“Lo sguardo dell’antropologo”: al museo Egizio di Torino aperta una nuova mostra per esplorare le connessioni tra egittologia e antropologia. Realizzata in collaborazione con il museo di Antropologia dell’università di Torino, chiuso dal 1984, restituisce al pubblico una parte della collezione dell’istituto universitario, tra cui la mummia da Gebelein

La locandina della mostra “Lo sguardo dell’antropologo” aperta al museo Egizio di Torino fino al 15 novembre 2020
La visita del museo Egizio di Torino si arricchisce de “Lo sguardo dell’antropologo”, una piccola mostra allestita in una sala del primo piano, realizzata dai curatori del museo Egizio in collaborazione con il museo di Antropologia ed Etnografia dell’università di Torino (MAET). La mostra, che rimarrà aperta fino al 15 novembre 2020, nasce dall’intento di mettere in dialogo le collezioni dei due musei, proponendo una riflessione sulle modalità con cui la cultura scientifica europea, tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX, percepiva e classificava i suoi “altri”. Un progetto che mira a ricostruire i rapporti tra egittologia e antropologia, individuando prospettive di ricerca e possibili aree di collaborazione futura. “Lo sguardo dell’antropologo” espone una quarantina di oggetti, in gran parte prevenienti dalle collezioni etnografiche del MAET, rappresentativi delle culture extraeuropee e dell’antico Egitto: fra essi il ruolo di protagonista spetta a una mummia di una giovane donna, caratterizzata da una tunica finemente plissettata, proveniente dal sito archeologico di Gebelein, oggetto di recenti indagini scientifiche e il cui restauro è stato da poco concluso presso il Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”.
L’esposizione intende dare particolare risalto alle tracce degli “sguardi” che si sono posati sui reperti nel momento del loro rinvenimento da parte di studiosi e antropologi: sguardi colmi di stupore, meraviglia ma anche di disprezzo o di compiacimento, improntati a una visione che classificava i gruppi umani all’interno di una griglia evolutiva. In quella prospettiva, gli abitanti dell’Africa – insieme alla maggior parte delle culture extraeuropee – erano visti come dei “primitivi” immersi nella magia e nella superstizione; l’Egitto, invece, fu idealmente disconnesso dal continente cui appartiene, per essere invece considerato la culla della civiltà occidentale. Su questo tema si concentra un video presente in mostra: “I giovani africani e l’Egitto”, che indaga il significato che l’antico Egitto ricopre per gli africani contemporanei, i quali, attraverso una serie di interviste, ribaltano provocatoriamente questa visione tipicamente orientalista dell’Egitto.

L’allestimento della mostra “Lo sguardo dell’antropologo” in una sala resa suggestiva anche per le vetrine ottocentesche e i pavimenti in legno originali del palazzo barocco (foto museo Egizio)
L’esposizione – realizzata in una sala resa suggestiva anche per le vetrine ottocentesche e i pavimenti in legno originali del palazzo barocco – conta altre tre sezioni, che riguardano la nascita e i contenuti dell’antropologia, la storia del museo di Antropologia ed Etnografia dell’università di Torino, museo a partire dalla sua fondazione nel 1926 da parte dell’antropologo Giovanni Marro, e il contesto di scavo nel quale fu rinvenuta la mummia su cui è stato effettuato il restauro. Sulla mummia della “giovane donna con tunica plissettata” sono state recentemente condotte dai ricercatori del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’università di Torino delle analisi biomolecolari innovative, le prime realizzate in modalità non invasiva su un resto umano di epoca egizia. Utilizzando una membrana che estrae le proteine presenti sulla superficie del reperto, è stato possibile rilevare i componenti originari della pelle della donna e i potenziali microrganismi causa del degrado, dati fondamentali per progettare il futuro monitoraggio dello stato di conservazione.
“Questa mostra”, spiega Christian Greco, direttore del museo Egizio, “esprime appieno la centralità dell’attività di ricerca nel nostro lavoro quotidiano: antropologia ed archeologia sono due discipline che camminano fianco a fianco per studiare e comprendere l’uomo, la sua cultura materiale. Un ambito in cui la collaborazione fra il Museo e l’Università assume una funzione primaria, consentendoci di approfondire la comprensione di quei frammenti di memoria che ci permettono di ricostruire i comportamenti, i rituali, le risposte alle domande esistenziali e, quindi, di comprendere noi stessi ed il ruolo che occupiamo nella società”. “Inoltre – aggiunge il direttore – con questa operazione vogliamo offrire una finestra al museo di Antropologia, purtroppo chiuso al pubblico, creando una connessione che racconta una pagina importante della storia della nostra collezione. Riportare la mummia al museo significa anche ricomporre corredi unitari: si tratta di scoperte fatte in Egitto durante le campagne della MAI dirette da Schiaparelli, di cui il Marro era l’antropologo fisico, e i reperti vennero poi suddivisi fra Museo e Università, dove andarono sostanzialmente i resti antropologici. L’esposizione consente quindi di riproporre e mostrare la collaborazione scientifica, di spiegare l’evoluzione dell’interesse accademico torinese che, oltre all’antropologia fisica, ha visto poi lo sviluppo dell’antropologia culturale. E proprio questo oggi ci avvicina ancora una volta, con un’iniziativa della cui realizzazione sono grato alla direttrice del museo di Antropologia, Cecilia Pennacini, e al presidente del Sistema Museale d’Ateneo dell’università di Torino, Enrico Pasini, nonché alla soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio della Città Metropolitana di Torino, nella persona di Elisa Fiore Marochetti”.
“Il museo di Antropologia ed Etnografia dell’università di Torino è chiuso al pubblico dal 1984: questa mostra, organizzata in collaborazione con il Museo Egizio, offre finalmente l’opportunità di esporre al pubblico alcuni preziosi reperti e di raccontare la storia di questo straordinario museo, che conserva oggetti e reperti provenienti da ogni parte del mondo”, dichiara Cecilia Pennacini, direttrice del MAET. “L’eterogeneità delle collezioni riflette lo sguardo del fondatore che, come molti studiosi dell’epoca, cercava di documentare la diversità dei gruppi umani inquadrandola erroneamente in una gerarchia di “razze” inferiori e superiori. L’antica civiltà egizia, a lungo studiata da Marro nell’ambito della Missione Archeologica diretta da Ernesto Schiaparelli, era posta al vertice di questa scala mentre le culture dell’Africa e di altre società extra-europee erano viste come arretrate. L’antropologia ha abbandonato da tempo questa visione, sia in ambito biologico che culturale, e il percorso espositivo suggerisce come oggi il lavoro sul terreno e lo studio analitico dei reperti consentano di produrre conoscenze preziose in grado di illuminare la storia di civiltà tuttora poco conosciute, restituendo a tutte la medesima dignità”.
Conferenza ANNULLATA. Al museo Egizio di Torino salta la presentazione del libro “L’impero in quota. I Romani e le Alpi” di Silvia Giorcelli Bersani
Le Alpi sono state un territorio di radicali trasformazioni politiche, sociali e culturali nei secoli in cui si è dispiegata la civiltà di Roma: una pagina importante della storia dell’espansionismo romano, fra III secolo a.C. e I secolo d.C., è stata scritta in quella regione, fredda e inospitale ma strategica per le comunicazioni. Di questo si sarebbe dovuto parlare martedì 3 marzo 2020, alle 18, nella sala conferenze del museo Egizio di Torino alla presentazione del libro “L’impero in quota. I Romani e le Alpi” con l’autrice Silvia Giorcelli Bersani e il direttore dell’Egizio, Christian Greco. La presentazione del libro è stata invece annullata per l’applicazione delle disposizioni governativa in tema di contenimento della diffusione del coronavirus. Silvia Giorcelli Bersani insegna Storia romana ed Epigrafia latina all’università di Torino. Studia i processi di romanizzazione in area cisalpina con particolare riferimento alle strutture politiche e sociali delle comunità urbane e alle trasformazioni culturali; cura le edizioni critiche di epigrafi romane (Alba, Vercelli, Aosta) e si interessa di eredità del passato romano tra XVI e XX secolo, con attenzione alla storiografia e alle antichità sabaude. È attualmente Presidente del corso di laurea magistrale in Archeologia e Storia antica. Ha presieduto il Comitato Unico di Garanzia dell’Ateneo torinese.
Il libro “L’impero in quota. I Romani e le Alpi”. Il baluardo inaccessibile che, in origine, costituiva un confine naturale e solido a protezione dell’Italia diventò progressivamente un luogo di passaggio frequentato e gli spazi furono sottoposti a un’opera capillare di romanizzazione: nei secoli, le Alpi diventarono il teatro di straordinarie avventure umane, quasi in stile Far West, rappresentando un’opportunità per uomini spregiudicati alla ricerca di fortuna, per coloni italici trapiantati nelle città alpine, per imprenditori, per liberti, per servi. Questa variegata umanità che popolava e, soprattutto, attraversava le Alpi esprimeva fedi diverse che soltanto in minima parte avevano a che fare con il contesto montano: nel pantheon alpino si trovava di tutto, dagli dèi della tradizione celtica a quelli ufficiali di Roma, dalle divinità orientali a quelle egizie (su questi aspetti in particolare si concentrerà la conferenza). La complessità del rapporto tra i Romani e le Alpi, durato per secoli in una sorta di ambiguità fra paura e curiosità, tra difficoltà logistiche e necessità di gestione, ha alimentato molte riflessioni che toccano problemi di natura politica, economica, religiosa e culturale.
L’appassionante racconto delle campagne archeologiche dell’antico Oriente da metà Ottocento a oggi rivive nell’incontro al museo Egizio di Torino con Paolo Matthiae che presenta il suo ultimo libro “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale”

La maschera funeraria di Tutankhamon: uno dei tesori trovati da Carter e Carnarvon nella tomba del giovane faraone
L’appassionante racconto delle campagne archeologiche dell’antico Oriente da metà Ottocento a oggi, dalla decifrazione delle due scritture più antiche dell’umanità alle prime epiche imprese alla ricerca di Ninive, alle grandi scoperte nella Valle dei Re a Tebe, da Ebla, Qatna e Aleppo in Siria a Nimrud e Sippar in Mesopotamia, a Troia e Hattusa in Anatolia, ad Abido e Amarna in Egitto, fino a Gerusalemme in Palestina. Sarà un incontro particolarmente appassionante quello con Paolo Matthiae, il noto archeologo del Vicino Oriente, che mercoledì 20 marzo 2019, alle 12, nella sala conferenze del museo Egizio di Torino, nell’ambito del ciclo “Incontro con gli autori”, presenta il suo ultimo libro “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale” (Einaudi). Come il titolo del volume fa intendere, Matthiae parte dalle evidenze archeologiche (e anche dalle fonti testuali) per ricostruire la storia culturale, politica ed economica dell’intera area vicino orientale: Anatolia, Siria, Mesopotamia e Levante, e anche l’Egitto. Il volume è suddiviso in dodici capitoli, ognuno dei quali è dedicato ad un sito chiave; la scelta di questi siti non è casuale, ma si tratta di luoghi che sono stati al centro di grandi scoperte archeologiche e continuano ad essere oggetto di nuove analisi e studi anche recenti. Tre siti sono egiziani, rispettivamente Abido, Avaris e Amarna, tre si trovano in Siria, Ebla, Qatna e Aleppo, due sono anatolici, Hattusa e Troia, uno è nel Levante, Gerusalemme, e tre si riferiscono all’area mesopotamica, Nimrud, Babilonia e Sippar. Ingresso libero in sala conferenze fino a esaurimento posti. Al termine della conferenza sarà possibile acquistare il libro “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale” di Paolo Matthiae.

Il sito di Ebla in Siria: dal 2011, con lo stop alle missioni archeologiche a causa della guerra, non c’è più manutenzione. La città del III millennio a.C. si sta distruggendo
Dialogheranno con Paolo Matthiae il direttore Christian Greco, il prof. Stefano de Martino e la prof.ssa Clelia Mora. Paolo Matthiae è accademico dei Lincei, già professore di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente all’università di Roma “La Sapienza”. Dal 1963 ha diretto lo scavo nel sito siriano di Tell Mardikh, l’antica città di Ebla. Matthiae è autore di moltissimi volumi e saggi scientifici. Dopo le distruzioni operate dall’Isis in Siria e Iraq, Matthiae si è molto impegnato sul tema della protezione del patrimonio culturale in aree di guerra, pubblicando recentemente anche il volume “Distruzione, Saccheggi e Rinascite”, o organizzando mostre e convegni. Stefano de Martino è professore ordinario al dipartimento di Studi storici dell’università di Torino, dove insegna Ittitologia e Civiltà dell’Anatolia preclassica. È direttore scientifico del Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l’Asia. È coordinatore del dottorato dell’università di Torino “Technology Driven Sciences: Technologies for the Cultural Heritage”. È autore di saggi e volumi sulla storia, la civiltà e la lingue degli Ittiti e dei Hurriti; fa parte del team internazionale che studia e pubblica le tavolette in lingua hurrita rinvenute nel sito di Ortaköy (Turchia). Clelia Mora è professore ordinario al dipartimento di Studi umanistici dell’università di Pavia, dove insegna Storia del Vicino Oriente antico e Storia, epigrafia e sistemi di scrittura nel Vicino Oriente antico. Dal 2000 al 2010 ha collaborato con la missione archeologica francese attiva a Terqa in Siria e dal 2010 è responsabile del Progetto Kinik Höyük, nell’ambito del quale sono condotte indagini archeologiche in Cappadocia in sinergia con la New York University.
Uno dei maggiori protagonisti dell’archeologia orientale rievoca origini, sviluppi e risultati delle più affascinanti imprese degli ultimi decenni. Sempre attento a rilevare, nel passaggio suggestivo dalla terra dello scavo all’interpretazione della storia, l’inestimabile contributo che le scoperte recano alla ricostruzione di un lontano passato fondamentale per lo sviluppo della civiltà umana, che vide il sorgere e l’affermarsi delle prime città, dei primi stati territoriali, dei primi imperi a vocazione universale nella storia mondiale. “Le scoperte rievocate e illustrate nelle pagine di questo libro hanno in comune alcune caratteristiche fondamentali. In primo luogo, sono il frutto, in modi certo diversi, di esplorazioni archeologiche sistematiche di lungo periodo. In secondo luogo, sono state realizzate, approssimativamente, nell’ultimo mezzo secolo. In terzo luogo, a un giudizio oggettivo e di nuovo in modi diversificati, hanno avuto un significato rivoluzionario. Il loro valore leggendario dipende, da un lato, dal forte impatto di innovazione che è tipico di tutte e, dall’altro, dal loro carattere inatteso e sorprendente. La notevole varietà di queste scoperte, in ambiti differenziati della ricerca storica, ha inciso, volta a volta, sulla storia politica, sulla storia religiosa, sulla storia sociale, sulla storia economica, sulla storia artistica, sulla storia letteraria e, in diversi casi, su più di una di esse…Se è vero che non v’è nulla di più concreto e reale di una scoperta archeologica, è altrettanto vero che le interpretazioni prime di quella scoperta, che sono un’esperienza esaltante, non hanno nulla di definitivo perché esse sono solo un contributo, primario e fondamentale, alle innumerevoli valutazioni storiche future. Le interpretazioni che per ciascuna delle scoperte raccolte in questo saggio sono qui presentate, spesso già oggetto di accesi dibattiti negli ambienti scientifici, nella maggior parte dei casi sono di questo tipo ed esprimono solo una parte iniziale del lungo loro tragitto, di fatto inesauribile, dalla terra alla storia”.
Venezia, successo di pubblico per la mostra “Idoli. Il potere dell’immagine”. Per l’ultimo week end visite guidate con il presidente Inti Ligabue e conferenza del prof. De Martino

Il cosiddetto “Sfregiato” della Civiltà dell’Oxus da una collezione privata londinese (foto Graziano Tavan)

La locandina della mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” a Venezia dal 15 settembre 2018 al 20 gennaio 2019
“Merita di venire dall’altro capo del mondo per vederla” ha scritto senza giri di parole la giornalista del “Sole 24 Ore” sull’inserto culturale del Domenicale, ove si definisce “Idoli. Il potere dell’immagine” promossa dalla Fondazione Ligabue “una mostra da non perdere”. È ancora presto per un bilancio definitivo della mostra a Palazzo Loredan di Venezia, ma si può già parlare di straordinario successo: nei primi tre mesi sono stati 18mila i visitatori che hanno visto la mostra che raccoglie un centinaio di opere provenienti dai quattro angoli del globo, rappresentative delle prime esperienze di raffigurazione umana tridimensionale (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/08/15/a-venezia-la-mostra-idoli-il-potere-dellimmagine-terzo-grande-evento-della-fondazione-giancarlo-ligabue-una-finestra-sulla-rivoluzione-neolitica-e-la-ra/). La mostra chiude lunedì 20 gennaio 2019, e per l’ultimo week end la Fondazione Ligabue ha preparato un programma speciale: visite guidate con il presidente Inti Ligabue e una conferenza del prof. Stefano De Martino, sulle raffigurazioni di divinità nell’Anatolia antica in cui interverrà la curatrice della mostra Annie Caubet.

Inti Ligabue, presidente della fondazione Giancarlo Ligabue alla mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” (foto Graziano Tavan)
Una mostra, quella a Palazzo Loredan, caratterizzata dunque dal grande fascino esercitato dalle opere in esposizione – complice la cura posta nell’allestimento – in cui il percorso didattico diviene un vero e proprio viaggio attraverso la storia dell’arte figurativa, spunto ideale per rintracciare trame nascoste e scoprire le storie e i miti che hanno ispirato la loro creazione. Quindi un’occasione speciale le due visite guidate gratuite – il 19 e il 20 gennaio – con Inti Ligabue, presidente della Fondazione che ha ideato e concepito la mostra a partire dagli studi condotti da Giancarlo Ligabue sul tema e da alcuni straordinari reperti della stessa Collezione Ligabue: appuntamento sabato 19, alle 10 e domenica 20 alle 17, su prenotazione, con biglietto d’ingresso della mostra.

Il prof. Stefano De Martino alla mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” della Fondazione Ligabue (foto Graziano Tavan)
Sempre sabato 19 gennaio alle 11 invece, nel vicino Palazzo Franchetti, la Fondazione Giancarlo Ligabue ha promosso un’importante conferenza che terrà il professor Stefano De Martino su “Il Potere delle immagini: raffigurazioni di divinità nell’Anatolia antica”, alla quale interverrà – come si diceva – anche la stessa Annie Caubet. Professore ordinario di Anatolistica al Dipartimento di Studi Storici dell’università di Torino e autore di uno dei saggi in catalogo, il professor De Martino guiderà il pubblico alla scoperta degli Idoli provenienti da quella che Greci, Romani e Bizantini chiamavano Asia Minore, quell’estremità peninsulare della Turchia che fa da cerniera tra Occidente e Oriente. Il racconto spazierà dunque dalle cosiddette statuette Killia, caratterizzate da un corpo reso schematicamente, alle figure di donne spesso nude e dai tratti naturalistici, in argilla o metallo, riportate alla luce ad Alacahöyük in sepolture databili al Bronzo antico, sprigionanti una vitalità tanto peculiare da distinguerle nettamente da quelle egee e mesopotamiche, che, per quanto contemporanee, presentano caratteri di maggiore astrazione; ancora, dagli Idoli in alabastro rinvenuti a Kültepe – figure con corpo di forma circolare e dalla sessualità ambigua, idoli gravidi, androgini e itifallici al tempo stesso – alle statuette che presentano chiari segni di rottura intenzionale, forse legata all’esecuzione di rituali magici o riti di passaggio quali l’adolescenza o il matrimonio, a simboleggiare la rottura con la famiglia di origine e l’ingresso in una nuova fase della vita.
Alla mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” a Jesolo (Venezia) la “mummia di Asti” prende un nome e un volto: è la “Signora delle ninfee”. Un giallo svelato con tecniche alla Csi. “Ma la ricerca scientifica non si ferma: sarcofago e mummia custodiscono ancora molti segreti”, conferma la curatrice Donatella Avanzo

Il logo della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” che Jesolo ospita dal 26 dicembre 2017 al 15 settembre 2018

Promotori e ospiti all’anteprima della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” a Jesolo (foto Graziano Tavan)
Per più di un secolo è stata nota semplicemente come la “mummia di Asti”. Dal 26 dicembre 2017, quando nello Spazio Aquileia a Jesolo (Venezia), sarà inaugurata la mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” curata da Alessandro Roccati ed Emanuele Ciampini, e prodotta da Cultour Active e Venice Exhibition, di cui il prezioso reperto del museo civico archeologico di Asti è sicuramente uno dei protagonisti, la chiameremo la “Signora delle Ninfee”. E non è un vezzo di Donatella Avanzo, curatore esecutivo della mostra e responsabile del progetto scientifico “Mummia di Asti”, ma l’esito di una ricerca scientifica multidisciplinare (attivata proprio in vista della mostra di Jesolo) che per certi aspetti ricorda più una trama di indagine alla Csi che il diario di una missione egittologica. La mummia e il sarcofago che la conteneva “hanno parlato”, rivelando poco a poco agli studiosi la loro storia e la loro identità, che oggi possiamo leggere come in un film nella sezione 8 della mostra jesolana. “Ma non ci hanno detto tutto”, ammette l’egittologa Avanzo. “Sia il sarcofago che la mummia celano gelosamente ancora alcuni segreti che, alla fine della mostra, nell’autunno 2018, impegneranno a lungo gli esperti di molte discipline. Solo per farvi un esempio: siamo sicuri che tutto il sarcofago sia da ascrivere tra la fine della XXI dinastia e l’inizio della XXII? Da alcune tracce riscontrate, il coperchio potrebbe essere molto più antico, e riutilizzato 3mila anni fa. E ancora: accanto ai monili e amuleti rivelati dalla Tac, posti sul corpo della mummia, cosa è quella placca metallica di una decina di centimetri di cui non riusciamo ancora a capire la natura?”. Rivelazioni e misteri, come nella migliore tradizione non solo dell’egittologia. E allora si capisce perché basterebbe da sola la sezione dedicata alla mummia di Asti a giustificare una visita alla mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” allo Spazio Aquileia di Jesolo fino al 15 settembre 2018 (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/11/17/egitto-dei-faraoni-uomini-jesolo-si-prepara-a-ospitare-per-quasi-un-anno-una-grande-mostra-ideata-dagli-egittologi-ciampini-e-roccati-e-curata-da-donatella-avanzo-con-reperti-dai/) .

Il conte Leonetto Ottolenghi, ritratto da Paolo Arri, conservato alla fondazione Palazzo Mazzetti di Asti

La Tac alla mummia contenuta nel sarcofago di Ankhpakhered, realizzata al Fatebenefratelli di Milano
Il regalo di un mecenate. Come si diceva, da più di un secolo si parla della “mummia di Asti”. La collezione egizia del museo civico Archeologico di Asti, si deve, quasi totalmente, alla munificenza del banchiere ebreo, il conte Leonetto Ottolenghi (1846 – 1904) e dalla donazione Fantaguzzi. La raccolta egizia è composta da circa un centinaio di oggetti, quali un frammento di tabella dell’Antico Regno, due mummie, con i sarcofagi, uno a nome di Ankhpakhered, il bel canopo di Tadiher, amuleti, ushabti e statuette di divinità. La “mummia di Asti” faceva dunque parte dei reperti arrivati nel 1903 al museo di Asti, grazie alla donazione dei discendenti della famiglia Maggiora Vergano. Della mummia si sapeva poco o niente al di là di scarne note di cronache: proprietà della famiglia Ottolenghi che lo acquistò nell’Ottocento e da nove anni custodita dal museo astigiano. Più informazioni c’erano invece per l’altra mummia, quella conservata nel secondo sarcofago della collezione Ottolenghi riccamente effigiato con i gerofiglici che ricordano Ankhpakhered, il sacerdote del dio Min, vissuto tra la XXII e XXIII dinastia, databile tra il 945 e il 715 a.C. Nel 2009 la mummia contenuta fu affidata all’ospedale Fatebenefratelli di Milano per il check-up completo nell’ambito del progetto Ankhpakhered Mummy. I risultati erano giunti dopo due anni di studi e indagine medica. “È stato complicato anche fare l’endoscopia”, avevano spiegato gli esperti, “per l’enorme presenza nella pancia di bende raggomitolate e sistemate negli spazi vuoti degli elementi scheletrici per fare da riempimento. Sicuramente la mummificazione dell’uomo è avvenuta molti mesi dopo la morte, quando era già scheletro”. Ma alla fine, grazie agli studi del centro ricerche Mummy Project, la mummia aveva un nome e soprattutto un volto. “Si tratta di un uomo che è morto a 40 anni non per eventi di natura traumatica ma probabilmente o di vecchiaia o per un infezione al sangue”, aveva ricostruito Sabina Malgora, egittologa e co-direttore insieme a Luca Bernardo di Mummy Project. “Decisiva l’endoscopia anche per la datazione certa della mummia, fra il 400 e il 100 a.C.”. L’uomo si chiamava Wehem-ef-ankh, e proveniva dalla città di Akhim. “Il sarcofago che la conteneva”, ha raccontato Malgora, “ed è questa la storia singolare, deve essere stato trafugato dalla famiglia di Wehem per dargli onorata sepoltura. D’altronde qualche dubbio lo avevamo avuto già due anni fa, quando abbiamo iniziato il complesso studio per svelare il mistero”.

La mummia di Asti, oggi la “Signora delle Ninfee”, sottoposta a tac all’ospedale Cardinal Massaia di Asti

Da sinistra, davanti alla mummia di Asti, Gianfranco Imerito, assessore alla cultura di Asti; Enrico Longo, responsabile Cultour Active; Donatella Avanzo, curatrice (foto Graziano Tavan)
Altra mummia, altre sorprese. Il progetto “Mummia di Asti”, in prospettiva per la mostra di Jesolo, parte nell’autunno 2017. È la stessa Donatella Avanzo, direttore del progetto scientifico, a ricordare alla presentazione in anteprima della mostra al Pala Arrex di Jesolo, il piccolo esercito multidisciplinare di esperti coinvolti. Grazie al supporto e alla collaborazione della Polizia criminale è stato infatti possibile realizzare la ricostruzione del volto e con il reparto di radiodiagnostica dell’ospedale di Asti è stata realizzata una Tac sulla mummia che sta già richiamando l’attenzione dei più grandi studiosi ed egittologi. La ricostruzione del volto e di parte del corpo della mummia astigiana è stata effettuata grazie al supporto e alla collaborazione della Polizia di Stato, con il contributo del Reparto di Radiodiagnostica dell’Ospedale Cardinal Massaia di Asti, al fine di conoscere lo stato di conservazione, stabilirne l’età e poter effettuare in modo scientifico la ricostruzione. I nomi scorrono come nei titoli di coda di un film: Rosa Boano, ricercatrice in Antropologia fisica dell’università di Torino; Ida Grossi, direttore generale Asl di Asti; Federico Cesarani, primario di Radiodiagnostica ospedale di Asti; Leonardo Capitolo, dirigente medico, e Angela Grasso, specializzanda, di Radiodiagnostica università di Torino 2; Massimo Scognamiglio e Gabriella Borgogno, tecnici sanitari di Radiologia medica asl di Asti; Guglielmo Ramieri, professore di Chirurgia Maxillo-facciale dell’università di Torino; Mario Raso, specialista in Chirurgia plastica ricostruttiva dell’istituto nazionale Tumori di Milano; Marinella La Porta, direttore tecnico del laboratorio di Genetica forense della Polizia di Stato di Torino; Valter Capussotto, sovrintendente capo della Polizia scientifica di Torino; Michele Guaschino, scultore; Martina Zambotti, accademia Belle arti per la modellazione al laboratorio Guaschino; Francesco Sculco, artigiano restauratore; Aldo Maschio e Ionel Vitalie, onoranze funebri di Asti; Gian Luigi Nicola, direttore, e Anna Rosa Nicola, restauratrice, del laboratorio di restauro Nicola di Aramengo d’Asti; Silvana Cincotti, egittologa.

La curatrice Donatella Avanzo con l’assessore di Asti Gianfranco Imerito guardano i sarcofagi di Asti e Firenze (foto Graziano Tavan)
Da Tebe a Jesolo (via Asti e Firenze). Al mondo sono solo quattro i sarcofagi conosciuti accomunati da una caratteristica piuttosto rara: la decorazione di fiori sulle bande laterali dell’acconciatura. Uno è conservato al museo Egizio del Cairo; uno al museo Egizio di Firenze; uno al museo Archeologico di Asti; il quarto, ancora inedito, al Detroit Institute of Art. Di questi quattro, ben due sono esposti nella mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” di Jesolo. “Sono tutti sarcofagi femminili, e in quello di Firenze si notano anche i seni resi sotto le bande dell’acconciatura”, spiega Gloria Rosati, egittologa dell’università di Firenze. “I sarcofagi Asti e Firenze furono acquisiti entrambi con una mummia all’interno; ma, mentre quella di Asti è di genere femminile e presumibilmente la proprietaria stessa del sarcofago, a Firenze si è scoperto che la mummia è invece di un uomo, perciò sarà stata aggiunta al sarcofago, come spesso si è dovuto constatare, per un senso di completezza e per aumentare il prezzo”. Vedere accostati vicini, in mostra, i sarcofagi di Asti e di Firenze, databili tra la fine della XXI dinastia e l’inizio della XXII (circa 950-870 a.C.), si possono meglio apprezzare le notevoli corrispondenze che potrebbe far pensare a un laboratorio comune, attivo a Tebe. “Sono davvero parecchi i paralleli che si possono mettere in evidenza tra i due sarcofagi”, sottolinea Rosati, lanciando un’ipotesi suggestiva: “Chissà mai che a Jesolo non si siano di nuovo trovati accanto due oggetti che magari lo erano stati poco meno di 3mila anni fa, tra le mani di ebanisti e pittori tebani, e che poi hanno visto passare secoli e secoli: uno, quello arrivato ad Asti, ha assolto la sua funzione, ha conservato fino a oggi la sua proprietaria; l’altro probabilmente sì, e poi qualcuno, quando erano passati circa 28 secoli, ha pensato bene di ravvivarne la decorazione”.
(1 – continua)
A Tourisma 2017 tutti in fila per un’esperienza unica: entrare nella camera funeraria di Tutankhamon, ricostruita in scala 1:1, e poi assaggiare lo shedeh, il vino che faceva resuscitare i morti, ricreato nel Trevigano sulla base dei ritrovamenti nella tomba del faraone fanciullo
“Scusi, dov’è la tomba di Tutankhamon? Il mio nipotino mi ha chiesto di accompagnarlo proprio per vederla…”. Chi ha frequentato il palazzo dei Congressi a Firenze per Tourisma 2017, il salone internazionale dell’archeologia, gli sarà capitato più di una volta di sentirsi rivolgere questa domanda da visitatori disorientati dalla complessa e ricca articolazione della kermesse diretta da Piero Pruneti. “Segua la fila…”. E sì, perché per tutti tre i giorni di Tourisma è stata una fila continua, ordinata, emozionata, desiderosa di provare un’esperienza unica: entrare nella tomba del faraone fanciullo, vera attrattiva del salone. La camera funeraria è stata infatti ricostruita, come Howard Carter la scoprì nel 1922, in scala 1:1 dall’artigiano e appassionato di egittologia Gianni Moro, dopo tre anni di studio e lavoro su un progetto scientifico delle università di Torino Padova e Venezia. “Entrando”, spiega l’ideatrice del progetto, l’egittologa Donatella Avanzo, “si respira un fascino sospeso, come se fossimo accolti anche noi nell’aldilà del sovrano”. La copia esatta della camera funeraria ha riproposto gli affreschi, ma anche i gioielli, il trono, gli oggetti con cui il faraone fanciullo fu sepolto. Tra questi c’erano tre anfore con tre tipi di vino diversi. Quello chiamato Shedeh, che doveva aiutare a far rinascere il sovrano, è stato ricreato da un produttore trevigiano, utilizzando semi ritrovati nella tomba.
“Nella tomba di Tutankhamon”, ricorda Avanzo, “sono state ritrovate ventitré anfore vinarie. Tre, in particolare, erano state collocate rispettivamente a est, a ovest e a sud rispetto al sarcofago: la prima conteneva vino bianco, a bassa gradazione, a indicare il sole debole del mattino; la seconda vino rosso, più forte, come il sole caldo di metà giornata mentre la terza vino shedeh, più alcolico, dolce e gradevole, che si pensava potesse dare al defunto l’energia necessaria per rinascere al termine del suo viaggio notturno. Su questa anfora era riportata la scritta irep nefer nefer nefer, e cioè vino buono buono buono, una sorta di garanzia di qualità che ne indicava lo straordinario livello di pregio, oltre all’annata di produzione e al nome del capo cantina, segno di quanto fosse considerata importante in quella civiltà la cultura vitivinicola”. Shedeh: un vino dunque così buono da essere considerato capace di riportare in vita i morti. Ricreare quel vino, utilizzando le tecniche del tempo, è stata l’improbabile quanto affascinante sfida che hanno deciso di raccogliere Donatella Avanzo e Fabio Zago dell’azienda Antonio Rigoni di Chiarano (Treviso).
“Tutto è nato nel 2005”, racconta l’egittologa, “quando abbiamo presentato al salone del vino di Torino la ricostruzione di un torchio per la vinificazione utilizzato in epoca ramesside, sulla base di disegni ritrovati nelle tombe e delle ricerche di Patrick McGovern”. Il progetto successivo è stato la ricostruzione tridimensionale, in scala 1:1, della camera mortuaria del “faraone fanciullo” Tutankhamon, scomparso nel 1323 a.C. a 19 anni, e scoperta nel 1922 da Howard Carter. Proprio questa riproduzione, realizzata dall’artigiano Gianni Moro, è stata lo stimolo per spingersi poi oltre e provare a riprodurre quel nettare ritrovato in fondo a una delle anfore della tomba”. Lo shedeh presentato a Tourisma 2017 è stato realizzato con le uve più antiche del territorio trevigiano. “È un progetto”, sottolinea Zago, “che si presta bene all’invecchiamento in bottiglia, rivolto a una clientela medio-alta”. E per dare un tocco di classe, sull’etichetta è stata riportata una famosa dichiarazione d’amore contenuta nel famoso papiro, Harris 500, custodito al British Museum: “Ascoltare la tua voce è per me vino shedeh”.
“Tutankhamon a Roma nel 2018”: Zahi Hawass alla Borsa Mediterranea del Turismo archeologico di Paestum ha annunciato un tour mondiale della maschera funeraria del famoso faraone prima che tutto il tesoro di Tut sia trasferito al Grand Egyptian Museum (Gem) in costruzione a Giza. Intanto nuovi studi: “Sotto la Sfinge non c’è nulla, altro che alieni!”

La maschera funeraria di Tutankhamon: uno dei tesori trovati da Carter e Carnarvon nella tomba del giovane faraone
La maschera funeraria di Tutankhamon sarà esposta eccezionalmente a Roma nel giugno 2018. Non è una boutade. Ad annunciarlo ufficialmente in un incontro molto applaudito alla XIX Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum una fonte attendibile: l’ex segretario generale del Consiglio supremo delle Antichità egizie, Zahi Hawass. Il “faraone” è tornato. E anche se oggi – dopo le alterne vicissitudini che lo hanno coinvolto direttamente dalla caduta del governo Mubarak – non riveste più un ruolo ufficiale (rimane comunque nella commissione governativa incaricata di far rientrare i tesori egizi dal mondo), rimane ancora l’egittologo egiziano più famoso lontano dal Nilo, sempre pronto a difendere e valorizzare il patrimonio artistico del suo Paese e, in definitiva, a promuovere l’Egitto. “La maschera è stata finalmente riportata al suo splendore da un nuovo recente restauro – spiega – e dalla fine del prossimo anno la porteremo in giro per il mondo, fino ad esporla a Roma. Vogliamo che i rapporti tra le nostre nazioni riprendano fortissimi come una volta. Dovete tornare in Egitto – esorta- abbiamo bisogno degli italiani per tenere vivi i nostri monumenti. Vi assicuro che ora il mio Paese è sicuro”. Se Hawass vede “l’operazione Tut” come già fatta, da parte delle autorità egiziane la prudenza è d’obbligo. Non solo non si sbilanciano sul tour della maschera di Tutankhamon e tanto meno sulle date, ma ricordano pure che al momento per legge la maschera d’oro è uno dei tesori inamovibili e che non possono andare all’estero. Vedremo.
Ma come sarà allora possibile che uno dei tesori più famosi al mondo conservati nel museo Egizio del Cairo prenda la strada dell’estero? In realtà questa sarebbe una operazione di marketing abbastanza frequente quando i grandi musei si trovano costretti a fermare le visite del pubblico per impegnativi interventi di ristrutturazione o di riallestimento. Pensiamo alla “Ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer capolavoro-simbolo della Mauritshuis dell’Aia, o, per restare in ambito egizio, la collezione del museo nazionale di Antichità di Leiden ancora in Olanda, che hanno girato il mondo mentre si restauravano le rispettive sedi museali. Anche la maschera funeraria di Tutankhamon potrebbe dunque diventare ambasciatore speciale e straordinario del tesoro del faraone bambino, ma non più come simbolo del museo Egizio del Cairo bensì del nuovo Grande museo Egizio del Cairo, il Gem (Grand Egyptian Museum), che sta sorgendo nella piana di Giza, all’ombra delle piramidi: più di una decina di anni fa, infatti, di fronte alla situazione oggettiva del museo di piazza Tahir, un palazzo neoclassico inaugurato nel 1902, sovraccaricato di mummie, statue e altri reperti (“Un magazzino”, bollato a Parigi), l’allora ministro della Cultura Farouk Hosny accarezzò l’idea di un nuovo museo Egizio, che ospitasse tutto il tesoro della tomba di Tutankhamon, scoperta nel 1922, per ospitare il quale si individuò uno spazio nel museo Egizio del Cairo, che da allora fu costretto a “stringersi”, per conservare il prezioso tesoro: oggi custodisce 160mila pezzi, di cui esposti solo 60mila. Alla fine il Gem, su una superficie di 47 ettari, conterrà 100mila pezzi provenienti da 5 aree dell’Antico Regno, 4500 dei quali saranno l’intera collezione dei ritrovamenti di Tutankhamon. “La questione è che oggi la presentazione dei tesori del faraone Tut è giocoforza circoscritta a due gallerie in un’unica sala, troppo poco per un repertorio di quel livello”, dice Tarek Tawfik, direttore del progetto del nuovo Grand Egyptian Museum, che metterà in mostra gli oggetti con criterio tematico. “I reperti saranno presentati in modo tale che i visitatori abbiano idea dell’ambiente in cui sono stati trovati”.
Ma quando aprirà il Gem? In questi anni gli annunci della data di inaugurazione si sono sprecati, complicata anche dagli eventi politici che hanno coinvolto l’Egitto dal 2011. Per ora a Giza si può vedere una selva di gru che disturbano non poco lo skyline delle piramidi. Ma stavolta la data del 2018 sembrerebbe abbastanza plausibile. Non solo per l’annuncio di Zahi Hawass dalla platea della Bmta di Paestum, ma anche perché, come avrebbe confermato il ministro delle Antichità egizie Khaled El-Enany, sarebbe già iniziato lo spostamento del tesoro di Tutankhamon destinato a trasferirsi permanentemente al Gem di Giza dopo più di 80 anni di presenza al Cairo.
A Paestum non si è parlato solo di Tutankhamon. Spaziando a tutto campo, Zahai Hawass si è scagliato contro quei “musei che vendono antichità come quello di Toledo in Ohio e contro i folli dell’Isis che hanno l’obiettivo di rubare i nostri tesori per rivenderli. Chiunque compera opere rubate – stigmatizza – è un collaboratore dell’Isis. L’Unesco deve insegnare a chi lavora nei musei in Libia, Iraq e Siria come nascondere i propri tesori”. Zahi Hawass ha poi raccontato come i comandanti dell’esercito siano intervenuti a preservare i tesori custoditi al museo Egizio del Cairo durante i due anni di crisi tra il 2010 e il 2011 (“Mille tombaroli hanno provato a depredare il museo”, ricorda), per poi illustrare come, per la prima volta, si stiano eseguendo le scansioni delle Piramidi grazie ai nuovi radar messi a disposizione per le ricerche del team scientifico tra Il Cairo, Alessandria e la Valle dei Re. In quest’ultimo sito con tecniche progettate in Italia in collaborazione con l’università di Torino. “Forse già a dicembre riusciremo ad annunciare nuove grandi scoperte. Intanto posso confermare anche a voi che sotto la Sfinge non ci sono gli alieni”, ha scherzato, mostrando le immagini frutto di 32 perforazioni effettuate con le nuove tecniche che confermano come sotto la roccia non ci sia nulla.
Scoperta nella necropoli della Doganaccia a Tarquinia una tomba etrusca di 2600 anni fa ancora inviolata. Progetto per valorizzare la Via dei Principi tra i tumuli del Re e della Regina
È rimasta chiusa per 2600 anni. Ma quando gli archeologi dell’università di Torino e della soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria meridionale l’hanno aperta, si sono trovati di fronte a qualcosa di eccezionale. Nella necropoli etrusca della Doganaccia a Tarquinia è stata rinvenuta una tomba del VII secolo avanti Cristo, intatta. Dell’eccezionale scoperta hanno parlato a Firenze, al X incontro nazionale di Archeologia Viva, Alfonsina Russo, soprintendente per i Beni archeologici dell’Etruria Meridionale, e Alessandro Mandolesi, docente di Etruscologia e Antichità italiche all’università di Torino.
“Se il Vicino Oriente in generale, e la Mesopotamia in particolare, sono territori ad altissimo rischio saccheggi, dove il patrimonio archeologico è alla merce’ di tombaroli, soldataglie e governatori corrotti che alimentano il mercato antiquario depredando i siti del proprio territorio”, esordisce Alfonsina Russo, “c’è un territorio in Italia – l’Etruria – che è stato per lungo tempo altrettanto terra di rapina da parte di tombaroli e oggetto di scavi clandestini che ne hanno depauperato il patrimonio. Almeno fino alla metà degli anni Novanta quando, con l’arrivo del Nucleo Tutela Patrimonio Beni Culturali dell’Arma dei Carabinieri si è posto un freno a queste devastanti attività illecite con l’arresto di numerosi trafficanti di antichità attivi proprio in Etruria. È quindi un fatto eccezionale – continua – poter annunciare il ritrovamento, avvenuto alla fine dell’estate 2013, di una tomba etrusca inviolata, ancora integra all’interno di un territorio particolarmente importante come è quello di Tarquinia, e nello specifico all’interno della famosa necropoli della Doganaccia, dove è ben testimoniato il cosiddetto periodo “orientalizzante” (VII sec. a.C.)”.
La scoperta della tomba 6423 che, come vedremo più avanti, è stata chiamata “dell’Aryballos sospeso” risale al 21 settembre scorso: un sepolcro inviolato rinvenuto nel corso della sesta campagna di scavo del Tumulo della Regina, sepolcro monumentale di oltre 40 metri di diametro, situata a poca distanza dal monumento principale che domina, insieme al gemello Tumulo del Re, l’area archeologica della Doganaccia, a Tarquinia. Gli scavi sono iniziati nel 2008, diretti dalla soprintendente Alfonsina Russo e dall’etruscologo Alessandro Mandolesi dell’università di Torino, con il coinvolgimento e la collaborazione delle associazioni locali. Russo e Mandolesi– proprio per questo ritrovamento – sono stati insigniti di un importante riconoscimento dal presidente Daniele Leodori, a nome del consiglio regionale del Lazio.
La necropoli della Doganaccia si trova al centro della vasta area sepolcrale di Tarquinia, caratterizzata dalla presenza di due grandi tumuli, che l’immaginario popolare ha chiamato “del Re” e “della Regina”, e che oggi sappiamo divisi dal passaggio (ovvero essere posti ai lati) della strada che collegava il porto di Tarquinia (non ancora localizzato con precisione) con la civita: questa strada, che oggi chiamiamo la Via dei Principi, era già stata ipotizzata dal grande etruscologo Massimo Pallottino nella prima metà del secolo scorso. “Tutta l’area della Doganaccia, come si diceva, dal tumulo del Re a quello della Regina alle tombe a essi collegati”, spiega la soprintendente, “è interessata al periodo culturale “orientalizzante” (VII sec. a.C.) che segna il trionfo della mentalità e delle forme socio-economiche della nascente aristocrazia etrusca, quella dei Principi, che avevano rapporti con Corinto, Cipro e il Mediterraneo Orientale in genere. Questo rapporto è attestato dalla metà dell’VIII secolo (730 a.C.) all’inizio del VI (580 a.C.). È in questo periodo che i Principi, come segno della acquisita potenza economica e politica, allargano i tumuli, e li riempiono di prodotti esotici, soprattutto dall’Egitto, come uova di struzzo e oggetti in faiance, che oggi possiamo ammirare al museo nazionale di Tarquinia. I Principi avevano dunque contatti e traffici regolari con i greci e i fenici”. Non conosciamo ancora l’ubicazione esatta del porto di Tarquinia, ma ci sono testimonianze archeologiche alle Saline (importante insediamento dell’Età del Ferro) e alla foce del fiume Marta. “Fonti antiche latine raccontano che verso la metà del VII secolo a.C.”, continua Russo, “qui approdò – proveniente da Corinto – Demarato, il padre di Tarquinio Prisco. Demarato arrivò a Tarquinia non a caso, ma perché già si conoscevano questi luoghi. Quindi il collegamento dalla costa alla civita, quello che passa attraverso i tumuli, era più antico e già noto”. La soprintendenza dell’Etruria meridionale ha ora lanciato il progetto di valorizzazione della Via dei Principi, sviluppando proprio i rapporti che la vicenda di Demarato sottende. Il progetto collega in un percorso culturale i tumuli del Re e della Regina con il museo archeologico nazionale di Tarquinia e le tombe etrusche dipinte.
Il tumulo del Re era stato scavato nel 1928, ma per avere idea di cosa poteva custodire il tumulo della Regina si è dovuto attendere 80 anni fino al 2008 quando è iniziata la sua esplorazione ufficiale. Lo scavo ha rivelato un quadro più articolato e complesso. “È stato trovato un grande vestibolo monumentale a cielo aperto a pianta cruciforme”, interviene il prof. Mandolesi: “questa è una tipica espressione della architettura nella Cipro (sito di Salamina) di cultura omerica. Oltre alla gradinata che precede la piattaforma cultuale, sono state ritrovate tracce di intonaco bianco, caso unico a Tarquinia, e anche in questo caso riferibile a un modello presente a Cipro. E un altro ritrovamento eccezionale nel vestibolo riguarda le tracce di pittura murale tarquiniese: sono le più antiche finora trovate. Purtroppo, nonostante queste incoraggianti e stimolanti premesse, le ricerche archeologiche al tumulo della Regina sono state interrotte per mancanza di fondi”.
Si è invece continuato a sondare e scavare l’area vicino al tumulo della Regina. È qui che è stato trovato un sepolcreto che, vista la vicinanza con il tumulo monumentale, si ipotizza possa essere relativo a famiglie di rango collegate in qualche modo al signore (titolare) del tumulo. È qui che è stata trovata una tomba gemina (640-630 a.C.) realizzata su modello cipriota che imita il tumulo della Regina. È un tumulo di 6 metri di diametro. A una profondità di tre metri si presenta la facciata con lastre a sigillare la porta d’ingresso: una sigillatura compatta che aveva ancora il servizio da simposio posto accanto alla porta. “La perfetta conservazione di quella sigillatura”, sottolinea Mandolesi, “ci ha permesso di dire che eravamo davanti a una tomba integra, non violata né in antico né in tempi recenti: e questo è un fatto eccezionale. L’ingresso presenta una porta ad arco (tipico modello architettonico del VII sec. a.C.) che dà accesso a una piccola camera ricolma di oggetti: la pianta è rettangolare, con due panchine, che sono due letti funerari, più lunga quella a sinistra, più piccola quella a destra. Il corredo funerario è stato posto nello spazio al centro e ai piedi delle due deposizioni. C’erano anche piccoli troni per sostenere il corredo”.
Appeso alla parete di testa un aryballos (di qui il nome dato dalla soprintendente Alfonsina Russo alla tomba: “dell’aryballos sospeso”): quello è l’unico trovato in situ, ma dai fori sulle pareti o dagli appigli (chiodi) ancora visibili si può dire che nella tomba in tutto erano nove gli unguentari appesi al muro. Le differenti dimensioni dei due letti scavati nella roccia per le deposizioni hanno rivelato anche un diverso rito funerario: a inumazione e a incinerazione. Su quello di sinistra infatti c’era uno scheletro, probabilmente di una donna sui 35-40 anni, deposta con ricchi ornamenti e oggetti personali, fra cui una raffinata pisside in lamina di bronzo contenente (secondo uno studio per ora solo con i raggi X) oggetti da ricamo: degli aghi in bronzo o argento, alcuni con la punta ritorta. Sull’altro letto più piccolo sono state ritrovate, invece, le ceneri di un uomo: il marito o il figlio. L’utilizzo della tomba (620-570 a.C.) testimonia una sequenza di deposizione nell’arco di circa mezzo secolo. L’architettura della tomba è tipica del VII secolo: sullo schema a botte viene disegnato un timpano con una linea rossa. La struttura richiama quindi più il concetto di padiglione che quello di casa. Probabilmente l’uomo è morto dopo, quando era già cambiata la mentalità e la cultura. Ricco il corredo funerario composto da vasellame (ceramiche etrusco-corinzie a impasto), oggetti di ornamento, fibule, suppellettili, sigilli, monili e armi tra cui una lancia e un giavellotto.
“Ora è necessario fare le analisi dei resti della sepoltura e studiare i materiali del corredo”, annuncia Alfonsina Russo, “per poter così capire meglio l’ordine seguito nelle deposizioni. Questa tomba è importante anche perché segna il passaggio dalla società dei Principi a una società più popolare”. I reperti trovati verranno sottoposti ad analisi scientifiche nei centri di restauro specializzati. “Apriremo il cofanetto, che pensiamo possa contenere anche gioielli; e condurremo indagini sui resti organici per capire cosa mangiavano i principi”, spiega la soprintendente, riferendosi alla pisside. Per quanto riguarda le armi ritrovate (una lancia, un giavellotto e un coltello rituale), anche queste saranno a breve oggetto di studio. I reperti in metallo e il materiale organico andranno ai laboratori di analisi dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali di Roma e il restante materiale sarà analizzato nei laboratori di Diagnostica e Restauro di Montalto di Castro (della società Mastarna), dalla soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria meridionale e dall’accademia di Belle arti “Lorenzo da Viterbo”.
“È motivo di soddisfazione, in un periodo così difficile per la tutela, perché abbiamo scarse risorse economiche e umane”, conclude Russo, “aver ottenuto questo risultato raggiunto solo grazie a una operazione sinergica con il Comune di Tarquinia, l’Università di Torino e anche, in futuro, con la Regione Lazio, visto che stiamo portando avanti un progetto di valorizzazione di questo sito tramite un finanziamento Por. Tutto ciò dimostra la bontà degli obiettivi che si possono raggiungere grazie alla sinergia tra vari enti e istituzioni”. Saranno infatti presto svolti lavori di valorizzazione dell’intera area, grazie a un finanziamento europeo (Por Fesr), erogato dalla Regione Lazio, nell’ambito del progetto Via dei Principi, che comprenderanno i restauri delle strutture con l’obiettivo di creare un Parco archeologico a tema. Ma è auspicio di tutti che per il futuro si possano proseguire anche gli scavi della Doganaccia.
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