliaia di tombe, in totale 4000, e poi, decenni dopo, avrebbe portato anche alla scoperta dell’abitato. Lì forse – conclude Nizzo – matura una nuova consapevolezza rispetto anche al metodo di scavo e al modo in cui le informazioni recuperate sul campo possono trasformarsi nella grande storia di città come Spina e nella piccola ma altrettanto importante storia di quegli uomini che hanno fatto grande quella città”.
Bologna. Al via “IMAGINES. Obiettivo sul passato”, rassegna del documentario archeologico promossa dal Gruppo archeologico bolognese giunta alla 20.ma edizione: due giornate con film introdotti dagli esperti e dai protagonisti, aperto dal film di Alberto Castellani sull’Afghanistan


L’esterno della Mediateca di San Lazzaro di Savena (Bo) che ospita la rassegna IMAGINES del gruppo archeologico bolognese (foto gabo)
Il Gruppo archeologico bolognese accende la ventesima candelina di “IMAGINES. Obiettivo sul passato”, rassegna del documentario archeologico, tradizionale appuntamento di fine autunno atteso dagli appassionati, organizzato insieme al museo della Preistoria “Luigi Donini” di San Lazzaro, col patrocinio del Comune di Bologna e del Comune di San Lazzaro. IMAGINES è in programma sabato 3 e domenica 4 dicembre 2022 nella sala eventi della Mediateca Comunale di San Lazzaro di Savena (Bo). Un’edizione ancora in forma ridotta, come nel 2021, ma non per questo meno ricca: tre film per giornata introdotti da esperti. L’ingresso è libero e gratuito fino ad esaurimento dei posti disponibili. Non è obbligatorio l’uso della mascherina per tutta la durata della manifestazione. Il suo utilizzo è vivamente consigliato alle persone fragili. Al termine di ogni giornata di IMAGINES sarà estratto fra i presenti un abbonamento annuale alla rivista Archeologia Viva. Inoltre, domenica 4 sarà estratta la partecipazione gratuita ad un viaggio di un giorno organizzato da Insolita Itinera per il Gruppo Archeologico Bolognese.
SABATO 3 DICEMBRE 2022. Alle 15.30, inizio delle proiezioni con il film “Afghanistan, tracce di una cultura sfregiata” (Italia, 2022; 52’) di Alberto Castellani, che dà voce e spazio al dolore, alla sofferenza ma anche alla lotta per resistere e salvare il patrimonio, della nazione e del popolo afghano. L’Afghanistan, il cui patrimonio è sottoposto a sistematico saccheggio, rischia di perdere la propria identità e di svegliarsi dal caos attuale senza la coscienza di possedere una storia. L’Archeologia con le sue capacità di scoprire e ricostruire il passato può fornire un prezioso contributo per la sua rinascita (vedi “Afghanistan: tracce di una cultura sfregiata”: il regista veneziano Alberto Castellani svela in anteprima il suo nuovo film che racconta di un Paese martoriato, un popolo umiliato, una cultura millenaria e un patrimonio archeologico ricchissimo a rischio; con il contributo dei massimi esperti in materia | archeologiavocidalpassato). Il film sarà introdotto dal regista Alberto Castellani. Segue il film “L’antichità svelata” di Claudio Busi (30’), introdotto da Gabriele Nenzioni, direttore del museo della Preistoria “Luigi Donini” di San Lazzaro di Savena (Bo).

Il tempio di Amnehotep II (Amenofi II) a Tebe Ovest (foto khekeru.ch)
Dopo l’intervallo, proiezione del film “Una stagione di scavo sui resti del tempio di Amenhotep II a Tebe Ovest” di Claudio Busi (30’) introdotto dal regista Claudio Busi, speleologo, viaggiatore e film-maker. Il tempio di Amenhotep II venne sommariamente scavato, insieme ad altre strutture templari, da Sir William Matthew Flinders Petrie, che pubblicò i risultati della sua indagine in Six Temples at Thebes 1896. Nel 1997 il CEFB ha riaperto le ricerche sul sito del tempio funerario di Amenhotep II.

Le ricche necropoli della città di Spina furono scoperte nel 1922
DOMENICA 4 DICEMBRE 2022. Le proiezioni iniziano alle 15.30 con il film “Gli architetti del deserto” di Joseph C. Sousa (43’) introdotto da Silvia Romagnoli, archeologa e travel designer. Seguono due film per ricordare i 100 anni dalla scoperta dell’antica città di Spina: “La scoperta di Spina. I personaggi” di Cesare Bornazzini (33’) e “Le tombe di Spina” di Salvatore Aurigemma (17’) introdotti da Silvia Romagnoli. La necropoli della città greco-etrusca di Spina, nelle Valli di Comacchio fu scoperta il 23 aprile 1922. La scoperta del sito è legata alle opere di bonifica del primo dopoguerra, come ricostruisce Nereo Alfieri in “Spina. Storia di una città tra Greci ed etruschi” (catalogo mostra, 1994). La prima comunicazione, infatti, è dell’ingegner Aldo Mattei, direttore della sezione staccata del Genio civile a Comacchio, con una lettera alla soprintendenza agli Scavi e Monumenti archeologici di Bologna: “Nella valle Trebba (Valli settentrionali di Comacchio), in cui è stata compiuta la bonifica idraulica a cura dello Stato e dove si stanno facendo da Comuni interessati opere di bonifica agraria, è stato scoperto casualmente da un operaio un sepolcreto probabilmente dell’epoca etrusca: così almeno ritengo vai vasi istoriati scoperti”. Le campagne di scavo, condotte fino al 1935 dal neo soprintendente Salvatore Aurigemma nell’area di Valle Trebba portarono alla luce la zona settentrionale della necropoli di Spina con più di 1200 sepolture i cui materiali sono oggi esposti al museo Archeologico nazionale di Ferrara (vedi Comacchio. A Palazzo Bellini apre la mostra “Spina 100. Dal mito alla scoperta” per le celebrazioni nazionali del centenario della scoperta della città etrusca di Spina (1922-2022) | archeologiavocidalpassato). Dopo l’intervallo, la rassegna si conclude con il film “I luoghi del mito. Demetra e Kore” di Gaspare Mannoia (30’) introdotto da Giuseppe Mantovani, Vicedirettore del Gruppo Archeologico Bolognese e curatore di IMAGINES.
Il 2022 è un anno speciale per l’Archeologia, segnato da importanti anniversari: decifrazione geroglifici (200 anni), scoperta della tomba di Tutankhamon (100), della necropoli di Spina (100), dei Bronzi di Riace (50)

Per l’archeologia il 2022 è un anno di grandi anniversari. A cominciare l’Antico Egitto (vedi il video promo (3) Facebook): 100 anni della scoperta della tomba di Tutankhamon e 200 della decifrazione della stele di Rosetta e della scoperta dell’antica lingua egizia che segna la nascita ufficiale dell’Egittologia. Ma anche l’Italia ha un calendario di tutto rispetto, dai 100 anni della scoperta della necropoli di Spina ai 50 anni dal rinvenimento dei Bronzi di Riace.


La famosa maschera di Tutankhamon e il pugnale in ferro trovato avvolto tra le bende della mummia del faraone bambino
4 novembre 1922: è la data ufficiale della scoperta della Tomba di Tutankhamon nella valle dei Re, a Tebe Ovest, quindi sulla sponda occidentale del Nilo. Ma l’evento che avrebbe avuto una risposta mediatica eccezionale portando per la prima volta in prima pagina l’Archeologia. Il racconto di quei giorni è noto, a cominciare dal famosissimo dialogo tra l’archeologo Howard Carter e il suo finanziatore Lord Carnarvon del 24 novembre 1922: “Era venuto il momento decisivo. Con mani tremanti praticammo una piccola apertura nell’angolo superiore sinistro…”. “Potete vedere qualche cosa?”. “Sì, cose meravigliose”. In realtà la scoperta della sepoltura del re bambino era avvenuta all’inizio del mese di novembre 1922. Il 1° novembre 1922, Carter fece spostare il campo di scavo proprio dinanzi all’ingresso della tomba KV9 di Ramses VI, faraone della XX dinastia, in un settore di forma triangolare dove aveva già lavorato parecchi anni prima, ma che aveva incomprensibilmente abbandonato. Qui erano precedentemente stati rinvenuti i resti (ritenuti archeologicamente privi di importanza) di alcune capanne costruite dagli operai che avevano lavorato alla tomba KV9 e proprio in quel punto, tre giorni dopo, il 4 novembre 1922, fu scoperto il primo gradino di una scala di accesso a un ipogeo: la tomba intatta di Tutankhamon, nota come KV62, giovanissimo sovrano della XVIII dinastia che salì al trono a 9 anni e morì a 18, poco prima di compierne 19, divenuta famosa per la ricchezza del suo corredo e dei sarcofagi che proteggevano la mummia reale, che costrinse le autorità egiziane dell’epoca a rivedere l’organizzazione degli spazi del museo Egizio del Cairo, riservando un’intera ala al faraone bambino (vedi 4 novembre 1922 – 4 novembre 2020: nel 98.mo anniversario della scoperta del secolo, ingresso scontato nella tomba di Tutankhamon. Il ministro El-Anani: “L’anno prossimo tutto il tesoro del faraone bambino esposto al Grand Egyptian Museum” | archeologiavocidalpassato).


Jean François Champollion ritratto da Leon Cogniet nel 1831
27 settembre 1822, Jean François Champollion detto Champollion il Giovane annuncia la decifrazione dei geroglifici: nasce l’Egittologia. Secondo quanto raccontato dal nipote, Aimé Champollion-Figeac, Champollion il 14 settembre 1822 aveva notato che un cartiglio di Abu Simbel conteneva quattro segni geroglifici. Intuì che il primo segno circolare rappresentasse il sole che in copto si dice “ri”. Mentre il segno che appariva due volte alla fine del cartiglio era la “s” nel cartiglio di Tolomeo. Ciò gli fece concludere che se il nome nel cartiglio inizia con Re e termina con “ss”, potrebbe quindi corrispondere a “Ramesse”, suggerendo che il segno al centro rappresentasse “m”. Un altro cartiglio conteneva tre segni, due uguali a quelli del cartiglio Ramesse: un ibis, simbolo del dio Toth. Seguendo il ragionamento fatto per Ramesse giunse a indicare che il nome nel secondo cartiglio sarebbe Thothmes, cioè il faraone Thutmosis. Il passo successivo su sulla Stele di Rosetta: Champollion conosceva le parole copte che avrebbero tradotto il testo greco e poteva dire che segni fonetici come “p” e “t”, che erano già stati identificati nel nome di Tolomeo, si sarebbero adattati a queste parole. Da lì poteva indovinare i significati fonetici di molti altri segni. L’annuncio ufficiale delle sue proposte di letture dei cartigli greco-romani nella Lettre à M. Dacier (titolo completo: Lettre à M. Dacier relative à l’alphabet des hiéroglyphes phonétiques “Lettera a M. Dacier riguardante l’alfabeto dei geroglifici fonetici”) che completò il 22 settembre 1822. Questa comunicazione scientifica, sotto forma di una lettera, inviata a Bon-Joseph Dacier, segretario francese dell’Académie des Inscriptios et Belles-Lettres, è considerata il documento fondante dell’Egittologia, ma rappresentava solo un inizio. Champollion non dice nulla della scoperta sui cartigli di Ramesse e Thutmose, non dice ancora nulla (forse per prudenza) di quanto già sa o intuisce, e si limita a suggerire che segni fonetici avrebbero potuto essere usati nel lontano passato dell’Egitto. Ma la strada è aperta.


Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina (foto http://www.rivadelpo.it)
23 aprile 1922: scoperta della necropoli della città greco-etrusca di Spina, nelle Valli di Comacchio. La scoperta del sito è legata alle opere di bonifica del primo dopoguerra, come ricostruisce Nereo Alfieri in “Spina. Storia di una città tra Greci ed etruschi” (catalogo mostra, 1994). La prima comunicazione, infatti, è dell’ing. Aldo Mattei, direttore della sezione staccata del Genio civile a Comacchio, con una lettera alla soprintendenza agli Scavi e Monumenti archeologici di Bologna: “Nella valle Trebba (Valli settentrionali di Comacchio), in cui è stata compiuta la bonifica idraulica a cura dello Stato e dove si stanno facendo da Comuni interessati opere di bonifica agraria, è stato scoperto casualmente da un operaio un sepolcreto probabilmente dell’epoca etrusca: così almeno ritengo vai vasi istoriati scoperti”. Questa sobria segnalazione – scrive ancora Alfieri – dette l’avvio a un’impresa archeologica tra le più notevoli dell’Italia settentrionale. La ricerca dell’antica Spina tra le paludi nel delta del Po era stata fino ad allora un vero giallo archeologico che aveva appassionato eruditi e studiosi illustri fin dal Medioevo. Il primo che ipotizzò il sito di Spina a Valle Trebba fu il medico bolognese Gian Francesco Bonaveri (fine del XVII secolo) attratto dalla singolarità di quell’ambiente lagunare da cui emergevano di tanto in tanto manufatti antichi, ma del celebre e florido emporio marittimo descritto dagli autori greci e romani sembrava essersi persa ogni traccia. E la sua intuizione trovò conferma solo due secoli dopo. Alla scoperta casuale del 1922 seguirono le indagini scientifiche dirette dalla soprintendenza alle Antichità dell’Emilia e della Romagna, istituita il 19 settembre 1924. Le campagne di scavo, condotte fino al 1935 dal neo soprintendente Salvatore Aurigemma nell’area di Valle Trebba portarono alla luce la zona settentrionale della necropoli di Spina con più di 1200 sepolture i cui materiali sono oggi esposti al museo Archeologico nazionale di Ferrara. Ma la ricerca continua. L’obiettivo è scoprire il nucleo abitato dell’antica Spina (vedi Ritrovare l’antica città etrusca di Spina (le vaste necropoli sono state una delle scoperte più importanti del Novecento): è l’obiettivo del progetto Eos (Etruscans on the Sea) dell’università di Bologna all’interno del progetto interreg Value. A Comacchio la presentazione in streaming della prima campagna di scavo e le attività future. Intanto a Stazione Foce sta nascendo la ricostruzione dell’abitato di Spina | archeologiavocidalpassato).


Agosto 1972: il ritrovamento dei Bronzi di Riace da parte del sub Stefano Mariottini
16 agosto 1972: rinvenimento dei Bronzi di Riace. Era il 16 agosto 1972 quando un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, si immerse nel mar Ionio a 230 metri dalle coste di Riace Marina. Quando, a 8 metri di profondità, fu attratto da un qualcosa che emergeva dalla sabbia del fondo marino: sembrava un braccio. Non si sbagliava. Era il braccio sinistro di quella che poi sarebbe stata denominata statua A: aveva scoperto le statue di due guerrieri considerati tra i capolavori scultorei più significativi dell’arte greca, e tra le testimonianze dirette dei grandi maestri scultori dell’età classica. Stefano Mariottini aveva scoperto i Bronzi di Riace. Da quel momento è iniziato un delicato, lungo processo di restauro. Prima all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e poi direttamente a Reggio Calabria, man mano che si riscontravano nuove problematiche sui fragili bronzi. L’ultimo spettacolare intervento di restauro conservativo, dal 2009 al 2013, in una sala appositamente predisposta a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, da dove a un certo punto era sembrato non dovessero più tornare a casa. Ciò avvenne grazie a un blitz notturno dell’allora ministro ai Beni culturali Massimo Bray con la soprintendente Simonetta Bonomi: il guerriero A e B furono rimessi in piedi e trasportati in assoluta sicurezza a Palazzo Piacentini, sede del museo Archeologico nazionale della Magna Grecia, alloggiati in una speciale sala dotata di uno specifico sistema di filtraggio, e di un percorso di depurazione, attraverso il quale transitano i visitatori, per mantenere sempre costante il clima in cui sono conservati i Bronzi. Inoltre è stata attivata una protezione antisismica (vedi 16 agosto 1972, il sub Mariottini scoprì nel mar Ionio i Bronzi di Riace. L’anno prossimo saranno passati 50 anni. Al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria si lavora per #BronzidiRiace2022: incontro strategico tra il direttore e l’assessore alla Cultura. In attesa di promuovere i Bronzi di Riace nel mondo, il MArRC promuove in classe la storia e il patrimonio archeologico della Calabria antica | archeologiavocidalpassato).
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