Bologna. Manca giusto un mese alla grande mostra “I pittori di Pompei” al museo civico Archeologico di Bologna con oltre 100 capolavori provenienti da quella che è considerata la più grande pinacoteca dell’antichità al mondo, il museo Archeologico nazionale di Napoli. Ecco le prime anticipazioni

Locandina della mostra “I pittori di Pompei” al museo Archeologico nazionale di Bologna dal 23 settembre 2022 al 19 marzo 2023
Un mese. Ancora un mese di attesa per la grande mostra “I pittori di Pompei” al museo civico Archeologico di Bologna dal 23 settembre 2022 al 19 marzo 2023 che si annuncia tra le più importanti nell’offerta culturale dell’autunno in Italia: oltre 100 capolavori provenienti da quella che è considerata la più grande pinacoteca dell’antichità al mondo, il museo Archeologico nazionale di Napoli. La mostra, curata da Mario Grimaldi e prodotta da MondoMostre, è stata resa possibile grazie a un accordo di collaborazione culturale e scientifica tra Comune di Bologna | museo civico Archeologico e museo Archeologico nazionale di Napoli. Alcuni degli splendidi affreschi che arricchivano le antiche domus romane di Pompei e delle altre città dell’area vesuviana saranno esposti a Bologna permettendo un excursus sulla società del I secolo d.C. a partire dalla figura dei pictores, sul cui ruolo aleggia una nuvola di mistero ancora oggi non del tutto svelato.

Filosofo con Macedonia e Persia, affresco dalla parete Ovest dell’oecus della villa di Fannio Sinistore a Boscoreale (I sec. a.C., II stile), conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto mann)
Se nel mondo della Grecia classica i pittori erano considerati “proprietà dell’universo” – come ricorda Plinio il Vecchio a sottolinearne l’importanza ed il ruolo – al tempo dei romani, i pictores erano visti come abili artigiani, e solo alcuni di loro conquistarono, per la qualità e la raffinatezza delle loro creazioni, il ruolo di artisti. E la loro arte, da mestiere riservato alle classi sociali marginali – schiavi, liberti – diventa arte che qualifica chi la pratica. Scrive infatti Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (XXXV, 118): “In verità però non c’è gloria se non per coloro che dipinsero quadri; e a questo proposito tanto più ammirevole appare la saggezza degli antichi. Essi infatti non abbellivano le pareti soltanto per i signori e i padroni, né decoravano case che sarebbero rimaste sempre in quel luogo e sottoposte quindi alla distruzione per gli incendi … Non ancora era di moda dipinger tutta la superficie delle pareti; l’attività artistica di quei pittori era rivolta verso gli edifici cittadini e il pittore era considerato proprietà dell’universo”. Quindi, sottolinea il curatore Mario Grimaldi: “Per Plinio la differenza non risiede tanto nel concetto che è alla base dell’arte di dipingere, la ricerca di quell’inganno splendido che crea un rapporto tra l’opera e l’osservatore, ma nel diverso concetto di artista, tra quello che dipinge quadri e decora lo spazio pubblico (uomo o donna che fosse) considerato e da considerare proprietà dell’Universo, e quello ad egli contemporaneo, che semplicemente abbelliva le pareti delle case creando un’arte senza maestri conosciuti”.

Ercole e Onfale, affresco dalla parete Est del triclinio della casa di Marco Lucrezio a Pompei (I sec. d.C., IV stile), conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto mann)
Il progetto espositivo pone al centro le figure dei pictores, ovvero gli artisti e gli artigiani che realizzarono gli apparati decorativi nelle case di Pompei, Ercolano e dell’area vesuviana, per contestualizzarne il ruolo e la condizione economica nella società del tempo, oltre a mettere in luce le tecniche, gli strumenti, i colori e i modelli. L’importantissimo patrimonio di immagini che questi autori ci hanno lasciato – splendidi affreschi dai colori ancora vivaci, spesso di grandi dimensioni – restituisce infatti il riflesso dei gusti e i valori di una committenza variegata e ci consente di comprendere meglio i meccanismi sottesi al sistema di produzione delle botteghe. Sono pochissime le informazioni giunte a noi sugli autori di queste straordinarie opere e quasi nessun nome ci è noto. Grazie alle numerose testimonianze pittoriche conservate dopo l’eruzione avvenuta nel 79 d.C. e portate alla luce dalle grandi campagne di scavi borbonici nel Settecento, le cittadine vesuviane costituiscono un osservatorio privilegiato per comprendere meglio l’organizzazione interna e l’operato delle officine pittoriche.

Parete in IV stile con Nature Morte (xenia) dalla parete Sud del tablino dei Praedia di Iulia Felix a Pompei (I sec. d.C.), conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto mann)
“Il caso delle città seppellite dall’eruzione vesuviana del 79 d.C. – Ercolano, Pompei e Stabia –“, scrive ancora Grimaldi nell’introduzione alla mostra, “appare uno dei più completi per l’eccezionale contestualizzazione degli apparati decorativi che, conservati perfettamente in situ, permettono così di ricomporre quei rapporti spazio-funzionali del contesto decorativo dandoci la possibilità di tener fede metodologicamente al concetto di rapporto tra spazio e decorazione e soprattutto di contesto. Infatti sempre più si è integrato all’analisi tipologica degli “stili” l’interesse verso i rapporti esistenti tra la decorazione degli ambienti e la loro funzione. In questo contesto la figura del pictor appare essere fondamentale per tradurre in immagini il rapporto esistente e necessario per il committente tra spazio, la sua casa, e decorazione. L’esperienza che si propone con questa mostra è dunque quella di rileggere, all’interno di questa prospettiva metodologica, alcuni grandi esempi decorativi facenti parte della Collezione degli Affreschi del museo Archeologico nazionale di Napoli provenienti da quelle città che, seppellite dalla grande eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., ci offrono ancora oggi la possibilità di indagare e far parte di quell’inganno splendido attraverso la personalità dei pictores che operarono in modo anonimo in quelle case”.

Figura femminile, affresco dalla parete Est del tablino della Casa del Meleagro a Pompei (I sec. d.C., IV stile), conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto mann)
A Bologna, per la prima volta, verrà dunque esposto un corpus di straordinari esempi di pittura romana provenienti da quelle domus celebri proprio per la bellezza delle loro decorazioni parietali, dalle quali spesso assumono anche il nome con cui sono conosciute. Capolavori – solo per citarne alcuni – dalle domus del Poeta Tragico, dell’Amore punito, e dalle Ville di Fannio Sinistore a Boscoreale, e dei Papiri a Ercolano. Il visitatore potrà ammirare un’ampia selezione degli schemi compositivi più in voga nei diversi periodi dell’arte romana, osservando come alcuni artisti sapessero conferire una visione originale di modelli decorativi continuamente variati e aggiornati sulla base di mode e stili locali. Rivivere scene di accoglienza dell’ospite, raffinate immagini di paesaggi e giardini, architetture, ma anche ammirare gli strumenti tecnici di progettazione ed esecuzione del lavoro: colori, squadre, compassi, fili a piombo, disegni preparatori, reperti originali ritrovati nel corso degli scavi pompeiani, comprese coppe ancora ripiene di colori risalenti a duemila anni fa. E, ancora, triclini, lucerne, brocche, vasi, riaffiorati negli scavi e raffigurati proprio negli affreschi in mostra, con i quali dialogavano nello spazio. La mostra proporrà infine la ricostruzione di interi ambienti pompeiani come quelli della Casa di Giasone e, ancora di più della straordinaria domus di Meleagro con i suoi grandi affreschi con rilievi a stucco, per raccontare il rapporto tra spazio e decorazione, frutto della condivisione di scelte, e di messaggi da trasmettere, tra i pictores e i loro committenti.
#buonconsiglioadomicilio. Annapaola Mosca dei Servizi Educativi del museo del Buonconsiglio ci racconta l’antico sarcofago di piazza Mostra a Trento, con monete, balsamari e ampulla vitrea

Nuovo appuntamento con i video buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Annapaola Mosca dei Servizi educativi ci racconta la storia di alcuni balsamari romani in vetro trovati sul finire dell’Ottocento in un antico sarcofago che oggi si trova in piazza della Mostra di fronte al castello del Buonconsiglio.
In una sala di Castelvecchio, nucleo medievale del castello del Buonconsiglio, è conservato un balsamario di vetro verde-azzurro. “Il balsamario realizzato in vetro soffiato con il corpo tronco-conico arrotondato e l’alto collo cilindrico”, spiega Mosca, “è stato ritrovato, come ci informano i dati di archivio, in piazza della Mostra il 12 maggio 1860. Lo storico Michelangelo Mariani ci informa che piazza della Mostra, sottostante il Castello, nel XVII secolo era uno spazio multifunzionale adibito a giostre o tornei. Ma in età romana, l’area ora occupata da piazza della Mostra vicina all’anfiteatro, a giudicare dai dati archeologici, poteva essere un luogo destinato a necropoli. Due manufatti di età romana si trovano attualmente di fronte alla porta detta di San Vigilio del Castello del Buonconsiglio. Sono un’ara in pietra rossa e un sarcofago. Mentre dell’ara non abbiamo al momento delle notizie precise circa la sua provenienza, dai dati di archivio e da uno scritto del 1861 sappiamo che il sarcofago era stato scoperto in piazza della Mostra e scoperchiato il 12 maggio 1860. Un disegno del sarcofago in piazza della Mostra è riportato nel testo dello storico Lodovico Oberziner sui resti del 1883. Il nostro esemplare ha il coperchio conformato a tetto a doppio spiovente con quattro tegole piane ricoperte da coppi e con quattro acroteri agli angoli. Il sarcofago rientra in una classe di manufatti diffusi tra il II e il III sec. d.C. La decorazione è infatti caratterizzata da una tabella centrale affiancata da due arcate laterali delimitate da una semplice modanatura. Il sarcofago ricordava vagamente un tempio o un’abitazione in quanto veniva a essere la casa del defunto. Considerati i costi del materiale, il sarcofago era un oggetto destinato a personaggi che avevano ricoperto un ruolo importante quando erano in vita”.

Da questo sarcofago sono state estratte delle monete molto corrose e quattro recipienti vitrei che sono stati inseriti nelle raccolte municipali. “Questi recipienti”, continua Mosca, “venivano a costituire il corredo funerario e avevano valore rituale in quanto probabilmente erano stati impiegati nel rito della deposizione. Sono recipienti molto delicati e preziosi in vetro soffiato e sono giunti intatti perché protetti dalla cassa del sarcofago. Tre di questi, qualificati come balsamari o lacrimatoi, sono sostanzialmente simili e trovano una particolare diffusione in età imperiale romana. Erano destinati a contenere balsami o unguenti potenziati spesso con essenze naturali e olii. Potevano essere aggiunti sale, resina, gomma per limitare l’evaporazione, come ci racconta Plinio nella Naturalis Historia. Il quarto recipiente vitreo estratto dal sarcofago è l’ampulla in vetro verde-azzurro dal lungo collo cilindrico realizzata appositamente per limitare l’evaporazione del contenuto. Generalmente sarcofagi di queta tipologia erano corredati da un’epigrafe: un’eventuale iscrizione potrebbe essere stata abrasa intenzionalmente per poter riservare il sarcofago alla deposizione di ulteriori defunti”.
Domus Aurea, in attesa della grande mostra “Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche”, gli archeologi del PArCo presentano la splendida decorazione della reggia di Nerone realizzata dal leggendario pittore Fabullus
La grande mostra “Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche”, prevista da marzo 2020, quindi in pieno lockdown, dovrebbe aprire presto. Lo annunciano gli organizzatori del parco archeologico del Colosseo, che per prepararci meglio alla mostra, ci stanno offrendo un viaggio alla (ri)scoperta della Domus Aurea. Oggi parliamo della decorazione pittorica della Domus Aurea di Nerone che fu realizzata, secondo quanto ci racconta Plinio, dal pittore Fabullus. Secondo lo storico, il pittore passò talmente tanto tempo lavorando alla Domus Aurea di Nerone che si trasformò “nel suo carcere”. Ecco le sue parole nella “Naturalis Historia”, XXXV, 120: “Anche Fabullus visse poco: grave e severo e al tempo stesso pittore florido e rigoglioso per i colori vivi. Di lui c’era una Minerva che guardava sempre lo spettatore da qualsiasi direzione costui la osservasse. Dipingeva poche ore al giorno e con grande solennità sempre vestito in toga, anche sulle impalcature. La Domus Aurea fu come la prigione dell’arte sua: fuor di là non esiste gran che di lui”.

La sala di Achille a Sciro nella Domus Aurea decorata dal pittore Fabullus: al centro il riquadro con Achille rifugiatosi a Sciro tra le figlie del re Licomede (foto PArCo)
Ma torniamo a seguire le parole di Svetonio che nella “Vita di Nerone”, XXXI, scrive: “Nel resto della costruzione [Domus Aurea], ogni cosa era ricoperta d’oro e abbellita con gemme e madreperla. Il soffitto dei saloni per banchetti era a tasselli di avorio mobili”. Nella stupenda decorazione superstite della volta della sala di Achille a Sciro, il leggendario pittore Fabullus (citato da Plinio) realizzò una decorazione ispirata al ciclo troiano: nel riquadro centrale è infatti immortalato il momento in cui Achille, rifugiatosi a Siro tra le figlie del Re Licomede, svelò la sua vera identità, cadendo nel tranello di Ulisse. “Questi capolavori pittorici”, spiegano gli archeologi del PArCo, “che hanno influenzato gli artisti di ogni epoca storica, saranno parte integrante del percorso espositivo della mostra “Raffaello e la Domus Aurea”, che aprirà le sue porte al pubblico molto presto!”.
Lapis specularis, il “vetro dei poveri”, molto diffuso nel mondo romano: nel Bolognese le più importanti cave del mondo antico. E proprio Brisighella ospiterà in settembre il III convegno internazionale sul prezioso gesso, dal titolo “Il lapis specularis nei rinvenimenti archeologici”
Duro come il marmo, candido e trasparente come il vetro: così nel I sec. d.C. lo scrittore naturalista romano Plinio il Vecchio nella sua opera più famosa, la Naturalis Historia definiva il lapis specularis: in realtà si tratta di un gesso secondario, facilmente lavorabile a lastre piane. I romani ne facevano ampio uso come valida e più economica alternativa al vetro; un importante distretto minerario si trovava anche “in Bononiensis Italiae parte breves”, poco lontano da Bologna. Nell’ultimo decennio sono state individuate vicino a Brisighella diverse cave in cui si è praticata in età romana l’estrazione del gesso speculare: quelle nella Vena del Gesso Romagnola sono le prime mai scoperte in Italia. Non è un caso, quindi, che proprio a Brisighella (Bologna) dal 27 al 29 settembre 2017 ospiti al convento dell’Osservanza il convegno internazionale, a ingresso libero e gratuito, “Il lapis specularis nei rinvenimenti archeologici”, il terzo dedicato all’argomento, che riunisce archeologi, speleologi, storici e geologi, avvalendosi della partecipazione degli archeologi dell’Asociation Cultural Lapis Specularis de Madrid che illustreranno l’esperienza maturata nelle diverse cave di lapis presenti in Spagna. Il lapis specularis deve il suo nome al fatto che, a partire dall’età romana, sia stato utilizzato come elemento trasparente per le finestre. Per queste sue caratteristiche il gesso speculare è stato oggetto di intensa attività estrattiva e di una commercializzazione ad amplissimo raggio, in modo particolare nei primi secoli dell’Impero.
“La ricerca sistematica di cave di lapis specularis in Italia è iniziata solamente da pochi anni”, spiega Chiara Guarnieri della soprintendenza Archeologia dell’Emilia Romagna, “limitata, al momento, alle regioni Sicilia ed Emilia-Romagna. Attualmente la Vena del Gesso romagnola è la sola area dell’Italia peninsulare che ospita cave di lapis specularis”. La Vena del Gesso è caratterizzata dalla presenza di gesso macrocristallino, da ambienti spesso dirupati e da vene di lapis specularis di dimensioni relativamente ridotte. “È chiaro che, a suo tempo”, continua Guarnieri, “queste vene non sono state individuate a causa delle notevoli difficoltà di accesso. Al momento, la sola cavità di chiara origine carsica che presenta importanti tracce di escavazione del lapis specularis resta la Grotta della Lucerna”. La scoperta e l’esplorazione di cave di lapis specularis nella Vena del Gesso si sono dimostrate piuttosto impegnative. La presenza di rupi, spesso verticali ed instabili, rende infatti problematica l’individuazione e l’accesso alle cave. Un altro motivo che rende difficoltoso l’accesso è dovuto alla presenza di riempimenti naturali, costituiti per lo più da terriccio e da blocchi di gesso, che spesso ostruiscono l’entrata. “La frane sono poi frequenti nella Vena del Gesso e si può quindi presumere che, nel corso dei secoli, anche la morfologia degli ambienti circostanti le cave di lapis specularis sia notevolmente mutata. Gli ambienti interni presentano poi difficoltà di esplorazione in quanto tamponati da materiale di riporto di origine antropica. Da ciò consegue che è assai probabile che gran parte delle cave di lapis specularis, un tempo presenti nella Vena del Gesso romagnola, sia oggi ostruita oppure sia andata completamente distrutta. Nonostante le condizioni ambientali non siano dunque ottimali, la scoperta di una quindicina di cave di lapis specularis, avvenuta nel corso di pochi anni, fa ritenere che questa attività fosse, a suo tempo, piuttosto diffusa nel territorio”.
Ricco il programma del convegno promosso da soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini; soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara; asociation cultural Lapis Specularis – Madrid; parco della Vena dei Gessi Romagnoli; speleo GAM Mezzano; Comune di Brisighella; federazione Speleologica Regionale dell’Emilia-Romagna. Si apre alle 15 di mercoledì 27 settembre 2017 con i saluti istituzionali di Giorgio Cozzolino (soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini), Luigi Malnati (soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara), Davide Missiroli (sindaco di Brisighella), Massimo Ercolani (federazione Speleologica Regionale dell’Emilia-Romagna), Massimiliano Costa (parco regionale della Vena del Gesso Romagnola). Alle 15.30, inaugurazione della mostra “Le grotte emiliano romagnole frequentate dall’uomo: le immagini” con foto di Francesco Grazioli. Quindi iniziano i lavori.
Sezione I. “Il lapis specularis come occasione di conoscenza del territorio”: ore 15.50, Massimiliano Costa, “I progetti per la conservazione e la divulgazione delle testimonianze dell’attività estrattiva del lapis specularis nella Vena del Gesso romagnola”; 16.10, Massimo Ercolani, Piero Lucci, Baldo Sansavini, “Il ruolo degli speleologi per la scoperta e tutela delle cave di lapis specularis nel Parco della Vena del Gesso Romagnola”; 16.30, Paolo Forti, “La candidatura a World Heritage dell’UNESCO delle principali aree carsiche nelle Evaporiti dell’Emilia-Romagna”; 16.50, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, “El lapis specularis como recurso cultural: actuaciones en las minas romanas de lapis specularis de difusión social y de dinamización turística”; 17.10, Emanuela Rontini (consigliere regionale, presidente commissione Ambiente), conclusione dei lavori. Alle 18, in sala espositiva, in via Baldi, inaugurazione della mostra “Usi impropri? La fruizione delle cavità nell’inconografia antica e moderna”, a cura di Maria Luisa Garberi e della biblioteca Franco Anelli (centro italiano di documentazione speleologica – Bologna).

Segobriga, l’importante sito spagnolo famoso durante l’impero romano per la produzione di lapis specularis
Giovedì 28 settembre 2017. Sezione II. “Nuovi rinvenimenti di manufatti in lapis specularis nel bacino del Mediterraneo”. Alle 9.30, Chiara Guarnieri, “I rinvenimenti di manufatti in lapis specularis nel bacino del Mediterraneo: status quaestionis”; 9.50, Thomas Staub, “Lapis specularis from Pompeii, V 1,30”; 10.10, Maria Stella Pisapia, Vega Ingravallo, “Lanterne con lapis specularis da Pompei: una proposta di ricostruzione”; 10.30, Maria Concetta Parello, “Il butto tardo antico nell’area dell’ agorà di Agrigentum, ritrovamenti in deposizione secondaria: il lapis specularis”; 10.50, Claudia Tempesta, “Inafferrabili trasparenze: i rinvenimenti di lapis specularis a Roma e nel Lazio”; 11.10-11.30, pausa caffè; 11.30, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, “Hallazgos de lapis specularis y su contexto arqueológico en Hispania. Estado de la cuestión”; 11.50, Guido Rosada, Maria Teresa Lachin, Stefania Mazzocchin, “Frammenti di lapis specularis dalle Terme Romane di Tyana (Kemerhisar, Cappadocia-Turchia)”; 12.10, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, Rubén Montoya, “Lapis Specularis en Chipre y su interpretación”; 12.30, Alfredo Buonopane, “Specularii e speculariarii nella documentazione epigrafica: un problema interpretativo”; 12.50, Simona Pannuzi, “L’utilizzo del lapis specularis nelle transenne di finestra delle basiliche romane: il caso della basilica di S. Sabina sull’Aventino”; 13.10-13.30, discussione.
Sezione III. “Le cave. Aggiornamenti e nuove scoperte”: 15.30, Giovanni Belvederi, Massimo Ercolani, Chiara Guarnieri, Marina Lo Conte, Piero Lucci, Katia Poletti, Baldo Sansavini, “Non solo lapis specularis: la cava a blocchi di selenite presso Ca’ Castellina a Monte Mauro”; 15.50, Domenica Gullì, Stefano Lugli, Rosario Ruggieri, “Nicchie per lucerne e tunnel di scavo: nuove scoperte in Sicilia”; 16.10, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, Alejandro Navares, Fernando Villaverde, “El complejo minero romano de lapis specularis de Huete-Palomares del Campo (H.PC) en Cuenca (Castilla-La Mancha)”; 16.30-16.50, pausa caffè; 16.50, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, Alejandro Navares, Fernando Villaverde, “Las minas romanas de lapis specularis de Arboleas (Almería – Andalucía). Adecuación turística y puesta en valor”. Sezione IV. “Analisi”: 17.10, Stefano Lugli, “Analisi isotopiche per identificare la provenienza dei cristalli di lapis specularis”; 17.30, discussione; 17.45, proiezione del filmato “Lapis specularis, la luminosa trasparenza del gesso”, realizzato dal gruppo speleologico bolognese-unione speleologica bolognese e speleo Gam Mezzano, da un’idea di Danilo De Maria, Elisa Pinti e Francesco Grazioli con il supporto della federazione speleologica regionale dell’Emilia-Romagna. Venerdì 29 settembre 2017, ultimo giorno del convegno, sarà dedicato alle visite guidate alle cave di lapis specularis di Ca’ Toresina e Ca’ Castellina.
“Storia del profumo, profumo della storia”: all’Archeologico di Fratta Polesine un’affascinante mostra racconta tremila anni di profumi dall’età greco-romana alla grande profumeria di oggi. Da reperti unici ai manifesti liberty. Prevista anche un’esperienza olfattiva
Tremila anni di profumi, attraverso i loro contenitori: da quelli preziosissimi in alabastro, pasta vitrea o ceramica decorata dell’età greca e romana, come aryballoi, alabastra e lekythoi, a quelli più recenti, dove cominciano a “pesare” i marchi della grande profumeria planetaria di oggi. Insieme a oggetti, libri, antichi formulari e farmacopee, strumenti multimediali ed esperienze sensoriali. Ecco l’originale mostra “Storia del Profumo, profumo della storia” che il Comune di Fratta Polesine, l’università di Ferrara e il Polo museale veneto con la fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo propongono al museo Archeologico nazionale nelle barchesse di Villa Badoer a Fratta Polesine (Rovigo) dal 17 settembre 2016 al 26 marzo 2017. Si scopre così che la storia, quella con la S maiuscola, non è fatta solo di battaglie, incoronazioni e altri grandi eventi. È fatta anche di profumi. Chissà, ad esempio, se la Storia sarebbe stata la stessa nel caso in cui Cleopatra non avesse usato i suoi mitici unguenti profumati! La mostra, curata da Federica Gonzato con Chiara Beatrice Vicentini, Silvia Vertuani e Stefano Manfredini, affronta diversissime storie, tutte incentrate sul profumo e sull’arte profumiera. L’esposizione è arricchita da prestiti concessi dai musei Archeologici nazionali di Venezia, Adria, Portogruaro e dal museo Correr. La mostra è resa possibile grazie alla collaborazione nel progetto scientifico e come prestatori di accademia italiana di Storia della Farmacia, Sistema museale di ateneo e CosMast dell’università di Ferrara, biblioteca comunale Ariostea di Ferrara, centro studi etnografici “Vittorino Vicentini”, fondazione Musei civici di Venezia-Museo del Profumo e del Costume di Palazzo Mocenigo. La parte interattiva della mostra è stata realizzata con il contributo economico e tecnico di: AmbrosiaLab, Cura Marketing GmbH Innsbruck, ViaVai, Mavive, The Merchant of Venice.

I quattro curatori della mostra “Storia del profumo”: Federica Gonzato, Chiara Beatrice Vicentini, Silvia Vertuani e Stefano Manfredini
Quattro i campi d’indagine in cui si articola la mostra, come spiegano i quattro curatori. Si parte dalla ricerca archeologica, l’analisi delle fonti storiche e delle testimonianze iconografiche lungo i secoli, fino ai messaggi pubblicitari e alla studio della produzione odierna di aromi e profumi (tradizione e innovazione), approfondendo il tema grazie all’apporto scientifico e didattico fornito dalla collaborazione con laboratori specialistici, corsi di specializzazione post laurea specialistici e dipartimenti universitari. “Punto di partenza”, scrive Gonzato, “è il patrimonio archeologico del Mediterraneo orientale e la ricostruzione delle tecniche utilizzate a cavallo fra antico e medio Bronzo (II millennio a.C.) per la produzione di essenze, fra cui gli aromi da resina di pino, rosmarino, alloro, mirto, anice e bergamotto, piante tipiche di Cipro e del Mediterraneo, ricostruendo la storia delle tecniche e del gusto olfattivo attraverso i secoli fino ad oggi”. In questo compito – continuano gli archeologi – “ci guidano i reperti archeologici e le fonti storiche e linguistiche, a partire dalle tavolette in Lineare B, che ricordano la produzione di olii profumati ad suo cultuale offerti a divinità, e a seguire altre fonti classiche, quali il Trattato degli odori di Teofrasto, testo base della profumeria antica, le testimonianze di Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia o quelle conservate in Dioscuride in De materia medica”.
Obiettivo dei curatori è “presentare il tema in riferimento alle varie epoche storiche, lungo il medioevo fino all’età odierna, ricostruendo il percorso di questo fondamentale aspetto della vita sociale attraverso i codici e le conoscenze relative a erbe aromatiche (ma anche curative) lungo i secoli. I profumi di oggi, infatti, provengono da una lunghissima tradizione che, nonostante i cambiamenti di tecniche di produzione o di modalità di conservazione ed uso, non hanno dimenticato le loro origini e determinate profumazioni, come ad esempio il bergamotto, sopravvivono e continuano ad essere utilizzate senza perdere la loro freschezza, manifestando così l’esistenza di un patrimonio culturale comune che dall’antichità giunge fino a noi”. Nell’antichità come oggi, i profumi erano commerciati in lussuosi e costosi contenitori, che, oltre a sottolineare la preziosità del contenuto, rappresentavano anche un espediente per attrarre l’acquirente. “Per questo abbiamo ritenuto opportuno inserire una sezione dedicata ai manifesti pubblicitari della Belle Epoque. I legami, chiaramente visibili, fra l’industria profumiera di oggi e la produzione di olii essenziali nel Mediterraneo antico conferma la persistenza di un gusto olfattivo comune che dal Mediterraneo centro-orientale si diffuse a partire dal II millennio a.C. e ancor oggi costituisce la base di alcune fragranze particolarmente apprezzate ed utilizzate in Europa. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il profumo è uno strumento di comunicazione sociale: attraverso il profumo è possibile comunicare una particolare immagine di sé e, allo stesso modo il profumo altrui può costituire una specifica informazione nelle relazioni sociali, utilizzando un codice ben conosciuto all’interno della stessa cultura”. Lo studio dei profumi, e quindi degli odori – concludono Gonzato, Vicentini, Vertuani e Manfredini, “è uno studio di storia della cultura e del comportamento, della medicina, dell’igiene, del culto e dell’immaginario erotico. Tramite i reperti esposti in mostra si propone una lettura attraverso i secoli di un prodotto che ha fortemente influenzato la nostra cultura, i commerci, la letteratura e la ricerca medica”.
Nella sezione base la “Storia del profumo”, in collaborazione con Mavive, Museo del Profumo e del Costume, Palazzo Mocenigo Venezia, si va dalla preistoria all’età romana, percorrendo l’antropologia dell’olfatto e il rapporto tra profumo e società. Si arriva alla cultura bizantina e ai profumi d’Oriente e Occidente. Una sezione è dedicata a Venezia e alle sue fragranze. Sezioni dedicate ai segreti dell’arte profumatoria, alla cosmetica nel Rinascimento, all’Acqua di Colonia. Dai profumi raccontati dalle fonti archeologiche e dai reperti si passa al mondo dei profumi nella pubblicità con tanto materiale del Liberty che comprendono 13 quadri Manifesto pubblicitario, da quelli della ditta Migone 1898 fino ai saponi profumati 1895 ai calendarietti profumati Bertelli, dal 1904 al 1939.
La mostra non offre solo reperti e documenti rari, ma garantisce anche esperienze coinvolgenti. Come cimentarsi in “nasi”, alla scoperta delle diverse essenze, immaginando le loro composizioni. Si potranno annusare essenze diverse, tutte d’origine vegetale. Compresa quella della mitica Rosa Centifolia, varietà che coltivata a Grasse, in Provenza, offre la fragranza che rende unico Chanel n.5. La maison parigina ha l’opzione sull’intera produzione della famiglia Muol, miglior produttore di Centifolia, per i prossimi 100 anni. Per ottenere 1,5 kg di essenza vengono sacrificate centinaia di migliaia di rose, per l’esattezza una tonnellata di petali, per un controvalore economico a molti zeri. L’olio essenziale della rosa di Taif è il più costoso al mondo e se ne producono solamente 16 kg all’anno al costo di oltre 50mila euro al kg. La produzione è destinata in gran parte al re della Arabia Saudita. Nulla di nuovo in questo: i profumi e l’arte profumiera hanno sempre affascinato le famiglie reali. Questa passione contagiò tra le tante Caterina Sforza e Caterina dé Medici, ma soprattutto Isabella d’Este marchesa di Mantova, che nella città lombarda frequentava il suo rinomato laboratorio di profumeria, componendo lei stessa le preziose essenze. Venezia era una capitale dei profumi. Qui venivano fatte arrivare le essenze più rare, provenienti da paesi lontani. Qui operavano celebri essenzieri: qui, non a caso, venne edito I Notandissimi Secreti de l’Arte Profumatoria. Correva l’anno 1555 ed era per l’Occidente il primo ricettario ufficiale dell’arte cosmetica.
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