Archivio tag | mostra “Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana della collezione Ligabue”

“Dagli antichi Aztechi fino ad oggi. Un gioco da perderci la testa!”: un affascinante racconto sul gioco della palla nell’America precolombiana con archeologo Davide Domenici, in occasione della mostra “Il Mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue” in corso a Venezia

Aztechi impegnati nel gioco della palla dall’opera “Trachtenbuch” di Christoph Weiditz

Una strana sfera elastica realizzata con la linfa dell’albero della gomma e abili giocatori aztechi, provenienti dalle colonie Messicane, incantano nel 1528 la corte di Carlo V. Per la prima volta gli Europei scoprono il gioco della palla, diffuso da millenni in Mesoamerica tra rituali religiosi e incontri diplomatici. Una palla di gomma che rimbalzava con un’elasticità mai vista prima, giocatori che saltavano come acrobati per colpirla con i fianchi riparati da protezioni di cuoio… Questa fu la scena che gli attoniti spettatori della corte di Carlo V si trovarono davanti agli occhi quando, nel 1528, ebbero modo di osservare lo spettacolo dato dal gruppo di giocatori aztechi che il conquistatore Hernán Cortés aveva inviato in Europa dalle lontane colonie messicane. L’artista tedesco Christoph Weiditz immortalò la scena in un dipinto che, come un’istantanea d’altri tempi, ci ha trasmesso la memoria di quella prima esibizione di atleti aztechi in terra europea. Sembra quasi impossibile che quella sfera di gomma diventata uno dei giochi più popolari e diffusi in Italia e in Europa – per non dire nel mondo – fosse del tutto sconosciuta nel Vecchio Continente prima della scoperta dell’America.  Eppure…

La fondazione Giancarlo Ligabue ha dedicato una giornata al gioco della palla nell’America precolombiana

Dopo Firenze, Rovereto, Napoli, la mostra “Il mondo che non c’era” approda a Palazzo Loredan a Venezia

In Mesoamerica, invece quel gioco lo giocavano da millenni. Come ha ben spiegato domenica 13 maggio 2018, a Venezia in Palazzo Franchetti, Davide Domenici in “Dagli antichi Aztechi fino ad oggi. Un gioco da perderci la testa!”, un affascinante racconto sul gioco della palla nell’America precolombiana, in occasione  della mostra “Il Mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue”, in corso a Venezia, a Palazzo Loredan, sede dell’istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti , fino al 30 giugno 2018. La Fondazione Giancarlo Ligabue ha infatti dedicato un’intera giornata di eventi alla sfera di caucciù diffusa in Mesoamerica da millenni – tra rituali religiosi e incontri diplomatici – e conosciuta in Europa solo a metà del Cinquecento. Un tuffo tra i riti, i costumi, le credenze e l’affascinante arte delle culture precolombiane, in una giornata piena di sorprese, di proposte di conoscenza e degustazione, ma anche di  giochi per adulti e bambini, in cui ancora una volta abbiamo scoperto come il Vecchio Continente sia debitore nei confronti del Nuovo Mondo e in particolare, in questo caso, nei confronti  di Maya e Aztechi. Tra i giochi ideati appositamente per i bambini c’è l’antico gioco dell’Ulama, di origine antichissime ma ancor oggi tramandato dai lontani popoli precolombiani. La Fondazione Giancarlo Ligabue punta moltissimo nelle sue mostre a offrire ai visitatori sistemi didattici e di comunicazione innovativi e ricchi di approfondimenti,  per letture a diversi  livelli – app, tablet di supporto, ologrammi, video  – ma anche tante attività per i bambini e le scuole, e visite guidate per adulti, al fine di far comprendere i contesti e offrire spunti e connessioni culturali. Anche in questa prospettiva è quanto mai interessante la collaborazione decisa, proprio in questi giorni, in materia di promozione, didattica e di comunicazione, tra la Fondazione Giancarlo Ligabue e la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, una delle Istituzioni culturali internazionali più prestigiose, tra quelle attive in laguna. La Collezione Guggenheim tra pochi giorni (il 19 maggio 2018) inaugurerà infatti la mostra “Josef Albers  in Messico” che intende far luce sui rapporti tra la creatività dell’artista tedesco (nato a Bottrop nel 1888 e morto a New Haven nel 1976) e le forme e il design dei monumenti precolombiani che Albers ebbe modo di studiare nel corso dei suoi numerosi viaggi in Messico.  Quale migliore occasione, allora, di una connessione tra le due mostre, per quanti vorranno conoscere quella che l’artista definì  la “terra promessa dell’arte astratta” e la cultura che tanto lo affascinò?!

Statuetta di un giocatore di palla esposta a Venezia nella mostra “Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella collezione Ligabue”

Anche in questa occasione a introdurci e a farci da Virgilio in un universo ancora misterioso, è stato un profondo conoscitore – e appassionato divulgatore – delle culture indigene del Meso e Sud America come  Davide Domenici : archeologo, ricercatore, professore all’Università di Bologna e membro del comitato scientifico della mostra, promossa dalla Fondazione istituita due anni or sono da Inti Ligabue. “Le più antiche palle di gomma, realizzate aggomitolando una lunga striscia di caucciù”, ricorda Domenici, “sono state rinvenute in una laguna nel sito olmeco di El Manatí (Veracruz), dove tra il 1700 e il 1600 a.C. vennero depositate delle offerte dedicate alle divinità sotterranee delle acque e della fertilità. Di un paio di secoli più tardi è invece il più antico campo da gioco oggi noto, scoperto nel sito di Paso de la Amada (Chiapas) e costituito da due monticoli in terra disposti parallelamente a delimitare uno spazio rettangolare, lungo 78 metri e largo 7. Significativamente, questo campo da gioco fu eretto su un lato di una piazza sulla quale si affacciava anche quella che è oggi considerata la più antica abitazione signorile della Mesoamerica”.

L’archeologo Davide Domenici

“Nel corso dei secoli”, continua l’archeologo dell’università di Bologna, “la semplice architettura in terra si trasformò in qualcosa di molto più complesso, come testimonia il campo da gioco olmeco, di Teopantecuanitlan (Guerrero), al centro di un cortile semisotterraneo circondato da un muro in pietra sul quale si ergono, come i quattro denti dell’enorme bocca spalancata del Mostro della Terra, quattro sculture decorate con bassorilievi raffiguranti volti di divinità della fertilità sotterranea. Queste antiche evidenze mostrano come sin dal periodo Preclassico (ca. 2500 a.C. – 300 d.C.) il gioco della palla fosse un’attività carica di valenze politiche e religiose: gli studiosi ipotizzano che i leader delle comunità mesoamericane sponsorizzassero e prendessero parte a partite cerimoniali, probabilmente anche di carattere sacrificale, che dovevano servire a mettere in scena rivalità e alleanze politiche. Non è da escludere, inoltre, che il gioco avesse anche una notevole dimensione economica che si manifestava in scommesse, premi e scambi di doni”.

Un atleta abbigliato per il gioco della palla su un vaso in mostra a Venezia

Sono numerose le testimonianze – ritrovamenti sepolcrali, immagini dipinte o grafite ma anche un importante testo mitologico che racconta la morte e la resurrezione del Dio del Mais – dalle quali emerge il legame tra il gioco del pallone e il rito sacrificale della decapitazione.  Una simbologia religiosa associata al gioco è inoltre suggerita, in epoca classica, anche dai copricapi e dai costumi indossati dai giocatori, raffiguranti cervi e un gran numero di entità extraumane che fungevano da patroni mitologici degli atleti; come pure il valore politico e sociale degli incontri con la palla – una sfera di gomma piena, pesantissima, che imponeva agli atleti l’uso di imponenti cinturoni protettivi e di ginocchiere – è provato dall’altro numero di campi da gioco presenti in diverse città antiche del centro e sud America come El Tajìn (Veracruz) o Cantona (Puebla) e documentato in molte opere d’arte maya, che mostrano giovani principi e sovrani competere in occasione di incontri diplomatici.

I laboratori per i bambini promossi dalla fondazione Giancarlo Ligabue

“Nonostante la dimensione fortemente simbolica del gioco”, conclude Domenici, “i cronisti spagnoli che ebbero modo di conoscere il mondo nahua ci narrano anche di partite di carattere essenzialmente ludico, nelle quali imprudenti scommettitori arrivavano a giocarsi la propria libertà o quella dei loro figli. Gli atleti più capaci acquisivano grande fama e ricchezza e furono forse proprio alcuni di questi a essere inviati da Cortés alla corte di Carlo V, dove gli osservatori europei rimasero sì stupiti dalla loro abilità ma ancor di più da quello strano materiale mai visto, ricavato dalla linfa dell’albero della gomma (Castilla elastica), che nei secoli avrebbe cambiato le abitudini – sportive e non solo – del mondo intero”.

“Il sapore del lusso e del potere. Il cacao nell’antica Mesoamerica”: la fondazione Ligabue promuove a Venezia l’incontro con Davide Domenici in occasione della mostra “Il Mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue”

Il manifesto dell’incontro con Davide Domenici promosso dalla Fondazione Ligabue a Venezia

Sarà un tuffo tra sapori e umori alla scoperta di rituali, simbologie, storie e aneddoti, in cui  il “Theobroma cacao” secondo la classificazione di Linneo,  ovvero “Il cibo degli dei” sconosciuto per secoli all’Europa, era segno di regalità, distinzione e potere. È quanto si propone Davide Domenici dell’università di Bologna archeologo, grande esperto delle civiltà indigene americane e abile divulgatore, che venerdì 2 marzo 2018, alle 17.30, a Palazzo Franchetti, in Venezia, parlerà de “Il sapore del lusso e del potere. Il cacao nell’antica Mesoamerica”. All’incontro seguirà una degustazione offerta da Rosa Salva.  Appuntamento goloso in tutti i sensi dunque quello promosso dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, come evento collaterale della mostra “Il Mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue” in corso nel vicino Palazzo Loredan – Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, fino al 30 giugno 2018 (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/01/09/il-mondo-che-non-cera-a-palazzo-loredan-dopo-firenze-rovereto-e-napoli-i-capolavori-della-collezione-ligabue-tornano-a-venezia-oltre-150-opere-raccontano-vita-costumi-e/).

L’archeologo americanista Davide Domenici dell’università di Bologna

Se l’incontro tra due mondi – quello europeo e quello americano – di cui ci parla con grande fascino la mostra, era stato all’inizio uno “scontro mortale” legato a interessi economici, imposizioni religiose e al diffondersi di malattie, successivamente esso diviene arricchimento culturale nel segno della contaminazione e della globalizzazione. Anche nel campo alimentare. Le antiche Mesoamerica e Sudamerica hanno influenzato in modo determinante “l’universo commestibile” del mondo intero. Sono stati i Conquistadores spagnoli, nel 1521, approdati in Messico, a trovare, al posto dell’oro e dell’argento tanto sognato, frutti tropicali come l’ananas, il mango e la papaya e una grande quantità di piante sconosciute, come il mais, l’avocado, la zucca, il fagiolo rosso, il pomodoro, la vaniglia, la patata, le noccioline e – appunto –  il cacao. Colombo lo incontra e lo descrive nel suo ultimo viaggio, il quarto, e subito dopo la Spagna – che lo adotta (1520) passandolo alle Fiandre – sarà l’Italia a spalancare le porte al nuovo prodotto che diviene rapidamente uno status symbol, elemento voluttuario, “alimento” dello spirito e dell’intelletto. I bicchieri cilindrici maya, da cacao – di cui sono in mostra alcuni esemplari straordinari – ci forniscono, con le loro bellissime pitture e formule dedicatorie informazioni relative alla decorazione del vaso, alla bevanda in esso contenuta, al nome e ai titoli del proprietario, al nome del pittore ecc. Inutile dire che sono proprio queste informazioni “accessorie” – come quelle relative a nascite, intronizzazioni, guerre e rituali derivanti dalle iscrizioni monumentali – a costituire la base della nostra conoscenza del mondo maya classico.

“Il mondo che non c’era” a Palazzo Loredan. Dopo Firenze, Rovereto e Napoli, i capolavori della collezione Ligabue tornano a Venezia: oltre 150 opere raccontano vita, costumi e cosmogonie delle culture Meso e Sudamericane prima di Colombo

Il manifesto della mostra “Il mondo che non c’era. Capolavori della collezione Ligabue” a Venezia dal 12 gennaio al 30 giugno 2018

Prima Firenze, poi Rovereto, quindi Napoli, e ora Venezia: se uniamo con un tratto di penna sembra di seguire lo zigzagare di una nave che cerca di catturare il vento a favore. Un po’ quello che successe più di mezzo millennio fa alle caravelle di Cristoforo Colombo che, sulle vie delle Indie, trovò “il mondo che non c’era”. Quella del 12 ottobre 1492 fu una scoperta  epocale, un fatto che scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma – Grecia – Oriente; l’incontro di  un  nuovo  continente che, secondo  l’antropologo Claude Lévi-Strauss, è forse l’evento più importante nella storia dell’umanità. La scoperta delle Americhe rappresenta l’incontro di due civiltà che sono parte della medesima umanità. Un’umanità fatta di comunanze e differenze di cui ci si rende ben conto grazie alle opere esposte nella mostra “Il  mondo che  non  c’era.  L’arte  precolombiana  nella Collezione Ligabue” che, appunto, dopo il museo Archeologico nazionale di Firenze, Palazzo Alberti Poja a Rovereto, e il museo Archeologico nazionale di Napoli, approda a Venezia, a Palazzo Loredan sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, dal 12 gennaio al 30 giugno 2018, promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue. Oltre 150 opere d’arte che raccontano le tante e diverse civiltà precolombiane che avevano prosperato per migliaia di anni nel continente americano prima dell’incontro con gli Europei: sono le antiche culture della cosiddetta  Mesoamerica (gran  parte  del  Messico,  Guatemala, Belize,  una  parte  dell’Honduras  e  del  Salvador), il  territorio  di  Panama, le  Ande  (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fino a Cile e Argentina): dalla cultura Chavin a Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca.

Uno straordinario copricapo e un tessuto della cultura Nazca (200 a.C.) con piume di uccelli amazzonici e corda (collezione Ligabue)

Per i capolavori della collezione Ligabue concludere il tour italiano a Venezia è un ritorno a casa. E non solo perché Ligabue e Venezia rappresentano un binomio indissolubile (Giancarlo  Ligabue, scomparso nel 2015, imprenditore  ma  anche  paleontologo,  studioso  di  archeologia  e  antropologia, esploratore  e  appassionato  collezionista, è sempre stato molto legato alla città Serenissima: e questa mostra è un omaggio alla sua figura da parte del figlio Inti Ligabue, che con  la  “Fondazione  Giancarlo  Ligabue”  da  lui creata continua l’impegno nell’attività culturale, nella ricerca scientifica e nella  divulgazione dopo l’esperienza del Centro Studi e Ricerche fondato oltre 40 anni fa dal padre Giancarlo). Ma perché Venezia, pure estranea alla corsa al nuovo Continente, finì in realtà con il “conquistare” quelle terre grazie alla forza del proprio immaginario, al punto che nelle cronache del tempo tante città sull’acqua le furono paragonate o vennero chiamate da esploratori e conquistatori rifacendosi alla città veneta – in particolare la capitale azteca di Tenochtitlan fu spesso definita “un’altra Venezia” e raffigurata accanto ad essa –  sarà la Serenissima uno dei principali centri propulsori di quella che potremmo definire come la “scoperta letteraria” delle Americhe. Gli stampatori veneziani furono infatti tra i principali protagonisti della rapida e massiccia diffusione europea delle notizie che giungevano dal Nuovo Mondo (Venezia venne superata solo da Parigi per numero di testi sulle Americhe pubblicati nel Cinquecento) e in alcuni casi i testi veneziani rappresentano le fonti più antiche, essendo andati perduti i relativi manoscritti.

Figura femminile con funzione di sonaglio in ceramica con decorazione policroma. Cultura Maya, 600-800 d.C. (collezione Ligabue)

I capolavori della collezione Ligabue sono il  cuore  della mostra curata da Jacques Blazy specialista delle arti pre-ispaniche della Mesoamerica e dell’America del  Sud. Tra  i membri  del comitato scientifico anche André Delpuech, Direttore  del  Musée  de  l’Homme  –  Muséum  d’Histoire  Nationale Naturelle di Parigi e già responsabile delle Collezioni delle Americhe al Musée du  quai Branly e  l’archeologo  peruviano  Federico  Kauffmann  Doig, entrambi anche componenti del comitato scientifico della Fondazione Giancarlo Ligabue. Dalle rarissime  maschere  in  pietra  di  Teotihucan, la  più  grande città della  Mesoamerica, primo  vero  centro  urbano  del  Messico  Centrale, ai  vasi Maya d’epoca classica preziose fonti d’informazione, con le loro  decorazioni e iscrizioni,  sulla  civiltà  e  la  scrittura  di  questa  popolazione;  dalle statuette antropomorfe della cultura Olmeca, che tanto affascinarono anche i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e diversi  artisti surrealisti (con  la  loro  evidente  deformazione  cranica,  elaborate  acconciature  e  il corpo  appena abbozzato) alle sculture Mezcala tanto enigmatiche nella loro semplicità quanto misteriose  nelle  origini,  al  punto  che ne  restarono profondamente suggestionati divenendone collezionisti anche André Breton,  Paul  Eluard e lo scultore Henry Moore. E poi, sempre dal Messico, statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C. – notevole esemplare in mostra la Grande Venere con la mani congiunte sul ventre – urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura Zapoteca con effige spesso antropomorfa, sculture Azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia (la prima ceramica prodotta in Sud America nel III millennio a.C.), oggetti Inca, tessuti e vasi  della  regione di Nazca – manufatti dell’affascinante cultura Moche, straordinari oggetti in oro. Si tratta in realtà di culture che in molta parte devono ancora essere e studiate e comprese: annientate,  annichilite e ignorate per lunghi anni dopo la scoperta di  quelle  terre,  da  parte  dei Conquistatores ammaliati  solo dalle ricchezze  materiali, autori di stragi e razzie.

Pendente in oro a forma d’aquila con le ali aperte e con collane al collo. Cultura Tairona, 800-1300 d.C. (collezione Ligabue)

L’oro, come  quello  dei  Tairona (puro  o  in  una  lega  con  rame  chiamata “tumbaga”) spingerà nelle Ande spagnoli e avventurieri alla ricerca dell’“El Dorado”, uno dei grandi miti che alimentarono la Conquista. In pochi decenni dall’arrivo di Colombo (nessuno degli oggetti da lui riportati si è conservato) le culture degli Aztechi e degli Inca saranno schiacciate  con le armi e con la schiavitù e quella dei Taino praticamente annientata: già  verso  il  1530,  secondo  gli  storici,  non  esisteva  più  un solo  Taino  vivente. Milioni  di  indio  moriranno  anche  a  causa  delle malattie  arrivate  dal  Vecchio  Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti di queste culture.

 

Venezia sarà protagonista nel 2018 dei principali eventi della Fondazione Giancarlo Ligabue che chiude alla grande il primo triennio di attività: una nuova grande mostra sugli Idoli nel mondo antico e un simposio internazionale per capire come l’uomo conquistò la Terra

“Idols. Gli sguardi del potere” è la nuova mostra-evento della Fondazione Giancarlo Ligabue

Gli Idoli del mondo antico, dall’Indo all’Egitto, invadono Venezia. Proprio la mostra evento “Idols. Gli sguardi del potere”, dal 1° settembre 2018 al 6 gennaio 2019, sarà il nuovo grande progetto espositivo della Fondazione Giancarlo Ligabue che chiude così il primo triennio di attività, avviata dopo la scomparsa di Giancarlo Ligabue (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2015/01/26/e-morto-giancarlo-ligabue-imprenditore-archeologo-paleontologo-mecenate-sostenne-130-spedizioni-nei-cinque-continenti-fondo-il-centro-studi-ricerche-e-stato-lo-scienziato-veneziano-piu-famoso-a/): un anno particolarmente ricco il 2018, con due mostre evento in laguna; un importante symposium internazionale con Donald Johanson, e i “dialoghi della fondazione”. E sarà Venezia il teatro principale delle iniziative, la città di Inti Ligabue presidente della Fondazione, il luogo dove quasi cent’anni fa è iniziata l’avventura imprenditoriale della famiglia e dove hanno preso corpo la passione di esploratore e studioso del padre Giancarlo e si è formata la Collezione Ligabue.

Inti Ligabue, presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue

L’appuntamento di un intero anno con Venezia rappresenta il coronamento di un percorso che finora ha coinvolto in diverse città italiane quasi 100mila persone promuovendo cataloghi e ricerche, nuove collaborazioni con Istituzioni culturali nazionali e internazionali. Oltre ai 45mila contatti social, circa 3mila studenti veneti in questi mesi hanno partecipato ad attività di laboratori promossi dalla Fondazione. Da qui si parte: “Con la consapevolezza”, ribadisce il presidente Inti Ligabue, “che studiare un oggetto materiale, sia esso un vaso maya o una statua dea madre, significa dar voce a culture e umanità diverse, che hanno lasciato molti altri segni nella storia, e che la conoscenza e il recupero delle civiltà antiche è presupposto essenziale, come diceva mio padre, per la comprensione della nostra comune umanità”.

Dopo Firenze, Rovereto, Napoli, la mostra “Il mondo che non c’era” approda a Palazzo Loredan a Venezia

Gennaio 2018, inizia il ricco calendario di iniziative. Dal 12 gennaio 2018, dopo aver fatto tappa al museo Archeologico di Firenze, a Palazzo Alberti Poja a Rovereto e al museo Archeologico nazionale di Napoli, approda a Palazzo Loredan a Venezia, la mostra “Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue” (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/06/13/apre-al-museo-archeologico-nazionale-di-napoli-la-mostra-il-mondo-che-non-cera-con-i-capolavori-della-collezione-ligabue-dedicata-alle-tante-e-diverse-civilta-precolombiane/). Oltre 150 opere ci conducono tra le meraviglie dei Maya, degli Aztechi degli Inca e di tanti altri popoli che hanno abitato la Mesoamerica e l’America del Sud prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo e dei Conquistadores. Un continente intero – con decine di differenti culture – palpitante di umanità, rimasto per l’Europa dietro il velo degli oceani fino al 1492, verrà svelato nella sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti.

Il manifesto della mostra “Idols. Gli sguardi del potere” a Palazzo Loredan di Venezia dal 1° settembre 2018 al 6 gennaio 2019

Lo stesso Palazzo Loredan sarà anche l’importante location del successivo e inedito progetto espositivo della Fondazione Giancarlo Ligabue, in programma nella seconda parte dell’anno.  “Idoli, gli sguardi del potere”, dal 1° settembre 2018 al 6 gennaio 2019, sarà un viaggio attraverso il tempo e lo spazio – in un’ampia area geografica dal Mediterraneo all’Indo, all’Egitto – dal tardo Neolitico all’Antica Età del bronzo ( ca. 4000-2000 a.C.), per indagare l’affascinante rappresentazione antropomorfa e il suo approccio artistico nelle società complesse che allora si stavano affermando. Mistero, comando, fertilità, geni e spiriti: ecco l’universo di sguardi che incontreremo in questa spettacolare esposizione curata da una grande studiosa del settore, Annie Caubet, già curatrice al Louvre. Assieme a opere notevoli della Collezione Ligabue sarà possibile osservare numerosi prestiti da prestigiosi musei europei e internazionali e famose collezioni private.

Donald Johanson, lo scopritore di Lucy, presiederà a maggio 2018 il simposio “How Humans Conquered the World”

Nel 2018 continueranno anche gli appuntamenti con i “Dialoghi della Fondazione”, incontri promossi con intellettuali di diversi campi del sapere e della cultura (tra i precedenti il teologo Vito Mancuso, il critico d’arte Philippe Daverio e il matematico e logico italiano Piergiorgio Odifreddi: vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2016/04/05/levoluzione-di-dio-luomo-e-la-ricerca-del-sacro-il-noto-teologo-vito-mancuso-apre-a-venezia-i-dialoghi-proposti-dalla-fondazione-giancarlo-ligab/) per avvicinare gli studiosi a un vasto pubblico di appassionati riflettendo sulle più ampie tematiche, in piena aderenza al motto della Fondazione “Conoscere e far conoscere”: tutti incontri a ingresso gratuito. Grande attesa anche per il Symposium internazionale presieduto da Donald Johanson, scopritore di Lucy, che – voluto da Inti Ligabue e promosso dalla Fondazione Giancarlo Ligabue – nel maggio del prossimo anno porterà a Venezia paleontologi e antropologi da ogni parte del mondo per fare il punto su come gli uomini abbiano conquistato la terra (“How Humans Conquered the World”) alla luce delle recenti scoperte paleontologiche. La Fondazione prosegue le sue collaborazioni con scienziati e università internazionali (Usa, Perù, Kazhakstan, per esempio); mentre il “Ligabue Magazine” – la rivista scientifica edita in italiano e inglese dalla Fondazione, il cui direttore editoriale è Alberto Angela – è divenuto ormai oggetto da collezione ambitissimo, grazie ai contribuiti di noti studiosi e al ricchissimo corredo iconografico.

“Un gioco da perderci la testa”: al Mann l’archeologo Davide Domenici racconta il gioco della palla nell’Antica Mesoamerica a margine della grande mostra “Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella collezione Ligabue”

Statuetta di un giocatore di palla esposta a Napoli nella mostra “Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella collezione Ligabue”

L’archeologo Davide Domenici

Una palla di gomma che rimbalzava con un’elasticità mai vista prima, giocatori che saltavano come acrobati per colpirla con i fianchi riparati da protezioni di cuoio. Questa fu la scena che gli attoniti spettatori della corte di Carlo V si trovarono davanti agli occhi quando, nel 1528, ebbero modo di osservare lo spettacolo dato da gruppo di giocatori aztechi che il conquistatore Hernán Cortés aveva inviato in Europa dalle lontane colonie messicane. Una strana sfera elastica realizzata con la linfa dell’albero della gomma: per la prima volta gli Europei scoprono il gioco della palla, diffuso da millenni in Mesoamerica tra rituali religiosi e incontri diplomatici. Fu l’artista tedesco Christoph Weiditz a immortalare la scena in un dipinto che, come un’istantanea d’altri tempi, ci ha trasmesso la memoria di quella prima esibizione di atleti aztechi in terra europea. Con l’incontro dal titolo “Un gioco da perderci la testa. Il gioco della palla nell’Antica Mesoamerica”, giovedì 29 giugno 2017, al museo Archeologico nazionale di Napoli, nell’ambito degli approfondimenti dedicati all’importante esposizione “Il Mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella collezione Ligabue” inaugurata il 16 giugno scorso e visitabile fino al 30 ottobre prossimo (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/06/13/apre-al-museo-archeologico-nazionale-di-napoli-la-mostra-il-mondo-che-non-cera-con-i-capolavori-della-collezione-ligabue-dedicata-alle-tante-e-diverse-civilta-precolombiane/), sarà l’archeologo Davide Domenici a ripercorrere la straordinaria storia di questa meravigliosa scoperta che ha conquistato tutti. Ricercatore al dipartimento di Storia culture civiltà dell’università di Bologna, dove imparte corsi relativi all’archeologia e all’antropologia delle civiltà indigene d’America, Davide Domenici ha svolto ricerche archeologiche a Nasca (Perù), Isola di Pasqua (Cile) e Teotihuacan (Messico). Tra il 1998 e il 2010 ha diretto il progetto archeologico Rio La Venta (Chiapas, Messico) e attualmente dirige un progetto di ricerca archeologica a Cahokia (Illinois, Usa). Membro del comitato scientifico della Fondazione Giancarlo Ligabue e della mostra “Il mondo che non c’era”, sull’ultimo numero della rivista semestrale “Ligabue Magazine” (n. 70, giugno 2017), Davide Domenici approfondisce il tema del gioco della palla nelle civiltà precolombiane offrendo una serie d’interessanti informazioni che mostrano come gli europei siano debitori nei confronti di Maya e Aztechi e in genere delle culture precolombiane dell’ “invenzione” del pallone di gomma.

Un atleta abbigliato per il gioco della palla su un vaso in mostra al Mann di Napoli

“Le più antiche palle di gomma, realizzate aggomitolando una lunga striscia di caucciù”, spiega Domenici, “sono state rinvenute in una laguna nel sito olmeco di El Manatí (Veracruz), dove tra il 1700 e il 1600 a.C. vennero depositate delle offerte dedicate alle divinità sotterranee delle acque e della fertilità. Di un paio di secoli più tardi è invece il più antico campo da gioco oggi noto, scoperto nel sito di Paso de la Amada (Chiapas) e costituito da due monticoli in terra disposti parallelamente a delimitare uno spazio rettangolare, lungo 78 metri e largo 7. Significativamente, questo campo da gioco fu eretto su un lato di una piazza sulla quale si affacciava anche quella che è oggi considerata la più antica abitazione signorile della Mesoamerica. Nel corso dei secoli, la semplice architettura in terra si trasformò in qualcosa di molto più complesso, come testimonia il campo da gioco olmeco, di Teopantecuanitlan (Guerrero), al centro di un cortile semisotterraneo circondato da un muro in pietra sul quale si ergono, come i quattro denti dell’enorme bocca spalancata del Mostro della Terra, quattro sculture decorate con bassorilievi raffiguranti volti di divinità della fertilità sotterranea. Queste antiche evidenze mostrano come sin dal periodo Preclassico (ca. 2500 a.C. – 300 d.C.) il gioco della palla fosse un’attività carica di valenze politiche e religiose: gli studiosi ipotizzano che i leader delle comunità mesoamericane sponsorizzassero e prendessero parte a partite cerimoniali, probabilmente anche di carattere sacrificale, che dovevano servire a mettere in scena rivalità e alleanze politiche. Non è da escludere, inoltre, che il gioco avesse anche una notevole dimensione economica che si manifestava in scommesse, premi e scambi di doni”.

Un atleta impegnato nel gioco della palla rappresentato su un vaso Maya

Un’ascia, parte dell’abbigliamento del giocatore di palla, esposta al Mann nella mostra di Ligabue

Sono numerose le testimonianze – ritrovamenti sepolcrali, immagini dipinte o graffite ma anche un importante testo mitologico che racconta la morte e la resurrezione del Dio del Mais – dalle quali emerge il legame tra il gioco del pallone e il rito sacrificale della decapitazione. Una simbologia religiosa associata al gioco è inoltre suggerita, in epoca classica, anche dai copricapi e dai costumi indossati dai giocatori, raffiguranti cervi e un gran numero di entità extraumane che fungevano da patroni mitologici degli atleti; come pure il valore politico e sociale degli incontri con la palla – una sfera di gomma piena, pesantissima, che imponeva agli atleti l’uso di imponenti cinturoni protettivi e di ginocchiere – è provato dall’altro numero di campi da gioco presenti in diverse città antiche del centro e sud America come El Tajìn (Veracruz) o Cantona (Puebla) e documentato in molte opere d’arte maya, che mostrano giovani principi e sovrani competere in occasione di incontri diplomatici. “Nonostante la dimensione fortemente simbolica del gioco”, scrive Domenici, “i cronisti spagnoli che ebbero modo di conoscere il mondo nahua ci narrano anche di partite di carattere essenzialmente ludico, nelle quali imprudenti scommettitori arrivavano a giocarsi la propria libertà o quella dei loro figli. Gli atleti più capaci acquisivano grande fama e ricchezza e furono forse proprio alcuni di questi ad essere inviati da Cortés alla corte di Carlo V, dove gli osservatori europei rimasero sì stupiti dalla loro abilità ma ancor di più da quello strano materiale mai visto, ricavato dalla linfa dell’albero della gomma (Castilla elastica), che nei secoli avrebbe cambiato le abitudini – sportive e non solo – del mondo intero”.

Il pesante giogo, in mostra a Napoli, riproduce la cintura usata dagli atleti nel gioco della palla

Una delle vetrine della mostra “Il mondo che non c’era” al Mann di Napoli con gli oggetti sul gioco della palla

In mostra a Napoli oltre a statuette in argilla e interessanti raffigurazioni vascolari di atleti, ben documentata è anche la tenuta da cerimonia dei giocatori. Certi elementi erano concepiti come oggetti isolati, essenzialmente in pietra e in argilla. I pezzi più famosi sono il giogo, l’ascia e la palma che designano le parti della panoplia del giocatore. I gioghi sono rappresentazioni in pietra delle cinture in cuoio utilizzate dai giocatori e portate all’altezza delle anche per proteggersi contro gli impatti brutali della palla di caucciù duro. Anche se ne esistono di semplici, sono molto spesso scolpiti con motivi in rilievo relativi alla fertilità, come il rospo, o il giaguaro simbolo della pioggia e della fertilità. I gioghi di pietra pesano tra i 20 e i 30 chili e dunque non erano mai portati nelle partite ma è probabile che durante le cerimonie un giocatore importante li portasse.

2015, anno dell’archeologia in Toscana: a Tourisma il soprintendente Pessina anticipa il ricco programma di eventi

Lo stand della Toscana negli spazi espositivi di Tourisma (foto Valerio Ricciardi, Roma)

Lo stand della Toscana negli spazi espositivi di Tourisma (foto Valerio Ricciardi, Roma)

2015 anno dell'Archeologia in Toscana

“Venite a scoprire l’archeologia in Toscana”. L’invito lanciato da Andrea Pessina, soprintendente per i Beni archeologici della Toscana, dal palco di Tourisma, il primo salone internazionale dell’archeologia promosso a Firenze dalla rivista Archeologia Viva dal 20 al 22 febbraio, quest’anno ha una valenza particolare. Sì, perché il 2015 è “l’anno dell’archeologia in Toscana”: un anno speciale, dunque, ricco di iniziative che si intrecciano – come vedremo – anche con altri anniversari come “l’anno dell’Egitto in Italia” e il 150° di Firenze capitale. “Il 2015 sarà un anno di grandi eventi di altissima qualità”, ribadisce Pessina presentando il programma di massima della stagione, di cui archeologiavocidalpassato darà ampio conto nelle prossime settimane. Intanto vediamo il programma di massima.

La Minerva di Arezzo conservata al museo Archeologico di Firenze

La Minerva di Arezzo conservata al museo Archeologico di Firenze

Si inizia con due grandi mostre dedicate alla bronzistica nel mondo antico in generale e della Grecia in particolare. La mostra “Potere e pathos. Bronzi nel mondo ellenistico” apre il 14 marzo a Palazzo Strozzi di Firenze dove si potrà visitare fino al 21 giugno. Attraverso l’esposizione di eccezionali esempi di sculture in bronzo di grandi dimensioni provenienti dai più importanti musei archeologici italiani e stranieri, il visitatore potrà seguire lo sviluppo dell’arte dell’età Ellenistica, diffusa in tutto il Mediterraneo e oltre tra il IV e il I sec. a.C. “Ci saranno 50-60 capolavori che non si sono mai visti insieme, e che difficilmente li si potranno vedere in futuro”, spiega il soprintendente. “Il museo Archeologico di Firenze è uno dei grandi prestatori di bronzi. Ci sarà anche il famoso cavallo Medici-Ricciardi, che fu già di Lorenzo il Magnifico, un capolavoro che in questi giorni è ancora in restauro, aperto alla vista del pubblico”. Una settimana dopo, il 20 marzo (e sempre fino al 21 giugno), ma stavolta al museo Archeologico nazionale di Firenze, apre la mostra “Piccoli grandi bronzi. Capolavori greci, etruschi e romani”: “Sarà l’occasione per presentare parte della collezione di statuette bronzee raccolte in circa tre secoli dalle dinastie dei Medici e dei Lorena”, continua Pessina. In tutto 170 reperti che costituiscono un affascinante percorso artistico, mitologico e iconografico.

Il manifesto dell'XI congresso di Egittologia

Il manifesto dell’XI congresso di Egittologia

In agosto sarà il turno dell’Egitto e, quindi, del museo Egizio di Firenze, un’altra eccellenza della città gigliata, seconda per qualità delle collezioni (circa 15mila oggetti conservati) solo all’Egizio di Torino. Dal 23 al 30 agosto il museo Egizio (archeologico) di Firenze ospita l’11° congresso internazionale di Egittologia, promosso dalla soprintendenza ai beni archeologici della Toscana e dal museo Egizio di Firenze con l’università di Firenze e l’associazione Camnes (Center for Ancient Mediterranean and Near Eastern Studies). Un vero successo per Firenze e l’Egittologia italiana se pensiamo che l’ultimo congresso, cioè il 10°, si è tenuto nel lontano 2008. E sempre quest’estate torna un appuntamento di successo “Le notti dell’archeologia”, giunto alla XV edizione. Anche quest’anno parteciperanno all’iniziativa sia i musei e le raccolte che espongono una collezione archeologica, assieme ai parchi e alle aree archeologiche, sia quei musei che, pur non archeologici, intendono valorizzare e promuovere il patrimonio archeologico del proprio territorio, organizzando attività ed esposizioni destinate a diffondere l’interesse per il più lontano passato. “La costante ricerca di occasioni di divulgazione e diffusione dell’attenzione attorno al patrimonio archeologico”, spiegano in Regione, “è un fiore all’occhiello delle strutture espositive e di accoglienza toscane, che hanno saputo fidelizzare un pubblico che ha imparato, proprio con le “Notti dell’Archeologia”, come le tracce delle civiltà antiche siano le fondamenta dell’identità locale odierna, le nostre radici condivise; un patrimonio che è la più concreta e tangibile testimonianza della cultura dell’uomo, fatta non solo di capolavori unici, ma anche di piccoli oggetti apparentemente banali o di uso comune nella quotidianità, dietro ai quali si celano i sogni, le paure, le speranze di vita, il benessere ed il disagio sociale di ogni tempo, in infiniti racconti di esistenze diverse”.

Andrea Pessina, soprintendente ai Beni archeologici della Toscana (foto Valerio Ricciardi, Roma)

Andrea Pessina, soprintendente ai Beni archeologici della Toscana (foto Valerio Ricciardi, Roma)

L'area archeologica dell'etrusca Roselle

L’area archeologica dell’etrusca Roselle

Intanto per chi vuole organizzarsi un viaggio/vacanza alla scoperta dei tesori archeologici della Toscana, la soprintendenza ha preparato una nuova guida archeologica che è al tempo stesso una rilettura con gli occhi dei viaggiatori del III millennio delle emozioni provate due – tre secoli fa dai pionieri del Grand Tour e un vademecum di itinerari per le strade della Toscana illustrati con le straordinarie foto dall’alto (palloni aerostatici, aquiloni) di Paolo Nannini, fotografo specializzato della stessa soprintendenza toscana. La guida “Sulle strade del Grand Tour. Itinerari archeologici in Toscana”, anticipata da Pessina nella sua introduzione a Tourisma, è stata presentata in anteprima all’XI incontro nazionale di Archeologia Viva.

Il Cortile dei Fiorentini all'inizio del Novecento

Il Cortile dei Fiorentini all’inizio del Novecento

E così arriviamo a settembre con altri due appuntamenti da non perdere. Il primo è intimamente fiorentino. Il soprintendente Pessina l’ha definito come “archeologia per il 150° di Firenze capitale”. Si tratta del restauro e riallestimento – e quindi della riapertura al pubblico – del cosiddetto “Cortile dei Fiorentini”, lo spazio verde del Palazzo della Crocetta, che oggi ospita il museo Archeologico di Firenze, che accolse il materiale archeologico rinvenuto durante i lavori di risistemazione urbanistica di Firenze capitale. Grazie al materiale d’archivio della soprintendenza è stato possibile riconoscere quei reperti e valorizzarli.

L'arte precolombiana sarà protagonista nella mostra "Il mondo che non c'era" promossa dal Centro studi e ricerche Ligabue di Venezia

L’arte precolombiana sarà protagonista nella mostra “Il mondo che non c’era” promossa dal Centro studi e ricerche Ligabue di Venezia

L’ultimo evento anticipato da Pessina non solo ha una valenza intrinseca indiscussa, ma inaugura una collaborazione, che tutti si augurano porterà risultati positivi, tra la soprintendenza per i Beni archeologici della Toscana e il Centro studi e ricerche Ligabue di Venezia. La mostra “Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana della collezione Ligabue” è prevista al museo Archeologico di Firenze tra settembre 2015 e febbraio 2016. Vita, costumi e cosmogonie delle culture del Centro e Sud America prima di Colombo verranno raccontate attraverso oltre 150 opere d’arte della collezione Ligabue e di importanti musei nazionali e privati. “La mostra Il mondo che non c’era narra di quella parte dell’umanità che apparirà all’Europa solo dopo i viaggi di Colombo e degli altri navigatori ed esploratori”, anticipa a Firenze Inti Ligabue, che ha raccolto l’eredità del padre Giancarlo scomparso recentemente. “Se Spagna e Portogallo sono i due paesi europei che hanno svolto un ruolo centrale nella scoperta e la conquista delle Americhe, anche l’Italia ha giocato un ruolo chiave in questo evento considerato senza dubbio il più importante nella storia dell’umanità, come ha avuto modo di considerare Claude Lévi-Strauss”. La mostra sarà curata da Jaques Blazy, esperto internazionale di arte precolombiana, che ha aiutato a costruire le più importanti collezioni al ondo di musei e privati. “Colgo l’occasione per ringraziarlo: egli mi ha personalmente guidato in musei e gallerie e mi ha fatto conoscere altri collezionisti che condividono la passione verso queste antiche civiltà”. Andrè Delpuech, curatore del patrimonio delle Collezioni Americane al Museo del Quai Branly di Parigi, è invece presidente del comitato scientifico della mostra e riporta tutta la sua vastissima esperienza nel campo con un importante studio sul ruolo del mecenatismo nelle collezioni europee. Il coordinamento sarà assicurato dal Centro Studi e Ricerche Ligabue, nato nel 1973, che ha all’attivo più di 135 spedizioni archeo-paleo ed etnografiche possiede un archivio con oltre 80 mila tra documenti, video e foto. “Mi auguro dunque che questa mostra – conclude Inti –  possa fornire una fresca prospettiva sull’arte dell’antico mondo precolombiano e che la fascinazione verso queste antiche e importanti civiltà possa trovare un numero sempre maggiore di appassionati”.