“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nella sesta clip del museo Egizio protagonista Verbano Cusio Ossola e Giuseppe Botti, papirologo e primo esperto di scrittura demotica in Italia
Sesta tappa, Verbano Cusio Ossola. Il viaggio proposto dal museo Egizio di Torino tocca Verbano Cusio Ossola con la sesta delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Toccheremo tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”. La sesta puntata è dedicata a Verbano Cusio Ossola e Giuseppe Botti (1889-1968), papirologo e primo esperto di scrittura demotica in Italia, raccontata in piemontese da Albina Malerba, direttrice Centro studi piemontesi.

1914, Vanzone con San Carlo, provincia di Verbano Cusio Ossola. Seduto sulla scalinata della chiesa, un giovane tiene la testa tra le mani, una lacrima gli riga il volto mentre continua a sussurrare: “Non è vero, non è vero niente”. La leggenda narrava che Vanzone dovesse il suo nome alla capacità di essere sempre “avanzato”, risparmiato dalle epidemie e così era sempre stato. Eppure la sua amata Peppina non ce l’aveva fatta, a soli 24 anni era morta di spagnola proprio a Vanzone, il paese in cui erano nati entrambi, dove facevano ritorno ogni estate e dove si erano promessi amore eterno fin dall’infanzia. Quel giovane inconsolabile è Giuseppe Botti (1889-1968), si è formato in ambienti religiosi e si è appena laureato all’università di Torino con una tesi sulla letteratura cristiana. Ed è proprio per quel dolore lacerante che decide che nel suo cuore ci sarà solo più posto per una grande passione, l’unica che non lo abbandonerà mai e a cui dedicherà l’intera vita: gli studi e la ricerca umanistica. “Isepon”, come lo chiamano in famiglia, torna a Vanzone ogni estate, ma vive a Torino dove insegna in vari licei e continua a studiare, ottenendo anche il diploma in Filologia Classica. Anche la civiltà faraonica lo appassiona e diventa un assiduo frequentatore del museo Egizio, dove scopre che questa affascinante civiltà ha sviluppato tre tipi di scrittura: geroglifica, ieratica e demotica. Siamo negli anni ’20 del Novecento. Apprende che il geroglifico, già decifrato da Champollion quasi 100 anni prima, era utilizzato sui monumenti e sugli oggetti per riportare parole sacre. Lo ieratico veniva invece usato dagli antichi egizi alfabetizzati ed era usato per semplificare i geroglifici. Ma è il demotico a sedurlo, una scrittura che sembra fatta per scrivere velocemente, così come usano la stenografia negli uffici. Ed effettivamente scopre che gli egizi la usavano per i documenti amministrativi. Ernesto Schiaparelli, direttore del museo torinese, è molto colpito dall’intuito e dal rigore del Botti, lo incoraggia nello studio del demotico e lo guida nell’ordinamento dei papiri torinesi. E lui non si risparmia, frequenta corsi di specializzazione e intrattiene scambi con egittologi stranieri che ne apprezzano la vivacità intellettuale e la competenza. Nel 1939 esce un suo studio che la consacra come primo demotista nella storia dell’Egittologia italiana. Con l’umiltà e la sobrietà che gli è propria, pubblica altri studi di rilievo che gli consentono una rapida ascesa nel mondo accademico. Giuseppe Botti inizia a insegnare all’università di Firenze, poi vince il concorso per la prima cattedra italiana di Egittologia presso l’università di Milano. E infine, a 67 anni, viene chiamato all’università La Sapienza di Roma dove appassiona e forma generazioni di egittologi. Si dedica a loro come fossero suoi figli, quella famiglia a cui ha dovuto rinunciare in gioventù perdendo la sua Peppina. Dal 1968 riposano insieme a Vanzone, il loro paese natale all’ombra del Monte Rosa.
“In memoria di Edda Bresciani”: l’università di Pisa dedica alla “sua” professoressa, tra le più grandi esperte al mondo di Egittologia, il ricordo dell’allieva Marilina Betrò, e ripropone la Laudatio pronunciata da Lucia Tongiorgi Tomasi accademica dei Lincei nel 2012 alla consegna del premio Pantera d’Oro

Anche la Sfinge piange la scomparsa di Edda Bresciani. Con questa immagine di affetto e partecipazione, l’università di Pisa, dove la grande egittologa ha insegnato dal 1968 (l’ateneo pisano creò la cattedra proprio per lei) e della quale era poi diventata professore emerito, ha aperto sul sito istituzionale la pagina “In memoria di Edda Bresciani”, tra le più grandi esperte al mondo di Egittologia. Nel 1979 era stata insignita dall’università di Pisa con l’Ordine del Cherubino e nel 2014 l’Associazione Laureati dell’Ateneo Pisano le aveva assegnato il riconoscimento del “Campano d’Oro”. La professoressa è morta il 29 novembre 2020 nella clinica Barbantini di Lucca, dove era ricoverata per una grave patologia. Era nata a Lucca il 23 settembre 1930, città dove è cresciuta e ha sempre vissuto. Prima laureata in Egittologia in Italia e prima donna di ruolo in cattedra per l’Egittologia, si era specializzata in archeologia e filologia, e nelle lingue antiche come ieratico e demotico, copto e aramaico, studiando a Parigi, a Copenaghen, al Cairo. Mercoledì 2 dicembre 2020, all’obitorio di Lucca, l’ultimo saluto, in forma privata. In memoria della professoressa Edda Bresciani il sito dell’università di Pisa (In memoria della Professoressa Edda Bresciani | Egittologia Pisa (unipi.it) pubblica il ricordo scritto dalla professoressa Marilina Betrò, sua allieva, e ripropone l’intervento tenuto nel 2012 dalla professoressa Lucia Tongiorgi Tomasi, allora delegata dell’Ateneo per la Cultura e anch’essa socia nazionale dell’Accademia dei Lincei, in occasione del conferimento della “Pantera d’oro” a Edda Bresciani da parte della Provincia di Lucca.


Marilina Betrò, docente di Egittologia e Civiltà Copta all’università di Pisa
“Ricordo di Edda Bresciani” di Marilina Betrò, professoressa di Egittologia e Civiltà Copta. “Il mio cellulare è pieno dei suoi whatsapp, stringhe colorate di immagini, messaggi icastici, divertenti, graffianti, punteggiati di emoj, per lei nuovi geroglifici che combinava e dominava, scriba eccellente anche in questi. Il vuoto enorme del suo silenzio ora lo sommerge, mi sommerge. Aveva compiuto 90 anni lo scorso 23 settembre, una delle ultime telefonate con lei che già non stava bene, la festa che avrei voluto farle per quell’occasione rimandata “a quella per i 100”, come ci dicemmo. Per chi l’ha conosciuta e ha studiato alla sua scuola parlarne ora solo come della “egittologa” Edda Bresciani sembra far torto a quello che era il suo spirito multiforme, la cultura immensa, la curiosità versatile, insaziabile. Egittologa era, certo – e grande: studiosa conosciutissima, ammirata e amata nell’ambiente scientifico internazionale, demotista geniale, archeologa che ha legato il suo nome a siti interi dell’Egitto (la sua Medinet Madi, la Saqqara saitica e persiana, dove con lei ho mosso i miei primi passi, ancora studentessa, Tebe); autrice di libri su cui si sono formate e si formano generazioni di egittologi: Letteratura e poesia dell’antico Egitto. Cultura e società attraverso i testi; Nozioni elementari di grammatica demotica; I testi religiosi dell’antico Egitto; La porta dei sogni. Interpreti e sognatori nell’Egitto antico. Ed era tantissime altre cose: Accademica dei Lincei, Socia corrispondente dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Parigi, medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica per la Cultura e l’Arte, qui a Pisa Professore Emerito, insignita dell’Ordine del Cherubino,

La consegna del “Campano d’Oro” a Edda Bresciani
del Campano d’Oro e, come amava dire, “lucchese sì ma anche divenuta pisana dopo aver ricevuto, la Benemerenza di San Ranieri, prima donna ad esserne insignita”. Ma soprattutto, al di là dei titoli e delle onorificenze, personalità irripetibile, irridente, irriverente, ironica, soprattutto auto-ironica, maestra unica: la provocazione – a pensare, a guardare il mondo da prospettive inedite, da sentieri mai battuti – era la sua maieutica. Addio, Edda, ti ricordo qui con uno dei tuoi bellissimi haiku, uno dei pochi malinconici: Bussa alla porta / portato dal vento – / un ramo secco (Edda Bresciani, Pisa ETS, 2016)”.


Lucia Tongiorgi Tomasi, accademica dei Lincei
Discorso tenuto in occasione della Cerimonia del Conferimento della Pantera d’Oro alla professoressa Edda Bresciani (9 giugno 2012) di Lucia Tongiorgi Tomasi (Accademia Nazionale dei Lincei). “Come delegata della Cultura dell’Ateneo Pisano, è per me un onore e un piacere esprimere la mia profonda ammirazione per l’insigne egittologa Edda Bresciani che l’Amministrazione Provinciale di Lucca ha giustamente insignito della prestigiosa onorificenza della “Pantera d’oro”, attribuita annualmente alle personalità che hanno onorato la città. A ragione Edda Bresciani, “lucchese doc”, è solita definirsi anche un “po’ egiziana”, ed è indubbio che il suo nome è noto alla comunità scientifica di tutto il mondo per le rilevanti scoperte frutto della sua attività di scavo nel paese del Nilo e per le sue pubblicazioni diventate ineludibile materia di studio per chiunque affronti lo studio dell’antico Egitto. Conosco Edda da molti anni come collega dell’Università di Pisa. Se nella Facoltà di Lettere è stata un vero e proprio ”mito”, il suo nome si impone tra i più autorevoli docenti e le “glorie” dell’Ateneo pisano. Apprezzata per la statura scientifica, è stata molto amata anche per le doti umane e morali e per la carica di vitale simpatia, che hanno fatto sì che divenisse maestra di svariate generazioni di studenti e amica generosa di molti colleghi. Anche in Egitto ha costantemente rappresentato un punto di riferimento, ottenendo sempre, se pure in complicati contesti politici e culturali, l’appoggio delle autorità e la stima degli archeologi che si sono spesso aggregati alle sue missioni. Esperienza straordinaria è ascoltare Edda Bresciani, sia che tenga una conferenza per specialisti, sia che racconti ad amici episodi della sua vita avventurosa di studiosa, spesso sapientemente frammisti a gradevoli curiosità aneddotiche e sempre accolti con ammirazione e magari con una punta di benevola invidia da chi ha prudentemente privilegiato lo studio nel chiuso delle biblioteche, perché la sua fine sensibilità l’ha sempre consigliata su come conquistare e catturare le emozioni dell’uditorio. In particolare sa attrarre i giovanissimi, affascinati dai racconti sull’antico Egitto offerti con linguaggio piano e accattivante, ma scientificamente ineccepibile. La sua agile penna sa trattare complessi argomenti storici e letterari (si vedano i saggi dedicati al diritto, ai sogni e all’antica poesia egiziana), e linguistici (di grande significato gli studi sul demotico). Non vanno poi dimenticate i raffinati esercizi poetici suggeriti dall’amata cultura giapponese. Nell’Ateneo pisano, dove si è formato ed ha insegnato uno dei fondatori dell’egittologia, quell’Ippolito Rosellini compagno di Champollion nella spedizione franco-toscana in Egitto e in Nubia, Edda Bresciani ha raccolto l’eredità di insigni maestri come Giovanni Pugliese Carratelli e Sergio Donadoni, contribuendo ad arricchire l’Università con punte di eccellenza nell’ambito di questi studi (compresa la fondazione nel 1978 della rivista scientifica “Egitto e Vicino Oriente”). Non a caso le è stato conferito l’Ordine del Cherubino ed è stata nominata Professore Emerito, riconoscimenti dovuti dei numerosi di cui è stata insignita, tra cui quello di membro dell’Accademia dei Lincei, attribuito a pochissime donne. Anche successivamente all’andata in pensione, l’Università di Pisa ha ritenuto opportuno affidarle la delega a rappresentarla nei progetti da lei diretti in terra d’Egitto. Ma già nel 1994 l’Ateneo aveva voluto promuovere un bel documentario dedicato alle sue scoperte della necropoli del Medio Regno a Khelua nel Fayyum, significatamene intitolato “Pisa chiama Fayyum”. Edda Bresciani ha legato dunque il suo nome a prestigiose campagne di scavo e a importanti ritrovamenti cui ha dedicato impegno e fatiche fisiche non indifferenti. È necessario infatti spogliare la figura dell’archeologo dall’aura romantica che spesso l’accompagna agli occhi dei non addetti al mestiere. Accanto ad una solida cultura frutto di impegno indefesso, alla passione per il proprio lavoro e alla presenza di un sottile intuito, non va dimenticato lo sforzo di un lavoro durissimo sul campo, i disagi di un clima spesso avverso, la risolutezza che esige l’addestramento e il coordinamento degli operai con i quali non è facile intendersi anche linguisticamente. Ebbene, l’intelligenza, l’energia, il piglio e la carica umana di Edda hanno sempre avuto ragione su difficoltà di fronte alle quali altri si sarebbero arresi e non pochi, dai funzionari agli studiosi, dai tecnici agli architetti, dagli studenti fino ai semplici operai, la ricordano con affetto. Impossibile enumerare in breve spazio i rilevanti ritrovamenti frutto delle missioni di scavo da lei dirette in varie regioni egiziane. Ricordo solo quelle condotte tra il 1970 e il 1971 ad Assuan, quelli a Gurna dal 1973 al 1981 dove è stato completato il ritrovamento del tempio funerario di Thutmosi IV, fino ai primi scavi di Saqqara dal 1975, dove emerse una eccezionale tela funeraria dipinta che oggi fa bella mostra di sé al Museo del Cairo.

La guida archeologica su Medinet Madi nel Fayyum (Egitto)
Rivestono poi un particolare significato i più recenti e fortunati scavi condotti a Medinet Madi nel Fayyum che hanno consentito di sottrarre alle sabbie desertiche le rovine di una longeva città, un unicum che vanta più di 4000 anni per essere stata faraonica, ellenistica, romana e infine bizantina. Nel sito è stato organizzato uno straordinario parco archeologico giustamente definito dall’archeologo egiziano Zahi Hawass “la Luxor del Fayyum”. Un emozionante “romanzo a puntate” hanno costituito i racconti di Edda al ritorno di ogni spedizione che illustravano il ritrovamento del tempio C, dove erano allevati i piccoli coccodrilli da mummificare richiesti dai pellegrini, quello del Castrum romano dotato di un complesso sistema idraulico, e del profondo pozzo sacro, fino alla scoperta di alcune statue leonine, tra cui si impone una naturalistica leonessa, un tocco di “femminilità” molto gratificante. Non va dimenticato che Edda Bresciani, che ha al suo attivo più di 400 pubblicazioni, tra cui alcuni volumi splendidamente illustrati da grafici, mappe, fotografie, è anche un’estimatrice delle applicazioni informatiche. Con l’ausilio di specialisti ha infatti prodotto alcuni Cd-rom multimediali che permettono affascinanti visite virtuali ai siti archeologici a cui ha legato il suo nome. Ma Edda non è una scienziata esclusivamente coinvolta nello specialismo delle proprie ricerche: la sua sconfinata curiosità l’ha portata a indagare con straordinario acume argomenti molto diversi, non ultimo la cultura e l’arte giapponese, una passione che si concretizzata in una rara e straordinaria collezione di “netsuke”. Se mi è permesso concludere con un episodio personale, non posso non ricordare il piacere che provo nel leggere di prima mattina le email che Edda sovente mi invia e alle quali affida pensieri, citazioni e immagini spesso riferiti al mondo egiziano cui ha brillantemente dedicato la sua vita affascinante e la sua acuta intelligenza”.
“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nella prima clip del museo Egizio protagonista Cuneo e Giulio Cordero di San Quintino, lo studioso che trasferì e ordinò la collezione a Torino
Parte da Cuneo il viaggio proposto dal museo Egizio di Torino con la prima delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Partiremo da Cuneo per toccare tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”.

Cuneo è legata alla figura di Giulio Cordero di San Quintino (1778-1857), lo studioso che trasferì e ordinò la collezione a Torino. A raccontare in piemontese letterario la storia e la vita di Giulio Cordero (“e anche le sue emozioni, almeno verosimili, non essendoci testimonianze a riguardo”, ricorda il direttore Christian Greco) è Albina Malerba, direttrice del Centro Studi Piemontesi. Originario di Mondovì, dove nasce nel 1778, è tra i protagonisti della nascita del museo Egizio e della sua apertura al pubblico. Nel 1823 il Cordero fu chiamato a far parte di una commissione di accademici incaricati di redigere l’inventario della raccolta di antichità egiziane di Bernardino Drovetti, acquistata da re Carlo Felice di Savoia, e di curarne il trasporto e il trasferimento da Livorno a Torino: erano più di 300 casse colme di reperti insieme alla colossale statua di Seti II, alta più di 5 metri per cinque tonnellate di peso, che giunse nella capitale sabauda su due carri di artiglieria trainati da 16 cavalli. Giulio Cordero fu incaricato anche di trovare una sede adatta all’esposizione della ricca collezione. Nel 1824 aveva già catalogato più di 8mila oggetti posti nell’ex Collegio dei Nobili, dove era stato da studente, ora Reale Accademia delle Scienze. Lì nello stesso anno, il 1824, aprì il museo Egizio, il primo di antichità egizi del mondo, sotto lo sguardo soddisfatto di Giulio Cordero di San Quintino che, in occasione della visita a Torino di Jean François Champollion, che da poco aveva decifrato i geroglifici, respinse la richiesta dello studioso francese di tagliare i lunghi papiri per facilitarne la lettura. Grazie a lui i preziosi papiri sono ancora a Torino, integri.
“Le Passeggiate del Direttore”: col 27.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco ci porta nella famosa Galleria dei Re del museo Egizio di Torino alla scoperta di alcune delle meravigliose statue della collezione
Col 27.mo appuntamento con le “Passeggiate del direttore” dedicato a “Faraoni: dei e re”, Christian Greco ci porta nella cosiddetta Galleria dei Re, uno degli ambienti più famosi del museo Egizio di Torino, alla scoperta di alcune delle meravigliose statue lì esposte. Una delle statue più importanti conservate al museo Egizio di Torino, e davvero una delle più conosciute al mondo, mostra un giovane Ramses II: indossa la corona di combattimento khepresh, una tunica plissettata che gli avvolge il corpo, e tiene in mano lo scettro. “È interessante notare”, spiega Greco, “come i suoi piedi con i sandali schiaccino i nemici dell’Egitto. Ci sono i nove archi che rappresentano i nemici dell’Egitto, schiacciati dal sovrano che siede in trono. Ai lati del trono riconosciamo il sema tawi, l’unione del Basso e dell’Alto Egitto, quindi il sovrano dell’Alto e Basso Egitto sconfigge e domina i nemici. Del resto si vede nella parte frontale del piedistallo che questi nemici sono legati e dominati assolutamente dal potere regale del faraone”.
Vicino alla statua di Ramses II c’è una statua molto importante, ma che spesso viene ignorata dai visitatori del museo Egizio di Torino, forse perché ritenuta una statua minore. Si tratta di una diade ovvero di una statua di due persone: c’è Horemheb, giuntoci acefalo, con la moglie Mutnedjemed. “Perché è importante questa statua?”, si chiede il direttore. “È importante per quello che sfugge perché non si vede, ovvero per il testo che è conservato in 26 righe nella parte posteriore della statua. Questo testo ci narra di un momento importantissimo nella storia dell’antico Egitto. Il momento in cui viene a finire quella che si definisce l’eresia di Amarna”. Durante il periodo di Amarna, Amenofi IV, che cambia il nome in Akhenaten, trasferisce la sua capitale da Tebe ad Akhetaten (l’odierno tell el-Amarna), e avvia una profonda rivoluzione religiosa. Dice che il pantheon degli antichi dei non deve più essere adorato ma che vi è una divinità che adesso deve essere adorata e questa divinità è l’aton, il disco solare. “Sappiamo che dopo la morte di Akhenaten”, continua Greco, “c’è il regno di Smenkhara, quindi il regno del sovrano bambino Tutankhamon che muore a 18 anni, al quale succederà Ay un generale che regnerà solo per cinque anni, e poi Horemheb. “Horemheb porta avanti l’opera di restaurazione, va in tutte le città e riapre i templi e cerca di ristabilire l’antico culto perché l’Egitto torni a essere prospero. E proprio questo testo ci parla della situazione in cui si trova l’Egitto, l’Egitto che non è più florido perché gli dei non gli sono più benevolenti. Ed ecco quindi come sia necessario ristabilire il culto di tutti gli dei, ritornare all’ortodossia perché il nome dell’Egitto sia di nuovo grande e l’Egitto venga adorato in tutto il mondo”.

La colossale statua di Seti II domina la Galleria dei Re del museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)
Sempre nella Galleria dei Re colpisce la statua di Seti II, la statua più grande presente al museo Egizio: è lunga 5,16 metri. Ha una statua assolutamente gemella che si trova al Louvre. Questa statua, assieme alla sua gemella, sono state trovate nella parte Nord della prima corte del tempio di Karnak. Quando oggi si va a visitare il tempio di Karnak si passa attraverso la porta monumentale, il cosiddetto primo pilone, costruito da Nectanebo I, e sulla nostra sinistra vi è una cappella fatta costruire da Seti II, e nella parte anteriore vi erano appunto due statue entrambe alte 5,16 metri. “Il nome di Seti II era scritto dove ora c’è un buco. Si legge ancora “ptah”, parte del nome Merenptah, ma il nome Seth è stato scavato, tolto quasi in un segno di damnatio memoriae. Seth era legato con tutto ciò che veniva definito come male, come non ordine, colui che dominava il deserto. Cosa dice il testo? Dice che il sovrano delle due terre è amato da Amon Ra, signore dei troni delle due terre. La stessa formula viene ripetuta su ambo i lati”. Ma come è arrivata a Torino questa statua? “È arrivata a Genova e poi è stata trasportata su fusti di cannoni fino a Torino”, racconta Greco. “Una volta arrivata qui non c’era una sala che la potesse ospitare e fu lasciata fuori, coperta con della paglia per preservarla dalle intemperie dell’inverno. E quando Jean François Champollion, il padre dell’egittologia, che arriva qui per studiare la collezione, vide questa statua fuori, scrisse un pamphlet in cui lui stesso si impersonifica in Seti II. E Seti II scrive al Re di Sardegna e gli dice “io re dei re mi trovo ora prigioniero in una stalla piemontese, cerca di trovare un luogo adeguato alla mia statura di gran re”.
C’è un’altra statua meravigliosa che è conservata all’interno del museo Egizio: è la statua di Thutmosi III, un altro grande sovrano guerriero. Ramses II – sappiano – resta sul trono 67 anni, espande i confini dell’Egitto, impone il suo nome su tantissimi monumenti dell’antico Egitto: forse quello più famoso è il tempio di Abu Simbel dove ci sono quattro statue colossali che rappresentano Ramses II. “Ma prima di lui vi era stato un altro sovrano guerriero molto importante, Thutmosi III, che espande i confini dell’impero egizio, arrivando nel Levante, fino al confine con la Turchia. A Torino lo vediamo rappresentato con le tipiche fattezze faraoniche: busto slanciato, idealizzato, tipico dei faraoni; in testa la corona nemes, con al centro l’ureo, o il cobra, simbolo di regalità. Tra le gambe ha una coda, la coda di toro, perché uno dei suoi epiteti è “ka nekhet”, ovvero “toro potente”, toro forte, colui che con la sua potenza riesce a dominare l’Egitto, riesce a garantire maat e a rendere sicuro l’Egitto. Ai lati i suoi nomi, il sovrano dell’alto e basso Egitto con il nome del sovrano. E poi di nuovo, come nella statua di Seti II, “amato da Amon Ra, signore dei troni delle due terre e signore del cielo”. E poi “dotato di vita per sempre”. E qui la stessa cosa, ma prima del cartiglio c’è l’epiteto “sa Ra”, “figlio del dio sole”. Epiteto che si trova nelle statue e negli epiteti regali a partire dalla IV dinastia. E come nella statua di Ramses II, di nuovo i piedi del sovrano che schiacciano i nemici dell’Egitto e di nuovo la rappresentazione dei nove archi dei nemici dell’Egitto. Per quanto concerne poi la storia della collezione vi è un altro aspetto interessante ovvero il nome di Rifaud, che è definito scultore al servizio di monsieur Drovetti. Jean Jacques Rifaud era uno degli agenti di cui Drovetti si serviva per andare in giro per Tebe a trovare statue che poi entrarono a far parte della collezione arrivata nel 1824 qui a Torino”.
#iorestoacasa. “Passeggiate del Direttore”: nel quinto incontro il direttore del museo Egizio ci ricorda il ruolo di Vidua nella nascita del museo, ci riporta alle atmosfere dell’Ottocento con le sale storiche, e ci fa conoscere il Canone Regio
Le “Passeggiate del direttore”, pensate nell’impegno lanciato dal Mibact #iorestoacasa, sono giunte alla quinta puntata dedicata al ruolo ricoperto da Carlo Vidua nella nascita del museo Egizio, alla concezione del museo per tutto l’Ottocento, resa oggi dalle cosiddette Sale storiche, fino a conoscere uno dei papiri più famosi e importanti conservati a Torino, il Canone Regio. La “passeggiata” inizia da una vetrina che conserva alcune statuette lignee (ushabti) con il cartiglio del faraone Seti I, gentilmente prestate dal museo civico di Casale Monferrato, perché dà modo al direttore Christian Greco di parlare della figura e del ruolo di Carlo Vidua, conte di Conzano, originario proprio di Casale Monferrato, esploratore, collezionista, viaggiatore. “Intorno al 1819 Vidua si reca in Egitto – ricorda Greco – dove probabilmente vede una lista manoscritta di Bernardino Drovetti con l’intera collezione. E allora scrive immediatamente a Prospero Balbo, presidente dell’accademia delle Scienze di Torino, perché insista con il re Vittorio Emanuele I per l’acquisto della collezione. A Balbo scrive: “Solo se Torino acquisterà questa collezione l’Italia (che in realtà non esisteva ancora, non era stata ancora unificata) sarà un grande Paese”. E aggiunge: “Questo perché avrà il primo museo Egizio in Torino, la prima Galleria in Firenze, e il più grande museo di Antichità classiche in Roma”. Ecco il valore che veniva dato alla cultura e il valore dell’investimento davvero lungimirante che i Savoia decisero di fare con questo museo. La cultura come colonna identitaria di un Paese, e mi piace pensare che non a caso proprio Torino, Firenze e Roma si siano passate il testimone per essere capitale di questo Paese grazie anche alla forza che hanno delle collezioni che esse custodiscono”.

Le due tele di Lorenzo Delleani del 1871 con il museo Egizio e il museo di Scienze naturali (foto museo egizio)
Si torna alla storia del museo: nel 1824 la collezione Drovetti arriva a Torino e il museo arriva nel Palazzo dell’Accademia delle Scienze che da allora è la sede dell’Egizio. Nel 1832 si decide di unificare la collezione, che in parte era all’università, insieme alle antichità classiche. E così nasce il regio museo di Antichità ed Egizio. “Nell’800 il museo è essenzialmente un luogo di studio”, spiega il direttore. “Lo vediamo molto bene in un quadro di Lorenzo Delleani, che rappresenta il direttore e altri studiosi con il libro in mano che leggono le stele e cercano di capire cosa vi sia scritto. La collezione serve dunque a studenti e studiosi per capire l’Antico Egitto, perché proprio in queste sale si andava via via scrivendo la storia dell’Antico Egitto”. Proprio recentemente il museo Egizio ha voluto ricreare questa atmosfera allestendo le cosiddette Sale storiche (vedi https://archeologiavocidalpassato.com/2019/12/27/torino-il-museo-egizio-apre-al-pubblico-nuovi-spazi-dedicati-al-racconto-della-propria-storia-allestite-cinque-nuove-sale-fra-cui-quella-dedicata-alla-fedele-ricostruzione-di-un-ambiente-museale-de/) dove troviamo una vetrina originale dei primi allestimenti del museo dove sono stati posti gli oggetti così come erano esposi nell’Ottocento: raccolti per tipologie e senza didascalie, perché il museo è un luogo di studio dove studenti e studiosi vengono per approfondire, per capire, per cercare di mettere su carta qua era l’antica civiltà egizia. O ancora una vetrina con un sarcofago che ricorda quanto si vede nel dipinto di Delleani. In queste sale è stato infine possibile riunificare ciò che era stato separato nel 1939: come il medagliere dei sovrani d’Egitto in epoca greca (da Tolomeo I Soter a Cleopatra VII) e romana (imperatori fino ad Adriano), gentilmente concesso dai musei Reali di Torino, dove – appunto nel 1939 – è stata spostata dal palazzo dell’Accademia delle Scienze la collezione di antichità.
Tra i documenti meravigliosi che il museo conserva c’è il papiro di Torino, la lista reale di Torino: il Canone Regio. È uno dei documenti più importanti che esistono al mondo. In ordine cronologico raccoglie il nome dei sovrani che si sono succeduti alla guida dell’Egitto. È una lista di 77 nominativi che vanno dall’epoca di Narmer all’età ramesside, con alcune epurazioni: non ci sono i faraoni che non vengono ritenuti degni di essere ricordati, o quanti sono oggetto di damnatio memoriae. “Ma grazie a questa lista”, sottolinea Greco, “confrontata con la lista cronologica di Manetone, è stato possibile costruire quella colonna dorsale cronologica dell’Antico Egitto per ricostruire la storia di questa civiltà. Questa lista la vide Champollion in Egitto: gli venne portata una tavola lunga quasi tre metri con una serie di frammenti di papiro e lui capì immediatamente la valenza di quel papiro tanto che disse che si trovava davanti a un documento così importante che non osava nemmeno respirare nel timore che il suo respiro condannasse all’oblio il nome di faraoni conservati per secoli”.
#iorestoacasa. “Passeggiate del Direttore”: nel quarto incontro il direttore del museo Egizio descrive il papiro di Iuefankh, con il Libro dei Morti, dal suo arrivo a Torino con la collezione Drovetti allo studio del Lepsius. Focus sulla scena della “pesatura del cuore”
Le “Passeggiate del direttore”, pensate nell’impegno lanciato dal Mibact #iorestoacasa, sono giunte alla quarta puntata. Il direttore del museo Egizio di Torino, dopo aver conosciuto gli esiti della missione in Egitto di Bernardino Drovetti, stavolta si sofferma su “Il Libro dei Morti di Iuefankh”, un papiro di oltre 19 metri, che fa parte della collezione Drovetti e oggi rappresenta uno dei pezzi più importanti conservati a Torino. “Quando nel 1824 il papiro giunse a Torino con la collezione Drovetti”, ricorda Greco, “Jean François Champollion, che due anniprima, nel 1822, per primo aveva decifrato i geroglifici, si precipitò subito nella capitale sabauda per vedere il papiro, dispiaciuto in cuor suo che non fosse arrivato in Francia. E litigò subito con Cordero di San Quintino, primo direttore dell’Egizio di Torino, perché avrebbe voluto che il papiro fosse tagliato in riquadri da conservare sotto vetro. Il direttore la vinse e oggi possiamo ammirare il papiro di Iuefankh disteso in tutta la sua lunghezza”. Chi studiò per primo questo papiro e capì che si trattava di una serie di formule che servivano a concedere al defunto, quasi un passaporto dell’Aldilà, di passare una serie di ostacoli per poter giungere ai Campi di Iaru e a proseguire la vita nell’Aldilà, fu Karl Richard Lepsius autore di “Das Todtenbuch der Aegypter nach dem Hieroglyphischen Papyrus in Turin” (Il Libro dei Morti degli egizi secondo il papiro di Torino). “Fu il Lepsius che chiamò per primo questo testo il Libro dei Morti, in realtà gli antichi egizi lo chiamavano Uscire il giorno. E da quel momento questo papiro legherà Torino e il museo Egizio all’egittologia internazionale”. Lepsius venne a Torino, vide il papiro di Iuefankh. Capì che si tratta di una serie di formule unitarie che costituiscono quello che oggi noi chiamiamo Libro dei Morti. Lui lo chiamò Libro dei Morti, e ne fece una suddivisione in 165 capitoli, studio fondamentale ancora oggi con l’aggiunta di alcuni capitoli identificati in seguito.
Sul Libro dei Morti famosa è la scena della Psicostasia “La pesatura dell’anima” (o del cuore), di fondamentale valenza per la religione antica egizia. “Tutte le formule magiche contenute nel libro sono finalizzate proprio a questo momento quando il defunto si trova al cospetto di Osiride”. Il defunto saluta la dea Maat, la dea della giustizia. “Al centro della scena c’è una bilancia: su un lato c’è il cuore del defunto, sull’altro la dea Maat sormontata da una piuma, perché lei è leggera come una piuma. Se il cuore sarà più leggero il defunto potrà continuare il suo viaggio verso i Campi di Iaru; se sarà più pesante lo attende una creatura mostruosa, la Grande Divoratrice, muso di coccodrillo, parte anteriore di leone, e posteriore di ippopotamo (cioè tre tra gli animali più pericolosi per gli egizi), che è pronta a mangiare il cuore, impedendo al defunto di proseguire verso l’aldilà. Il giudice supremo è Osiride”. Il giudizio tutto avviene sotto gli occhi scrupolosi di Toth, dio della scrittura, che annota tutto sulla sua tavola scrittoria, quasi con funzione di segretario verbalizzante, alla presenza di 42 divinità che costituiscono in qualche modo il tribunale, presieduto da Osiride, che valuta il comportamento del defunto. “Il Libro dei Morti serve proprio a questo: a dare le risposte giuste e opportune per quando il defunto si troverà davanti al giudizio di Osiride nell’Aldilà”.
“Uno, due tre… Antico Egitto!”: per le Giornate Europee del Patrimonio apertura straordinaria del museo Egizio di Torino con speed tour tematico gratuito
Le Giornate Europee del Patrimonio, promosse dal Consiglio d’Europa con l’appoggio della Commissione europea, tornano quest’anno con il tema “Uno, due tre… Arte!”: un’occasione per aprire ai cittadini le porte di monumenti e siti storici, artistici e naturalistici. La manifestazione coinvolge dal 1991, in diversi fine settimana di settembre e ottobre, i 49 Stati Membri della Convenzione culturale europea. Il museo Egizio di Torino aderisce alle Gep 2019 con “Uno, due, tre… Antico Egitto!”: sabato 21 settembre 2019 apertura straordinaria fino alle 22.30, con ultimo ingresso alle 22. A partire dalle 18.30 l’ingresso al museo sarà inoltre per tutti a 5 euro, e sarà possibile prenotarsi a uno speed tour tematico gratuito con prenotazione in loco. In totale ci saranno 8 tour, con partenza ogni 20 minuti. Il museo Egizio di Torino è, come quello del Cairo, dedicato esclusivamente all’arte e alla cultura dell’Egitto antico. Molti studiosi di fama internazionale, a partire dal decifratore dei geroglifici egizi, Jean-François Champollion, che giunse a Torino nel 1824, si dedicano da allora allo studio delle sue collezioni, confermando così quanto scrisse lo stesso Champollion: “La strada per Menfi e Tebe passa da Torino”.
L’Antico Egitto a Conegliano. La direttrice Maria Cristina Guidotti svela i tesori di Abido conservati al museo Egizio di Firenze, il secondo in Italia

L’interno della mostra “Egitto. Come Faraoni e Sacerdoti NEL TEMPIO DI OSIRIDE, custodi di percorsi ormai inaccessibili” a Palazzo Sarcinelli a Conegliano
Il museo Egizio di Firenze e Abido, la città dell’Antico Egitto sacra a Osiride: storie parallele che si intrecciano e si illustrano a vicenda. È questo l’obiettivo della conferenza “Da Abido al museo Egizio di Firenze” con Maria Cristina Guidotti prevista sabato 22 novembre alle 18.30 in municipio a Conegliano, L’incontro con la direttrice della prestigiosa istituzione fiorentina è uno dei più attesi nel cartellone di appuntamenti culturali di approfondimento collaterali alla grande mostra “Egitto. Come Faraoni e Sacerdoti NEL TEMPIO DI OSIRIDE, custodi di percorsi ormai inaccessibili”, aperta a Palazzo Sarcinelli di Conegliano fino al 21 dicembre, promossa e realizzata da Paolo Renier, direttore artistico della mostra frutto di 25 anni di esperienza in Egitto; e Maurizio Sfiotti, presidente dell’Associazione Culturale Osireion di Abido; con il contributo scientifico e la consulenza dell’egittologa Federica Pancin.
“Anche se manca ancora più di un mese alla chiusura della mostra”, spiega Paolo Renier, “con la nostra attività didattica per le scuole, ragazzi e bambini, abbiamo già tutte le mattine prenotate per le visite guidate e i laboratori da parte delle elementari, medie e superiori di Conegliano e del Veneto, inoltre il sabato e la domenica, con un po’ di impegno, riusciamo ad accompagnare tutti i numerosi visitatori nella mostra (siamo vicini alle 4000 presenze)”. Un risultato sottolineato anche dal sindaco di Conegliano, Floriano Zambon, nell’ultima conferenza, con grande soddisfazione.
E oggi, 22 novembre, a Conegliano arriva l’egittologa Maria Cristina Guidotti che anticipa i contenuti della sua conferenza: “Da Abido al museo Egizio di Firenze presenterà la storia del museo Egizio di Firenze, sottolineandone l’importanza e il fatto che si tratta del secondo museo egizio d’Italia, dopo Torino. Quindi verrà ripercorsa la storia del sito di Abido, facendo di volta in volta riferimento ai reperti del museo Egizio fiorentino che in qualche modo, o per provenienza o per datazione, sono collegati a questa area archeologica”. Il museo Egizio di Firenze è dunque secondo in Italia solo al famoso Museo Egizio di Torino. Un primo nucleo di antichità egiziane era presente a Firenze già nel Settecento nelle collezioni medicee, ma nel corso dell’Ottocento fu ampiamente incrementato. Grande merito in proposito ebbe il Granduca di Toscana Leopoldo II, che, oltre ad acquistare alcune collezioni, finanziò insieme a Carlo X re di Francia, una spedizione scientifica in Egitto negli anni 1828 e 1829. La spedizione era diretta da Jean Francois Champollion, il decifratore dei geroglifici e dal pisano Ippolito Rossellini colui che sarebbe diventato il padre dell’egittologia italiana, amico e discepolo di Champollion. I numerosi oggetti raccolti lungo il viaggio, sia eseguendo scavi archeologici, sia acquistando reperti da mercanti locali, furono equamente suddivisi al ritorno tra il Louvre di Parigi e Firenze. Nel 1855 fu istituito formalmente il museo Egizio di Firenze e nel 1880 l’egittologo piemontese Ernesto Schiaparelli, il futuro direttore del Museo Egizio di Torino, fu incaricato di trasferire e riordinare le antichità egiziane nell’attuale sede insieme al museo Archeologico. Con Schiaparelli le collezioni fiorentine ebbero un nuovo notevolissimo incremento, grazie ai suoi scavi e acquisti effettuati in Egitto prima di trasferirsi a Torino. L’ultimo gruppo di raccolte pervenute al museo Egizio di Firenze consiste in donazioni di privati e di istituzioni scientifiche: in particolare sono da ricordare i reperti donati dall’ Istituto Papirologico Fiorentino, provenienti dagli scavi effettuati in Egitto tra il 1934 e il 1939. Fra questi reperti è la collezione di stoffe di epoca Copta, che è una delle più ricche e importanti del mondo.
Nelle collezioni del museo Egizio di Firenze sono conservati alcuni reperti archeologici provenienti da Abido che testimoniano il culto e la particolare devozione di cui era oggetto il dio Osiride in ambito funerario: oltre alle immagini dei due faraoni protagonisti dell’attività architettonica del luogo, Sethi I e Ramses II, ci sono stele databili dal Medio Regno fino all’Epoca Romana, come testimonianza della venerazione a Osiride presente nel luogo.
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