“Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.”: mostra-evento al museo “Isidoro Falchi” di Vetulonia con 150 reperti da Corsica, Sardegna, Toscana e museo di Villa Giulia raccontano lo scontro che portò alla spartizione delle isole tirreniche tra le superpotenze dell’epoca

Carta del Mediterraneo occidentale, con le aree di influenza della cultura etrusca, greca e cartaginese. Eaborazione: Jean Castela, Grafica: Alessandro Bartoletti
“Quando [i Focei] giunsero a Cirno (la Corsica, ndr), per cinque anni abitarono insieme a quelli che erano arrivati prima di loro e costruirono dei templi. Ma poiché depredavano e derubavano tutti i popoli confinanti, Tirreni (Etruschi, ndr) e Cartaginesi di comune accordo mossero contro di loro, entrambi con una flotta di sessanta navi. I Focei armarono anch’essi le loro navi, in numero di sessanta, e affrontarono il nemico nel mare chiamato di Sardegna. Attaccata battaglia, i Focei riportarono una vittoria cadmea: delle loro navi, quaranta furono distrutte e le venti superstiti erano inutilizzabili, avendo i rostri rivolti all’indietro. Approdati ad Alalia, presero a bordo i figli, le donne e tutti gli altri beni che le navi potevano trasportare e, abbandonata Cirno, fecero vela alla volta di Reggio (Calabria, ndr). Quanto agli uomini delle navi distrutte, la maggior parte di essi li presero i Cartaginesi e i Tirreni e, dopo averli condotti fuori dalla città, li lapidarono”. Così Erodoto (Storie, I, 166-167). Ma anche se lo storico greco parla di “vittoria cadmea”, noi diremmo “vittoria di Pirro”, “la Màχe (battaglia) del mare detto Sardonio, tra i Focei di Alalìe in Corsica e forse di Massalìe (Marsiglia), da una parte e i Cartaginesi e gli Etruschi, dall’altra, fu l’evento capitale del Mediterraneo centro occidentale del VI secolo a.C., che decise le sorti delle due isole tirreniche di Kyrnos (Corsica) e Sardò (Sardegna).

Il manifesto della mostra “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” al museo di Vetulonia dal 9 giugno al 3 novembre 2019
Alla battaglia del mare Sardonio, che ebbe luogo intorno al 540 a.C. al largo delle acque di Alalia, nello spazio tirrenico compreso fra la Corsica, l’Elba e il litorale toscano, il museo civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia dedica la mostra-evento 2019 “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” (fino al 3 novembre 2019), elaborata nel quadro del Programma Collettivo di Ricerca su “Aleria e i suoi territori”. “È la prima mostra internazionale Italia-Francia per valorizzare la Corsica”, sottolinea Simona Rafanelli, direttore del museo di Vetulonia, che non nasconde la propria soddisfazione, perché la tappa italiana del progetto “è rappresentata da Vetulonia”. La mostra poi si trasferirà nel 2020 ad Aleria, in Corsica, per concludersi nel 2021 a Cartagine, Tunisia.

Il suggestivo allestimento della mostra “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” al museo di Vetulonia
Dedicata alla prima grande battaglia navale tramandata dalla Storia, destinata a dettare i nuovi equilibri geo-politici nel Mediterraneo Occidentale, la mostra vuole instaurare una riflessione più profonda sull’identità corsa forgiata nell’antichità in un ambiente mediterraneo aperto e interculturale, ove la partecipazione della Corsica e dei Corsi in seno alla civiltà e allo spazio etrusco rappresenta un fatto fondamentale. Idealmente centrato sulla battaglia d’Alalìa, le sue cause e le sue conseguenze nei secoli che immediatamente precedono e seguono lo scontro navale, il tema dell’esposizione è quello più generale dei contatti fra le Civiltà antiche presenti in questa parte del bacino del Mediterraneo, che hanno determinato la scelta del sottotitolo “Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.”.

La direttrice Simona Rafanelli all’inaugurazione della mostra “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.”
Centocinquanta reperti di straordinario valore scientifico e artistico, prestati primariamente dal museo di Aleria (Corsica), partner dell’esposizione, quindi dall’antiquarium Arborense di Oristano e dalla soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Sassari e Nuoro, per quanto riguarda la Sardegna; dal museo Archeologico nazionale di Firenze, per quanto concerne la Toscana e, infine, dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma, cui verrà ad affiancarsi una selezione di reperti sequestrati dal Nucleo Tutela del Patrimonio Archeologico della GdF di Roma: questi reperti sono i protagonisti di un racconto che si snoda dietro le quinte di uno scenario che rappresenta il Mediterraneo in epoca arcaica, nel tempo che precede e segue lo scontro navale che – come abbiamo visto – secondo lo storico greco Erodoto terminerà senza vincitori né vinti, ma che assai concretamente sancirà la spartizione delle isole del Tirreno fra le potenze marittime che dominavano le rotte e i traffici commerciali in questo ben definito angolo di mare, assegnando la Corsica agli Etruschi, la Sardegna ai Fenici di Cartagine e la Sicilia insieme al Sud Italia ai Greci.

Una delle tre pentecontere dipinte sul dinos di Exekìas conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma
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La firma del pittore Exekìas autore del dinos conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a oma
eperto simbolo della mostra è un pezzo unico, straordinario, rappresentato dal vaso greco (un dinos) decorato a figure nere, che esibisce la firma di Exekìas, il padre della ceramografia attica, del quale si contano poco più di dieci firme ad oggi conosciute in tutto il mondo! A questo vaso, concesso in prestito in via eccezionale dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, esposto per la prima volta a Vetulonia completo del suo supporto, viene affidato il compito di veicolare il significato, e con esso le finalità, dell’intero progetto scientifico ed espositivo. Lungo la fascia interna dell’orlo circolare del vaso, trova infatti piena espressione figurata l’incedere, sulla superficie ondulata del mare, di quelle pentecontère (navi da guerra con 50 rematori) ove sono riposti speranze e destino delle maggiori potenze navali del Mediterraneo antico.
Valle di Agrigento: il tempio di Demetra l’unico orientato al tramonto della luna piena del solstizio d’inverno. Archeoastronomi: “Celebra la riunione tra Demetra e Persefone”
Finora alla posizione dei famosi templi greci della valle di Agrigento non si era dato molto peso, visto che nella maggior parte sono orientati al sorgere del sole oppure semplicemente orientati secondo la morfologia del terreno o la griglia della città. Tutto vero. Eccetto uno, il tempio dedicato a Persefone e sua madre Demetra, che ha un orientamento geografico particolare: è rivolto al tramonto della luna piena più vicina al solstizio d’inverno. Lo hanno notato i ricercatori Giulio Magli del Politecnico di Milano, Robert Hannah dell’università di Waikato, Nuova Zelanda, e Andrea Orlando dell’Osservatorio Astrofisico di Catania, che hanno cercato di darne una spiegazione: quel particolare orientamento vuole celebrare la riunione di Demetra con la figlia Persefone, rapita da Ade, dio dell’oltretomba, che la portò negli Inferi per sposarla. La ricerca è stata svolta nell’ambito di un accordo di collaborazione scientifica tra ente parco Valle dei Templi di Agrigento e Laboratorio di formazione matematica e di sperimentazione scientifica (effediesse) del Politecnico di Milano, e pubblicata sul sito web della Cornell University.
Il Tempio detto di Demetra (i cui resti si trovano in località San Biagio al di sotto dell’omonima chiesa) può essere datato nel periodo compreso tra il 480 e il 470 a. C. Questo tempio offre un interessante esempio di edificio distilo in antis ovvero privo del colonnato esterno e costituito da una semplice cella preceduta da un pronao con due colonne. Della struttura originaria si conservano il basamento di m 30×13 c.a, ancora in parte visibile, i muri esterni della cella e quelli divisori tra cella e pronao. Queste parti che ancora permangono sono state inglobate dalla chiesa medievale dedicata a S. Biagio. Delle belle grondaie a protome leonina appartenute a questo edificio si possono ancora ammirare all’interno del museo archeologico regionale di Agrigento nella sala dedicata alle sculture architettoniche. Il Tempio di Demetra nel periodo classico faceva parte di un temenos, un recinto sacro, al quale si devono riferire anche altre strutture adiacenti come due piccoli altari rotondi con incavo centrale, botroi o pozzi sacri, all’interno dei quali sono stati ritrovati dei kernoi (vasi rituali legati al culto di Perfesone) e dei resti appartenenti a dei busti fittili che dovevano raffigurare la stessa Demetra.
I ricercatori stanno ancora approfondendo la ragione di questo allineamento, ma si crede che potrebbe essere dovuto a particolari riti religiosi. Si ipotizza che questi riti prevedessero una processione notturna che partiva dalla fontana santuario posta poco lontano dal tempio (dove sono stati trovati depositi votivi, tra cui una statuetta raffigurante Persefone), saliva al tempio stesso e poi attraversava il corridoio tra il lato nord del tempio e la collina (forse gettando le offerte nel pozzo centrale) e infine si riuniva in un vasto piazzale retrostante il tempio da dove si assisteva allo spettacolo della luna piena che tramontava sulla collina dell’acropoli. «L’archeoastronomia si rivela ancora una volta una scienza multidisciplinare”, afferma Giulio Magli, titolare al Politecnico di Milano dell’unico corso di Archeoastronomia in Italia. “In questo caso contributi diversi fra di loro come l’utilizzo di dati topografici digitali, la ricostruzione al calcolatore del cielo nell’antichità, il rilievo sul campo e la collaborazione con l’Ente Parco Valle dei Templi e quindi con l’archeologia hanno portato a risultati veramente inaspettati, che potrebbero aprire nuove prospettive nella comprensione di culti antichissimi, se solo si pensa che la fonte del Tempio di Demetra risale almeno al sesto secolo a.C. e quindi agli inizi, se non prima, rispetto alla colonizzazione greca della Sicilia”.
“Tà gynaikeia. Cose di donne” di Alessandra Cilio vince il premio Archeoblogger, vera novità della XXVI rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto: “Incarna il senso di fare ricerca archeologica oggi”

XXVI rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto: Antonia Falcone legge ad Alessandra Cilio la motivazione del premio Archeoblogger al film “Tà gynaikeia. Cose di donne””
Il regista Lorenzo Daniele lo ha intitolato “Cose di donne” perché di donne si parla nel film della FineArtProduzioni presentato nella sezione “Archeologia & Etnografia” della XXVI rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto, film che non è sfuggito all’attento pubblico che lo ha votato come secondo miglior film del percorso parallelo alle proiezioni principali. Forse quelle storie di donne (una fotografa vicina all’ottantina, una carismatica enologa, un’anziana educatrice, una popolare scrittrice, una giovane archeologa, una famosa attrice) hanno fatto propendere gli organizzatori della rassegna più per il film etnografico che per il documento archeologico. Eppure quel termine “greco”, “Tà gynaikeia” che completa il titolo del film, avrebbe dovuto per lo meno insospettire che dietro quelle storie di donen dei giorni nostri ci fossero storie ben più antiche, che affondano nelle radici e nel mito della Sicilia. Un passaggio colto dai giovani e agguerriti archeoblogger del gruppo “Archeologi al cinema” che – vera novità della XXVI rassegna di Rovereto – hanno proposto di istituire un premio speciale, una menzione degli archeoblogger, e si sono visti tutto il centinaio di film in programma, scegliendo e premiando proprio “Tà gynaikeia. Cose di donne”. Il premio è stato consegnato sul palco dell’auditorium Melotti di Rovereto da Antonia Falcone, archeoblogger del sito Professione archeologo, a un’altra donna, tanto per restare in tema, la giovane archeologa Alessandra Cilio che del film è la consulente scientifica. E le motivazioni sono particolarmente impegnative: “Dal passato prossimo al passato remoto. Un viaggio al contrario che guarda a tutto tondo al mondo femminile. Per noi questo è Cose di Donne. Ci è piaciuto il suo sguardo innovativo sul passato, che percepisce la storia come patrimonio condiviso. I ricordi personali delle protagoniste rischiarano di una luce contemporanea, forte e capace di suscitare grande empatia, le testimonianze dei resti archeologici che si scrollano di dosso la loro polvere secolare e divengono vivi e attuali, comprensibili, segni tangibili di vite reali. Il documentario diventa così una storia corale, di ricerca e sacrificio, una continua domanda di senso, una riflessione aperta sulla donna di ieri e di oggi. Lo abbiamo molto amato: come archeologi e comunicatori crediamo che Cose di Donne rappresenti bene il senso di fare ricerca archeologica oggi ed incarni perfettamente le ragioni per cui la conservazione e la tutela del nostro patrimonio culturale sono di fondamentale importanza per la definizione stessa della nostra identità di cittadini e di società”.

In “Tà gynaikeia” le donne sono protagoniste nei panni di divinità, di numi tutelari, ma anche semplici figlie, spose e madri, fedeli devote
Ma cerchiamo di saperne di più di questo film prodotto nel 2015 dalla casa di produzioni cinematografiche di Augusta (Sr) “Fine Art Produzioni srl”, cofinanziato dalla Film Commission della Regione Sicilia, con la collaborazione della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’università degli studi di Catania. Cosa lega queste figure tra loro? “Il fatto di essere donne. E quello di essere siciliane”, risponde Alessandra Cilio, vera anima del film di cui ha curato i testi. “Che si tratti di volti noti al pubblico o meno, il rapporto che ciascuna di esse ha costruito con i suoi luoghi d’origine è esclusivo e personale. Sono storie soggettive, le loro, e come tali uniche e irripetibili. Storie personali, diverse l’una dall’altra, rivolte ora al passato, ora al futuro. Eppure, questi frammenti insieme, costruiscono un unico racconto, che porta con sé un’eredità comune, quella dell’essere femmine in Sicilia, un luogo che, nel suo concedersi e negarsi, nella sua capacità di nutrire e allevare, nel suo essere amabile e odiosa al tempo stesso, mostra una natura tutta femminile. Lo testimonia la grande varietà di miti, leggende e culti legati all’universo femminile, che nel tempo si sono avvicendati e in parte sovrapposti, divenendo elemento di coesione per tutte quelle popolazioni che hanno occupato la nostra Isola: dalle tribù indigene ai Greci; dai Romani ai Bizantini; dagli Arabi ai Cristiani”. Protagoniste, le donne, nei panni di divinità, di numi tutelari, ma anche semplici figlie, spose e madri, fedeli devote: “Entità pressoché silenti – continua Cilio-, eppure fondamentali per il benessere e la crescita di una comunità, ieri come oggi. Ne deriva un’analisi incrociata su più livelli, sia dal punto di vista storico che antropologico, capace di offrire interessanti spunti di riflessione sul ruolo della donna all’interno della famiglia e della società: un ruolo spesso complesso, oggi più che mai ricco di contraddizioni, in continuo divenire”.
Per chi non ha avuto la possibilità di vedere il film a Rovereto, “Tà gynaikeia. Cose di donne” verrà proiettato il prossimo 25 ottobre a Licodia Eubea (Ct), alla V Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica. Ma per il pubblico siciliano ci saranno anche altre opportunità. È infatti in programmazione una serie di presentazioni nelle città di Agrigento, Siracusa, Palermo, Vittoria, Troina e Gela, cioè in quei paesi dove le storie sono ambientate, ma è prevista anche la distribuzione del film in alcune sale cinematografiche dell’isola.
Sicilia centro-meridionale. Scoperto a Case Bastione di Villarosa di Enna un villaggio preistorico di 5-6mila anni fa
È uno dei principali insediamenti preistorici di tutta la Sicilia centro-meridionale: l’importanza del villaggio di età preistorica di Case Bastione, nel territorio di Villarosa di Enna, lungo la valle del fiume Morello, è confermata dai risultati della quinta campagna di scavi archeologici che si è appena conclusa dopo quattro settimane. “Le ricerche di questi ultimi anni”, sottolineano gli archeologi Enrico Giannitrapani e Filippo Iannì della cooperativa Arkeos di Enna, “testimoniano come, tra il IV millennio e la prima parte del II millennio a.C., il villaggio di Case Bastione sia stato abitato da una ricca comunità di pastori e agricoltori, capaci anche di sfruttare le ricche risorse minerarie presenti in questa parte della Sicilia centrale, quali zolfo e salgemma, instaurando rapporti commerciali e scambi con tutto il Mediterraneo centro-occidentale”. A questa campagna, inserita nell’ambito della quarta edizione della Summer School Internazionale “Archeologia nella Sicilia centrale: la preistoria degli Erei”, hanno partecipato oltre 30 studenti provenienti da diverse università, principalmente inglesi, quali Newcastle, Sheffield, Liverpool, Nottingham.
Il sito di Case Bastione è situato lungo la statale 290, a metà strada circa tra Villarosa e Calascibetta, immediatamente sotto il piccolo altipiano di contrada Lago Stelo. L’area, costituita, da terreni argillosi oggi coltivati principalmente a cereali, è posta in posizione dominante rispetto alla valle del fiume Morello. La quantità e la qualità dei reperti ceramici e litici ritrovati permette di inquadrare tale insediamento in un periodo compreso tra il IV ed l’inizio del II millennio a.C. Tra i materiali ceramici più antichi è stato possibile individuare vari frammenti di vasi databili al Neolitico tardo (fine IV millennio a.C.), caratterizzati dalla superficie esterna ingubbiata rossa e dalla presenza delle tipiche anse a “rocchetto”. “Questi frammenti”, spiegano gli archeologi, “costituiscono un elemento importante per la conoscenza delle fasi neolitiche della Sicilia centrale, periodo ancora quasi del tutto sconosciuto in questa parte dell’isola”. Nell’area sono stati rinvenuti anche alcuni frammenti dipinti in nero su fondo rosso evanescente, databili alla media età del Rame (prima metà del III millennio a.C.).
Sicuramente le fasi meglio rappresentate a Case Bastione sono quelle di Malpasso e Castelluccio. La prima, così chiamata dal sito eponimo di Malpasso in territorio di Calascibetta, è databile alla metà del III millennio a.C. (recente età del Rame) ed è caratterizzata da vasi non decorati con la superficie di colore rosso lucidata e lisciata. I frammenti attribuibili alla seconda fase, quella di Castelluccio (antica età del Bronzo, fine del III ed inizio del II mill. a.C.), sono dipinti in nero su fondo rosso con motivi geometrici caratteristici dell’epoca. “Al contrario delle fasi precedenti”, continuano gli esperti, “queste due facies sono ben conosciute in tutta la Sicilia, compresa la zona centrale, anche se i motivi della grande diffusione demografica, testimoniata principalmente dalla grande abbondanza di insediamenti databili a questa fase, devono ancora essere compresi nelle loro dinamiche sociali, culturali ed economiche. L’industria litica è caratterizzata da lame, grattatoi, raschiatoi e schegge ritoccate in selce e quarzarenite. È presente anche una certa quantità di lame e schegge in ossidiana sicuramente proveniente da Lipari. Sono stati rinvenuti anche alcuni macinelli e pestelli, probabilmente utilizzati nella lavorazione dei cereali, e alcune asce in pietra”.
È morto Vincenzo La Rosa “archeologo e gentiluomo”: importanti le sue ricerche nella Sicilia protostorica e soprattutto nella Creta minoica

L’archeologo Vincenzo La Rosa: importanti le sue ricerche nella Sicilia protostorica e soprattutto nella Creta minoica
L’Università di Catania e l’archeologia italiana hanno perso un’importante figura, il professore e archeologo Vincenzo La Rosa. Il suo nome è legato alle ricerche archeologiche a Cipro, nella sua Sicilia, e soprattutto a Creta, lasciando un segno indelebile come studioso e come docente. L’archeologo Vincenzo La Rosa, autore di importanti scavi nella Creta minoica e nella Sicilia protostorica, è morto nei giorni scorsi a Catania all’età di 73 anni. L’annuncio della scomparsa è stato dato dall’Accademia dei Lincei di cui era socio. Nato a Noto, in provincia di Siracusa il 21 ottobre del 1941, La Rosa, uno tra i più importanti archeologi italiani, dopo la laurea all’Università di Catania nel 1964 si perfezionò alla Scuola Archeologica italiana di Atene nel 1965-1966. Ha collaborato e diretto numerosi scavi archeologici effettuati in territorio siciliano, in particolare a Milena che hanno permesso di scoprire tesori unici. Vincenzo La Rosa non era solo un studioso, ma era un docente in grado di stimolare i suoi alunni attraverso la passione per la sua materia e la pluralità di interessi verso i quali era spinto dalla sua mente curiosa. A ricordarlo tra gli studenti e i suoi colleghi c’è il professore Antonio Di Grado che si è rivolto a Vincenzo La Rosa con commozione chiamandolo «archeologo e gentiluomo», due appellativi rispecchianti le due anime che Vincenzo La Rosa ha sempre offerto a chi incontrava.
Dal 1975 è stato professore ordinario di Civiltà Indigene della Sicilia all’ateneo di Catania e quindi (dal 1981) di Archeologia e Antichità Egee (primo insegnamento specifico di questa materia in Italia). Direttore del Centro di studi sull’Archeologia greca del Cnr a Catania (1984-87), è stato dal 1993 al 1999 assistente- direttore della Scuola Archeologica italiana di Atene. Rientrato nell’Università di Catania, dal 1999 al 2010 è stato direttore del Centro di Archeologia cretese, fondando la collana di Studi di Archeologia Cretese e accogliendo la proposta dell’editore Aldo Ausilio di dirigere la rivista Creta Antica che questi desiderava creare. Nel 1996 è stato insignito della cittadinanza onoraria del comune di Kamilari, Creta; nel 2011 della Croce di San Paolo e San Tito dalla Chiesa ortodossa di Creta; nel maggio di quest’anno (2014) della cittadinanza onoraria del comune di Milena, a ricordo della sua attività sul sito.
La sua attività sul campo, oltre che a Cipro (Haghia Irini, 1973), si è manifestata soprattutto in Sicilia e a Creta. Nell’isola dove era nato, dopo aver condotto scavi a Centuripe e a Noto antica (tra il 1968 ed il 1974), ha profuso il suo maggiore impegno nel sito di Milena (1978-1992), nella valle del fiume Platani, poco noto archeologicamente fino alle sue ricerche. È però a Creta che Vincenzo La Rosa trova la sua terra di elezione scientifica, dapprima come collaboratore di Doro Levi negli scavi di Festòs, quindi come direttore degli scavi di Selì di Kamilari (1973-76) e soprattutto di Haghia Triada (dal 1977) e Festòs (1994, 2000-2004), appositamente chiamato dall’allora direttore della Scuola Archeologica italiana di Atene, Antonino Di Vita. L’ampiezza di vedute che caratterizza i suoi interessi scientifici, volti sia alla preistoria che alle fasi più recenti dei siti indagati, riguarda anche gli studi sulla storiografia archeologica. In particolare i contributi relativi all’inizio delle esplorazioni italiane a Creta hanno aperto campi di indagine originali ed innovativi sul rapporto fra archeologia e politica estera, discussi in una lunga serie di articoli a partire da uno specifico convegno tenuto a Catania nel 1985 in margine alla mostra Creta Antica. Cento anni di archeologia italiana a Creta.
Organizzatore di mostre e convegni che sono diventati punto di riferimento per la ricerca (a quelli citati si può aggiungere il simposio italiano di studi egei Epì ponton plazòmenoi con D. Palermo e L. Vagnetti, del 1998, I Cento Anni dello scavo di Festòs, del 2000, e la mostra In Ima Tartara. Miti e leggende delle grotte dell’Etna assieme a F. Privitera, del 2007, il convegno Tra lava a mare, con M.G. Branciforti, dello stesso anno), Vincenzo La Rosa è stato socio di istituzioni culturali internazionali (Accademia Roveretana degli Agiati; Istituto Archeologico Germanico; Archaiologiki Etairia di Atene fino all’Accademia Nazionale dei Lincei).
Scoperto sui fondali nel bacino di attracco degli aliscafi il porto romano di Lipari, nelle Eolie. Tunnel trasparenti sottomarini permetteranno di visitarlo “all’asciutto”
Strutture murarie possenti e basi di colonne monumentali, probabilmente riciclate da un vicino tempio: prende forma il porto romano dell’isola di Lipari, nell’arcipelago delle Eolie, immerse nel mare di Sicilia prospiciente Milazzo. Ma quelle banchine destinate ad accogliere duemila anni fa merci, soldati e mercanti, oggi costituiscono un prezioso sito archeologico sommerso, riaffiorato al centro dell’odierna area portuale di Sottomonastero, in prossimità del molo di attracco degli aliscafi. Così se quattro anni fa la soprintendenza del Mare gridò “alla scoperta del secolo”, in questi giorni a conclusione della seconda campagna di scavo denominata “Archeoeolie 2014” condotta dalla soprintendenza del Mare diretta da Sebastiano Tusa, si ha la certezza non solo dell’importanza archeologica e storica del porto romano di Lipari ma anche della sua valenza strategica in un’ottica di valorizzazione del sito e di promozione turistica dell’isola di Lipari.
Tunnel trasparenti. Perciò non è un caso se, proprio alla luce di questi risultati di scavo, la soprintendenza del Mare ha lanciato un ambizioso progetto: poter visitare i resti del porto romano, ormai sommerso, restando con i piedi all’asciutto. Il progetto, cogliendo l’occasione offerta dalla progettazione europea POR 2014-2020, propone un innovativo sistema di visita museale delle antiche strutture, in ambiente asciutto, attraverso la realizzazione di tunnel trasparenti, accessibili direttamente dalla superficie, in prossimità del molo. “La struttura”, spiegano i tecnici dell’assessorato ai Beni culturali della Regione Sicilia, “potrà coniugare le esigenze di tutela del bene culturale sommerso e il suo ‘sfruttamento’ a tutto vantaggio dell’economia locale. A breve – continuano – saranno condotti anche dei saggi di scavo mirati a verificare l’esistenza di eventuali strutture antiche lungo l’area del costruendo nuovo molo, progettato in prosecuzione di quello in ferro già esistente per l’attracco degli aliscafi, così da definire le emergenze archeologiche dell’area e rendere possibile la realizzazione del progetto”.

Le ricerche sottomarine a Lipari sono condotte dalla soprintendenza del Mare sotto la direzione di Sebastiano Tusa
Far convivere antico e moderno. “La scoperta è semplicemente straordinaria e rarissima”, commentava ancora quattro anni fa Sebastiano Tusa. “Questa scoperta è in grado di aggiungere altri significativi elementi a quel che si conosce della civiltà millenaria eoliana, quindi non deve essere sacrificata o soffocata per realizzare, in quello spazio archeologico, un megaporto privato che, una volta sorto, massacrerebbe definitivamente un sito archeologico subacqueo d’importanza universale. Questo è un patrimonio archeologico impensabile e che va assolutamente tutelato”. È proprio in questa direzione che si muove l’azione amministrativa della soprintendenza del Mare, consapevole della necessità di trovare una soluzione per conciliare le esigenze della comunità locale di avere una portualità sicura e della tutela e valorizzazione delle strutture portuali antiche.

La campagna “Archeoeolie 2014” ha permesso di conoscere meglio le tecniche edilizie adottate dai romani
I risultati di scavo. La campagna di scavo ha intanto consentito di ampliare la conoscenza delle strutture portuali già a suo tempo individuate al centro dell’odierna area di Sottomonastero. Su questa struttura sormontata da alcune basi di colonne (probabilmente recuperate da un edificio templare nelle vicinanze), gli interventi precedenti hanno consentito di comprendere la dinamica e la tempistica del loro posizionamento, presumibilmente per alzare il livello della banchina portuale. Lo scavo di quest’anno ha invece ampliato la già vasta porzione di struttura in opera cementizia di epoca romana bordata da lastre regolari già messa in luce, prediligendo la realizzazione di una sezione stratigrafica dei detriti di copertura.
Il lacerto di area portuale sommersa messa in luce è ancora una minima porzione della ben più vasta area che verosimilmente è celata sotto il sedimento, come la recente campagna di ricerche strumentali con sonar a scansione laterale e sub-bottom profiler (penetratore di sedimenti) ha lasciato intravedere. Saranno le prossime campagne di scavo, già in corso di progettazione, ad ampliare l’area di scavo per definire meglio le caratteristiche puntuali della struttura portuale romana.
Al castello di Lipari nelle Eolie un tuffo tra arte e archeologia col festival “Segni e sogni del Mediterraneo”
Arte contemporanea e archeologia a Lipari diventano un binomio vincente: grazie all’impegno dell’associazione tra imprese alla quale è stata aggiudicata la gara (Syremont, capofila, responsabile degli interventi architettonici e impiantistici, il Cigno, che progetta e coordina le mostre e gli eventi, e Artém, responsabile dell’identità, della comunicazione e dell’editoria) nella stessa area della principale isola delle Eolie coesisteranno le preziose collezioni del museo archeologico “Luigi Bernabò Brea” e un nuovo centro per l’arte contemporanea che occuperà le celle dell’ex carcere. Dal 5 al 7 settembre il castello di Lipari ospita il festival “Segni e sogni del Mediterraneo”, patrocinato dall’assessorato regionale dei Beni Culturali con la collaborazione del museo archeologico “Luigi Bernabò Brea” e voluta dal progetto “Mare Eolie”: per tre giorni critici, giornalisti e artisti si confronteranno sul tema dei significati dell’arte e sul rapporto tra arte e mercato. Il festival si articolerà in tre giornate, nella prima “A sud del mercato dell’arte”, la conduzione sarà affidata a Tahar Ben Jelloun con la partecipazione di ospiti quali: Mariolina Bassetti (Christie’s Italia) Roberta Cremoncini (Estorick Collection Londra) Marco di Capua (Panorama). Il 6 settembre sempre in teatro, alle 19, il tema sarà “Dal confino politico ai sogni degli artisti”, Tahar ben Jelloun e Lea Mattarella (La Repubblica) cureranno l’incontro con alcuni dei protagonisti. Il festival chiuderà poi i battenti il 7 settembre con la conferenza di Vittorio Sgarbi su “Archeologia e arte: dal pittore di Lipari all’arte contemporanea”.
Sabato 6 settembre alle 10.30 l’anteprima stampa del Festival d’arte contemporanea “Segni e Sogni del Mediterraneo”, primo appuntamento del progetto biennale “Mare Eolie”. All’ex chiesa di Santa Caterina di Lipari, gli interventi di Marco Giorgianni, sindaco di Lipari, Rocco Giovanni Scimone, soprintendente di Messina, Michele Benfari, ideatore del progetto “Mare Eolie” ed ex direttore del museo archeologico “Luigi Bernabò Brea”, Maria Amalia Mastelloni, direttrice del museo archeologico “Bernabò Brea”, e Lorenzo Zichichi, direttore de Il Cigno GG Edizioni e curatore della mostra 2Eolie 1950/2015. Mare Motus”, chiariranno le caratteristiche e gli obiettivi del progetto che prevede un intervento sull’area della cittadella fortificata di Lipari – il “Castello” – per rivelarne ed esaltarne gli elementi storici e culturali.
Nell’ultima giornata della rassegna, domenica 7 settembre, verrà inaugurata l’area del Castello che sarà dedicata all’arte contemporanea, quella dell’ex-carcere, con l’anteprima della mostra “Eolie 1950/2015. Mare Motus” che sarà aperta nella primavera 2015 con opere di Matteo Basilé, Tahar Ben Jelloun, Ettore de Conciliis con Alex Caminiti, Teresa Emanuele, Ernesto Lamagna, Igor Mitoraj, Piero Pizzi Cannella, Fabrizio Plessi e Maurizio Savini. L’assessorato regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana ha infatti destinato una misura di fondi europei PO-FESR 2007/2013 alla conoscenza dell’arte contemporanea, con il progetto “Centro per l’Arte Contemporanea nel Parco Archeologico delle Isole Eolie e Rassegna Internazionale Eolie”, di cui il Museo Archeologico Luigi Bernabò Brea è promotore. Con l’anteprima della mostra “Eolie 1950/2015. Mare Motus”, curata da Lea Mattarella e Lorenzo Zichichi, le celle dell’ex carcere diventano dunque ‘contenitori’ di opere d’arte (fotografia, scultura, video arte, pittura) di protagonisti della scena artistica contemporanea: Igor Mitoraj e Fabrizio Plessi, già in passato coinvolti in mostre imponenti in altri siti Unesco; Teresa Emanuele e Matteo Basilé, interpreti di un’esperienza analoga nella Valle dei Templi di Agrigento; Tahar Ben Jelloun, nelle cui tele brillano colori e intensità vitale mediterranei, memorie certe di viaggi in Sicilia; Piero Pizzi Cannella e Maurizio Savini, che trasformano un luogo di dolore e sofferenza in un sogno pittorico; Ettore de Conciliis con Alex Caminiti che, con il loro lavoro, trasfigurano l’entrata all’ex carcere nell’accesso a un luogo ‘altro’, dedicato al mare e, infine, il site specific di Ernesto Lamagna.
Il parco archeologico greco-romano di Catania è finalmente realtà: dalla stipe votiva di piazza San Francesco ai teatri antichi alle terme della Rotonda
Il parco archeologico greco-romano di Catania è una realtà. I parchi archeologici erano stati istituiti dalla Regione Sicilia con decreto del 2010, ma solo nei giorni scorsi è stato riconosciuto ufficialmente quello di Catania con un nuovo decreto regionale che entrerà in vigore alla fine di aprile, definendone finalmente la perimetrazione. Lo ha annunciato a Palazzo degli Elefanti, sede del municipio, al sindaco di Catania Enzo Bianco l’assessore regionale ai Beni Culturali, Maria Rita Sgarlata. “Un riconoscimento importante per Catania – commenta Bianco -. Ringrazio l’assessore Sgarlata per l’attenzione, l’interesse, il coraggio dimostrati per il riconoscimento di questa realtà così diversa dagli altri parchi archeologici che coincide con la città vissuta e stratificata. L’averne fissato i confini è un incoraggiamento forte per lavorare al recupero dei beni culturali”. L’assessore regionale Sgarlata sottolinea come ci sia stato “un percorso condiviso con il sindaco e i vertici della soprintendenza e del Parco Archeologico. Il parco archeologico di Catania – continua – non era stato previsto tra i parchi siciliani ma abbiamo scelto di inserirlo proprio per la sua particolarità di essere parte viva all’interno del tessuto cittadino. Con la perimetrazione sarà possibile la tutela e salvaguardia di questo sistema complesso”.

Il bassorilievo in marmo con Demetra e Proserpina trovato presso la Procura (all’epoca la Banca d’Italia), in via Manzoni
Il Parco archeologico greco-romano di Catania (nome completo Parco archeologico greco romano di Catania e delle aree archeologiche dei comuni limitrofi) comprende aree archeologiche e museali che per la maggior parte si trovano nella città di Catania. Il parco – come specifica la legge – si occupa di ricerca, manutenzione, valorizzazione e fruizione di circa un centinaio fra siti e monumenti archeologici, nonché della tutela di diverse migliaia di reperti, tra cui le migliaia di reperti della stipe votiva di piazza San Francesco, trovata in maniera fortuita nel 1959: un deposito di ceramiche greche dedicato a Demetra, tra i più importanti e ricchi complessi votivi dell’Occidente greco con materiali dalla fine del VII a tutto il IV secolo a.C. I reperti sono oggi custoditi dal Parco archeologico greco-romano di Catania.
Tra i siti gestiti nel territorio comunale di Catania quelli la cui apertura al pubblico è garantita con orari regolari sono l’anfiteatro (oggi è visibile una piccola sezione in piazza Stesicoro. Fu costruito probabilmente nel II secolo), il teatro (situato in centro storico, il suo aspetto attuale risale al II secolo secolo quando, sotto l’imperatore Adriano, fu restaurato l’antico teatro greco), l’odeon (accanto al teatro greco-romano), le terme della Rotonda (databili al I-II secolo d.C. su un sito in cui in epoca bizantina è sorta una chiesa intestata alla Vergine Maria. L’appellativo di Rotonda viene proprio dalla singolare struttura architettonica della chiesa con una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato. La struttura termale appare come un grande complesso di edifici quadrangolari connessi tra loro. C’è una grande sala absidata – forse un “frigidarium” – a cui si appoggia sul lato est un grande ambiente a ipocausto (sistema di riscaldamento ad aria calda) ricco di numerose “suspensurae” (pilastrini) che dovevano reggere un pavimento mosaicato di cui pure si sono rinvenute esigue tracce e identificabile come “calidarium”. A sud si aprono diversi altri ambienti appartenenti alla fase di II-III secolo, come due pavimenti ad ipocausto pertinenti a piccoli ambienti circolari, forse un “tepidarium”). Sono invece ancora soggetti a lavori per la fruizione le terme dell’Indirizzo, mentre altre aree archeologiche quali il foro o il cosiddetto Ipogeo Quadrato sono visitabili su prenotazione. Per garantire la fruizione dei reperti archeologici trovati a Catania sono state realizzate due sezioni espositive, Casa Pandolfo e Casa Libérti, entrambe ospitate presso il teatro romano e costituenti l’antiquarium regionale del Teatro romano.
Le perimetrazioni dei parchi archeologici erano state stabilite con la legge 20 del 2000. L’inserimento e il riconoscimento del parco catanese porterà alla migliore salvaguardia del beni culturali della città perché vi sarà una autonomia finanziaria e di gestione sganciata dalla burocrazia regionale a cui finora era destinato il 70 per cento degli introiti. Tale percentuale sarà gestita dal Parco stesso come sta già avvenendo ad Agrigento con la Valle dei Templi. “Soddisfazione”, è stata espressa, tra gli altri, anche dalla soprintendente Fulvia Caffo “per i risultati che si potranno avere con il Museo Regionale Multidisciplinare, una realtà unica nel suo genere”.
Angela Di Stefano, l’archeologa che amava la Sicilia e le testimonianze fenicio-puniche: oggi la ricorda il Pigorini di Roma
La sua scomparsa nel 2012 aveva sorpreso tutti, giunta inaspettata ancora nel pieno della sua attività – anche da pensionata – di ricerca e tutela del patrimonio archeologico della Sicilia. Carmela Angela Di Stefano, ricorda Maurizio Vento, tra i suoi più stretti collaboratori, “ha lasciato una traccia indelebile nelle ricerche, negli scavi e negli studi archeologici (specialmente di archeologia fenicio-punica) per la vastissima preparazione che ne caratterizzava la nobile figura professionale, distintasi fin dagli inizi della carriera per l’amore e la passione manifestata con coerente dedizione e responsabile rigore”.
A un anno e mezzo dalla scomparsa, all’età di 74 anni, oggi sabato 14 dicembre alle 10.30 il museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini di Roma le dedica una giornata in ricordo di Angela di Stefano con introduzione di Maria Antonietta Rizzo (Università di Macerata), e interventi: “Dalla Scuola Archeologica Italiana di Atene alla Soprintendenza Archeologica di Palermo” di Elena Lattanzi (già Soprintendente Archeologo della Calabria), “Palermo: ricerche archeologiche in territorio urbano” di Francesca Spatafora (Direttore del Museo Archeologico Regionale di Palermo), “Ricordi di una studiosa amica” di Dieter Mertens (Istituto Archeologico Germanico), “Lina Di Stefano, studiosa e amica” di Michel Gras (Direttore di ricerca al CNRS), “Il volto sereno dell’archeologia” di Piero Pruneti (Direttore della rivista Archeologia Viva). Nell’occasione verrà presentato il volume “Il castello a mare di Palermo” a cura di Lina di Stefano e Giuseppe Lo Iacono da parte di Giuseppe Lo Iacono (già Soprintendente per i Beni Culturali e ambienti di Enna e Caltanissetta). Chiuderà la giornata un “ricordo della sorella” con Gianna Di Stefano Pucci.
Laureata a Palermo in Lettere classiche e successivamente formata alla scuola di Achille Adriani e di Ranuccio Bianchi Bandinelli con un ciclo di studi orientato verso il mondo della Grecia classica ed ellenistica, Angela Di Stefano modificò presto l’originario percorso occupandosi degli insediamenti della Sicilia punica, avviando la sua attività di ricerca a Marsala accanto ad Anna Maria Bisi. Quando quest’ultima, alla fine degli anni Settanta, si trasferì in altra sede per dedicarsi all’insegnamento universitario, Carmela Angela Di Stefano entrò per concorso come ispettore della soprintendenza alle Antichità della Sicilia Occidentale e quindi come soprintendente aggiunto accanto a Vincenzo Tusa, che ne deteneva la titolarità. Dopo la nuova articolazione provinciale delle soprintendenze in Sicilia, divenne soprintendente a Palermo reggendo simultaneamente in qualità di direttore il museo archeologico regionale “Antonino Salinas”, quindi venne assegnata quale soprintendente a Trapani, dove rimase fino al collocamento in pensione.
Carmela Angela Di Stefano è stata un’indiscussa protagonista della ricerca archeologica a Marsala, Mozia, Palermo e Solunto e tuttora rimane la maggiore autorità scientifica nel campo degli studi archeologici sull’antica Lilibeo (Marsala). Ma a lei si devono anche le più importanti attività finalizzate alla demanializzazione dell’area archeologica di Capo Boeo e di altri siti ricadenti nel centro urbano di Marsala; a lei dobbiamo, inoltre e non ultimo, la creazione del Museo archeologico di Marsala, realizzato nel 1986, dove è conservata la nave punica scoperta nello Stagnone di Marsala al largo dell’Isola Grande e recuperata tra il 1971 e il 1974 sotto la direzione dell’archeologa inglese Honor Frost.
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