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Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 7. Dedalo e l’ingegno etrusco, l’8. Fetonte e l’ambra, il 9. i Pelasgi e le origini di Spina e degli Etruschi

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Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024

Si sa che i Greci amavano metamorfosi e metafore e, probabilmente, gli Etruschi non erano da meno. Il mito offriva una materia quasi infinita da plasmare e una delle metafore miti-storiche più interessanti e seducenti riguarda l’archetipo stesso dell’uomo ingegnoso, Dedalo, l’inventore del labirinto, il primo uomo a volare, il costruttore di automi, in grado di competere per abilità e tecnica con il dio Efesto. Diverse fonti collocavano alcune sue imprese alla foce del Po, dove poi sarebbe nata Spina e, probabilmente, tali leggende hanno avuto origine proprio per via della presenza e dell’importanza acquisita nel tempo da Spina che seppe evidentemente manipolare e veicolare a proprio vantaggio l’immaginario di quei Greci che non potevano fare a meno di frequentarla per coltivare le proprie necessità e interessi commerciali. Di questo parla il settimo episodio del video-racconto in 19 puntate “Rasna. Una serie etrusca”, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, prodotto dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, approfondimento della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Dopo aver conosciuto i primi sei episodi – 1. la Grande Etruria, 2. Ulisse ed Eracle, 3. Caere/Pyrgi e Delfi, il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina (per episodi 4, 5, 6 vedi Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina | archeologiavocidalpassato) – ecco altri tre video: il 7, l’8 e il 9.

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Valle Fattibello, tipico paesaggio delle Valli di Comacchio (foto wikipedia)

Un paesaggio inospitale e paludoso, questo ci raccontano le fonti e così si presentava la foce del Po agli occhi degli Etruschi. Non possiamo certo dire che si persero d’animo. Viene loro riconosciuta una grande capacità organizzativa nel plasmare il paesaggio, domare il territorio, renderlo fertile e abitabile, ponendo le basi per espandere produzione e commerci. Da questa sistematica opera di bonifica e di riassetto idraulico vide la nascita Spina, fra il 530 e il 520 a.C. Il racconto di RASNA. UNA SERIE ETRUSCA riparte da qui, dalle Valli di Comacchio, unendo sapientemente mito e storia.

“7. DEDALO O DELL’INGEGNO”. “Gli Etruschi abitano una regione che produce di tutto e ingegnandosi nel lavoro hanno frutti con cui non solo possono nutrirsi a sufficienza ma anche concedersi una vita di piaceri e di lusso. Così Diodoro Siculo nel I sec. a.C. ricordava quella che è stata una delle prerogative degli Etruschi: la fertilità e la ricchezza dei luoghi nei quali scelsero di insediarsi. Questa ricchezza – spiega Valentino Nizzo – è diventata un motivo per criticarli da un certo momento in poi della loro storia. Agli occhi dei Greci e poi anche dei Romani, gli Etruschi erano proverbiali per la loro mollezza, per la loro oziosità. Orazio ha reso celeberrimo l’obesus etruscus, quello che noi vediamo e immaginiamo attraverso quei sarcofagi del III e II secolo a.C., in particolare da Tarquinia, dove si vedono uomini di grande stazza adagiati su un letto per l’eternità, così come facevano durante la vita quotidiana bevendo del buon vino o banchettando. Questa mollezza e questo lusso, però, sono frutto del lavoro, come diceva Diodoro, della loro capacità di plasmare il paesaggio e di renderlo adatto alla vita. Alle mie spalle si vede uno dei paesaggi più inospitali che gli Etruschi sono stati in grado di domare, quello delle valli di Comacchio.

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Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina (foto http://www.rivadelpo.it)

“Abbiamo dovuto aspettare il 1922 – continua Nizzo -, l’anno della scoperta di Spina e della bonifica di Valle Trebba, per raggiungere un’organizzazione, un livello tecnologico in grado di rendere nuovamente popolose terre che erano state per secoli malariche. Gli Etruschi hanno fatto lo stesso, lo hanno fatto oltre due millenni prima. E hanno dovuto raggiungere però quel livello organizzativo che nel VI secolo ha consentito a una federazione di città dell’Etruria padana con l’aiuto delle città tirreniche dell’Etruria interna di realizzare qualcosa di grandioso: un’opera sistematica di bonifica che ha consentito di fondare intorno al 530-520 a.C. la città di Spina, in un periodo di generale riassetto del territorio. Nei secoli precedenti queste zone non erano disabitate. Lo dimostra il transito di merci che ha sempre caratterizzato il Po con i suoi affluenti e la sua foce. Adria è stata una precorritrice di quelle che sono state poi le intenzioni concretizzatesi con la fondazione di Spina. Tuttavia ci vuole un impegno, una strategia, una capacità sociale per arrivare a risultati come questi.

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Un tratto della cloaca maxima a Roma ancora funzionante (foto sovrintendenza capitolina)

“Negli stessi anni in cui nasce Spina, a Roma gli Etruschi dell’ultimo dei Tarquini, il Superbo, realizzano opere grandiose come la Cloaca massima, una fognatura che ha consentito anche la bonifica della valle del Foro boario, dove gli Etruschi avevano il loro quartiere abitativo, il Vicus Tuscus. Negli stessi anni viene bonificata anche la valle Murcia, quella dove sarà realizzato il Circo massimo, una delle glorie della grande Roma dei Tarquini. Queste capacità organizzative, questa loro proverbiale capacità nell’ingegneria idraulica e nell’architettura sono delle prerogative che agli Etruschi sono state riconosciute dai Romani e dai Greci, che di solito non davano soddisfazione ai popoli considerati barbari. Siamo quindi in un contesto che rappresenta magnificamente quella che è stata una capacità concreta di domare la natura e renderla virtuosa, renderla ben soddisfacente alle esigenze di uomini che miravano a divenire grandi, al lusso, e a quel benessere che poi raggiunsero.

Nelle isole Elettridi, che si trovano nel golfo dell’Adriatico, dicono che ci siano due statue: una di stagno, una di bronzo, lavorate in stile arcaico. Si dice che sono opera di Dedalo, ricordo del passato, di quando egli fuggendo Minosse, dalla Sicilia e da Creta si spinse in questi luoghi. Dicono che il fiume Eridano abbia formato davanti alla sua foce queste isole. C’è anche una palude, secondo quanto si racconta, presso il fiume, la cui acqua è calda. Esala da essa un odore pesante e aspro. Gli animali non vi si abbeverano e gli uccelli non possono sorvolarlo perché cadono e muoiono. Le genti del luogo raccontano di Fetonte che cadde in questo lago, colpito dal fulmine, e che ci sono intorno molti pioppi dai quali cade il cosiddetto electron. Orbene, dicono che Dedalo sia giunto a queste isole, che se ne sia impadronito e che abbia dedicato in una di esse un’immagine sua e una di suo figlio Icaro. Poi essendo giunti per mare fino a loro i Pelasgi, profughi da Argo, Dedalo fuggì e raggiunse l’isola di Icaro. In questo passo, attribuito ad Aristotele, ma in realtà non è opera sua, un componimento nel quale vengono descritte le meraviglie del mondo, non solo quelle appartenenti all’orizzonte del mito, ma tutte le meraviglie naturali, abbiamo uno straordinario affresco di come doveva apparire ancora intorno al III secolo a.C. questa zona: la foce di un fiume mitico, l’Eridano, che noi identifichiamo con il Po, e che è documentato fin dall’epoca di Esiodo dalla fine dell’VIII secolo a.C., come luogo inospitale, paludoso, connesso – come dice Aristotele – al mito di Fetonte e alle lacrime delle Eliadi.

“Ma questa connessione di questi luoghi a Dedalo è rivelatrice di quanto ho detto poco fa – riprende Nizzo -. È una metafora che collega la capacità di vivere in questi luoghi alla foce del Po, dove erano le isole Elettridi, al più grande inventore del mito dell’antichità, Dedalo. Colui che aveva realizzato il labirinto, che aveva dotato se stesso e suo figlio Icaro di ali con le quali volare, che aveva realizzato automi e sculture straordinarie come quelle che li raffiguravano alla foce del Po, secondo questo passo.

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Olpe in bucchero (640 a.C.) dalla tomba 2 del tumulo in località San Paolo di Cerveteri, con Medea che ringiovanisce Giasone, gli argonauti che trasportano un drappo, due lottatori e Dedalo alato, conservata al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)

“C’è un vaso al museo di Villa Giulia straordinario – ricorda Nizzo -: un’olpe in bucchero risalente al 640 a.C. che raffigura Medea, il mito degli Argonauti e raffigura anche, a una delle estremità, Dedalo con le ali, Taitale in etrusco. Non conosciamo nessi tra il mito degli Argonauti e quello di Dedalo, ma sappiamo che anche gli Argonauti si fermarono alla foce del Po, lungo l’Eridano. Quindi, chissà, forse quel vaso, che precede di oltre un secolo la nascita di Spina racconta una leggenda che si è persa, che non si è conservata, una leggenda che doveva unire gli Argonauti a Dedalo. Certamente quello che sappiamo attraverso oggetti come la bulla d’oro, emigrata purtroppo a Baltimora, che doveva comporre una collana probabilmente con ulteriori inserti d’ambra, e da altre raffigurazioni rinvenute a Felsina e in altre aree delle città etrusche della pianura Padana, Dedalo qui era particolarmente venerato. Questa venerazione non faceva altro che richiamare quanto gli Etruschi di sé sapevano: essere maestri dell’idraulica e l’orgoglio per essere riusciti a rendere non solo abitabili e fertili questi luoghi, ma a trasformare la pianura Padana in un motore economico per l’intera Etruria. Quelle pianure Padana e Campana che fecero grande l’Etruria, come ricordava Polibio ancora nel II secolo a.C. e che resero gli Etruschi in grado di dominare su quasi tutta l’Italia, come ricordavano Tito Livio e Catone. “Paene omnis Italia in Tuscorum iure fuerat (Quasi tutta l’Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi)”, dicevano. E questa è la grandezza degli Etruschi e un’eredità che ci hanno lasciato”.

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Collana in ambra, vetro e oro da Spina conservata nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Lacrime che diventano pietre”, spiega Nizzo. “Così i Greci spiegavano le origini dell’elektron, come chiamavano l’ambra e, in questo modo, davano un senso a quanto empiricamente potevano constatare semplicemente sfregandola. Le cariche elettriche che rilasciava non sembravano infatti lasciare dubbi in merito all’origine divina di quella sostanza, scaturita dalle lacrime delle Elettridi, le figlie del Sole disperate per la morte del fratello Fetonte, fulminato da Zeus, per la sua pericolosa incapacità di guidare il carro paterno. Il mito, non a caso, era ambientato dove i Greci da secoli erano soliti procurarsi quella preziosa resina fossile: la foce del Po, sull’Adriatico. Il terminale ideale per tutti quei beni e quelle merci che vi giungevano tramite la sua fitta rete di affluenti dall’area appenninica, da quella alpina e dalle più estreme propaggini dell’Europa centrale e settentrionale. Gli Etruschi avevano saputo a lungo nascondere la provenienza baltica dell’ambra, facendo credere che i pioppi in cui le Elettridi erano state pietosamente tramutate fossero proprio lì, dove Spina sarebbe sorta, intorno al 520 a.C., accentrando presso il suo porto anche quel redditizio traffico commerciale. Ne parliamo nell’ottavo episodio di “Rasna. Una serie etrusca”.

“8. FETONTE E L’AMBRA O DELLA CAPACITÀ ECONOMICA”. “La nave era corsa lontano a vela. Entrarono profondamente nel corso del fiume Eridano, laddove un tempo Fetonte, colpito al cuore dal fulmine ardente e bruciato a metà, cadde dal carro del Sole nelle acque di questa profonda palude. Ed essa ancora oggi esala dalla ferita bruciante un tremendo vapore. Nessun uccello può sorvolare quelle acque spiegando le ali leggere, ma spezza il suo volo e piomba in mezzo alle fiamme. In questo brano Apollonio Rodio, nel III secolo a.C., descrive il viaggio degli Argonauti verso Occidente. Ed è una tappa che non era prevista in tutte le versioni del mito. Una tappa che toccava il fiume Eridano che, al tempo, il mito e la fantasia geografica dei Greci univa al Danubio in un percorso continuo. Gli Argonauti si muovono in terre ancora non civilizzate, dominate da paesaggi selvaggi e spiegate dai Greci alla luce di miti come quello di Fetonte. Un mito straordinario che è perdurato a lungo nel corso dell’antichità. E il mito con il quale i Greci spiegavano l’origine dell’ambra. Il figlio del Sole, di Helios Apollo, Fetonte lo splendente, un giorno riesce a convincere il padre a prestargli il carro del sole. Si vuole cimentare in qualcosa più grande di lui, una corsa attraverso il cielo. Tuttavia non riesce a domare i cavalli alati. Arriva a sfiorare il cielo. Secondo una versione del mito producendo quella Via Lattea che ancora oggi vediamo e che sarebbe stata realizzata dall’avvicinamento del sole alle stelle. Poi avvicinandosi alla Terra la desertificò, e rese gli Etiopi del colore scuro della pelle. Desertificò l’Africa. Insomma, alla fine, indusse il padre degli dei, Zeus, a fulminarlo. E tutto questo avvenne, secondo il mito, alla foce del Po, dove dovevano aver constatato i Greci la presenza di sorgenti sulfuree termali, quelle che ancora oggi alimentano la zona dei colli Euganei, Montegrotto, Abano Terme, legate al culto di Aponos-Apollo. Tutto questo quindi aveva un collegamento con la realtà geografica. Il mito prosegue dicendo che appunto nel luogo in cui Fetonte cade, la sua ferita prodotta dal fulmine continua ad emanare sostanze che avvelenano tutti gli animali che passano nei dintorni. E tutto questo avviene in presenza delle sorelle di Fetonte, le Eliadi, cui erano consacrate alcune isole alla foce del fiume Po.

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Pendente di ambra a testa femminile con tutulus (prima metà del V secolo a.C.) proveniente da Spina, Valle Pega, Tomba 740 Dosso A, e conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Le Eliadi, vedendo il fratello morente, colpito al corpo da Zeus – continua Nizzo -, cominciano a piangere. Ed è un pianto incessante, che non smette mai. E Zeus, impietosito per il loro dolore, le trasforma in pioppi e le loro lacrime si trasformano in quell’ambra, che vediamo magnificamente rappresentata in questa vetrina. Il termine greco per ambra era electron, un termine che significa anch’esso splendente come Phaeton, così come le Eliadi derivano il loro nome da Helios, il dio del sole. Il motivo è che già gli antichi conoscevano una delle caratteristiche, delle peculiarità dell’ambra che, se sfregata su un tessuto come la lana, produce delle cariche elettrostatiche che sono quelle che alla fine del Settecento hanno indotto a usare la parola greca per l’ambra per definire l’elettricità. Un fenomeno che poi sarebbe stato approfondito nel corso dell’Ottocento. Quindi idealmente questa materia, che non è altro che una resina fossile, quindi era giusto una parte del mito, si pensava che imprigionasse la potenza e i raggi del sole, che poi liberava in quelle cariche elettrostatiche che la rendevano così particolare. Si pensava che avesse delle facoltà curative, che non fosse quindi soltanto un ornamento ma qualcosa di più, anche un amuleto. E qui vediamo una rassegna della straordinaria quantità di ambre che a Spina sono state ritrovate nella necropoli, ma che da Spina venivano distribuite in tutto il Mediterraneo. Perché nessuno poteva fare a meno dell’ambra. Anzi, questa materia era commerciata fin dall’età del Bronzo, era molto ricercata in ambito miceneo. E veniva da molto lontano. Veniva dal Baltico, dal Nord Europa, e poi veniva smistata tra il Veneto e l’Emilia a quanti arrivavano alla foce del Po per procurarsi beni come queste. Prima ancora di Spina, Verucchio era stato uno dei centri di smistamento dell’ambra, poi la stessa Felsina. E poi naturalmente Spina diventa l’epicentro. E gli Etruschi di Spina molto probabilmente sono quelli che hanno fatto credere ai Greci la leggenda che l’ambra traesse origine dalle lacrime delle Eliadi e dalla morte di Fetonte, avvenuta in quest’area. Dobbiamo immaginare le Eliadi forse non diverse da queste donne, volti di donne, raffigurate in questa vetrina. O dobbiamo immaginare la passione degli Etruschi per questa materia prima, che li indusse a realizzare anche un dado in ambra, una pedina da gioco di quelle che gli Etruschi amavano, al punto che Erodoto attribuiva loro l’invenzione dei dadi.

“Ma la verità sull’ambra è un’altra – sottolinea Nizzo -, e la scoprirono ben presto i Greci. Ce lo racconta molto bene un passo di Luciano. Siamo nel II secolo d.C. Sono passati quasi 500 anni dall’epoca di Apollonio Rodio e quasi un millennio da quando Esiodo, per la prima volta, cita il fiume Eridano e la leggenda di Fetonte. Luciano ne parla in uno dei suoi Dialoghi ironici dal titolo l’Ambra o i cigni, che svela finalmente la verità sulle origini dell’ambra. Veramente anch’io, udendo queste cose dai poeti, speravo se mai capitasse sull’Eridano di andare sotto uno dei pioppi e, aprendo il seno della veste, raccogliere poche lacrime e così avere l’ambra. Finalmente, non è molto, capitai in quella contrada e risalendo in barca l’Eridano non ci vedevo pioppi, per guardare ch’io ci facessi d’intorno, né ambra. Anzi, neppure il nome di Fetonte sapevano quei paesani. Infatti io mi volli informare e domandai: quando verremo a quei pioppi che danno l’ambra? Mi risero in faccia. I barcaioli risposero dicessi più chiaro ciò che volevo. Ed io raccontai loro la favola, come Fetonte era un figliolo dl sole che, fattosi grandicello, chiese al padre di guidare il carro per una sola giornata. Il padre glielo diede, ma egli si ribaltò e morì. E le sorelle sue piangenti in qualche luogo di questi – dicevo io – perché egli cadde sull’Eridano, diventarono pioppi e piangono l’ambra sopra di lui. Qual bugiardo e falso ti ha raccontato questo? Risposero. Noi non vedemmo mai alcun cocchiere ribaltato. Né abbiamo i pioppi che tu dici. Se fosse una cosa simile, credi tu che noi per due oboli vorremo remare o tirare le barche contr’acqua potendo arricchirci raccogliendo le lacrime dei pioppi? Queste parole mi colpirono forte e tacqui, scornato. Che proprio come un fanciullo c’ero caduto a credere ai poeti che dicono le più sperticate bugie e non mai una verità. Probabilmente Luciano sta finalmente apprendendo una verità che forse già conosceva. Ha voluto fare dell’ironia sulla capacità degli Etruschi di nascondere la vera origine di una materia preziosissima, che ha fatto per secoli la loro fortuna”.

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Il tempietto di Alatri realizzato nel 1891 nel giardino del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma (foto etru)

Dove non arriva la storia, si ricorre alla fantasia, costruendo tradizioni e leggende che attraversano il tempo e lo spazio. È il destino dei Pelasgi, il popolo che affonda le origini nel mito e ritenuto, secondo i Greci, artefice delle possenti, titaniche mura poligonali, diffuse nell’Italia centro- meridionale, in Grecia e in Anatolia. Ma cosa lega la città di Spina ai Pelasgi? “Parliamo dell’arrivo dei Pelasgi a Spina, ovvero il mito fondante dell’origine stessa degli Etruschi agli occhi dei Greci. Un complesso coagulo di racconti che hanno contribuito nei millenni ad alimentare il cosiddetto mistero degli Etruschi”, comincia così Valentino Nizzo nell’introdurre il nuovo tema che, spiega, “incredibilmente ancora oggi tocca corde identitarie tutt’altro che sopite nelle quali il mito si intreccia e si confonde con la storia o, sarebbe meglio dire, con la sua manipolazione ideologica. Ho dedicato molti articoli e una monografia a queste tematiche; ne ho parlato in molti video e conferenze, quasi sempre accompagnate da strascichi di sterili polemiche, non prive di interesse per quanti si occupano di storia della mentalità e di persistenza contemporanea della questione pelasgica. Nel video provo a riassumere il tutto in circa 10 minuti, girati volutamente davanti al tempio etrusco-italico di Alatri, un luogo quest’ultimo ancora oggi legato al falso mito delle città pelasgiche”.

“9. IL MITO DEI PELASGI E LE ORIGINI DI SPINA E DEGLI ETRUSCHI”. “È una sensazione unica – ammette Nizzo – quella di trovarsi all’interno di un tempio etrusco-italico del III sec. a.C. È probabilmente il risultato che ambivano ad ottenere Felice Barnabei, il fondatore del museo di Villa Giulia, e l’architetto Adolfo Cozza, quando realizzarono questa ricostruzione in scala 1:1 di un tempio scavato pochi anni prima, tra il 1888 e il 1889, ad Alatri, nel Lazio meridionale, non lontano da Frosinone. Alatri è famosa non tanto per questo tempio ricostruito, di cui gli archeologi portarono alla luce solo le fondamenta, quanto per la poderosa cinta in opera poligonale che ancora oggi desta ammirazione ed è all’origine di miti moderni su chi l’ha realizzata. Sono gli stessi miti che hanno posto al centro di tante città con mura possenti i Ciclopi, i Pelasgi, gli alieni… insomma quanti non hanno il nome di un popolo reale, ma sono considerati in grado di realizzare opere titaniche. I Pelasgi in realtà sono un popolo del mito – spiega Nizzo -. Omero li definiva i divini Pelasgi. Hanno preceduto i Greci nella Grecia stessa, prima dell’arrivo di quelle stirpi elleniche che hanno poi sviluppato la loro identità nella chiave greca che oggi conosciamo. I Pelasgi sono quindi il popolo del mito che precede l’acquisizione di una consapevolezza da parte dei Greci.

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Un tratto delle mura poligonali di Micene, nel Peloponneso, in Grecia (foto graziano tavan)

È il popolo dell’epoca micenea, minoica, quella delle grandi città costruite con possenti mura poligonali: Micene, Tirinto, Gla, Orcomeno, la Grecia ne è circondata e costellata. I Greci nell’interrogarsi sul loro passato più antico, dove la memoria non arrivava, arrivavano con la fantasia. Per questo i Pelasgi sono diventati un popolo migrante e dove si riscontravano città con possenti mura poligonali, spesso nascevano leggende che amplificavano l’irradiazione dei Pelasgi. E questa è una costruzione della tradizione che è durata fino all’impero romano. Si è alimentata laddove non c’era un uso filologico delle fonti e la fantasia costituiva il punto di riferimento principale per colmare quello che la storia non era in grado di recuperare. E quindi attraverso gli occhi e l’osservazione di queste possenti mura di cui non si conservava più il ricordo di quando erano state costruite, anche città più recenti che con i Pelasgi nulla avevano a che fare, sono state considerate costruite dai Pelasgi.

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Un tratto delle mura poligonali / pelasgiche di Alatri (Fr) (foto graziano tavan)

“Questo è il caso di Alatri – puntualizza Nizzo -. Oggi si discute se quelle mura poderose siano state opera dei romani, come quelle di Norba, un’altra città del Lazio cosiddetto pelasgico. E questo deve essere avvenuto anche riguardo Spina e le sue origini. Anche se a Spina non c’è nessuna traccia di mura poligonali, né potrebbe esserci, perché le mura poligonali caratterizzano prevalentemente paesaggi con connotazione calcarea. Sono mura che si prestano a essere realizzate dove vi è una pietra un po’ più difficile da squadrare, che richiede anche una complessa maestria nel gestirla. Il primo che ci parla di Pelasgi a Spina è un contemporaneo di Erodoto, Ellanico di Lesbo, e lo fa indirettamente attraverso un passo di Dionigi di Alicarnasso. Dice: Durante il regno di Anas, i Pelasgi furono scacciati dal loro paese dai Greci e, lasciate le loro navi presso il fiume Spines nel golfo Ionio, presero Crotone, una città dell’interno, e partiti di lì occuparono quella che noi ora chiamiamo Tirrenia. Poche frasi che Dionigi di Alicarnasso pone al principio di una lunga trattazione nella quale si interroga sulle origini degli Etruschi, sulle origini di Roma. Il suo scopo è dimostrare a tutti i costi che Rona è una città greca, una polis ellenis e non una polis tyrrenis, cioè una città etrusca. Per fare questo deve dimostrare che gli Etruschi non hanno a che fare nulla con i Greci. Sono autoctoni, sono indigeni. E quindi non possono avere nulla a che fare con i Pelasgi. Nel farlo però cita anche le fonti che collegano i Tirreni, cioè gli Etruschi, ai Pelasgi o ad altre popolazioni della Grecia. E Ellanico è una delle prime fonti che Dionigi di Alicarnasso pone alla base di quella che poi diverrà nei secoli la questione dell’origine degli Etruschi. Perché i Pelasgi venivano collegati a Spina che non ha testimonianza di mura pelasgiche? Perché Spina nel momento in cui Ellanico scrive, siamo nella metà del V secolo a.C., era senza ombra di dubbio la città etrusca più importante. Le città dell’Etruria tirrenica avevano cominciato a decadere per effetto delle sconfitte avute a Cuma nel 524 a.C. sulla terraferma, e poi sul mare di fronte a Cuma nel 474 a.C. L’asse politico, economico e commerciale degli Etruschi si era cominciato a spostare verso quell’Adriatico, dove intorno al 530-520 a.C. gli Etruschi, insieme, in coalizione, avevano dato vita a questa città portuale alla foce del Po e in posizione strategica sull’Adriatico.

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Mappa della diaspora – secondo Ellanico – della diaspora dei Pelasgi dalla Grecia a Spina e di qui a Cortona e in Etruria (foto etru)

“Gli Ateniesi guardavano a Spina come l’elemento di raffronto e di dialogo più importante in ambito etrusco. Non potevano farne a meno – annota Nizzo -, non potevano fare a meno del grano e delle risorse della pianura Padana che Spina consentiva di far arrivare in Grecia lungo l’Adriatico, un mare che gli Etruschi controllavano e si contendevano con i Greci. Per questo quindi Ellanico e, probabilmente ancora prima di lui, Ecateo, già alla fine del VI sec. a.C., collocarono la diaspora del popolo pre-ellenico per eccellenza dei Pelasgi, a metà strada tra il mito e la storia, subito dopo il diluvio universale, quello greco di Deucalione, proprio a Spina da cui poi si sarebbero irradiati verso il centro della penisola in quella città che chiamano erroneamente Crotone, ma che dobbiamo identificare con la città etrusca di Cortona. Per poi spingersi oltre, verso l’Etruria propria, verso le città di Caere, di Tarquinia, e la stessa Roma lungo le valli del Tevere, dunque verso l’Etruria che noi conosciamo con questo nome. In questo modo, tramite questa irradiazione, continuava Ellanico, dai Pelasgi avrebbero avuto origine gli Etruschi, i Tirreni. Dionigi nel commentare Ellanico, però, approfondisce la questione, e dice che in realtà questi Pelasgi, non avendo nulla a che fare con i Tirreni, sarebbero stati conquistati dai Tirreni stessi, ma prima ancora si sarebbero uniti con gli aborigeni, dando vita a quel seme dei Latini che, unitosi poi con i Troiani, avrebbero fatto scaturire Roma, secondo quella versione resa celeberrima dall’Eneide. Tutto questo per affermare che Roma è città greca, aborigena, troiana, pelasgica e nulla ha a che fare con i Tirreni.

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Mappa della diaspora dei Tirreni – secondo Erodoto – da Smirne (Lidia, in Anatolia) a Spina (foto etru)

“Ma a complicare le cose sulle origini di Spina e su questi racconti-miti storici – riprende Nizzo – si aggiunge lo storico per eccellenza, Erodoto, con un brano che è celebre per il problema dell’origine orientale degli Etruschi. Un brano nel quale ci dice che gli Etruschi, i Tirreni, sarebbero profughi dalla Lidia e si sarebbero diretti in Occidente dopo una lunga carestia durata circa 18 anni, durante i quali avevano anche provato a ingannare il tempo digiunando un giorno e inventandosi giochi come la palla o i dadi, e gli altri giorni mangiando. Alla fine, stressati, Tirreno, il loro comandante, guida una metà della popolazione verso Occidente. Dice Erodoto: questi scesero a Smirne dove costruirono navi e, dopo averle caricate delle vettovaglie necessarie al viaggio, partirono in cerca di nuove terre finché, oltrepassati molti popoli, giunsero presso gli Umbri e là fondarono città e tuttora vi abitano, e dal loro condottiero si chiamano Tirreni. Erodoto localizza la diaspora dei Tirreni della Lidia nel paese degli Umbri, esattamente dove le fonti collocano Spina, in una terra che è ancora umbra prima di diventare tirrenica. Quindi Erodoto sta immaginando una diaspora non pelasgica, ma dei Tirreni della Lidia verso lo stesso orizzonte, verso quella Spina che nel V sec. a.C. era un punto di riferimento imprescindibile.

“Su questi due filoni mitici – conclude Nizzo – si fonda una riflessione miti-storica che segna anche l’evoluzione dei rapporti tra mondo greco e mondo tirrenico. Rapporti positivi laddove gli Etruschi sono assimilati ai Greci e grazie a questa assimilazione avevano potuto avere, Cerveteri e Spina, un thesauros a Delfi, e le altre fonti di matrice dorica in virtù delle quali gli Etruschi sono dei barbari, vanno sconfitti e vanno eliminati per consentire ai Greci di essere liberi in quel mar Tirreno e Adriatico verso il quale da tempo avevano mostrato i loro interessi, in particolare quelli dei Siracusani”.

Il 2022 è un anno speciale per l’Archeologia, segnato da importanti anniversari: decifrazione geroglifici (200 anni), scoperta della tomba di Tutankhamon (100), della necropoli di Spina (100), dei Bronzi di Riace (50)

Il centenario della scoperta della Tomba di Tutankhamon è uno dei grandi anniversari archeologici del 2022

Per l’archeologia il 2022 è un anno di grandi anniversari. A cominciare l’Antico Egitto (vedi il video promo (3) Facebook): 100 anni della scoperta della tomba di Tutankhamon e 200 della decifrazione della stele di Rosetta e della scoperta dell’antica lingua egizia che segna la nascita ufficiale dell’Egittologia. Ma anche l’Italia ha un calendario di tutto rispetto, dai 100 anni della scoperta della necropoli di Spina ai 50 anni dal rinvenimento dei Bronzi di Riace.

Howard Carter davanti al sarcofago con la mummia del faraone Tutankhamon
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La famosa maschera di Tutankhamon e il pugnale in ferro trovato avvolto tra le bende della mummia del faraone bambino

4 novembre 1922: è la data ufficiale della scoperta della Tomba di Tutankhamon nella valle dei Re, a Tebe Ovest, quindi sulla sponda occidentale del Nilo. Ma l’evento che avrebbe avuto una risposta mediatica eccezionale portando per la prima volta in prima pagina l’Archeologia. Il racconto di quei giorni è noto, a cominciare dal famosissimo dialogo tra l’archeologo Howard Carter e il suo finanziatore Lord Carnarvon del 24 novembre 1922: “Era venuto il momento decisivo. Con mani tremanti praticammo una piccola apertura nell’angolo superiore sinistro…”. “Potete vedere qualche cosa?”. “Sì, cose meravigliose”. In realtà la scoperta della sepoltura del re bambino era avvenuta all’inizio del mese di novembre 1922. Il 1° novembre 1922, Carter fece spostare il campo di scavo proprio dinanzi all’ingresso della tomba KV9 di Ramses VI, faraone della XX dinastia, in un settore di forma triangolare dove aveva già lavorato parecchi anni prima, ma che aveva incomprensibilmente abbandonato. Qui erano precedentemente stati rinvenuti i resti (ritenuti archeologicamente privi di importanza) di alcune capanne costruite dagli operai che avevano lavorato alla tomba KV9 e proprio in quel punto, tre giorni dopo, il 4 novembre 1922, fu scoperto il primo gradino di una scala di accesso a un ipogeo: la tomba intatta di Tutankhamon, nota come KV62, giovanissimo sovrano della XVIII dinastia che salì al trono a 9 anni e morì a 18, poco prima di compierne 19, divenuta famosa per la ricchezza del suo corredo e dei sarcofagi che proteggevano la mummia reale, che costrinse le autorità egiziane dell’epoca a rivedere l’organizzazione degli spazi del museo Egizio del Cairo, riservando un’intera ala al faraone bambino (vedi 4 novembre 1922 – 4 novembre 2020: nel 98.mo anniversario della scoperta del secolo, ingresso scontato nella tomba di Tutankhamon. Il ministro El-Anani: “L’anno prossimo tutto il tesoro del faraone bambino esposto al Grand Egyptian Museum” | archeologiavocidalpassato).

La stele di Rosetta conservata al British museum di Londra
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Jean François Champollion ritratto da Leon Cogniet nel 1831

27 settembre 1822, Jean François Champollion detto Champollion il Giovane annuncia la decifrazione dei geroglifici: nasce l’Egittologia. Secondo quanto raccontato dal nipote, Aimé Champollion-Figeac, Champollion il 14 settembre 1822 aveva notato che un cartiglio di Abu Simbel conteneva quattro segni geroglifici. Intuì che il primo segno circolare rappresentasse il sole che in copto si dice “ri”. Mentre il segno che appariva due volte alla fine del cartiglio era la “s” nel cartiglio di Tolomeo. Ciò gli fece concludere che se il nome nel cartiglio inizia con Re e termina con “ss”, potrebbe quindi corrispondere a “Ramesse”, suggerendo che il segno al centro rappresentasse “m”. Un altro cartiglio conteneva tre segni, due uguali a quelli del cartiglio Ramesse: un ibis, simbolo del dio Toth. Seguendo il ragionamento fatto per Ramesse giunse a indicare che il nome nel secondo cartiglio sarebbe Thothmes, cioè il faraone Thutmosis. Il passo successivo su sulla Stele di Rosetta: Champollion conosceva le parole copte che avrebbero tradotto il testo greco e poteva dire che segni fonetici come “p” e “t”, che erano già stati identificati nel nome di Tolomeo, si sarebbero adattati a queste parole. Da lì poteva indovinare i significati fonetici di molti altri segni. L’annuncio ufficiale delle sue proposte di letture dei cartigli greco-romani nella Lettre à M. Dacier (titolo completo: Lettre à M. Dacier relative à l’alphabet des hiéroglyphes phonétiques “Lettera a M. Dacier riguardante l’alfabeto dei geroglifici fonetici”) che completò il 22 settembre 1822. Questa comunicazione scientifica, sotto forma di una lettera, inviata a Bon-Joseph Dacier, segretario francese dell’Académie des Inscriptios et Belles-Lettres, è considerata il documento fondante dell’Egittologia, ma rappresentava solo un inizio. Champollion non dice nulla della scoperta sui cartigli di Ramesse e Thutmose, non dice ancora nulla (forse per prudenza) di quanto già sa o intuisce, e si limita a suggerire che segni fonetici avrebbero potuto essere usati nel lontano passato dell’Egitto. Ma la strada è aperta.

Coppa attica a figure rosse dalla tomba 512 di Spina (foto museo archeologico ferrara)
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Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina (foto http://www.rivadelpo.it)

23 aprile 1922: scoperta della necropoli della città greco-etrusca di Spina, nelle Valli di Comacchio. La scoperta del sito è legata alle opere di bonifica del primo dopoguerra, come ricostruisce Nereo Alfieri in “Spina. Storia di una città tra Greci ed etruschi” (catalogo mostra, 1994). La prima comunicazione, infatti, è dell’ing. Aldo Mattei, direttore della sezione staccata del Genio civile a Comacchio, con una lettera alla soprintendenza agli Scavi e Monumenti archeologici di Bologna: “Nella valle Trebba (Valli settentrionali di Comacchio), in cui è stata compiuta la bonifica idraulica a cura dello Stato e dove si stanno facendo da Comuni interessati opere di bonifica agraria, è stato scoperto casualmente da un operaio un sepolcreto probabilmente dell’epoca etrusca: così almeno ritengo vai vasi istoriati scoperti”. Questa sobria segnalazione – scrive ancora Alfieri – dette l’avvio a un’impresa archeologica tra le più notevoli dell’Italia settentrionale. La ricerca dell’antica Spina tra le paludi nel delta del Po era stata fino ad allora un vero giallo archeologico che aveva appassionato eruditi e studiosi illustri fin dal Medioevo. Il primo che ipotizzò il sito di Spina a Valle Trebba fu il medico bolognese Gian Francesco Bonaveri (fine del XVII secolo) attratto dalla singolarità di quell’ambiente lagunare da cui emergevano di tanto in tanto manufatti antichi, ma del celebre e florido emporio marittimo descritto dagli autori greci e romani sembrava essersi persa ogni traccia. E la sua intuizione trovò conferma solo due secoli dopo. Alla scoperta casuale del 1922 seguirono le indagini scientifiche dirette dalla soprintendenza alle Antichità dell’Emilia e della Romagna, istituita il 19 settembre 1924. Le campagne di scavo, condotte fino al 1935 dal neo soprintendente Salvatore Aurigemma nell’area di Valle Trebba portarono alla luce la zona settentrionale della necropoli di Spina con più di 1200 sepolture i cui materiali sono oggi esposti al museo Archeologico nazionale di Ferrara. Ma la ricerca continua. L’obiettivo è scoprire il nucleo abitato dell’antica Spina (vedi Ritrovare l’antica città etrusca di Spina (le vaste necropoli sono state una delle scoperte più importanti del Novecento): è l’obiettivo del progetto Eos (Etruscans on the Sea) dell’università di Bologna all’interno del progetto interreg Value. A Comacchio la presentazione in streaming della prima campagna di scavo e le attività future. Intanto a Stazione Foce sta nascendo la ricostruzione dell’abitato di Spina | archeologiavocidalpassato).

I Bronzi di Riace esposti in una speciale sala del museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria (foto MArRC)
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Agosto 1972: il ritrovamento dei Bronzi di Riace da parte del sub Stefano Mariottini

16 agosto 1972: rinvenimento dei Bronzi di Riace. Era il 16 agosto 1972 quando un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, si immerse nel mar Ionio a 230 metri dalle coste di Riace Marina. Quando, a 8 metri di profondità, fu attratto da un qualcosa che emergeva dalla sabbia del fondo marino: sembrava un braccio. Non si sbagliava. Era il braccio sinistro di quella che poi sarebbe stata denominata statua A: aveva scoperto le statue di due guerrieri considerati tra i capolavori scultorei più significativi dell’arte greca, e tra le testimonianze dirette dei grandi maestri scultori dell’età classica. Stefano Mariottini aveva scoperto i Bronzi di Riace. Da quel momento è iniziato un delicato, lungo processo di restauro. Prima all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e poi direttamente a Reggio Calabria, man mano che si riscontravano nuove problematiche sui fragili bronzi. L’ultimo spettacolare intervento di restauro conservativo, dal 2009 al 2013,  in una sala appositamente predisposta a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, da dove a un certo punto era sembrato non dovessero più tornare a casa. Ciò avvenne grazie a un blitz notturno dell’allora ministro ai Beni culturali Massimo Bray con la soprintendente Simonetta Bonomi: il guerriero A e B furono rimessi in piedi e trasportati in assoluta sicurezza a Palazzo Piacentini, sede del museo Archeologico nazionale della Magna Grecia, alloggiati in una speciale sala dotata di uno specifico sistema di filtraggio, e di un percorso di depurazione,  attraverso il quale transitano i visitatori, per mantenere sempre costante il clima in cui sono conservati i Bronzi. Inoltre è stata attivata una protezione antisismica (vedi 16 agosto 1972, il sub Mariottini scoprì nel mar Ionio i Bronzi di Riace. L’anno prossimo saranno passati 50 anni. Al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria si lavora per #BronzidiRiace2022: incontro strategico tra il direttore e l’assessore alla Cultura. In attesa di promuovere i Bronzi di Riace nel mondo, il MArRC promuove in classe la storia e il patrimonio archeologico della Calabria antica | archeologiavocidalpassato).

Per le Giornate europee dell’Archeologia 2021 Comacchio lancia una “tre giorni archeologica” tra la sala polivalente San Pietro, il pronao del museo Delta Antico e il parco archeologico Open Air di Stazione Foce nelle Valli di Comacchio

Per le Giornate europee dell’Archeologia 2021 Comacchio lancia una “tre giorni archeologica” (18- 20 giugno 2021), che si svolgerà tra la sala polivalente San Pietro, il pronao del museo Delta Antico e nel parco archeologico Open Air di Stazione Foce nelle Valli di Comacchio. La mission è quella di informare il grande pubblico sulle ultime scoperte archeologiche avvenute nel territorio comacchiese, aggiornarlo sulle pubblicazioni più recenti e coinvolgerlo nella scoperta dell’archeologia sperimentale con la ricostruzione delle abitazioni di Spina. Si inizia venerdì 18 giugno 2021, alle 16, nella sala polivalente San Pietro, via Agatopisto 7, con “Dialoghi con il territorio. Lo scavo dell’edificio ellenistico di Strada Fiume, presentazione dei dati preliminari”. Interverranno: Sara Campagnari, soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara; Claudio Negrelli, Roberto Rizzo e Marco Palmieri di Phoenix Archeologia S.r.l. Partecipazione su prenotazione (massimo 100 posti). Sabato 19 giugno 2021, alle 17.30, nel pronao dell’Ospedale degli Infermi, sede del museo Delta Antico, presentazione del volume “Ambiente e società antica. Temi e problemi di geografia storica padano-adriatica. Atti della Giornata di Studi in ricordo di Nereo Alfieri. Ferrara 10 dicembre 2015”, in “Atti e Memorie della Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria”, s. IV, vol. XXV (2020). Saranno presenti Franco Cazzola, presidente della Deputazione, e Alberto Andreoli, curatore del volume. Infine domenica 20 giugno 2021, dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19, a Valli di Comacchio, Stazione Foce – parco archeologico Open Air, visite guidate al cantiere del parco archeologico Open Air con la ricostruzione delle abitazioni dell’antica Città di Spina. A cura di Marco Bruni, archeologo del Comune di Comacchio. Collabora all’iniziativa Cogetour. Per ragioni di sicurezza e nel rispetto delle prescrizioni sanitarie per partecipare alle GEA è necessaria la prenotazione all’Ufficio IAT di Comacchio 0533.314154. Informazioni e prenotazioni: IAT Comacchio / 0533.314154.

Comacchio. Per le Giornate Fai di Primavera una visita nel cuore delle Valli: abitazioni etrusche di Spina, stazione da pesca di Foce, valle Uccelliera e antica salina

Giornate Fai di Primavera: 15-16 maggio 2021

Giornate Fai di Primavera: il 15 e il 16 maggio 2021 torna la più grande festa di piazza dedicata al patrimonio culturale e paesaggistico del nostro Paese. 600 aperture in oltre 300 città in tutta Italia, nel pieno rispetto delle norme di sicurezza sanitaria. Nel 2021 la manifestazione di punta del FAI, accolta sempre con gioia e speranza e diventata ormai irrinunciabile per tantissimi italiani che amano stupirsi di fronte alle bellezze spesso poco conosciute che ci circondano, sarà anche una preziosa occasione per spiegare, attraverso l’attenta scelta dei luoghi e la narrazione che ne verrà fatta, la nuova visione culturale della Fondazione – presentata a marzo in occasione del XXV Convegno Nazionale dei Delegati e dei Volontari – che vede l’Ambiente come indissolubile intreccio tra Natura e Storia e la Cultura come sintesi delle scienze umane e naturali. E l’Italia, come nessun altro paese al mondo, è ricca di esempi di come la co-evoluzione armonica di Natura e Uomo abbia creato paesaggi unici. Quest’anno il contributo minimo suggerito per prenotarsi e prendere parte alle Giornate FAI di Primavera è di 3 euro. Per chi lo volesse, sarà possibile sostenere ulteriormente la missione della Fondazione con contributi di importo maggiore oppure attraverso l’iscrizione annuale, un gesto concreto in difesa del patrimonio d’arte e natura italiano che permette di godere di iniziative e vantaggi dedicati. O ancora con l’invio di un sms solidale al numero 45586, attivo dal 6 al 23 maggio 2021.

Una visita nel cuore delle Valli di Comacchio per le Giornate Fai di Primavera 2021! Quest’anno infatti Comacchio propone la visita alla Stazione da Pesca Foce, a 5 chilometri da Comacchio. La visita sarà tutta all’aperto, garantendo così i dovuti distanziamenti. La location è dotata di ampio parcheggio, c’è il ristorante Bettolino di Foce che sarà aperto e potrà servire per qualche consumazione e per i servizi igienici. All’arrivo, al parcheggio, vi sarà un punto di accoglienza sotto un gazebo, per verificare prenotazioni, tesseramento, suddivisione dei gruppi di non più di 15 persone, quota di partecipazione. Orario sabato 15: 9:30 – 18. Note: orari di visita al mattino: 9.30, 10, 13.30, 11, 11.30, 12; al pomeriggio, 15, 15.30, 16, 16.30, 17, 17.30. Durata visita: 1 ora, gruppi di massimo 15 persone. Domenica: 9:30 – 18. Note: orari di visita al mattino: 9.30, 10, 13.30, 11, 11.30, 12; al pomeriggio, 15, 15.30, 16, 16.30, 17, 17.30. Durata visita: 1 ora, gruppi di massimo 15 persone. Contributo suggerito a partire da 3 euro. La visita si compone di tre punti di interesse.

Progetto Value: ricostruzione dell’antico abitato di Spina a Stazione Foce nel parco delle Valli di Comacchio (foto http://www.rivadelpo.it)

Presentazione dell’inedita riproduzione di due abitazioni etrusche, appena terminate, e che danno l’idea di quale poteva essere l’organizzazione e lo svolgimento della vita nella mitica città etrusca di Spina, oltre 2500 anni fa. Questo argomento consentirà di presentare la civiltà etrusca sul nostro territorio, ed il passaggio dall’abbandono di Spina alla nascita di Comacchio. Potremo anche presentare il museo del Delta di Comacchio.

La stazione da pesca di Foce nelle Valli di Comacchio (foto iat-comacchio)

Successivamente entreremo nella stazione da pesca di Foce, normalmente chiusa al pubblico, composta dai capannoni degli anni cinquanta ma soprattutto dai lavorieri da pesca. Potremo spiegare come avveniva ed avviene la pesca dell’anguilla, gli strumenti di lavoro, le barche tipiche, le bolaghe e le marotte per mantenere vivo il pesce, e tutto il sistema economico che consentiva la vita di Comacchio.

L’antico casone Pegoraro nelle valli di Comacchio (foto da deltadelpo.eu)

Percorso a piedi di 600/700 m sull’argine di valle, lungo il canale normalmente percorso dalle barche di servizio, che consente di affacciarsi, sul lato Est, su valle Uccelliera e sulla antica Salina, ma anche di poter vedere i fenicotteri rosa ed i cavalieri d’Italia, oltre alla flora tipica alofila, (salicornia, limonio….). Il percorso termina all’antico casone di Pegoraro (XVIII sec.) appena restaurato, che dà l’idea di quale fosse la complessità dell’organizzazione della pesca.

Comacchio. Riapre il 30 maggio il museo del Delta Antico alla scoperta della storia dell’antica foce del Po. Occasione per un’escursione in barca nelle Valli

L’Ospedale degli Infermi, a Comacchio, prestigiosa e monumentale sede del museo del Delta antico

Riapre il museo del Delta Antico a Comacchio. I primi ospiti sono attesi sabato 30 maggio 2020 per scoprire il ricco patrimonio di beni archeologici provenienti dal territorio, dalle prime testimonianze di epoca protostorica sino al medioevo. Attraverso l’esposizione di quasi duemila reperti e grazie a suggestive ricostruzioni, agili apparati di guida e con momenti di interazione e coinvolgimento del pubblico, il museo narra la storia dell’antica foce del Po che, con i numerosi canali navigabili e le vie di terra, è stata nei secoli un importante snodo di commerci e di civiltà che collegava il mondo Mediterraneo e l’Europa continentale. Di particolare rilievo le sezioni dedicate alla città etrusca di Spina, con gli oggetti provenienti dall’abitato e i ricchi corredi delle tombe, al mondo romano, alla nascita di Comacchio nell’alto medioevo come emporio commerciale e sede vescovile. Nel museo è stato trasferito, con un nuovo suggestivo allestimento, il prezioso carico della nave romana di Comacchio, un’autentica Pompei del mare che è uno spaccato del mondo globalizzato dell’impero romano. Orari, dal 30 maggio al 2 Giugno 2020 (compreso lunedì 1°): 9.30 – 13 / 15 – 18.30; giugno: da martedì a domenica, 9.30 – 13 / 15 – 18.30 (chiuso il lunedì). Ingresso: biglietto intero, 6 euro; biglietto ridotto, 3 euro (11-18 anni; over 65; tesserati FAI/Touring Club italiano / RavennAntica; scolaresche di ogni ordine e grado; gruppi minimo 20 persone); ingresso omaggio: minori di 11 anni; disabili con accompagnatore; guide turistiche; militari; giornalisti.

Escursione in barca nelle Valli di Comacchio

Una visita a Comacchio del museo del Delta Antico può essere l’occasione anche per un’escursione in barca nelle Valli con sosta ai tradizionali casoni da pesca. Dal 30 maggio al 6 settembre 2020 è possibile un’esclusiva escursione lungo i canali interni dello specchio vallivo, per ammirare la bellezza di un’oasi spettacolare, dove dimorano centinaia di specie di uccelli acquatici e una numerosa colonia di fenicotteri. La guida ambientale a bordo accompagna gli ospiti alla scoperta dell’ambiente naturale e delle stazioni da pesca, gli antichi “casoni”. Durata: 1h45’. Per un’escursione nella massima sicurezza i partecipanti devono prenotare anticipatamente l’escursione e procedere con l’acquisto on-line dei ticket; presentarsi all’imbarco almeno 20 minuti prima dell’orari di partenza; in biglietteria e all’imbarco mantenere la distanza di almeno un metro dagli altri partecipanti; presentarsi con la mascherina. A tutto il resto penserà lo staff di Po Delta Tourism (tel. 0533.81302 – 346.5926555; info@podeltatourism.it) a garantire un’escursione confortevole. Orari: dal 30/05 al 14/06, sabato e domenica, prefestivi e festivi alle 11 e alle 15; dal 15/06 al 06/09, tutti i giorni alle 11 e alle 18, chiuso il martedì. Ingresso: adulti, 13 euro; da 7 a 16 anni, 10 euro; fino a 6 anni, gratuito.