Torino. Conferenza egittologica con Enrico Ferraris curatore del museo Egizio su “Ritorni celesti nel firmamento d’Egitto: i due orologi stellari del museo Egizio” con la presentazione di un nuovo frammento inedito di tavola stellare diagonale

L’osservazione del moto apparente del firmamento ha dato forma, in Egitto, ad una peculiare concezione circolare del tempo che permea la tradizione religiosa e funeraria egizia. Se ne parla giovedì 14 gennaio 2021, alle 18, al museo Egizio che ospita la conferenza egittologica online “Ritorni celesti nel firmamento d’Egitto: i due orologi stellari del Museo Egizio” tenuta dal curatore Enrico Ferraris. Nel corso della conferenza saranno analizzate due tavole stellari diagonali presenti nella collezione del museo Egizio (Mereru e Iqer) e sarà presentato un nuovo frammento inedito che porta così a 28 il numero complessivo dei documenti, interi o frammentari, esistenti al mondo. La conferenza si terrà in italiano e sarà introdotta da Christian Greco, direttore del museo Egizio. La conferenza verrà trasmessa in diretta streaming sulla pagina Facebook e sul canale YouTube del museo Egizio.

L’osservazione del moto apparente del firmamento ha dato forma, in Egitto, a una peculiare concezione circolare del tempo che permea la tradizione religiosa e funeraria egizia. La prima chiara evidenza di un processo di registrazione e traduzione grafica dei moti delle stelle è documentata dalle cosiddette tavole stellari diagonali che decorano i coperchi di sarcofagi datati tra la fine del Primo Periodo Intermedio e l’inizio del Medio Regno (ca. 2000 a.C.) e provenienti principalmente dalla necropoli di Assiut. Una tavola stellare diagonale ha l’aspetto di una griglia nella quale trovano posto i nomi di 36 stelle appositamente selezionate per scandire, con il loro sorgere, le dodici ore della notte nel corso dell’anno; la loro sequenza, si rinnova così idealmente con la levata di Sirio che, a fine luglio, annunciava l’arrivo della piena del Nilo, l’avvio del nuovo anno agricolo e la promessa di rinascita per gli spiriti dei defunti.

L’egittologo Enrico Ferraris, curatore del museo Egizio di Torino (foto museo egizio)
Enrico Ferraris si è laureato in Egittologia all’università di Torino e poi ha conseguito il dottorato di ricerca a Pisa con una tesi intitolata: “Oggetti celesti e culti stellari nella documentazione figurativa e testuale egiziana”. Ha lavorato per la missione di scavo dell’università di Torino ad Alessandria d’Egitto (2001-2007) e per il ministero degli Affari Esteri italiano al museo Egizio del Cairo nell’ambito del progetto “GEM – Grand Egyptian Museum” (2004). Dal 2013 è curatore al museo Egizio di Torino ed è responsabile del programma di analisi archeometriche dei reperti della tomba intatta di Kha e Merit, denominato TT8 Project (2018-2023). Ha curato la mostra temporanea “Archeologia Invisibile” (attualmente in corso).
Torino. De Martino e Greco aprono le conferenze (on line) del museo Egizio con l’Acme su “Cause, conseguenze e memoria della pandemia che colpì l’Egitto e il regno ittita nel XIV secolo a.C.”. Diretta streaming


Nel XIV sec. a.C. ci fu una pandemia che colpì l’Egitto e il regno ittita (foto museo Egizio)
Negli ultimi anni di regno del faraone Amenhotep IV, il re ittita Suppiluliuma I condusse due spedizioni militari nella regione corrispondente all’attuale Libano che a quel tempo era sotto il dominio egiziano. Le fonti ittite tramandano la notizia che i soldati dell’esercito di Suppiluliuma I furono contagiati dalle truppe egiziane e contrassero una grave malattia epidemica. Di questo terribile evento si parlerà nella conferenza egittologica online “Cause, conseguenze e memoria della pandemia che colpì l’Egitto e il regno ittita nel XIV secolo a.C.” con Stefano de Martino e Christian Greco, martedì 24 novembre 2020, alle 18. La conferenza, che sarà in lingua italiana e verrà trasmessa in streaming sul profilo YouTube e sulla pagina Facebook del museo Egizio di Torino, inaugura il ciclo di appuntamenti online che vede uniti museo Egizio e ACME Associazione Amici e Collaboratori del Museo Egizio nel dare voce a studiosi provenienti dall’Italia e dall’estero per rendere noti risultati e passi avanti delle varie ricerche in campo egittologico. Le lettere di Tell el Amarna confermano che nel Levante si fosse in effetti diffusa un’epidemia. Questa pandemia dilagò in tutto il regno ittita e durò per circa venti anni. Analizzando le fonti ittite disponibili, e in particolare le preghiere innalzate alle divinità dal re Mursili II per scongiurare la fine della pandemia, il relatore, in dialogo con il direttore del museo Egizio, cercherà di comprendere che malattia fosse stata, quali fossero stati i provvedimenti presi dal re ittita, e quali ricadute a livello politico ed economico questa grave pandemia avesse avuto.

Stefano De Martino del dipartimento di Studi storici dell’università di Torino (foto museo Egizio)
Stefano de Martino. È professore ordinario al dipartimento di Studi storici dell’università di Torino, dove insegna Ittitologia e Civiltà dell’Anatolia preclassica. Direttore scientifico del Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l’Asia, è inoltre coordinatore del dottorato dell’università di Torino “Technology Driven Sciences: Technologies for the Cultural Heritage”. È autore di saggi e volumi sulla storia, la civiltà e la lingue degli Ittiti e dei Hurriti; fa parte del team internazionale che studia e pubblica le tavolette in lingua hurrita rinvenute nel sito di Ortaköy (Turchia).

Christian Greco, direttore del museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)
Christian Greco. Nato nel 1975 ad Arzignano (VI), Christian Greco è direttore del museo Egizio dal 2014. Ha guidato e diretto il progetto di ri-funzionalizzazione, il rinnovo dell’allestimento e del percorso espositivo, concluso il 31 marzo 2015, che ha portato alla trasformazione dell’Egizio, da museo antiquario a museo archeologico. Formatosi principalmente in Olanda, è un egittologo con una grande esperienza in ambito museale: ha curato moltissimi progetti espositivi e di curatela in Olanda (Rijksmuseum van Oudheden, Leiden; Kunsthal, Rotterdam; Teylers Museum, Haarlem), Giappone (per i musei di Okinawa, Fukushima, Takasaki, Okayama), Finlandia (Vapriikki Museum, Tampere), Spagna (La Caixa Foundation) e Scozia (National Museum of Scotland, Edimburgh). Alla direzione del museo Egizio ha sviluppato importanti collaborazioni internazionali con musei, università ed istituti di ricerca di tutto il mondo. La sua forte passione per l’insegnamento lo vede coinvolto nel programma dei corsi dell’università di Torino e di Pavia, della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, della New York University di Abu Dhabi e della Scuola IUSS di Pavia con corsi di cultura materiale dell’antico Egitto e di museologia. Il lavoro in campo archeologico è particolarmente importante: è stato membro dell’Epigraphic Survey of the Oriental Institute of the University of Chicago a Luxor e, dal 2015, è co-direttore della missione archeologica italo-olandese a Saqqara. Al suo attivo ha molteplici pubblicazioni divulgative e scientifiche in diverse lingue e numerose partecipazioni a convegni internazionali di egittologia e di museologia come keynote speaker.
Torino. Il museo Egizio online non si ferma, mette al centro la ricerca, e raddoppia le conferenze con due calendari 2020-’21, entrambi al via da novembre: il primo con studiosi dall’Italia e dall’estero, su risultati e passi avanti delle ricerche in corso; il secondo con protagonisti i progetti di ricerca curati dal Dipartimento Collezione e Ricerca del museo Egizio

La cura e la cultura: per la stagione 2020/21 il museo Egizio di Torino “raddoppia” con due calendari di conferenze egittologiche, tutte online. A novembre il museo Egizio dà il via al proprio programma di conferenze scientifiche, che per la stagione 2020/2021 si presenta con un doppio calendario di incontri interamente online, incentrati sui temi di ricerca e di indagine egittologica, museale e archivistica, che vedrà alternarsi ricercatori internazionali e curatori del museo. L’istituzione, in linea con i propri principi e le proprie finalità, si propone quindi di diventare un palcoscenico dove egittologi e la comunità scientifica tutta raccontino le ricerche e gli studi condotti rendendoli accessibili a un pubblico ampio, che riunisce addetti ai lavori, appassionati e curiosi. Tutti gli appuntamenti verranno trasmessi in diretta streaming sulla pagina Facebook e sul canale YouTube del museo Egizio. “Uno dei compiti propri di un museo è quello di rendere visibile la ricerca che compie diffondendo i risultati degli studi compiuti e mettendoli a disposizione della comunità scientifica e del pubblico”, dichiara Christian Greco, direttore del museo Egizio. “Un’ambizione che in questo periodo assume una centralità ancora più forte perché ci permette di coltivare e mantenere vivo il fondamentale legame tra il museo e il suo pubblico, oltre che con la comunità scientifica nazionale e internazionale. Questo è possibile grazie a tutti coloro che seguono il museo Egizio e che possono esserne parte attiva non solo visitandolo, ma anche supportandone le attività di ricerca”.

Il primo ciclo di conferenze, realizzato in collaborazione con Acme (Associazione Amici e Collaboratori del Museo Egizio), si concentrerà sulla partecipazione di studiosi provenienti dall’Italia e dall’estero, i quali renderanno noti risultati e passi avanti delle varie ricerche in corso. Tra questi Vincent Rondot, direttore del Dipartimento di antichità egizie del Louvre (25 maggio 2021); Rita Lucarelli, che all’università di Berkeley sta conducendo degli studi sull’arte funeraria egizia utilizzando tecnologie 3D e di realtà aumentata (8 giugno 2021); Ramadan Badri Hussein, che terrà una lezione su alcune recenti scoperte legate agli scavi di Saqqara in Egitto (26 gennaio 2021); e Luigi Prada, membro del Dipartimento di Egittologia dell’università di Oxford e presidente ACME (29 giungi 2021). La prima Conferenza è in programma martedì 24 novembre 2020, a cura di Stefano De Martino dell’università di Torino e del direttore Christian Greco su “Cause, conseguenze e memoria della pandemia che colpì l’Egitto e il Regno Ittita nel XIV secolo a.C.”.

La novità di quest’anno è invece rappresentata dal ciclo di conferenze “Museo e Ricerca. Scavi, Archivi e Reperti”, che vedrà come protagonisti i progetti di ricerca curati dal Dipartimento Collezione e Ricerca del museo Egizio. Un modo per dare evidenza e centralità agli studi in corso sulla collezione, che comprendono sia approfondimenti specifici su singoli reperti o contesti archeologici, sia progetti di più ampio respiro e di interesse generale, sempre connessi alla cultura materiale custodita in museo. Sarà proprio con un incontro tenuto da uno dei curatori del Museo che inizierà la programmazione, che proseguirà fino al mese di giugno 2021: giovedì 12 novembre 2020 alle 18, infatti, sarà una conferenza a cura di Paolo del Vesco sugli scavi della missione congiunta del museo Egizio e del museo Nazionale di Antichità di Leiden a Saqqara a inaugurare la nuova stagione di conferenze egittologiche dell’istituzione.
“Lo sguardo dell’antropologo”: al museo Egizio di Torino aperta una nuova mostra per esplorare le connessioni tra egittologia e antropologia. Realizzata in collaborazione con il museo di Antropologia dell’università di Torino, chiuso dal 1984, restituisce al pubblico una parte della collezione dell’istituto universitario, tra cui la mummia da Gebelein

La locandina della mostra “Lo sguardo dell’antropologo” aperta al museo Egizio di Torino fino al 15 novembre 2020
La visita del museo Egizio di Torino si arricchisce de “Lo sguardo dell’antropologo”, una piccola mostra allestita in una sala del primo piano, realizzata dai curatori del museo Egizio in collaborazione con il museo di Antropologia ed Etnografia dell’università di Torino (MAET). La mostra, che rimarrà aperta fino al 15 novembre 2020, nasce dall’intento di mettere in dialogo le collezioni dei due musei, proponendo una riflessione sulle modalità con cui la cultura scientifica europea, tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX, percepiva e classificava i suoi “altri”. Un progetto che mira a ricostruire i rapporti tra egittologia e antropologia, individuando prospettive di ricerca e possibili aree di collaborazione futura. “Lo sguardo dell’antropologo” espone una quarantina di oggetti, in gran parte prevenienti dalle collezioni etnografiche del MAET, rappresentativi delle culture extraeuropee e dell’antico Egitto: fra essi il ruolo di protagonista spetta a una mummia di una giovane donna, caratterizzata da una tunica finemente plissettata, proveniente dal sito archeologico di Gebelein, oggetto di recenti indagini scientifiche e il cui restauro è stato da poco concluso presso il Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”.
L’esposizione intende dare particolare risalto alle tracce degli “sguardi” che si sono posati sui reperti nel momento del loro rinvenimento da parte di studiosi e antropologi: sguardi colmi di stupore, meraviglia ma anche di disprezzo o di compiacimento, improntati a una visione che classificava i gruppi umani all’interno di una griglia evolutiva. In quella prospettiva, gli abitanti dell’Africa – insieme alla maggior parte delle culture extraeuropee – erano visti come dei “primitivi” immersi nella magia e nella superstizione; l’Egitto, invece, fu idealmente disconnesso dal continente cui appartiene, per essere invece considerato la culla della civiltà occidentale. Su questo tema si concentra un video presente in mostra: “I giovani africani e l’Egitto”, che indaga il significato che l’antico Egitto ricopre per gli africani contemporanei, i quali, attraverso una serie di interviste, ribaltano provocatoriamente questa visione tipicamente orientalista dell’Egitto.

L’allestimento della mostra “Lo sguardo dell’antropologo” in una sala resa suggestiva anche per le vetrine ottocentesche e i pavimenti in legno originali del palazzo barocco (foto museo Egizio)
L’esposizione – realizzata in una sala resa suggestiva anche per le vetrine ottocentesche e i pavimenti in legno originali del palazzo barocco – conta altre tre sezioni, che riguardano la nascita e i contenuti dell’antropologia, la storia del museo di Antropologia ed Etnografia dell’università di Torino, museo a partire dalla sua fondazione nel 1926 da parte dell’antropologo Giovanni Marro, e il contesto di scavo nel quale fu rinvenuta la mummia su cui è stato effettuato il restauro. Sulla mummia della “giovane donna con tunica plissettata” sono state recentemente condotte dai ricercatori del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’università di Torino delle analisi biomolecolari innovative, le prime realizzate in modalità non invasiva su un resto umano di epoca egizia. Utilizzando una membrana che estrae le proteine presenti sulla superficie del reperto, è stato possibile rilevare i componenti originari della pelle della donna e i potenziali microrganismi causa del degrado, dati fondamentali per progettare il futuro monitoraggio dello stato di conservazione.
“Questa mostra”, spiega Christian Greco, direttore del museo Egizio, “esprime appieno la centralità dell’attività di ricerca nel nostro lavoro quotidiano: antropologia ed archeologia sono due discipline che camminano fianco a fianco per studiare e comprendere l’uomo, la sua cultura materiale. Un ambito in cui la collaborazione fra il Museo e l’Università assume una funzione primaria, consentendoci di approfondire la comprensione di quei frammenti di memoria che ci permettono di ricostruire i comportamenti, i rituali, le risposte alle domande esistenziali e, quindi, di comprendere noi stessi ed il ruolo che occupiamo nella società”. “Inoltre – aggiunge il direttore – con questa operazione vogliamo offrire una finestra al museo di Antropologia, purtroppo chiuso al pubblico, creando una connessione che racconta una pagina importante della storia della nostra collezione. Riportare la mummia al museo significa anche ricomporre corredi unitari: si tratta di scoperte fatte in Egitto durante le campagne della MAI dirette da Schiaparelli, di cui il Marro era l’antropologo fisico, e i reperti vennero poi suddivisi fra Museo e Università, dove andarono sostanzialmente i resti antropologici. L’esposizione consente quindi di riproporre e mostrare la collaborazione scientifica, di spiegare l’evoluzione dell’interesse accademico torinese che, oltre all’antropologia fisica, ha visto poi lo sviluppo dell’antropologia culturale. E proprio questo oggi ci avvicina ancora una volta, con un’iniziativa della cui realizzazione sono grato alla direttrice del museo di Antropologia, Cecilia Pennacini, e al presidente del Sistema Museale d’Ateneo dell’università di Torino, Enrico Pasini, nonché alla soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio della Città Metropolitana di Torino, nella persona di Elisa Fiore Marochetti”.
“Il museo di Antropologia ed Etnografia dell’università di Torino è chiuso al pubblico dal 1984: questa mostra, organizzata in collaborazione con il Museo Egizio, offre finalmente l’opportunità di esporre al pubblico alcuni preziosi reperti e di raccontare la storia di questo straordinario museo, che conserva oggetti e reperti provenienti da ogni parte del mondo”, dichiara Cecilia Pennacini, direttrice del MAET. “L’eterogeneità delle collezioni riflette lo sguardo del fondatore che, come molti studiosi dell’epoca, cercava di documentare la diversità dei gruppi umani inquadrandola erroneamente in una gerarchia di “razze” inferiori e superiori. L’antica civiltà egizia, a lungo studiata da Marro nell’ambito della Missione Archeologica diretta da Ernesto Schiaparelli, era posta al vertice di questa scala mentre le culture dell’Africa e di altre società extra-europee erano viste come arretrate. L’antropologia ha abbandonato da tempo questa visione, sia in ambito biologico che culturale, e il percorso espositivo suggerisce come oggi il lavoro sul terreno e lo studio analitico dei reperti consentano di produrre conoscenze preziose in grado di illuminare la storia di civiltà tuttora poco conosciute, restituendo a tutte la medesima dignità”.
Conferenza ANNULLATA. Al museo Egizio di Torino salta la presentazione del libro “L’impero in quota. I Romani e le Alpi” di Silvia Giorcelli Bersani
Le Alpi sono state un territorio di radicali trasformazioni politiche, sociali e culturali nei secoli in cui si è dispiegata la civiltà di Roma: una pagina importante della storia dell’espansionismo romano, fra III secolo a.C. e I secolo d.C., è stata scritta in quella regione, fredda e inospitale ma strategica per le comunicazioni. Di questo si sarebbe dovuto parlare martedì 3 marzo 2020, alle 18, nella sala conferenze del museo Egizio di Torino alla presentazione del libro “L’impero in quota. I Romani e le Alpi” con l’autrice Silvia Giorcelli Bersani e il direttore dell’Egizio, Christian Greco. La presentazione del libro è stata invece annullata per l’applicazione delle disposizioni governativa in tema di contenimento della diffusione del coronavirus. Silvia Giorcelli Bersani insegna Storia romana ed Epigrafia latina all’università di Torino. Studia i processi di romanizzazione in area cisalpina con particolare riferimento alle strutture politiche e sociali delle comunità urbane e alle trasformazioni culturali; cura le edizioni critiche di epigrafi romane (Alba, Vercelli, Aosta) e si interessa di eredità del passato romano tra XVI e XX secolo, con attenzione alla storiografia e alle antichità sabaude. È attualmente Presidente del corso di laurea magistrale in Archeologia e Storia antica. Ha presieduto il Comitato Unico di Garanzia dell’Ateneo torinese.
Il libro “L’impero in quota. I Romani e le Alpi”. Il baluardo inaccessibile che, in origine, costituiva un confine naturale e solido a protezione dell’Italia diventò progressivamente un luogo di passaggio frequentato e gli spazi furono sottoposti a un’opera capillare di romanizzazione: nei secoli, le Alpi diventarono il teatro di straordinarie avventure umane, quasi in stile Far West, rappresentando un’opportunità per uomini spregiudicati alla ricerca di fortuna, per coloni italici trapiantati nelle città alpine, per imprenditori, per liberti, per servi. Questa variegata umanità che popolava e, soprattutto, attraversava le Alpi esprimeva fedi diverse che soltanto in minima parte avevano a che fare con il contesto montano: nel pantheon alpino si trovava di tutto, dagli dèi della tradizione celtica a quelli ufficiali di Roma, dalle divinità orientali a quelle egizie (su questi aspetti in particolare si concentrerà la conferenza). La complessità del rapporto tra i Romani e le Alpi, durato per secoli in una sorta di ambiguità fra paura e curiosità, tra difficoltà logistiche e necessità di gestione, ha alimentato molte riflessioni che toccano problemi di natura politica, economica, religiosa e culturale.
L’appassionante racconto delle campagne archeologiche dell’antico Oriente da metà Ottocento a oggi rivive nell’incontro al museo Egizio di Torino con Paolo Matthiae che presenta il suo ultimo libro “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale”

La maschera funeraria di Tutankhamon: uno dei tesori trovati da Carter e Carnarvon nella tomba del giovane faraone
L’appassionante racconto delle campagne archeologiche dell’antico Oriente da metà Ottocento a oggi, dalla decifrazione delle due scritture più antiche dell’umanità alle prime epiche imprese alla ricerca di Ninive, alle grandi scoperte nella Valle dei Re a Tebe, da Ebla, Qatna e Aleppo in Siria a Nimrud e Sippar in Mesopotamia, a Troia e Hattusa in Anatolia, ad Abido e Amarna in Egitto, fino a Gerusalemme in Palestina. Sarà un incontro particolarmente appassionante quello con Paolo Matthiae, il noto archeologo del Vicino Oriente, che mercoledì 20 marzo 2019, alle 12, nella sala conferenze del museo Egizio di Torino, nell’ambito del ciclo “Incontro con gli autori”, presenta il suo ultimo libro “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale” (Einaudi). Come il titolo del volume fa intendere, Matthiae parte dalle evidenze archeologiche (e anche dalle fonti testuali) per ricostruire la storia culturale, politica ed economica dell’intera area vicino orientale: Anatolia, Siria, Mesopotamia e Levante, e anche l’Egitto. Il volume è suddiviso in dodici capitoli, ognuno dei quali è dedicato ad un sito chiave; la scelta di questi siti non è casuale, ma si tratta di luoghi che sono stati al centro di grandi scoperte archeologiche e continuano ad essere oggetto di nuove analisi e studi anche recenti. Tre siti sono egiziani, rispettivamente Abido, Avaris e Amarna, tre si trovano in Siria, Ebla, Qatna e Aleppo, due sono anatolici, Hattusa e Troia, uno è nel Levante, Gerusalemme, e tre si riferiscono all’area mesopotamica, Nimrud, Babilonia e Sippar. Ingresso libero in sala conferenze fino a esaurimento posti. Al termine della conferenza sarà possibile acquistare il libro “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale” di Paolo Matthiae.

Il sito di Ebla in Siria: dal 2011, con lo stop alle missioni archeologiche a causa della guerra, non c’è più manutenzione. La città del III millennio a.C. si sta distruggendo
Dialogheranno con Paolo Matthiae il direttore Christian Greco, il prof. Stefano de Martino e la prof.ssa Clelia Mora. Paolo Matthiae è accademico dei Lincei, già professore di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente all’università di Roma “La Sapienza”. Dal 1963 ha diretto lo scavo nel sito siriano di Tell Mardikh, l’antica città di Ebla. Matthiae è autore di moltissimi volumi e saggi scientifici. Dopo le distruzioni operate dall’Isis in Siria e Iraq, Matthiae si è molto impegnato sul tema della protezione del patrimonio culturale in aree di guerra, pubblicando recentemente anche il volume “Distruzione, Saccheggi e Rinascite”, o organizzando mostre e convegni. Stefano de Martino è professore ordinario al dipartimento di Studi storici dell’università di Torino, dove insegna Ittitologia e Civiltà dell’Anatolia preclassica. È direttore scientifico del Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l’Asia. È coordinatore del dottorato dell’università di Torino “Technology Driven Sciences: Technologies for the Cultural Heritage”. È autore di saggi e volumi sulla storia, la civiltà e la lingue degli Ittiti e dei Hurriti; fa parte del team internazionale che studia e pubblica le tavolette in lingua hurrita rinvenute nel sito di Ortaköy (Turchia). Clelia Mora è professore ordinario al dipartimento di Studi umanistici dell’università di Pavia, dove insegna Storia del Vicino Oriente antico e Storia, epigrafia e sistemi di scrittura nel Vicino Oriente antico. Dal 2000 al 2010 ha collaborato con la missione archeologica francese attiva a Terqa in Siria e dal 2010 è responsabile del Progetto Kinik Höyük, nell’ambito del quale sono condotte indagini archeologiche in Cappadocia in sinergia con la New York University.
Uno dei maggiori protagonisti dell’archeologia orientale rievoca origini, sviluppi e risultati delle più affascinanti imprese degli ultimi decenni. Sempre attento a rilevare, nel passaggio suggestivo dalla terra dello scavo all’interpretazione della storia, l’inestimabile contributo che le scoperte recano alla ricostruzione di un lontano passato fondamentale per lo sviluppo della civiltà umana, che vide il sorgere e l’affermarsi delle prime città, dei primi stati territoriali, dei primi imperi a vocazione universale nella storia mondiale. “Le scoperte rievocate e illustrate nelle pagine di questo libro hanno in comune alcune caratteristiche fondamentali. In primo luogo, sono il frutto, in modi certo diversi, di esplorazioni archeologiche sistematiche di lungo periodo. In secondo luogo, sono state realizzate, approssimativamente, nell’ultimo mezzo secolo. In terzo luogo, a un giudizio oggettivo e di nuovo in modi diversificati, hanno avuto un significato rivoluzionario. Il loro valore leggendario dipende, da un lato, dal forte impatto di innovazione che è tipico di tutte e, dall’altro, dal loro carattere inatteso e sorprendente. La notevole varietà di queste scoperte, in ambiti differenziati della ricerca storica, ha inciso, volta a volta, sulla storia politica, sulla storia religiosa, sulla storia sociale, sulla storia economica, sulla storia artistica, sulla storia letteraria e, in diversi casi, su più di una di esse…Se è vero che non v’è nulla di più concreto e reale di una scoperta archeologica, è altrettanto vero che le interpretazioni prime di quella scoperta, che sono un’esperienza esaltante, non hanno nulla di definitivo perché esse sono solo un contributo, primario e fondamentale, alle innumerevoli valutazioni storiche future. Le interpretazioni che per ciascuna delle scoperte raccolte in questo saggio sono qui presentate, spesso già oggetto di accesi dibattiti negli ambienti scientifici, nella maggior parte dei casi sono di questo tipo ed esprimono solo una parte iniziale del lungo loro tragitto, di fatto inesauribile, dalla terra alla storia”.
Venezia, successo di pubblico per la mostra “Idoli. Il potere dell’immagine”. Per l’ultimo week end visite guidate con il presidente Inti Ligabue e conferenza del prof. De Martino

Il cosiddetto “Sfregiato” della Civiltà dell’Oxus da una collezione privata londinese (foto Graziano Tavan)

La locandina della mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” a Venezia dal 15 settembre 2018 al 20 gennaio 2019
“Merita di venire dall’altro capo del mondo per vederla” ha scritto senza giri di parole la giornalista del “Sole 24 Ore” sull’inserto culturale del Domenicale, ove si definisce “Idoli. Il potere dell’immagine” promossa dalla Fondazione Ligabue “una mostra da non perdere”. È ancora presto per un bilancio definitivo della mostra a Palazzo Loredan di Venezia, ma si può già parlare di straordinario successo: nei primi tre mesi sono stati 18mila i visitatori che hanno visto la mostra che raccoglie un centinaio di opere provenienti dai quattro angoli del globo, rappresentative delle prime esperienze di raffigurazione umana tridimensionale (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/08/15/a-venezia-la-mostra-idoli-il-potere-dellimmagine-terzo-grande-evento-della-fondazione-giancarlo-ligabue-una-finestra-sulla-rivoluzione-neolitica-e-la-ra/). La mostra chiude lunedì 20 gennaio 2019, e per l’ultimo week end la Fondazione Ligabue ha preparato un programma speciale: visite guidate con il presidente Inti Ligabue e una conferenza del prof. Stefano De Martino, sulle raffigurazioni di divinità nell’Anatolia antica in cui interverrà la curatrice della mostra Annie Caubet.

Inti Ligabue, presidente della fondazione Giancarlo Ligabue alla mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” (foto Graziano Tavan)
Una mostra, quella a Palazzo Loredan, caratterizzata dunque dal grande fascino esercitato dalle opere in esposizione – complice la cura posta nell’allestimento – in cui il percorso didattico diviene un vero e proprio viaggio attraverso la storia dell’arte figurativa, spunto ideale per rintracciare trame nascoste e scoprire le storie e i miti che hanno ispirato la loro creazione. Quindi un’occasione speciale le due visite guidate gratuite – il 19 e il 20 gennaio – con Inti Ligabue, presidente della Fondazione che ha ideato e concepito la mostra a partire dagli studi condotti da Giancarlo Ligabue sul tema e da alcuni straordinari reperti della stessa Collezione Ligabue: appuntamento sabato 19, alle 10 e domenica 20 alle 17, su prenotazione, con biglietto d’ingresso della mostra.

Il prof. Stefano De Martino alla mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” della Fondazione Ligabue (foto Graziano Tavan)
Sempre sabato 19 gennaio alle 11 invece, nel vicino Palazzo Franchetti, la Fondazione Giancarlo Ligabue ha promosso un’importante conferenza che terrà il professor Stefano De Martino su “Il Potere delle immagini: raffigurazioni di divinità nell’Anatolia antica”, alla quale interverrà – come si diceva – anche la stessa Annie Caubet. Professore ordinario di Anatolistica al Dipartimento di Studi Storici dell’università di Torino e autore di uno dei saggi in catalogo, il professor De Martino guiderà il pubblico alla scoperta degli Idoli provenienti da quella che Greci, Romani e Bizantini chiamavano Asia Minore, quell’estremità peninsulare della Turchia che fa da cerniera tra Occidente e Oriente. Il racconto spazierà dunque dalle cosiddette statuette Killia, caratterizzate da un corpo reso schematicamente, alle figure di donne spesso nude e dai tratti naturalistici, in argilla o metallo, riportate alla luce ad Alacahöyük in sepolture databili al Bronzo antico, sprigionanti una vitalità tanto peculiare da distinguerle nettamente da quelle egee e mesopotamiche, che, per quanto contemporanee, presentano caratteri di maggiore astrazione; ancora, dagli Idoli in alabastro rinvenuti a Kültepe – figure con corpo di forma circolare e dalla sessualità ambigua, idoli gravidi, androgini e itifallici al tempo stesso – alle statuette che presentano chiari segni di rottura intenzionale, forse legata all’esecuzione di rituali magici o riti di passaggio quali l’adolescenza o il matrimonio, a simboleggiare la rottura con la famiglia di origine e l’ingresso in una nuova fase della vita.
Alla mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” a Jesolo (Venezia) la “mummia di Asti” prende un nome e un volto: è la “Signora delle ninfee”. Un giallo svelato con tecniche alla Csi. “Ma la ricerca scientifica non si ferma: sarcofago e mummia custodiscono ancora molti segreti”, conferma la curatrice Donatella Avanzo

Il logo della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” che Jesolo ospita dal 26 dicembre 2017 al 15 settembre 2018

Promotori e ospiti all’anteprima della mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” a Jesolo (foto Graziano Tavan)
Per più di un secolo è stata nota semplicemente come la “mummia di Asti”. Dal 26 dicembre 2017, quando nello Spazio Aquileia a Jesolo (Venezia), sarà inaugurata la mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” curata da Alessandro Roccati ed Emanuele Ciampini, e prodotta da Cultour Active e Venice Exhibition, di cui il prezioso reperto del museo civico archeologico di Asti è sicuramente uno dei protagonisti, la chiameremo la “Signora delle Ninfee”. E non è un vezzo di Donatella Avanzo, curatore esecutivo della mostra e responsabile del progetto scientifico “Mummia di Asti”, ma l’esito di una ricerca scientifica multidisciplinare (attivata proprio in vista della mostra di Jesolo) che per certi aspetti ricorda più una trama di indagine alla Csi che il diario di una missione egittologica. La mummia e il sarcofago che la conteneva “hanno parlato”, rivelando poco a poco agli studiosi la loro storia e la loro identità, che oggi possiamo leggere come in un film nella sezione 8 della mostra jesolana. “Ma non ci hanno detto tutto”, ammette l’egittologa Avanzo. “Sia il sarcofago che la mummia celano gelosamente ancora alcuni segreti che, alla fine della mostra, nell’autunno 2018, impegneranno a lungo gli esperti di molte discipline. Solo per farvi un esempio: siamo sicuri che tutto il sarcofago sia da ascrivere tra la fine della XXI dinastia e l’inizio della XXII? Da alcune tracce riscontrate, il coperchio potrebbe essere molto più antico, e riutilizzato 3mila anni fa. E ancora: accanto ai monili e amuleti rivelati dalla Tac, posti sul corpo della mummia, cosa è quella placca metallica di una decina di centimetri di cui non riusciamo ancora a capire la natura?”. Rivelazioni e misteri, come nella migliore tradizione non solo dell’egittologia. E allora si capisce perché basterebbe da sola la sezione dedicata alla mummia di Asti a giustificare una visita alla mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” allo Spazio Aquileia di Jesolo fino al 15 settembre 2018 (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/11/17/egitto-dei-faraoni-uomini-jesolo-si-prepara-a-ospitare-per-quasi-un-anno-una-grande-mostra-ideata-dagli-egittologi-ciampini-e-roccati-e-curata-da-donatella-avanzo-con-reperti-dai/) .

Il conte Leonetto Ottolenghi, ritratto da Paolo Arri, conservato alla fondazione Palazzo Mazzetti di Asti

La Tac alla mummia contenuta nel sarcofago di Ankhpakhered, realizzata al Fatebenefratelli di Milano
Il regalo di un mecenate. Come si diceva, da più di un secolo si parla della “mummia di Asti”. La collezione egizia del museo civico Archeologico di Asti, si deve, quasi totalmente, alla munificenza del banchiere ebreo, il conte Leonetto Ottolenghi (1846 – 1904) e dalla donazione Fantaguzzi. La raccolta egizia è composta da circa un centinaio di oggetti, quali un frammento di tabella dell’Antico Regno, due mummie, con i sarcofagi, uno a nome di Ankhpakhered, il bel canopo di Tadiher, amuleti, ushabti e statuette di divinità. La “mummia di Asti” faceva dunque parte dei reperti arrivati nel 1903 al museo di Asti, grazie alla donazione dei discendenti della famiglia Maggiora Vergano. Della mummia si sapeva poco o niente al di là di scarne note di cronache: proprietà della famiglia Ottolenghi che lo acquistò nell’Ottocento e da nove anni custodita dal museo astigiano. Più informazioni c’erano invece per l’altra mummia, quella conservata nel secondo sarcofago della collezione Ottolenghi riccamente effigiato con i gerofiglici che ricordano Ankhpakhered, il sacerdote del dio Min, vissuto tra la XXII e XXIII dinastia, databile tra il 945 e il 715 a.C. Nel 2009 la mummia contenuta fu affidata all’ospedale Fatebenefratelli di Milano per il check-up completo nell’ambito del progetto Ankhpakhered Mummy. I risultati erano giunti dopo due anni di studi e indagine medica. “È stato complicato anche fare l’endoscopia”, avevano spiegato gli esperti, “per l’enorme presenza nella pancia di bende raggomitolate e sistemate negli spazi vuoti degli elementi scheletrici per fare da riempimento. Sicuramente la mummificazione dell’uomo è avvenuta molti mesi dopo la morte, quando era già scheletro”. Ma alla fine, grazie agli studi del centro ricerche Mummy Project, la mummia aveva un nome e soprattutto un volto. “Si tratta di un uomo che è morto a 40 anni non per eventi di natura traumatica ma probabilmente o di vecchiaia o per un infezione al sangue”, aveva ricostruito Sabina Malgora, egittologa e co-direttore insieme a Luca Bernardo di Mummy Project. “Decisiva l’endoscopia anche per la datazione certa della mummia, fra il 400 e il 100 a.C.”. L’uomo si chiamava Wehem-ef-ankh, e proveniva dalla città di Akhim. “Il sarcofago che la conteneva”, ha raccontato Malgora, “ed è questa la storia singolare, deve essere stato trafugato dalla famiglia di Wehem per dargli onorata sepoltura. D’altronde qualche dubbio lo avevamo avuto già due anni fa, quando abbiamo iniziato il complesso studio per svelare il mistero”.

La mummia di Asti, oggi la “Signora delle Ninfee”, sottoposta a tac all’ospedale Cardinal Massaia di Asti

Da sinistra, davanti alla mummia di Asti, Gianfranco Imerito, assessore alla cultura di Asti; Enrico Longo, responsabile Cultour Active; Donatella Avanzo, curatrice (foto Graziano Tavan)
Altra mummia, altre sorprese. Il progetto “Mummia di Asti”, in prospettiva per la mostra di Jesolo, parte nell’autunno 2017. È la stessa Donatella Avanzo, direttore del progetto scientifico, a ricordare alla presentazione in anteprima della mostra al Pala Arrex di Jesolo, il piccolo esercito multidisciplinare di esperti coinvolti. Grazie al supporto e alla collaborazione della Polizia criminale è stato infatti possibile realizzare la ricostruzione del volto e con il reparto di radiodiagnostica dell’ospedale di Asti è stata realizzata una Tac sulla mummia che sta già richiamando l’attenzione dei più grandi studiosi ed egittologi. La ricostruzione del volto e di parte del corpo della mummia astigiana è stata effettuata grazie al supporto e alla collaborazione della Polizia di Stato, con il contributo del Reparto di Radiodiagnostica dell’Ospedale Cardinal Massaia di Asti, al fine di conoscere lo stato di conservazione, stabilirne l’età e poter effettuare in modo scientifico la ricostruzione. I nomi scorrono come nei titoli di coda di un film: Rosa Boano, ricercatrice in Antropologia fisica dell’università di Torino; Ida Grossi, direttore generale Asl di Asti; Federico Cesarani, primario di Radiodiagnostica ospedale di Asti; Leonardo Capitolo, dirigente medico, e Angela Grasso, specializzanda, di Radiodiagnostica università di Torino 2; Massimo Scognamiglio e Gabriella Borgogno, tecnici sanitari di Radiologia medica asl di Asti; Guglielmo Ramieri, professore di Chirurgia Maxillo-facciale dell’università di Torino; Mario Raso, specialista in Chirurgia plastica ricostruttiva dell’istituto nazionale Tumori di Milano; Marinella La Porta, direttore tecnico del laboratorio di Genetica forense della Polizia di Stato di Torino; Valter Capussotto, sovrintendente capo della Polizia scientifica di Torino; Michele Guaschino, scultore; Martina Zambotti, accademia Belle arti per la modellazione al laboratorio Guaschino; Francesco Sculco, artigiano restauratore; Aldo Maschio e Ionel Vitalie, onoranze funebri di Asti; Gian Luigi Nicola, direttore, e Anna Rosa Nicola, restauratrice, del laboratorio di restauro Nicola di Aramengo d’Asti; Silvana Cincotti, egittologa.

La curatrice Donatella Avanzo con l’assessore di Asti Gianfranco Imerito guardano i sarcofagi di Asti e Firenze (foto Graziano Tavan)
Da Tebe a Jesolo (via Asti e Firenze). Al mondo sono solo quattro i sarcofagi conosciuti accomunati da una caratteristica piuttosto rara: la decorazione di fiori sulle bande laterali dell’acconciatura. Uno è conservato al museo Egizio del Cairo; uno al museo Egizio di Firenze; uno al museo Archeologico di Asti; il quarto, ancora inedito, al Detroit Institute of Art. Di questi quattro, ben due sono esposti nella mostra “Egitto. Dei, faraoni, uomini” di Jesolo. “Sono tutti sarcofagi femminili, e in quello di Firenze si notano anche i seni resi sotto le bande dell’acconciatura”, spiega Gloria Rosati, egittologa dell’università di Firenze. “I sarcofagi Asti e Firenze furono acquisiti entrambi con una mummia all’interno; ma, mentre quella di Asti è di genere femminile e presumibilmente la proprietaria stessa del sarcofago, a Firenze si è scoperto che la mummia è invece di un uomo, perciò sarà stata aggiunta al sarcofago, come spesso si è dovuto constatare, per un senso di completezza e per aumentare il prezzo”. Vedere accostati vicini, in mostra, i sarcofagi di Asti e di Firenze, databili tra la fine della XXI dinastia e l’inizio della XXII (circa 950-870 a.C.), si possono meglio apprezzare le notevoli corrispondenze che potrebbe far pensare a un laboratorio comune, attivo a Tebe. “Sono davvero parecchi i paralleli che si possono mettere in evidenza tra i due sarcofagi”, sottolinea Rosati, lanciando un’ipotesi suggestiva: “Chissà mai che a Jesolo non si siano di nuovo trovati accanto due oggetti che magari lo erano stati poco meno di 3mila anni fa, tra le mani di ebanisti e pittori tebani, e che poi hanno visto passare secoli e secoli: uno, quello arrivato ad Asti, ha assolto la sua funzione, ha conservato fino a oggi la sua proprietaria; l’altro probabilmente sì, e poi qualcuno, quando erano passati circa 28 secoli, ha pensato bene di ravvivarne la decorazione”.
(1 – continua)
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