Atena ha lasciato Atene per Palermo! Consegnata ufficialmente al museo Archeologico regionale “Antonino Salinas” la statua della dea dal santuario dell’Acropoli di Atene nell’ambito dell’accordo Sicilia-Grecia per il ritorno ad Atene del Reperto Fagan. La cronaca della cerimonia. Godard: “Esempio per il British Museum”

Le autorità presenti alla consegna ufficiale della statua di Atena al museo Archeologico regionale “Antonino Salinas” di Palermo dal museo dell’Acropoli di Atene: da sinistra, Alberto Samonà, Nikolaos Stampolidis, Lucia Borgonzoni, Lina Mendoni, Caterina Greco (foto regione siciliana)
Atena ha lasciato il museo dell’Acropoli di Atene si è accasata a Palermo, al museo Archeologico regionale “Antonino Salinas”. Dove rimarrà per quattro anni. L’arrivo a Palermo della statua di Atena è stato possibile grazie all’accordo, siglato fra i due musei ai sensi della legge italiana, in base al quale la Sicilia ha concesso al museo dell’Acropoli (per quattro anni, rinnovabili per un uguale periodo) il frammento del fregio del Partenone appartenuto al console inglese Robert Fagan e che, dopo essere stato venduto nel 1820, era custodito al museo Salinas. Un gesto, con il quale la Sicilia ha voluto dare il proprio fattivo contributo al dibattito internazionale sul tema del ritorno in Grecia dei reperti del Partenone (vedi Accordo storico tra il museo dell’Acropoli di Atene e il museo Archeologico regionale “A. Salinas” di Palermo: il frammento del Partenone conservato in Sicilia, il “Reperto Fagan, torna in Grecia per 4 anni (per ora), in cambio di una statua della dea Atena e un’antica anfora geometrica. Un segnale concreto di amicizia. E si pensa ai marmi Elgin conservati al British museum | archeologiavocidalpassato). La consegna ufficiale è avvenuta il 9 febbraio 2022 alla presenza della ministra della Cultura e dello Sport della Repubblica Ellenica, Lina Mendoni, e del direttore del museo dell’Acropoli di Atene, Nikolaos Stampolidis, che hanno affidato questo prezioso reperto alla Regione Siciliana, nelle mani dell’assessore regionale dei Beni culturali e dell’Identità siciliana, Alberto Samonà – che ha portato il saluto del Presidente della Regione, Nello Musumeci – e del direttore del museo Salinas, Caterina Greco. Per l’occasione erano presenti al Salinas il sottosegretario di Stato alla Cultura, senatrice Lucia Borgonzoni e il professor Louis Godart, presidente onorario del Comitato internazionale per la riunificazione dei marmi del Partenone e Accademico dei Lincei, insieme ai rappresentanti della Comunità Ellenica Trinacria di Palermo e della Comunità Ellenica dello Stretto.

Statua di Atena dal museo dell’Acropoli di Atene (foto museo acropoli)
La posa sinuosa della scultura della dea Atena rende questa statua della seconda metà del V secolo a.C. ancora più bella ed elegante. Realizzata in marmo pentelico alla stregua di altre che provengono dall’area del Partenone, la statua acefala di Atena che per quattro anni potrà essere fruibile a tutti al museo Salinas, raffigura la dea in questa posizione flessuosa, alla maniera dello stile attico di quell’epoca. La scultura sostiene il peso del proprio corpo sulla gamba destra, mentre con il braccio sinistro si appoggia probabilmente ad una lancia. Originariamente decorata con una gòrgone al centro, andata perduta, mostra Atena vestita con un peplo segnato da una cintura portata sulla vita e con un’egida stretta disposta trasversalmente sul petto.

Il posizionamento della statua di Atena nel museo Archeologico regionale “Antonino Salinas” di Palermo (foto regione siciliana)

Anfora del Geometrico medio usata come cinerario, dal museo dell’Acropoli di Atene (foto museo acropoli)
Il trasferimento a Palermo della scultura che raffigura la dea Atena, inoltre, fa segnare un primato: è, infatti, la prima volta che dal celebre museo dell’Acropoli arriva in Sicilia, per un’esposizione di lungo periodo, una testimonianza originale della storia ateniese. Grazie all’accordo, i due musei, ma più in generale, la Sicilia e la Grecia, avviano un percorso di collaborazione nel nome della cultura, grazie al quale saranno organizzate in partnership mostre, iniziative culturali e attività di ricerca. Ed è particolarmente significativo che il momento ufficiale di presentazione della statua sia avvenuto il 9 febbraio, in cui si celebra la Giornata mondiale della Lingua e della Cultura Greca. Alla scadenza di questo periodo di quattro anni, dal museo dell’Acropoli arriverà a Palermo un’anfora geometrica degli inizi dell’VIII secolo a.C.

L’arrivo a Palermo della statua di Atena dal museo dell’Acropoli di Atene (foto regione siciliana)
“L’arrivo a Palermo della statua della Dea Atena”, ha dichiarato il Sottosegretario di Stato per la Cultura Lucia Borgonzoni, “si inserisce nel rapporto di stretta collaborazione intessuto tra l’Italia e la Grecia e prosegue nel cammino del rispetto delle reciproche storie e culture, a cui anche l’Unesco ha di recente guardato con favore. Restituire l’arte al suo contesto originale: è in questa chiave che va interpretata la sinergia tra i due Paesi, che si scambiano così un gesto dal forte valore simbolico e, ancora di più, politico. Il Museo Salinas – ha proseguito – si arricchisce di una nuova testimonianza di un passato immortale, a disposizione per i prossimi quattro anni di visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Un passato che le nuove tecnologie ci aiutano a valorizzare: le copie tridimensionali ci permettono infatti di rendere i reperti archeologici ancora più accessibili, consentendoci di preservare il contesto originario dell’opera”.

La statua di Atena in marmo pentelico dal museo dell’Acropoli di Atene esposta al museo Archeologico regionale “Antonino Salinas” di Palermo (foto regione siciliana)
“L’Accordo stipulato tra il museo Archeologico regionale Antonino Salinas e il museo dell’Acropoli di Atene con il sostegno della Regione Siciliana e della Grecia, frutto di 14 mesi di intensa collaborazione e di consultazioni”, ha evidenziato la ministra della Cultura e dello Sport della Grecia, Lina Mendoni, “prevede l’invio (per quattro anni più quattro) al museo palermitano di due importanti e preziosi reperti provenienti dalle collezioni del museo dell’Acropoli. Quest’accordo, indica la via maestra che Londra ed il British Museum potranno seguire. Atene consegna al Museo Salinas, una statua della sua dea protettrice, Atena. Scolpita anch’essa in marmo pentelico, come le sculture del Partenone, essa ornava la Sacra Roccia dell’Acropoli nel V secolo a.C. Da oggi e per i prossimi quattro anni, Atena vivrà qui, a Panormo, nella fertile terra di Sicilia, per simboleggiare il lungo e fecondo legame che unisce la Sicilia e la Grecia”.

L’assessore regionale Alberto Samonà alla cerimonia ufficiale di consegna della statua di Atena al “Salinas” di Palermo (foto regione siciliana)

Le autorità intervenute alla consegna ufficiale del “Reperto Fagan”: da sinistra, il direttore del museo dell’Acropoli di Atene, Nikolaos Stampolidis; il primo ministro della Repubblica Greca Kyriakos Mitsotakis; l’assessore dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana, Alberto Samonà; la direttrice del museo Archeologico regionale “A. Salinas” di Palermo, Caterina Greco; la ministra della Cultura Lina Mendoni (foto museo acropoli atene)
“Questo momento, che segue la cerimonia dello scorso mese ad Atene”, ha sottolineato l’assessore regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Alberto Samonà, portando il saluto del Presidente Nello Musumeci, “rappresenta per noi l’occasione per scrivere insieme una nuova pagina di storia (vedi Atene. Cerimonia di consegna ufficiale del “reperto Fagan”, frammento del Partenone, dal museo Antonino Salinas di Palermo al museo dell’Acropoli: in attesa di essere inserito nel Blocco Vi del fregio orientale, è esposto provvisoriamente in una vetrina. Il primo ministro greco: “È la prima scultura del Partenone che rientra in Grecia” | archeologiavocidalpassato). Oggi mettiamo insieme un tassello importante che va nella direzione di un’Europa, nuova e antica al tempo stesso, che affonda le proprie radici nella nostra cultura e nella nostra identità plurimillenaria. Nel nome dell’Europa dei popoli e del Mediterraneo, culla di civiltà, festeggiamo l’inizio di questo bellissimo rapporto di collaborazione con la Repubblica Ellenica e con le sue prestigiose istituzioni culturali”.

La statua di Atene dal museo dell’Acropoli esposta nella sala delle Metope dei templi di Selinunte al museo Archeologico regionale “Antonino Salinas” di Palermo (foto regione siciliana)
“In questo grande salone dove sono esposte le metope dei templi di Selinunte e che è il cuore pulsante del museo”, ha spiegato Caterina Greco, direttrice del museo Archeologico regionale Antonio Salinas, “tutto parla greco. Greche sono le divinità che appaiono davanti ai nostri occhi e i miti che da ogni parte ci circondano, disegnando una geografica del Mediterraneo antico che da secoli è la nostra casa comune. È dunque in buona compagnia la bella statua di Atena che viene dal santuario dell’Acropoli di Atene, prezioso àgalma che custodiremo con cura, e che particolarmente ci commuove perché è la testimonianza della lontana ma umanissima dedica di un devoto, oggi per noi senza volto né nome. Una collaborazione culturale tra nostri due musei, il Salinas e il museo dell’Acropoli, che oggi celebriamo in occasione dell’esposizione a Palermo della scultura ateniese ma che nei prossimi mesi si sostanzierà in un programma di ulteriori iniziative e appuntamenti”.

Dettaglio dell’egida trasversale che orna il peplo di Atena nella statua dal museo dell’Acropoli (foto regione siciliana)
“Nell’ambito della feconda collaborazione instaurata con l’assessorato ai Beni Culturali e dell’Identità Siciliana impersonato dall’assessore Alberto Samonà, grande amico della Grecia e con il museo Archeologico regionale Antonino Salinas e la sua instancabile collega, la direttrice Caterina Greco”, ha affermato il professor Nikolaos Stampolidis, direttore del museo dell’Acropoli di Atene, “il nostro Museo è oggi particolarmente lieto di concedere per un prestito della durata di quattro anni (cui seguirà, in avvicendamento e per altrettanto tempo, il prestito di un prezioso vaso geometrico dell’VIII secolo a. C.), il prezioso torso di una statua della dea Atena, proveniente dall’Acropoli di Atene. Il peplo che riveste la dea è ornato da una rara egida trasversale, con scolpita sopra una gorgone. Sulla mano sinistra ella portava una lancia. Questo pezzo della nostra Atene e della sua Acropoli, sarà così fruibile ai nostri cari amici siciliani, ricordandogli che anche la città di Atene e nostro museo li ama in quanto nostri fratelli”.

I restauratori mostrano come verrà posizionato il frammento del Partenone proveniente da Palermo (foto museo acropoli atene)
“Ringrazio la Sicilia, il suo Governo, l’assessore Alberto Samonà e la direttrice del Museo Salinas, Caterina Greco”, ha concluso Louis Godart, Presidente onorario del Comitato internazionale per il ritorno dei marmi del Partenone in Grecia, “di avere ascoltato la preghiera dei tanti che nel mondo credono nei valori promossi dagli antichi Greci, consentendo al frammento del fregio di Fidia conservato al museo Salinas di Palermo di ritrovare la sua giusta collocazione nel nuovo museo dell’Acropoli. L’aver permesso a questo reperto di tornare ad Atene e raccordarsi con la statua della dea Artemide, la Sicilia e il Museo Salinas hanno indicato al mondo la strada che il British Museum dovrà seguire. Li ringrazio a nome della cultura mondiale”.
“Le Passeggiate del Direttore”: col 26.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco ci fa conoscere la sepoltura di Petamenofi di età adrianea proveniente dalla tomba della famiglia Soter che ha riutilizzato una tomba di età ramesside. I corredi di età romana sono sparsi in tutta Europa: obiettivo dell’Egizio ricomporlo in una grande mostra nel 2021
C’è una tomba al museo Egizio di Torino che ben racconta l’ibridazione della cultura egizia con la cultura greca nella fase greco-romana dell’Antico Egitto: è la tomba della famiglia Soter, una parte del cui corredo è arrivato anche al museo torinese. Ce ne parla Christian Greco nel 26.mo appuntamento con le “Passeggiate del direttore” dedicato a “Petamenofi e l’Egitto Romano”. La narrazione parte dalla TT32, la tomba tebana 32 del periodo ramesside appartenuta a Djehutymes, intendente al tempio di Amon, e alla moglie Aset, dei quali sono esposti al museo Egizio due coperchi di sarcofagi, in granito rosa. “Più di 1300 anni dopo, all’età di Traiano e Adriano”, racconta Greco, “la tomba viene riutilizzata dalla famiglia di Soter che la riserva a tutti i componenti della famiglia. Oggi il corredo delle sepolture dei componenti della famiglia Soter è sparso in tutta Europa. Soter e il corredo di Soter si trova al British Museum; i loro figli si trovano al Louvre di Parigi; un’altra loro figlia, Sensao, si trova al museo nazionale delle Antichità di Leiden; e proprio Sensao è la zia di Petamenofi che è conservato al museo Egizio di Torino. I fratelli e i cugini di Petamenofi sono al Neues Museum di Berlino. Proprio data l’importanza di tutto ciò, il museo Egizio di Torino sta lavorando, nella fattispecie la nostra curatrice Susanne Töpfer, alla ricomposizione di questo corredo per una mostra che dovremmo aprire nel 2021”.

Il sarcofago a pilastrini di Petamenofi (età adrianea) conservato al museo Egizio di Torino (foto museo Egizio)
Nella sepoltura di Petamenofi ritroviamo elementi antico-egizi che vengono recuperati. “Innanzitutto il sarcofago”, fa notare Greco. “La forma, che abbiamo imparato a conoscere, quella che vedevamo nei sarcofagi all’inizio della storia egizia, è a cassa con un coperchio bombato e con dei pilastri. In una delle puntate precedenti il sarcofago a pilastrini di Hori (VII sec. a.C.) è stato definito un cosmogramma. Ma qui la decorazione è completamente diversa. C’è una colonna di testo al centro in geroglifico, che ci riporta alla tradizione. Poi però nella lunetta c’è anche un testo scritto in greco, la lingua che si parlava, la lingua della burocrazia. In quel momento era il greco la lingua dell’impero romano d’oriente. E per vedere come la tradizione sia ancora vivente è interessante guardare la raffigurazione che si trova sulla parte inferiore della cassa, che con elementi nuovi ripropone però iconografie antico-egizie. C’è un geroglifico sopra, una piccola giara, che si legge “nw”, “nwt”, e quindi è la raffigurazione della dea Nut. E al contempo è interessante osservare la mummia. Si continua a mummificare i morti, quindi questo mondo greco-romano guarda con grande interesse alla tradizione millenaria dell’antico Egitto. I greci -l’abbiamo già sottolineato – guardavano sempre con grande attenzione all’antico Egitto come luogo di una storia millenaria, di tradizioni che si erano sedimentate, e un luogo di grande cultura e di grandi conoscenze. Addirittura Platone, nel libro decimo della Politeia, scaccia l’arte dalla città ideale, ad eccezione di quella egizia che invece deve essere mantenuta”.
“Quindi la mummificazione c’è ancora: la preservazione del corpo, perché il corpo deve essere wejat, deve essere conservato, il defunto deve essere assimilato a Osiride; la presenza poi della dea Nut, che abbiamo già visto nel sarcofago di Hori, veniva acclamata ricordando il capitolo 368 del Libro dei morti. Ma la mummia ha anche nuove caratteristiche. Non solo gli intrecci ci permettono di datare la mummia all’età di Adriano, siamo dunque in piena età imperiale, ma è anche interessante notare la posizione della testa. Il mento è schiacciato contro il petto e la testa sembra rialzata. Questo è un elemento tipico delle mummie di età romana. Infatti la testa si alza, il corpo si risveglia e il defunto non è più in quel torpore della morte, ma si solleva e comincia quindi la resurrezione. Eco quindi il simbolo, l’elemento, di resurrezione, l’augurio di resurrezione tipico dell’età romana che riscontriamo in queste mummie”.
Tra Londra (British Museum) e Parigi (Biblioteca nazionale di Francia) sta prendendo forma il progetto “Roman Provincial Coinage”, primo catalogo sistematico in dieci volumi delle monete imperiali coniate dalle zecche provinciali. Al lavoro un team internazionale tra cui un italiano, Dario Calomino, cui è stato affidato la realizzazione del volume 6, che copre il periodo di tre imperatori: Elogabalo, Alessandro Severo e Massimino il Trace

I due tomi che compongono il primo volume del progetto “Roman Provincial Coinage” curato da British Museum e Bibliothèque Nationale de France
Il progetto è di quelli che fanno tremare i polsi: catalogare tutte le monete romane giunte fino a noi del periodo imperiale, coniate dalle zecche provinciali. Il progetto Roman Provincial Coinage, che sarà composto in tutto da dieci volumi a coprire il periodo imperiale dal 44 a.C. al 296-7 d.C. (il primo volume, che copre l’età giulio-claudia, 44 a.C.-69 d.C., è stato pubblicato nel 1992), è pubblicato dalla British Museum Press e dalla Bibliothèque Nationale de France, sotto la direzione generale di Andrew Burnett (British Museum), Michel Amandry (Bibliothèque nationale de France) e Chris Howgego (Ashmolean Museum). Il progetto, che punta a produrre una tipologia standard della monetazione provinciale dell’impero romano, coinvolge una trentina di esperti da tutto il mondo chiamati a studiare le dieci più importanti collezioni numismatiche accessibili del mondo (Berlino, Staatliche Museen; Cambridge, Fitzwilliam Museum; Copenaghen, Nationalmuseet; Glasgow, Museo Hunterian; London, British Museum; Monaco di Baviera, Staatliche Münzsammlung; New York, American Numismatic Society; Oxford, Ashmolean Museum; Parigi, Bibliothèque Nationale de France; Vienna, Kunsthistorisches Museum) e tutto il materiale pubblicato. Tradotto in numeri si parla di più di 100mila monete solo per i conii schedati in neppure quattro dei dieci volumi previsti, e cioè il 3, il 4, parte del 7 e il 9. Quindi alla fine saranno centinaia di migliaia le monete catalogate. Se pensiamo che il manuale più famoso sulla monetazione romana (che comunque non prende in esame la monetazione provinciale) è quello del numismatico francese Henry Cohen (Description des Monnaies frappées sous l’Empire Romain) che risale all’ultimo quarto dell’Ottocento, e in epoca più recente, realizzato tra il 1923 e il 1994, è il Roman imperial Coinage (Ric), si può capire l’importanza e la valenza del progetto Roman Provincial Coinage, prima trattazione sistematica sulla monetazione civile al culmine dell’impero romano, che sarà uno strumento insostituibile per lo studio della storia sotto il profilo culturale, religioso, politico, economico e amministrativo a livello locale e per tutto l’impero.
In questo team internazionale di archeologi numismatici c’è anche un italiano, il veronese Dario Calomino, laurea in Archeologia romana (2002) e un MA in Numismatica classica (2005) all’università di Padova; e un dottorato di ricerca in Scienze Storiche e Antropologiche (2009) all’università di Verona sulla monetazione provinciale romana di Nicopoli di Epiro. “La mia esperienza di insegnamento”, ricorda, “è iniziata nel 2004, quando ho avviato la collaborazione l’università di Verona come cultore della materia, la Numismatica, e come membro del Comitato scientifico della Missione archeologica nel Foro romano di Grumentum (Basilicata). Nel 2010-2011 – continua – ho lavorato come assistente in Numismatica classica all’università di Padova, Dipartimento di Archeologia. Nel Regno Unito ho collaborato con il King’s College di Londra e ho insegnato per un anno allo University College di Londra”. La svolta nel 2012 con l’assegnazione di una borsa Newton di ricerca internazionale da parte della British Academy di Londra per lavorare sul sesto volume del Roman Provincial Coinage al Dipartimento di monete e medaglie del British Museum.
Sul suo profilo Dario Calomino si mostra curvo su una moneta, intento a studiarla. È lui stesso che spiega il suo ruolo nel progetto internazionale: “Mi è stato assegnato di curare la catalogazione delle monete romane coniate dalle zecche provinciali nel III sec. d.C., uno dei più turbolenti e, se vogliamo, più oscuri dell’impero. In particolare mi devo interessare della produzione monetale tra il 218 e il 238 d.C., cioè il periodo immediatamente successivo a Settimio Severo, fondatore della dinastia dei Severi, cui è riservato il volume 5. Nei vent’anni che devo studiare si sono succeduti tre imperatori, Elagabalo (218-222 d.C.), Alessandro Severo (222-235 d.C.) e Massimino il Trace (235-238 d.C.). Il primo, morto assassinato dalle guardie pretoriane, era siriano di origine, per diritto ereditario, alto sacerdote del dio Sole (El-Gabal) di Emesa, sua città di origine. Il secondo, cugino di Elagabalo, nativo di Arca Caesarea, oggi nel nord del Libano, ultimo imperatore dei Severi, finì anche lui assassinato dai soldati durante una campagna contro le tribù germaniche perché stava trattando un accordo col nemico. Dopo di lui salì al trono un generale di origine barbarica e di grandi capacità militari, Massimino il Trace, il primo a non vedere mai Roma, il primo imperatore-soldato. Anche lui finì tragicamente, assassinato dai suoi soldati durante l’assedio di Aquileia”.
A Tourisma 2017 tutti in fila per un’esperienza unica: entrare nella camera funeraria di Tutankhamon, ricostruita in scala 1:1, e poi assaggiare lo shedeh, il vino che faceva resuscitare i morti, ricreato nel Trevigano sulla base dei ritrovamenti nella tomba del faraone fanciullo
“Scusi, dov’è la tomba di Tutankhamon? Il mio nipotino mi ha chiesto di accompagnarlo proprio per vederla…”. Chi ha frequentato il palazzo dei Congressi a Firenze per Tourisma 2017, il salone internazionale dell’archeologia, gli sarà capitato più di una volta di sentirsi rivolgere questa domanda da visitatori disorientati dalla complessa e ricca articolazione della kermesse diretta da Piero Pruneti. “Segua la fila…”. E sì, perché per tutti tre i giorni di Tourisma è stata una fila continua, ordinata, emozionata, desiderosa di provare un’esperienza unica: entrare nella tomba del faraone fanciullo, vera attrattiva del salone. La camera funeraria è stata infatti ricostruita, come Howard Carter la scoprì nel 1922, in scala 1:1 dall’artigiano e appassionato di egittologia Gianni Moro, dopo tre anni di studio e lavoro su un progetto scientifico delle università di Torino Padova e Venezia. “Entrando”, spiega l’ideatrice del progetto, l’egittologa Donatella Avanzo, “si respira un fascino sospeso, come se fossimo accolti anche noi nell’aldilà del sovrano”. La copia esatta della camera funeraria ha riproposto gli affreschi, ma anche i gioielli, il trono, gli oggetti con cui il faraone fanciullo fu sepolto. Tra questi c’erano tre anfore con tre tipi di vino diversi. Quello chiamato Shedeh, che doveva aiutare a far rinascere il sovrano, è stato ricreato da un produttore trevigiano, utilizzando semi ritrovati nella tomba.
“Nella tomba di Tutankhamon”, ricorda Avanzo, “sono state ritrovate ventitré anfore vinarie. Tre, in particolare, erano state collocate rispettivamente a est, a ovest e a sud rispetto al sarcofago: la prima conteneva vino bianco, a bassa gradazione, a indicare il sole debole del mattino; la seconda vino rosso, più forte, come il sole caldo di metà giornata mentre la terza vino shedeh, più alcolico, dolce e gradevole, che si pensava potesse dare al defunto l’energia necessaria per rinascere al termine del suo viaggio notturno. Su questa anfora era riportata la scritta irep nefer nefer nefer, e cioè vino buono buono buono, una sorta di garanzia di qualità che ne indicava lo straordinario livello di pregio, oltre all’annata di produzione e al nome del capo cantina, segno di quanto fosse considerata importante in quella civiltà la cultura vitivinicola”. Shedeh: un vino dunque così buono da essere considerato capace di riportare in vita i morti. Ricreare quel vino, utilizzando le tecniche del tempo, è stata l’improbabile quanto affascinante sfida che hanno deciso di raccogliere Donatella Avanzo e Fabio Zago dell’azienda Antonio Rigoni di Chiarano (Treviso).
“Tutto è nato nel 2005”, racconta l’egittologa, “quando abbiamo presentato al salone del vino di Torino la ricostruzione di un torchio per la vinificazione utilizzato in epoca ramesside, sulla base di disegni ritrovati nelle tombe e delle ricerche di Patrick McGovern”. Il progetto successivo è stato la ricostruzione tridimensionale, in scala 1:1, della camera mortuaria del “faraone fanciullo” Tutankhamon, scomparso nel 1323 a.C. a 19 anni, e scoperta nel 1922 da Howard Carter. Proprio questa riproduzione, realizzata dall’artigiano Gianni Moro, è stata lo stimolo per spingersi poi oltre e provare a riprodurre quel nettare ritrovato in fondo a una delle anfore della tomba”. Lo shedeh presentato a Tourisma 2017 è stato realizzato con le uve più antiche del territorio trevigiano. “È un progetto”, sottolinea Zago, “che si presta bene all’invecchiamento in bottiglia, rivolto a una clientela medio-alta”. E per dare un tocco di classe, sull’etichetta è stata riportata una famosa dichiarazione d’amore contenuta nel famoso papiro, Harris 500, custodito al British Museum: “Ascoltare la tua voce è per me vino shedeh”.
A Karkemish, città-stato ittita al confine tra Turchia e Siria, torna a risuonare al voce di Sargon II zittita da Nabucodonosor II. La missione italo-turca guidata da Nicolò Marchetti dell’università di Bologna ha scoperto in fondo a un pozzo tre tavolette del grande re assiro fatte sparire dal sovrano babilonese

Un leone in marcia scolpito su un ortostato della città-stato ittita di Karkemish, al confine tra Turchia e Siria
Nabucodonosor II lo sapeva. La conquista di Karkemish, la potente città in posizione strategica tra l’Anatolia ittita e la Mesopotamia assira, non sarebbe bastata a cancellare il ricordo del grande re assiro Sargon II (721-705 a.C.) che più di cento anni prima, sul finire dell’VIII sec. a.C., aveva costruito un impero in Vicino Oriente, nella Mezzaluna Fertile, conquistando Samaria, Damasco, Gaza e, nel 717, anche Karkemish, città-stato ittita che sorgeva sul corso dell’Eufrate, dove oggi corre il confine tra Siria e Turchia. Lo spettro di Sargon aleggiava ancora. Le sue parole sembravano ancora vive nella memoria della gente. Lui che sintetizzava così la sua vita: “Io sono Sargon, re forte, re di Akkad. Mia madre era una sacerdotessa; mio padre non lo conosco; era uno di quelli che abitano le montagne. Il mio paese è Azupiranu sull’Eufrate. La sacerdotessa mia madre mi concepì e mi generò in segreto; mi depose in un paniere di giunco, chiuse il coperchio con del bitume, mi affidò al fiume che non mi sommerse. I flutti mi trascinarono e mi portarono da Aqqui, l’addetto a raccogliere acqua. Aqqui, immergendo il suo secchio, mi raccolse. Aqqui, l’addetto a raccogliere l’acqua, mi adottò come figlio e mi allevò. Aqqui, l’addetto a raccogliere l’acqua, mi fece suo giardiniere. Durante il periodo in cui ero giardiniere la dea Ishtar mi amò. Per… anni io fui re”. Quella voce doveva essere spenta. Così Nabucodonosor fece distruggere tutti i documenti di Sargon affidandoli all’oblio del tempo. Fino all’arrivo degli archeologi. E la voce di Sargon è tornata a risuonare.

Una delle tavolette di argilla con testi in cuneiforme celebrativi di Sargon II trovata dalla missione archeologica dell’università di Bologna a Karkemish
Tre preziosi frammenti di tavolette d’argilla, che riportano incisi in caratteri cuneiformi gli scritti del sovrano assiro Sargon II, sono stati scoperti in fondo a un pozzo (a 14 metri di profondità), nel sito di Karkemish, dalla missione archeologica italo-turca avviata nel 2011 dall’università di Bologna insieme agli atenei turchi di Gaziantep e Istanbul. Le tavolette furono gettate in fondo a un pozzo su ordine del re babilonese Nabucodonosor II, per essere per sempre dimenticate. Scrive Sargon: “Ho costruito, aperto nuovi corsi d’acqua, incrementato la produzione di grano, rinforzato le porte con cerniere di bronzo, allargato i granai, costituito un esercito con 50 carri, 200 cavalli, tremila fanti. E ho reso il popolo felice, fiducioso in se stesso”.

La mappa del sito archeologico di Karkemish studiato dalla missione archeologica italo-turca guidata dall’università di Bologna
Spesso paragonata a città gloriose come Troia, Ur, Gerusalemme, Petra e Babilonia, Karkemish è stato un centro di straordinaria importanza. Abitato almeno dal VI millennio a.C., a partire dal 2300 acquista un ruolo centrale nella regione e diviene contesa da ittiti, assiri e babilonesi. Solo con l’impero romano inizia il suo declino, che termina nell’Alto Medioevo, attorno al X secolo, quando la città viene definitivamente abbandonata e dimenticata. Ricompare solo alla fine dell’800. Fu allora che una serie di campagne esplorative promosse dal British Museum (ci lavorò anche Lawrence d’Arabia) riportarono per la prima volta alla luce le tracce del suo grande passato. Un’opera di riscoperta che oggi è passata nelle mani dell’Alma Mater, con un progetto di scavo guidato dal prof. Nicolò Marchetti che, al suo quinto anno di attività, è finito – letteralmente – in fondo a un pozzo. Per riemergere con le parole ritrovate del re Sargon II.
“Tre frammenti di tavolette d’argilla”, ricorda Marchetti, “che riportano incisi in caratteri cuneiformi gli scritti del sovrano assiro. Frasi autocelebrative, che esaltano le vittorie militari e le misure a favore della popolazione. Frasi che, proprio per il loro carattere propagandistico, furono fatte sparire, gettate in fondo a un pozzo su ordine di Nabucodonosor II, il re babilonese che nel 605, dopo un lungo assedio, strappò Karkemish al controllo assiro. Cancellare le tracce e i simboli del nemico sconfitto è una pratica che attraversa tutta la storia dell’umanità e che ancora oggi, purtroppo, viene praticata”.

Il pozzo di Karkemish in fondo al quale sono stati trovati i frammenti di tre tavolette con testi celebrativi di Sargon
Il pozzo è stato rinvenuto dalla missione italo-turca nell’area dove un tempo sorgeva il palazzo di re Katuwa, costruito attorno al 900 a.C. e ampliato e modificato da Sargon II. Gli archeologi dell’Alma Mater si sono calati nella stretta imboccatura, scendendo fino a 14 metri sotto al livello del suolo. Lì, sul fondo, è stata trovata una fitta serie di oggetti e utensili di ambito amministrativo, letterario e decorativo: gettoni d’argilla (tokens) per la contabilità, recipienti di bronzo e di pietra, un’armatura di ferro e i tre frammenti di tavolette d’argilla con le parole di Sargon II. Oltre al pozzo, i lavori della missione archeologica dell’Alma Mater hanno portato alla luce anche tre ortostati, lastre di pietra con funzioni sia di sostegno che decorative, in ottime condizioni. In uno è rappresentato un leone in marcia, mentre nelle altre due sono incisi un toro alato e un dio-ibex alato, con un volto umano. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta un caso unico nel campo dell’arte neo-ittita. Puliti e restaurati, gli ortostati sono stati lasciati nell’area del palazzo di re Katuwa, ed è stato inoltre completata la rilevazione digitale ad alta precisione della mappa dell’antica città. Tutti interventi che puntano a far nascere un parco archeologico che possa attirare turisti e visitatori a Karkemish, coinvolgendoli in un’esperienza immersiva tra storia e attualità.
I faraoni tornano a Napoli. Dopo sei anni di chiusura riapre la sezione Egiziana del museo Archeologico di Napoli, 1200 reperti, la più antica collezione egizia d’Europa nata nel 1821 come Real Museo Borbonico

Il cosiddetto “Neoforo farnese”, forse il primo oggetto egiziano acquisito dal Museo di Napoli, primo in Europa ad avere una collezione egiziana
I faraoni tornano a Napoli. Dopo sei anni di assenza. E tornano non in un luogo qualsiasi ma nella prima città europea in cui avevano trovato “casa”. Riapre infatti l’8 ottobre 2016 la sezione egiziana del museo Archeologico nazionale di Napoli (Mann), oltre 1200 reperti e un nuovo allestimento progettato dal Mann e dall’università l’Orientale di Napoli, completamente ripensato per la più antica collezione d’Europa rispetto al precedente, datato alla fine degli anni Ottanta. È questa la terza tappa del grande progetto “Egitto Pompei” presentato a febbraio (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2016/03/01/egitto-passione-antica-da-torino-a-pompei-a-napoli-tre-sedi-per-un-grande-progetto-espositivo-egitto-pompei-grazie-alla-collaborazione-inedita-tra-enti-diversi-legizio/), iniziato al museo Egizio di Torino con la mostra “Il Nilo a Pompei” (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2016/03/09/egitto-pompei-al-museo-egizio-di-torino-la-prima-tappa-del-progetto-con-la-mostra-il-nilo-a-pompei-nella-nuova-sala-asaad-khaled-per-la-prima-volta-gli-affreschi-del-tempio-di-isid/), e continuata a Pompei con l’allestimento nella Palestra Grande (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2016/04/18/egitto-pompei-seconda-tappa-del-progetto-alla-palestra-grande-di-pompei-si-materializza-la-dea-sekhmet-itinenario-egizio-negli-scavi-dal-tempio-di-iside-alle-domus-con-affreschi-egittizzanti/). E ora Napoli dove l’Egitto, come si diceva, non è una novità. Fu infatti il “Real Museo Borbonico di Napoli” il primo tra i grandi musei europei a istituire una sezione dedicata alle antichità egizie. Era il 1821 e l’allora direttore, Michele Arditi, inaugurò “Il Portico dei Monumenti Egizi”, facendovi confluire l’interessante collezione Borgia, il Naoforo Farnese (forse il primo oggetto egiziano acquisito dal Museo di Napoli) e svariati reperti rinvenuti in Campania in contesti archeologici di epoca romana, descritti l’anno successivo da Giovanbattista Finati in una Guida per la visita delle collezioni. “Naoforo” (“portatore di tempio”) è un termine utilizzato dagli egittologi per indicare un tipo di scultura, tipica proprio dell’arte egiziana, che rappresenta un personaggio che tiene davanti a sé un tabernacolo contenente una figura o degli emblemi divini. A Napoli sarebbero seguiti a ruota nel 1823 Berlino, nel 1824 Torino e Firenze, nel ‘26 il Museo del Louvre a Parigi e nel 1830 i Musei Vaticani. Il primo nucleo delle collezioni del Cairo è del 1858, e l’attuale museo cairota è “solo” del 1902.
Dunque, la più antica collezione egizia d’Europa, divenuta con gli acquisti successivi anche la più importante e ricca d’Italia dopo Torino, torna finalmente a essere esposta al pubblico dall’8 ottobre 2016 – a sei anni dalla chiusura delle sale – nella sezione Egiziana del museo Archeologico nazionale di Napoli. Una conferma del processo di profondo rinnovamento avviato al Mann dal nuovo direttore Paolo Giulierini, che, pochi mesi fa, ha pure inaugurato la splendida sala dedicata ai “Culti Orientali”: entrambi eventi conclusivi dell’importante progetto “Egitto Pompei”, condotto in collaborazione tra il museo Egizio di Torino, la soprintendenza di Pompei e appunto il museo napoletano. La collezione napoletana, oltre 1200 oggetti di una raccolta davvero unica, formatasi in gran parte prima della spedizione napoleonica, conta importanti parti di mummie e sarcofagi, vasi canopi, numerosi e preziosi ushabty, sculture affascinanti come il monumento in granito di Imen-em–inet o la cosiddetta “Dama di Napoli”, statue cubo e statue realistiche, stele e lastre funerarie di notevole fattura, cippi di Horus e papiri.
Con gli egittologi del Mann cerchiamo di conoscere meglio la collezione Egiziana. Il percorso si snoda nelle sale del seminterrato del museo napoletano, oggetto di specifici interventi per il controllo microclimatico e illuminotecnico. Ora l’allestimento è tematico e rilegge i materiali del museo svelando il fascino della grande civiltà egizia: “il faraone e gli uomini”, “la tomba e il suo corredo”, “la mummificazione”, “la religione e la magia”, “la scrittura e i mestieri”, “l’Egitto e il Mediterraneo antico”. Un’ampia sezione introduttiva presenta – anche attraverso l’esposizione di falsi settecenteschi, di calchi ottocenteschi e di esempi dell’arredo antico – le vicende della sezione e delle sue raccolte, preziose testimonianze di storia del collezionismo egittologico. È qui infatti che il visitatore si imbatte nella figura del cardinale Stefano Borgia che animato da interesse storico e antiquario e agevolato dal suo ruolo di Segretario di Propaganda Fide, tra il 1770 e il 1789, implementò la collezione di famiglia di numerose antichità orientali dando vita a una vera e propria raccolta di “tesori dalle quattro parti del mondo”. Ereditata in parte dal nipote Camillo (che non fu certo in buoni rapporti con il governo pontificio, accusato tra l’altro d’essere tra i responsabili dell’invasione francese del Lazio), la raccolta fu acquistata nel 1815 da Ferdinando IV di Borbone. Quindi si incontra il veneziano Giuseppe Picchianti e la moglie, contessa Angelica Drosso, che all’indomani delle campagne napoleoniche in Egitto e delle sensazionali scoperte nella valle del Nilo, in pieno XIX secolo, furono tra quegli avventurieri e collezionisti pronti a recarsi nelle terre dei faraoni a caccia di reperti preziosi, animati dalla speranza di facili profitti. In un viaggio durato sei anni, misero insieme una raccolta notevolissima che tentarono di vendere prima al re di Sassonia e poi al Museo di Napoli, che tuttavia ne acquistò solo una parte nel 1828. Insoddisfatto dal ricavato, un mese dopo, Picchianti donò la restante collezione allo stesso museo, a patto d’essere assunto come custode e restauratore delle antichità egizie (fece anche alcuni interventi sulle mummie), non mancando di approfittare del suo ruolo per sottrarre alcuni oggetti rivenduti poi al British Museum.

Una tavola del fumetto “Nico e l’indissolubile problema… egizio” del grande disegnatore disneyano Blasco Pisapia
Nuova guida e album a fumetti. Particolarmente attenta nei contenuti e nella grafica, arricchita da contributi multimediali è la didattica con l’aggiunta di una guida dedicata, in un nuovo formato editoriale, a cura di Electa. È infine una vera sorpresa l’albo a fumetti, dedicato alla sezione Egiziana del Mann (Electa) appositamente creato dal grande Blasco Pisapia per invitare i piccoli visitatori a scoprire le meraviglie racchiuse nel museo. All’architetto e fumettista napoletano – che ha collaborato con le principali case editrici italiane di libri per ragazzi e che da vent’anni è autore completo Disney Italia/Panini – si devono dunque i testi e i disegni di “Nico e l’indissolubile problema… egizio”. Il fumetto rientra nel progetto Obvia ideato da Daniela Savy (università Federico II di Napoli) e da Carla Langella (Seconda università di Napoli) con il quale il museo Archeologico nazionale di Napoli vuole proporre nuove modalità di fruizione e valorizzazione delle opere d’arte al di fuori dei consueti confini dei musei e dei siti culturali.
Archeologia rubata. Ritrovato dai carabinieri il gruppo del dio Mitra trafugato da Tarquinia. Restaurato, ora è esposto ai Musei Vaticani. Ma entro l’estate tornerà a Tarquinia, al museo archeologico nazionale Tarquiniense

Il ministro Dario Franceschini plaude per il ritrovamento e il restauro del gruppo scultoreo del dio Mitra
Dici Tarquinia e pensi agli etruschi. Ma se la città fu uno degli insediamenti più antichi e più importanti della dodecapoli etrusca, non va mai dimenticato il suo rapporto con Roma: dai Tarquini, la dinastia di re etruschi, alle guerre fino alla sottomissione a Roma nel 295 a.C. dopo la battaglia di Sentino. Da allora Tarquinia fece parte dei territori romani nella regio VII Etruria e, fino alla fondazione di Centumcellae (oggi Civitavecchia) da parte di Traiano, rappresentò con la colonia marittima di Gravisca il principale porto dell’Etruria meridionale. E proprio al periodo imperiale risale il gruppo scultoreo del dio Mitra che fu trafugato dai tombaroli dall’area archeologica della Civita e recuperato dai carabinieri mentre trafficanti d’arte antica stavano per portarlo in Svizzera. E Tarquinia è già pronta a festeggiare “il ritorno a casa” del dio Mitra quasi fosse un figliol prodigo, perché il ministro Dario Franceschini ha assicurato che tornerà a Tarquinia, anche se per qualche tempo (almeno fino ad agosto) farà bella mostra di sé in un’esposizione ai Musei Vaticani.

I Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale presentano il gruppo scultoreo del dio Mitra (II-III secolo d.C.) trafugato da Tarquinia
Intanto a Tarquinia prepara “l’atmosfera” con un incontro di studio e approfondimento della storia di questo prezioso ritrovamento il cui valore è stato stimato in otto milioni di euro. L’appuntamento è per il 30 aprile alle 10.30 nella sala del Palazzo comunale. La grande importanza di questa opera, che ci è pervenuta quasi integra, risiede nella sua datazione che risale al II-III secolo d.C., e che la colloca nel periodo romano, l’epoca meno “testimoniata” da reperti di questa rilevanza. L’opera, hanno spiegato i carabinieri del nucleo di tutela del patrimonio artistico, era su un furgone di un vivaista destinato in Svizzera, all’apparenza anonimo, che trasportava alcune piante e altro materiale: il mezzo su cui veniva trasportata l’opera è stato bloccato e controllato all’altezza del museo delle navi di Fiumicino. Durante una perquisizione del mezzo, i militari, sotto un telone, hanno rinvenuto la statua. Alla giornata di studio, promossa dall’amministrazione comunale, parteciperanno il sindaco di Tarquinia Mauro Mazzola, il presidente della commissione cultura Angelo Centini, il giornalista Fabio Isman, autore del libro ‘L’archeologia rubata. Il saccheggio in Etruria e in Italia dal 1970 a oggi”. Ci saranno anche gli studenti di tutte le scuole, la soprintendente Alfonsina Russo e il direttore del museo di Tarquinia Maria Gabriella Scapaticci.
“Una bellissima notizia”. È il primo commento del sindaco Mauro Mazzola, in merito al ritrovamento della statua romana del dio Mitra che uccide un toro datata II-III secolo d.C.. ‘Voglio esprimere un grande ringraziamento ai carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale che hanno condotto questa brillante azione”, prosegue il primo cittadino. “La nostra città si arricchirà di un nuovo eccezionale reperto. Un’opera di pregio storico e archeologico enorme”. Ancora più entusiasmanti sono le parole del ministro Franceschini: “Quando verrà stabilita la data del trasporto a Tarquinia, si dovrà lavorare per organizzare un evento celebrativo”. Il gruppo del Mitra, che raffigura appunto la divinità “importata” dall’Oriente il cui culto si era andato ampiamente diffondendo nella tarda romanità, raffigura il dio mentre sta per uccidere un grande toro. L’opera, proveniente dal Pianoro della Civita di Tarquinia, come dimostrato a seguito di uno scavo condotto nel maggio del 2014, sarà nei prossimi mesi esposta in via definitiva a palazzo Vitelleschi, sede del museo Archeologico nazionale Tarquiniense che raccoglie una delle collezioni più ricche di arte etrusca. Attualmente il gruppo scultoreo – recuperato dai carabinieri – è esposto ai Musei Vaticani ma il ministro della Cultura Dario Franceschini ha già dato ampie assicurazioni sul ritorno del Mitra nella capitale etrusca. «Mi sono sentito al telefono con il ministro Dario Franceschini, che mi ha riconfermato il ritorno a Tarquinia della statua del dio Mitra”, dichiara il sindaco. “Condivido in pieno la posizione espressa dal ministro Franceschini, – prosegue il primo cittadino – ovvero che le opere trafugate tornino nel loro territorio di origine, per essere un volano di promozione culturale e sviluppo turistico. Il nostro Paese, e Tarquinia ne è un chiaro esempio, è un museo a cielo aperto, custodendo un patrimonio storico e artistico di straordinario valore”.
Il gruppo scultoreo tarquiniese è un reperto raro e prezioso, per l’eccezionale integrità e per il soggetto rappresentato. Due esemplari simili si trovano al British Museum e ai Musei Vaticani. La scultura, tra il novembre 2014 e il febbraio 2015, è stata sottoposta a restauro ad opera dalle restauratrici del Laboratorio Materiali Lapidei dell’Iscr (istituto superiore per la conservazione e il restauro). Al momento del sequestro l’opera si presentava ancora completamente ricoperta di depositi terrosi e mancante di alcune parti come la testa e le braccia, e di alcuni di quegli elementi, quali il cane e il serpente, che connotano le raffigurazioni del Mitra “tauroctono”. La delicata pulitura è stata eseguita meccanicamente su tutta superficie e rifinita con laser. Durante il corso degli interventi, grazie ad uno scavo archeologico organizzato dalla soprintendenza ai Beni archeologici per l’Etruria Meridionale sul probabile luogo dello scavo clandestino, all’interno del Parco Archeologico di Tarquinia, è stato ritrovato il frammento raffigurante il cane e sono stati portati alla luce i resti dell’ambiente destinato al culto mitraico. Il ritrovamento del frammento del cane, perfettamente combaciante con il resto della statua, ha fornito un’inconfutabile prova della provenienza della statua dal sito individuato.
Il caso dei marmi del Partenone strappati da Elgin: da TourismA l’appello di Sidjanski e Godart perché anche in Italia si attivi un movimento di opinione per la restituzione alla Grecia dei capolavori di Fidia oggi al British Museum
“I marmi del Partenone è tempo che tornino in Grecia: il capolavoro di Fidia è un unicum, non si può disgiungere disaggregare dividere. Ora anche dall’Italia si alzi forte la voce per la restituzione dei marmi creando un movimento d’opinione che porti a soluzione un caso e un problema che non è solo della Grecia ma di tutta l’Europa”. È un appello deciso quello che due grandi studiosi, Dusan Sidjanski (presidente del comitato svizzero per la restituzione dei marmi del Partenone) e Louis Godart (accademico dei Lincei e consigliere culturale del Presidente della Repubblica), hanno lanciato da TourismA, il primo salone internazionale di archeologia, promosso dalla rivista Archeologia Viva a Firenze dal 20 al 22 febbraio. “Intanto non parliamo più di marmi Elgin, ma di marmi del Partenone, come fa dal 2008, anno della sua fondazione, il comitato svizzero che presiedo”, chiarisce subito Sidjanski.
Si dice che fu una regolare compravendita quella avvenuta tra lord Thomas Bruce conte di Elgin, ambasciatore britannico a Costantinopoli, e il sultano nel 1801. Ma sono molti i dubbi che gli esperti sollevano sulla sua effettiva legalità. E Sidjanski lo spiega bene: “Nell’Ottocento, quando ci fu la spoliazione del Partenone, la Grecia era una provincia dell’impero ottomano. Era quindi il sultano, e solo lui, che decideva e nessuno poteva opporvisi, neppure i diretti interessati, i greci”. Elgin nel 1800 si fece rilasciare dalle autorità turche di Atene il permesso di effettuare sopralluoghi sull’Acropoli unicamente per effettuare rilievi, disegni e calchi. Ma il diplomatico britannico però riuscì ad andare ben oltre i limiti imposti dall’autorizzazione del governatore militare, ottenendo l’anno dopo dal Sultano stesso un firman, ossia un decreto che lo autorizzava a prelevare qualsiasi scultura o iscrizione, il cui asporto non mettesse a rischio le strutture della rocca: così tra il 1801 e il 1805, quando l’autorizzazione viene revocata, schiere di operai guidate dal pittore italiano Giovan Battista Lusieri si dedicarono a una vasta opera di smontaggio delle decorazioni architettoniche che colpì l’acropoli in più punti, infierendo in particolare sul Partenone e sull’Eretteo. La Grecia non poté contrastare il firmano con cui il sultano autorizzava l’asportazione dei marmi del Partenone. “Peccato che di questo firmano non ci sia traccia”, nota amaro Sidjanski, “ci rimane solo una traduzione fatta da un italiano che probabilmente era al servizio dell’ambasciatore. Ma sono molti quelli che ritengono che quella autorizzazione non abbia seguito tutti i crismi della legalità. Se è vero – continua – che già all’epoca il sultanato non dava più il permesso per spostare grandi reperti, come potevano essere i marmi del Partenone, allora vien da pensare che lord Elgin abbia abusato del potere che gli derivava dal Paese che rappresentava nei confronti del sultano”.
È vero che lord Elgin aveva assicurato la massima attenzione per il capolavoro di Fidia, e che anzi quell’operazione andava proprio nella direzione della sua salvaguardia, ma basta seguire proprio quello che in realtà fece per capire che le intenzioni del britannico erano di tutt’altra natura. Nel sultanato ottomano c’era molta corruzione, così fu facile ottenere tutte le “agevolazioni” logistiche che permettessero di raggiungere lo scopo più facilmente. Così lord Elgin fece tagliare i marmi strappati dal Partenone per trasportarli con meno problemi in Inghilterra. Già a partire dal 26 dicembre 1801, temendo intrighi da parte dei francesi, Elgin aveva noleggiato una nave, la Mentor, su cui iniziò a imbarcare i reperti. Nel gennaio del 1804 arrivarono in Inghilterra le prime 65 casse contenenti i materiali sottratti all’acropoli, che rimasero fino al 1816 in un padiglione temporaneo fatto costruire appositamente nella casa di Elgin, il quale si vide rifiutato l’acquisto da parte del British Museum per l’alto prezzo richiesto. Solo nel 1816 si arrivò a un accordo tra le parti e i marmi, divenuti di proprietà statale, furono trasferiti al British Museum, in una galleria appositamente allestita dove sono tuttora. “Il più importante monumento della Grecia antica, il Partenone, capolavoro di Fidia e non di Elgin, deve subire lo scempio di essere menomato dei suoi marmi, il cui nucleo principale non è ad Atene ma a Londra”.
Perché i marmi devono tornare ad Atene? “Tutti noi, tutta l’Europa, abbiamo un debito culturale con la Grecia classica. E ora che ai piedi dell’acropoli è stato aperto il nuovo museo dell’Acropoli, dedicato proprio ai monumenti e ai tesori dell’area più sacra di Atene, e in special modo al Partenone, con cui dialoga anche fisicamente attraverso scorci e prospettive, è venuto il tempo di riunire tutti i marmi di Fidia: è assurdo che più della metà dei rilievi esposti siano delle copie in gesso, perché gli originali sono a Londra!”. La luce calda dell’Egeo dà linfa vitale ai marmi esposti nel nuovo museo, ma le linee armoniose del Partenone dialogano con delle copie e non con i rilievi originali. “Credo che il Partenone rappresenti uno dei monumenti più importanti della cultura europea. Ma, come tutti i monumenti, va letto e considerato nella sua unitarietà oltre che unicità. E perciò non si può tagliare in due”.

L’originale sede del nuovo museo dell’Acropoli in stretto rapporto con il Partenone e gli altri monumenti
“La restituzione dei marmi del Partenone alla Grecia è un problema che tocca l’Europa intera”, gli fa eco Louis Godart. “Perciò si deve mobilitare per riportare queste mirabili sculture ad Atene da dove sono state strappate da un barbaro assetato di denaro”. Atene era appena uscita vittoriosa dalle Guerre persiane, ricorda Godart, guerre che avevano lasciato dietro di sé tanta distruzione, e avevano colpito il cuore più sacro della città: l’Acropoli. Il Partenone di Fidia rientrò in questa grande opera di restituzione e ricostruzione dei grandi monumenti dell’Acropoli. “Perché il Partenone non è il simbolo solo di Atene e della Grecia? Perché – sottolinea Godart – rappresenta i valori fondanti della nostra Europa. Il Partenone celebra quanti hanno lottato per difendere i valori conquistati dai padri: la democrazia e il dovere a ribellarsi all’ingiustizia. Tutti noi siamo figli della Grecia. E questo monito a difendere i valori dei padri ce lo ha lasciato per sempre la stessa Atena, dea della guerra e della saggezza, in una stele del 460 a.C. – nota come Atene pensosa – posta a pochi passi dal Partenone. La stele raffigura appunto Atena che, pensosa, posate le armi, guarda a sua volta una stele che, forse, riporta i nomi dei caduti a Maratona e Salamina. Quel gesto di riflessione fa pensare anche noi ai caduti per la libertà, un valore che va sempre difeso”.

Il nuovo museo dell’Acropoli di Atene (dall’interno, sopra e sotto) dialoga con l’Acropoli e il Partenone di Fidia
Già nel 1982 l’allora ministro greco della Cultura, Melina Mercuri, aveva lanciato una campagna internazionale per riportare a casa i marmi, arrivando perfino a una risoluzione dell’Unesco che a maggioranza votò a favore della restituzione dei marmi. “Ma a esaminare bene il voto – interviene Sidjanski – si vede subito che a favore c’erano solo Paesi del terzo mondo, mentre contrari erano i Paesi che contano nell’Occidente, i quali motivarono il loro no: la Grecia non aveva gli spazi adatti ad esporli, non era in grado di restaurarli/salvaguardarli, non poteva permettersi la vasta platea di pubblico che offriva il British Museum. “Tutte motivazioni che già all’epoca erano manifestamente capziose, ma che oggi (dal 2009) è aperto il nuovo museo dell’Acropoli risultano addirittura ridicole”. La Grecia non chiede – e non ha mai chiesto – la restituzione di singole opere, come la Nike di Samotracia o la Venere di Milo, ma i marmi sì perché sono un tutt’uno col monumento. “Questa è una causa europea, perché in Grecia ci sono le radici della nostra cultura”, ribadisce Sidjanski: “È comunque meglio negoziare con il governo britannico contando anche su una vasta porzione dell’opinione pubblica, compresa quella inglese, favorevole alla restituzione, piuttosto che intraprendere una via legale che, se dovesse andar male, precluderebbe per sempre ogni azione futura”. E allora, conclude Godart con un auspicio: “Attiviamo anche in Italia un comitato pro rientro dei marmi del Partenone”.
Il British Museum apre la nuova galleria sull’Antico Egitto con una mostra permanente degli scheletri di Jebel Sahaba, vittime (13mila anni fa) del primo conflitto razziale armato

Gli scheletri da Jebel Sahaba sono la prova del primo conflitto razziale documentato dagli archeologi
In mostra a Londra le vittime di quello che 13mila anni fa potrebbe essere il primo conflitto razziale armato documentato dall’archeologia, dove le vittime sarebbero venute dall’Africa centrale mentre i “carnefici” dal Mediterraneo. Si trattava di cacciatori-raccoglitori che molti millenni prima della civiltà egizia si erano sfidati e massacrati vicino al Nilo in un ambiente che durante l’ultima glaciazione era diventato molto inospitale. Il British Museum ha aggiornato e rinnovato la sezione dedicata all’Antico Egitto aprendo pochi giorni fa una nuova galleria dove hanno trovato posto – come mostra permanente – parte degli scheletri di un gruppo di 26, tra cui uomini, donne e bambini, che vennero uccisi fra Egitto e Sudan intorno a 13mila anni fa e sono stati recuperati dal sito di Jebel Sahaba, sulla riva orientale del Nilo, nel Sudan settentrionale, noto agli studiosi come “cimitero 117”. Già negli anni Sessanta del secolo scorso questo sepolcreto aveva restituito molte punte di freccia e ossa con i segni inequivocabili di un impatto violento. I resti erano stati trovati nel 1964 dall’archeologo americano Fred Wendorf durante gli scavi finanziati dall’Unesco per analizzare i siti archeologici che stavano per essere sommersi dalla diga di Assuan. Ma, fino alle attuali indagini in corso, non erano mai stati esaminati con la moderna tecnologia che oggi ha permesso agli scienziati appunto di identificare quella che potrebbe essere la più antica guerra razziale, combattuta 13mila anni fa ai margini del Sahara. Infatti tutto il materiale di Jebel Sahaba era stato portato da Fred Wendorf nel suo laboratorio in Texas, e solo 30 anni dopo è stato trasferito alla cura del British Museum, che ora sta lavorando con altri scienziati per effettuare una nuova importante analisi su questi resti. “Il materiale scheletrico è di grande importanza – non solo a causa delle prove di conflitto, ma anche perché il cimitero di Jebel Sahaba è il più antico scoperto nella Valle del Nilo finora”, spiega Daniel Antoine, tra i curatori del British Museum.

Archeologi al lavoro nel sito di Jebel Sahaba sulla riva orientale del Nilo nel Sudan settentrionale
Intanto scienziati francesi in collaborazione con il British Museum hanno esaminato decine di scheletri, la maggioranza dei quali sembrano essere stati uccisi da arcieri con frecce con punta di selce. Negli ultimi due anni poi gli antropologi della Bordeaux University hanno scoperto dozzine di segni di impatto di freccia non rilevati in precedenza e frammenti di punte di freccia in selce sia sulle ossa delle vittime che intorno ai loro resti. Questa scoperta suggerisce che la maggior parte degli individui scoperti a Jebel Sahaba – uomini, donne e bambini -, siano stati uccisi da arcieri nemici, e poi sepolti dalla loro stessa gente. Le nuove ricerche dimostrano che gli attacchi (ma sarebbe meglio parlare di una guerra prolungata di basso livello) hanno avuto luogo nel corso di molti mesi se non di anni.
Ma chi erano queste popolazioni in lotta tra loro? A questa domanda sta cercando di dare una risposta una ricerca parallela curata dalla Liverpool John Moores University, dalla University of Alaska e dalla New Orleans Tulane University. Dai primi risultati si può dire che gli aggrediti facevano parte della popolazione sub-sahariana originaria – gli antenati dei moderni africani neri. L’identità dei loro assassini è comunque meno facile da determinare. “Ma è plausibile – spiegano gli antropologi – fossero persone di un gruppo razziale ed etnico totalmente diverso – parte di una popolazione nordafricano / levantina / europea che viveva in gran parte del bacino del Mediterraneo. I due gruppi – anche se entrambi parte della nostra specie, Homo sapiens – sarebbero sembrati molto diversi tra di loro ed erano anche quasi certamente diversi culturalmente e linguisticamente”. Il gruppo di origine sub-sahariana presenta arti lunghi, torsi relativamente corti e mascelle superiore e inferiore prominenti con fronti arrotondate e ampi nasi, mentre il gruppo nord africano/levantino/europeo originari del Nord Africa aveva gli arti corti, torsi lunghi e facce piatte. Entrambi i gruppi erano molto muscolosi e strutturalmente forti. “Certamente la zona settentrionale del Sudan in questo periodo vedeva la presenza dei due gruppi etnici, dal momento che tracce del gruppo nord africano/levantino/europeo originario del Nord Africa sono state trovate anche 200 miglia a sud di Jebel Sahaba, suggerendo così che le vittime furono uccise in una zona dove operavano entrambe le popolazioni”.

I primi scheletri a Jebel Sahaba sono stati scoperti nel 1964 dall’archeologo americano Fred Wendorf
Non è un caso che le due tribù o i due clan rivali siano venuti in conflitto proprio 13mila anni fa, periodo di enorme concorrenza per le risorse a causa di una grave crisi climatica che, soprattutto nel periodo estivo, prosciugava molte sorgenti d’acqua. La crisi climatica – conosciuto come il periodo Younger Dryas – era stato preceduto da uno molto più lussureggiante, con condizioni più umide e più calde che avevano consentito alle popolazioni di espandersi. Ma quando le condizioni climatiche peggiorarono durante il Younger Dryas, le pozze d’acqua si prosciugarono, la vegetazione appassì e gli animali morirono o si spostarono verso l’unica fonte di acqua ancora disponibile per tutto l’anno: il Nilo. Gli esseri umani di tutti i gruppi etnici della zona sono stati costretti a seguire l’esempio – e migrarono verso le sponde del grande fiume (in particolare la sponda orientale). A causa della competizione per le limitate risorse, i gruppi umani si sarebbero inevitabilmente scontrati – e la ricerca in corso sta dimostrando la scala di questo primo notevole conflitto umano.
Commenti recenti