Roma. Una mongolfiera sopra il Foro Romano annuncia la grande mostra “Giacomo Boni. L’alba della modernità”. La vita e la personalità dell’archeologo e architetto viene raccontata attraverso quattro sezioni, nei luoghi dove ha principalmente operato e di cui ha definito l’attuale fisionomia: il Foro Romano e il Palatino


Una foto del Foro Romano realizzata da Giacomo Boni col pallone frenato (foto Archivio Fotografico Storico PArCo)
Questa mattina una mongolfiera si è alzata dal Foro Romano, davanti alla Basilica di Massenzio, attirando l’attenzione dei turisti presenti nell’area archeologica e su via dei Fori Imperiali (vedi Facebook). Una nuova attrazione turistica? Non proprio. O, meglio, un modo per promuovere la grande mostra che il Parco archeologico del Colosseo dal 15 dicembre 2021 dedica alla figura di Giacomo Boni (Venezia, 1859 – Roma, 1925) e al tempo stesso ricordare le imprese proprio dell’archeologo Giacomo Boni che nei primi anni del Novecento fotografò l’area archeologica centrale con l’innovativa tecnica del pallone frenato. In questi primi giorni di apertura della mostra, si parla di una settimana, salendo sulla mongolfiera (l’installazione è stata resa possibile con il contributo di Q8) si potrà provare l’ebrezza di vedere dall’alto i fori, il Palatino, il Colosseo, ricordando l’utilizzo che ne ha fatto Boni. Anche in questo pioniere di innovazioni tecnologiche nel campo della ricerca e del restauro, Giacomo Boni impiega il pallone frenato per scattare delle vedute aeree del Foro e restituire in questo modo una visuale d’insieme delle tracce archeologiche che stavano emergendo dagli scavi, creando così le basi per una nuova modalità di documentazione e comunicazione dello scavo archeologico.


Locandina della mostra “Giacomo Boni. L’alba della modernità” al Foro Romano e al Palatino dal 15 dicembre 2021 al 30 aprile 2022
La mostra “Giacomo Boni. L’alba della modernità” (15 dicembre 2021 – 30 aprile 2022), curata da Alfonsina Russo, Roberta Alteri, Andrea Paribeni con Patrizia Fortini, Alessio De Cristofaro e Anna De Santis, con l’organizzazione e la promozione di Electa, rappresenta un ricordo di Giacomo Boni, convinto sostenitore della necessità di tutelare e valorizzare l’insieme degli straordinari monumenti che caratterizzano l’area archeologica centrale di Roma e ha, dunque, posto le premesse per l’istituzione del Parco archeologico del Colosseo. Il catalogo Electa, edito in occasione della mostra, riunisce numerosi saggi che ripristinano tutta la poliedrica e moderna personalità di Giacomo Boni, facendo il punto sulla ricezione e l’eredità della sua figura ripercorrendo anche il contesto politico, culturale e artistico nel quale è cresciuto e si è affermato.

Autodidatta, con una formazione di disegnatore nei cantieri veneziani, col tempo diviene archeologo e architetto sviluppando metodi innovativi di scavo – a cominciare da quello stratigrafico – di restauro, di documentazione e di valorizzazione. Comprende l’importanza di condividere con il grande pubblico il valore delle scoperte che hanno ridisegnato l’aspetto del Foro Romano ricorrendo a un linguaggio nuovo, non accademico, e alla fotografia. Tra le scoperte si ricordano quelle del Tempio di Vesta; il complesso della fonte sacra di Giuturna; la chiesa medievale di Santa Maria Antiqua con il ciclo pittorico bizantino; il sepolcreto arcaico, che ha consentito di stabilire una vita protostorica nell’area del Foro Romano; il Lapis Niger, luogo che gli autori antichi riferiscono alla saga di Romolo. Per il Palatino approfondisce i temi della flora, interesse che lo accompagna tutta la vita e di cui resta traccia nell’ordinamento del giardino degli Horti farnesiani, e in quel roseto che porta ancora il suo nome e dove è sepolto.

Giacomo Boni è stato anche un colto rappresentante dell’ambiente intellettuale e cosmopolita dell’epoca, illustrato da eccellenti prestiti in mostra che favoriscono la narrazione degli aspetti meno conosciuti della sua personalità. Già in giovane età, il credito acquisito presso eminenti figure della cultura anglosassone, a cominciare da John Ruskin e William Morris, le stimolanti e influenti amicizie veneziane e milanesi – in particolare Primo Levi e Alberto Carlo Pisani Dossi – e, grazie a quelle, l’ingresso nei circoli intellettuali sostenitori di Francesco Crispi lo portano a Roma. In un contesto culturale in cui si intrecciano la passione per l’archeologia e l’interesse per la contemporanea arte inglese, risulta incoraggiata dall’operato di Boni una nuova visione dell’Antico che l’arte simbolista porta al pieno sviluppo all’inizio del Novecento. Il progetto museografico realizzato in quegli anni per il Foro Romano e il Palatino da Giacomo Boni è pertanto il risultato di una molteplicità di interessi e incontri, e si presenta straordinariamente attuale e innovativo: forse il primo esperimento di parco archeologico in cui natura, resti antichi, ricostruzioni filologiche, rievocazioni e divulgazione tendono a fondersi in armonia.

Le sezioni: Tempio di Romolo. Vengono ripercorsi gli anni della formazione e i rapporti con la cultura anglosassone durante il periodo veneziano (1879–1888), l’arrivo a Roma con l’incarico presso la Direzione Generale Antichità e Belle Arti (1888–1898) e i successivi all’ufficio scavi del Foro Romano che portano a grandi scoperte. E ancora dal 1907 quando il Palatino viene accorpato al Foro, fino all’anno della morte. Oltre a opere di De Carolis e Cambellotti, al centro del tempio è esposto il pallone frenato utilizzato con straordinaria intuizione da Boni per effettuare le vedute fotografiche degli scavi dall’alto.

Le sezioni: Complesso di Santa Maria Nova. La sezione della mostra è dedicata in generale all’attività archeologica di Boni al Foro Romano e in particolare al museo forense, da lui voluto e inaugurato nel 1908. Si inscrive nel racconto di questa figura atipica di archeologo, anticipatrice per molti versi, che ha trasformato lo studio dell’archeologia. Sono stati messi in luce i suoi criteri espositivi, riproposti dei contesti di scavo come il sepolcreto arcaico di cui aveva fatto realizzare un plastico – adesso restaurato e in mostra – e come l’insieme delle sculture che decoravano la fontana di Giuturna. Sono anche esposte delle teche disegnate dallo stesso Boni e con l’organizzazione dei reperti da lui disposta. Risulta in questo modo evidente il suo principio: rispettare l’integrità dei complessi riportati alla luce. Tutti i materiali sono ugualmente fondamentali: che si tratti di manufatti, resti antropologici, botanici, faunistici. Un metodo che ha sviluppato lo studio dei reperti anche da un punto di vista etnoantropologico. Importante sottolineare anche il luogo scelto da Boni per istituire l’Antiquarium: all’interno del chiostro quattrocentesco del complesso di Santa Maria Nova. I restauri di allora, avviati proprio per consentire l’esposizione dei reperti, portano alla luce non solo le trasformazioni dal trecento al settecento del chiostro stesso, ma anche parte della pavimentazione del pronao della cella dedicata alla dea Roma. Tutti elementi che il percorso di mostra oggi ripropone, grazie anche a un recente intervento di manutenzione del complesso e di ristrutturazione delle sale espositive che restituisce al grande pubblico questi spazi, chiusi al pubblico da più di dieci anni.

Le sezioni: Santa Maria Antiqua e rampa domizianea. Si racconta il ritrovamento della chiesa e del ciclo pittorico altomedievale di matrice bizantina, dopo l’abbattimento della chiesa secentesca di Santa Maria Liberatrice. Una scoperta, riccamente documentata dal gruppo di lavoro di Boni, e da cui prende avvio un filone neo-bizantino che investe le arti e l’architettura dell’epoca.

Le sezioni: Uccelliere farnesiane. È in questa sezione che emerge con forza l’aspetto meno noto del grande archeologo e architetto: il ruolo avuto negli ambienti culturali italiani ed europei degli inizi del Novecento. Ben introdotto nei circoli mondani e culturali della capitale – si ricordano i rapporti con il socialismo umanitario romano, costanti dopo il primo incontro nella redazione della “Nuova Antologia” con Giovanni Cena, Sibilla Aleramo, Duilio Cambellotti – e definito poeta, e profeta, da Eleonora Duse, Ugo Ojetti e Benedetto Croce per la capacità di ricostruire il mito delle origini dell’antica Roma. Le scoperte che ridisegnano il Foro e il suo pensiero suggestionano il simbolismo romano, la cui onda lunga penetra nel Novecento, alimentando il Liberty della capitale e arrivando almeno al 1913, con l’affermarsi delle Secessioni e delle Avanguardie. L’approccio al mondo classico fatto di simboli, rievocazioni, allusioni cifrate è evidente nelle opere esposte di Bottazzi, Cambellotti, Dalbono, Discovolo, Grassi, Maldarelli, Netti e Sartorio, molte delle quali provenienti da collezioni private. Spicca la tela “Gli archeologi” di Giorgio de Chirico, segno della memoria storica sempre presente. Boni dal 1910 si ritira a vivere nelle Uccelliere, e lo ricorda l’esposizione di una selezione di arredi originali della sua casa-studio. A completamento della narrazione della vita di Giacomo Boni, oltre alle quattro sezioni della mostra nel Foro Romano sono posizionati dei totem nei luoghi di maggior intervento e di scoperte, che hanno consentito una nuova lettura dell’area archeologica centrale e della storia dell’antica Roma.
Roma. In Curia Iulia giornata internazionale di studio “Aedes Vestae. Archeologia, Architettura e Restauro” a cura di Federica Rinaldi e Giulia Giovanetti. Alla fine dei restauri, momento di dibattito e confronto sul monumento dal punto di vista archeologico, architettonico e della storia della sua ricostruzione

Federica Rinaldi e gli altri archeologi e restauratori del parco archeologico del Colosseo lo avevano annunciato in occasione della conclusione dei restauri del tempio di Vesta nel Foro romano: “Stiamo organizzando una giornata internazionale di studio dedicata proprio all’Aedes Vestae che, con i buoni auspici della Dea (leggi Covid permettendo), sì terra il 1º marzo 2021” (vedi: Roma. Archeologi e restauratori del parco archeologico del Colosseo raccontano il cantiere di restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano. E a primavera giornata di studi internazionali sull’Aedes Vestae | archeologiavocidalpassato). La prudenza era d’obbligo. Ora i vincoli per le iniziative con la pandemia si sono un po’ allentati, grazie soprattutto alla campagna massiccia di vaccinazioni, e così il parco archeologico del Colosseo ha potuto finalmente fissare la data per la giornata di studio “Aedes Vestae. Archeologia Architettura e Restauro” che si propone, a conclusione delle attività di manutenzione straordinaria del monumento, come momento di dibattito e confronto sul monumento dal punto di vista archeologico, architettonico e della storia della sua ricostruzione. Ideata e curata da Federica Rinaldi e Giulia Giovanetti, la Giornata di Studio ha il patrocinio della Scuola di Specializzazione in Beni architettonici e del Paesaggio di Sapienza università di Roma e del Master Biennale Internazionale Culture del Patrimonio dell’università Roma Tre. Appuntamento mercoledì 9 giugno 2021, dalle 10 alle 17, in Curia Iulia. La Giornata di Studi sarà trasmessa integralmente a partire dalle 10 in diretta dalla Curia Iulia sulla pagina Facebook del PArCo. Per seguire i lavori collegarsi a www.facebook.com/ParcoColosseo.

Il fulcro del complesso monumentale legato al culto di Vesta è il tempio dedicato alla dea, culto antichissimo e risalente già al secondo re di Roma Numa Pompilio, più volte ricostruito a causa dei numerosi incendi e infine restaurato, nelle forme visibili ancora oggi, dall’imperatrice Giulia Domna verso la fine del II secolo d.C. Dal podio circolare in opera cementizia rivestito in marmo, si innalzavano colonne con capitelli corinzi. L’interno accoglieva il braciere con il fuoco sacro, che non doveva mai spegnersi, simbolo dell’eternità di Roma e del suo destino di impero universale. La forma circolare era forse ispirata a quella delle capanne di epoca arcaica, con un foro al centro del tetto conico per far uscire il fumo. All’interno del tempio era anche conservato il Palladio, piccolo simulacro di Atena-Minerva, portato a Roma, secondo la leggenda, da Enea e simbolo della nobiltà della stirpe romana. Accanto al tempio è la casa delle Vestali, sacerdotesse dedicate al culto di Vesta e alla sorveglianza del fuoco sacro, l’unico sacerdozio femminile di Roma. In numero di sei e provenienti da famiglie patrizie, dovevano osservare il loro servizio per 30 anni, conservando la verginità, pena la morte. In cambio godevano di molti privilegi (si spostavano in carro in città e disponevano di posti riservati negli spettacoli).

L’intervento conservativo 2020 dell’Aedes Vestae al parco archeologico del Colosseo ha rappresentato un’occasione di tutela e conoscenza del monumento in un’ottica multidisciplinare. Il coinvolgimento di differenti specialisti – archeologi, architetti, restauratori, rilevatori, archivisti, ingegneri – ha avuto come esito l’acquisizione di dati finalizzati alla progettazione e all’esecuzione dell’intervento, rivelandosi allo stesso tempo proficuo per il riesame del bene storico-archeologico, permettendo di approfondire la conoscenza del monumento che, frutto di un’anastilosi degli anni Trenta del secolo scorso, andava indagato anche nei suoi aspetti strutturali e statici. La giornata di studio sull’Aedes Vestae che il PArCo propone a conclusione delle attività di cantiere si configura come momento di confronto e dibattito con gli studiosi del monumento dal punto di vista archeologico, architettonico e della storia della sua ricostruzione, alla luce dei più recenti apporti frutto dell’intervento e di nuove ricerche anche in ambito internazionale.

Una giornata di studio. Nella prima sessione, presieduta dal professore Alessandro Viscogliosi, direttore della scuola di specializzazione in Beni architettonici e del Paesaggio di Sapienza università di Roma, un approccio archeologico al monumento, che non può prescindere dal punto di vista dell’archeologia dell’architettura, affronta, a partire dall’inquadramento del tema degli edifici circolari a pianta centrale, la questione della ‘forma’ dell’Aedes Vestae, attraverso l’esame degli elementi architettonici decorativi, dei resti archeologici e dell’ulteriore documentazione che il mondo antico ci ha trasmesso. La seconda sessione, presieduta dalla professoressa Elisabetta Pallottino, direttore del master biennale internazionale Culture del Patrimonio dell’università Roma Tre, è dedicata all’anastilosi degli anni Trenta del XX secolo. Il tema della ricostruzione viene affrontato attraverso il riesame della documentazione degli archivi, contestualizzando l’intervento nella stagione dei grandi scavi del XIX secolo arrivando fino alla ricostruzione ed entrando nel dettaglio delle scelte tecniche operate nell’anastilosi. Emergeranno anche gli esiti dello studio strutturale della porzione ricostruita e verrà proposto un approfondimento inedito sulla forma “geometrica” dell’Aedes. L’ultima sessione, presieduta dal direttore del parco archeologico del Colosseo Alfonsina Russo, è dedicata alla metodologia dell’intervento conservativo 2020, progettato integrando e verificando anche in corso d’opera i dati acquisiti nelle ricerche preliminari, con il confronto costante tra i diversi specialisti. Con l’intervento conservativo degli elementi architettonici dell’elevato ricostruito dell’Aedes, il PArCo si impegna per il futuro alla prosecuzione del restauro dell’area del podio in situ e alla valorizzazione dei reperti mobili facenti parte del monumento originario, per completare la restituzione di valore ai resti materiali di un monumento che ha rivestito un ruolo simbolico per la città di Roma dalle sue origini e ancora, in chiave propagandistica, nell’età contemporanea. Infine, in un’ottica nuova il cantiere ha inaugurato una prassi di coinvolgimento del pubblico nel racconto delle attività in corso, oggi acquisita dagli altri cantieri del PArCo, con pannelli didattici di recinzione e la comunicazione online degli interventi.
Roma, Percorsi fuori dal PArCo. Nel sesto appuntamento, il viaggio parte ancora una volta dal Palatino per giungere al museo Archeologico nazionale e Grotta di Tiberio a Sperlonga, alla scoperta – seguendo il Palladio – del mito delle origini di Roma, legato all’arrivo di Enea nel Lazio

Sesto appuntamento col progetto “Percorsi fuori dal PArCo – Distanti ma uniti dalla storia” che vuole portare i cittadini romani e tutti i visitatori a scoprire i legami profondi e ricchi di interesse, ma non sempre valorizzati, tra i monumenti del Parco e quelli del territorio circostante, raccontando, con testi e immagini, il nesso antico che unisce la storia di un monumento o di un reperto del parco archeologico del Colosseo con un suo “gemello”, situato nel Lazio. Dopo aver raggiunto il Comune di Cori (tempio dei Dioscuri), il parco archeologico di Ostia Antica (tempio della Magna Mater), Prima Porta (villa di Livia Drusilla), il parco archeologico dell’Appia Antica (tenuta di Santa Maria Nova), piazza Navona (stadio di Domiziano) il viaggio virtuale – ma ricco di spunti per organizzare visite reali – promosso dal parco archeologico del Colosseo riparte ancora dal Palatino, precisamente dal museo Palatino, dove si conserva il Palladio, per giungere, dopo un viaggio di quasi 130 chilometri, alla villa di Tiberio a Sperlonga (Lt).

Il museo Palatino è il luogo in cui si conserva il Palladio, l’oggetto protagonista di questo itinerario che ci porta a quasi 130 chilometri da Roma. Ma le caratteristiche dell’opera in questione ci spingono altrove, nel Mediterraneo orientale: ci sono invisibili fili che grazie a esso collegano il Palatino a Troia. C’è una tradizione che lega in modo indissolubile la storia di Roma al mito greco: l’arrivo di Enea, fuggito da Troia, in Italia e il suo ruolo di progenitore dei romani. Tra le numerose versioni del mito, Dionigi di Alicarnasso narra che fu proprio Enea a portare in Italia il Palladio, l’immagine sacra di Pallade Atena venerata dai Troiani e considerata il pegno per la difesa della città; altre tradizioni narrano invece che furono Ulisse e Diomede a sottrarre il Palladio e a portarlo in occidente.


Il profilo del Palladio Palatino mostra la presenza dell’elmo di Atena (foto PArCo)
“Il Palladio, in origine una statua lignea (in greco xoanòn)”, raccontano gli archeologi del PArCo, “era fortemente simbolico anche per i Romani, tanto che il primo imperatore, Augusto, lo conservava nel tempio di Vesta dove, assieme al fuoco sacro, garantiva la salvezza della città. L’imperatore aveva istituito il culto di Vesta anche sul Palatino e alcuni studiosi sostengono che il Palladio fu trasportato in questo secondo tempio, o duplicato per avere due simulacri, uno per ogni tempio. Questa seconda ipotesi è però meno sostenuta. Del Palladio oggi al museo Palatino, probabilmente una copia in marmo della mitica statua lignea, si conserva solo un frammento del volto: ma anche così è evidente la forte influenza orientale dell’opera, che dovette essere realizzata tra il tardo arcaismo e la prima età severa (VI-V sec a.C.). L’occhio a mandorla della dea Atena mostra un disegno delicato; il sopracciglio è allungato, lo zigomo pronunciato, e la chioma ordinata disposta attorno al viso scende sulle tempie e copre parte dell’orecchio, che presenta un forellino per l’inserimento di un orecchino”.


Ciò che rimane del gruppo scultoreo del Ratto del Palladio conservato al museo di Sperlonga. A sinistra la testa di Diomede e parte del braccio che regge il Palladio. Sulla destra la statua di Ulisse, acefala; la testa è stata rinvenuta ed è esposta nello stesso Museo ma in un altro ambiente (foto PArCo)
Ma esiste una seconda raffigurazione del Palladio tra le sculture antiche del Lazio, fanno sapere gli archeologi del PArCo: “Nel 1957, durante la realizzazione della nuova via Flacca, a poche centinaia di metri dalla cittadina di Sperlonga, i costruttori s’imbatterono in una serie di resti archeologici, che furono presto identificati con la villa di Tiberio, più volte citata dalle fonti antiche ma la cui collocazione era sconosciuta. Durante gli scavi furono rinvenuti dei gruppi scultorei che narrano alcuni episodi delle gesta di Ulisse. Le sculture, tutte di pregevole valore artistico (quello di Scilla riporta le firme di tre scultori rodii, che sono ritenuti autori anche del Laocoonte dei musei Vaticani), erano in antico collocate in un teatro naturale costituito da una grotta resa ancor più suggestiva da una serie di accorgimenti decorativi”.

“Il gruppo del Ratto del Palladio – continuano – narra uno degli episodi che incisero sull’esito finale della guerra di Troia, ossia proprio il momento in cui l’immagine sacra di Pallade Atena viene rubata da Ulisse e Diomede, privando così Troia della sua protezione divina. La composizione conservata al museo Archeologico nazionale di Sperlonga immortala uno degli istanti più significativi della narrazione, ossia il balenare degli occhi e il vibrare della lancia, segni tramite i quali il Palladio rivela sé stesso, e impedisce ad Ulisse, che nasconde la spada nel mantello avvolto intorno al braccio, già pronto a sguainarla, la realizzazione del suo piano -dettato dall’invidia- di colpire alle spalle l’amico Diomede e di presentarsi ai Greci come portatore del Palladio”.

Il museo Archeologico nazionale di Sperlonga e Grotta di Tiberio si possono visitare dal giovedì alla domenica, dalle 8.30 alle 19.30 (ultimo ingresso alle 19). L’area archeologica: dal giovedì alla domenica, dalle 8.30 alle 16 (invernale), dalle 8.30 alle 19 (estivo). Biglietto: intero 5 euro, agevolato 2 euro (dai 18 ai 25 anni), fatte salve le agevolazioni previste dal regolamento di ingresso ai luoghi della cultura italiani, consultabili nel sito web del ministero della Cultura.
Per celebrare il Natale di Roma maratona da cinque cantieri di restauro con Alfonsina Russo, direttrice del Parco archeologico del Colosseo: gli stucchi del Colosseo, l’Arco di Costantino, l’area del Tempio di Vesta, la Basilica Emilia, e l’Arco di Settimio Severo. E un arrivederci alla vicina riapertura del PArCo

Maratona tra i cantieri di restauro nel cuore di Roma antica: è quanto proposto dal Parco archeologico del Colosseo per celebrare il Natale di Roma. Cinque dirette curate dalla direttrice Alfonsina Russo che di volta in volta ha dialogo con i restauratori impegnati sul monumento specifico. Per la responsabile del PArCo è stata anche l’occasione per anticipare qualche evento, come il convegno on line il 9 giugno sui restauri al Tempio di Vesta nel Foro romano o il riallestimento della Casa delle Vestali per il 21 giugno, o per sottolineare la linea green negli interventi di restauro, ribandendo che nel PArCo i prodotti chimici sono banditi. Ma soprattutto è stata l’occasione per dare un arrivederci a prestissimo, al 26 aprile 2021, quando il parco archeologico del Colosseo sarà riaperto al pubblico.
Prima tappa: i restauri degli stucchi del fornice Nord del Colosseo. Per la prima volta si sale sui ponteggi per avvicinarci a quel che resta degli stucchi che decoravano le superfici voltate e quelle della lunetta di questo angolo dell’anfiteatro. Tra il 1500 e il 1600 i grandi artisti, che da poco avevano scoperto le “grottesche” della Domus Aurea (tra tutti uno dei più brillanti allievi di Raffaello, Giovanni da Udine), riprodussero su disegni e altri supporti anche gli stucchi del Colosseo, consegnando a noi un patrimonio inestimabile di informazioni, altrimenti perdute. “Proprio grazie ai disegni di Giovanni da Udine, allievo di Raffaello, che nel ‘500 aveva visitato il Colosseo e aveva disegnato gli stucchi”, spiega Alfonsina Russo, “possiamo ricostruire anche quali erano i temi: temi legati a Dioniso, la divinità protettrice dei teatri e degli spettacoli”. Il restauro è appena iniziato. “Si procede innanzitutto con la pulizia”, spiega la restauratrice, “per conoscere meglio le modalità meno invasive per gli stucchi e capire il livello di degrado, dovuta anche alla vicinanza esterna con un’area particolarmente trafficata e a un punto del monumento in cui si incanalano diverse correnti che trasportano molti inquinanti, e a materiali sovrapposti dovuti a interventi precedenti”. Di questi stucchi, anticipa Russo, “faremo anche le analisi proprio per capire se sono della stessa tipologia di materiale degli stucchi del passaggio di Commodo, nell’ingresso a Sud. E anche per inquadrarli meglio cronologicamente. Gli stucchi dovevano già esserci all’inizio, quando il monumento venne inaugurato nell’80 d.C.. E quindi dobbiamo immaginare che quest’area doveva essere completamente ricoperta da stucchi. Successivamente, nell’importante restauro che fecero i Severi tra la fine del II e l’inizio del III sec. d.C., vennero restaurate anche queste decorazioni con elementi cassettonati, un motivo che influenzò molto la scuola di Raffaello. Al centro della volta c’è un grande riquadro dove probabilmente era raffigurato Dioniso, e una serie di riquadri laterali con le Menadi e i Satiri. Da quello che è rimasto, possiamo immaginare una decorazione di grande raffinatezza. Del resto – non dimentichiamolo mai – questo era l’anfiteatro imperiale, il Colosseo era l’anfiteatro dell’imperatore, perciò tutto ciò che veniva realizzato – compresa la decorazione – era di altissimo livello”. Il cantiere andrà avanti per un mese. E poi si sposterà sui fornici laterali che pure presentano una decorazione a stucco.
Seconda tappa: i restauri dell’Arco di Costantino. Si sale al settimo piano dei ponteggi. Con le restauratrici diamo un’occhiata ai diversi tipi di malta e ai loro utilizzi. “Oggi analizziamo le tecniche di restauro e in particolare le stuccature”, sottolinea Alfonsina Russo. “Il cantiere è in una fase abbastanza avanzata del lavoro. I restauratori hanno ripulito i rilievi dallo sporco, e ora stanno passando alla fase della stuccatura. Si procede con diversi tipi di malte con colori diversi, calda chiara, fredda, calda scura e rossa, a seconda del colore del marmo. Si mescolano i colori fino a trovare una tonalità che si armonizzi con i marmi. Quindi è un lavoro molto importante e molto delicato che darà proprio l’aspetto finale del restauro dell’arco”. Queste malte sono realizzate con calce idraulica, molto resistente all’acqua. “Le malte”, spiegano le restauratrici, “le mischiamo con delle cariche inerti, polveri di marmo di diversi colori, e le setacciamo per avere una granulometria che si adatti alla superficie del marmo e a una tonalità. Nello stendere le malte cerchiamo di fare in modo che non ci siano ristagni d’acqua e favoriamo gli scoli, per evitare attacchi biologici, sigillando tutte le crepe”. Il restauro dell’arco di Costantino è alle fasi finali. “Lo seguiamo da febbraio (vedi Roma. Prime tre dirette dal cantiere di restauro dell’Arco di Costantino con le archeologhe Francesca Rinaldi ed Elisa Cella del Parco archeologico del Colosseo: la topografia del monumento e l’apparato figurativo dall’attico ai tondi adrianei al fregio costantiniano | archeologiavocidalpassato). L’arco di Costantino è uno dei monumenti più importanti del nostro parco archeologico, connesso alla via Trionfale che collega poi l’arco di Tito e l’arco di Settimio Severo”.
Terza tappa: area del Tempio di Vesta. Il direttore Alfonsina Russo mostra i restauri degli elementi architettonici del tempio e rivela alcune anticipazioni sul convegno dedicato all’Aedes Vestae e sul prossimo 21 giugno 2021. Siamo nel cuore di Roma, siamo nell’area della Casa delle Vestali, e dietro c’è il Tempio di Vesta. “In questo cantiere”, mostra Alfonsina Russo, “si stanno ripulendo i pezzi che fanno parte del tempio. Dopo aver partecipato virtualmente al cantiere del Tempio di Vesta (vedi Roma. Archeologi e restauratori del parco archeologico del Colosseo raccontano il cantiere di restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano. E a primavera giornata di studi internazionali sull’Aedes Vestae | archeologiavocidalpassato), ora seguiamo questo nuovo cantiere allestito per pulire altri pezzi, frammenti di marmo, che facevano parte sempre del Tempio, e che nell’anastilosi realizzata tra il 1929 e il 1930 non sono stati utilizzati. Intanto vi segnalo che il 9 giugno 2021, proprio in occasione delle Vestalia, organizzeremo un convegno proprio sui lavori che stiamo portando avanti sul Tempio di Vesta e questo nuovo cantiere. In quell’occasione il convegno sarà on line e quindi tutti potranno seguire i vari interventi. E speriamo poi che il 21 giugno 2021, in occasione del Solstizio d’estate, di poter inaugurare la Casa delle Vestali con un nuovo allestimento: sarà una sorpresa”. I frammenti di marmo sono trattati con il biocida. “Qui è tutto eco-compatibile”, spiega la restauratrice, “perché i prodotti chimici nel PArCo non si possono utilizzare. Questo biocida si spruzza tre o quattro volte. In qualche caso interveniamo con il micro trapano dove ci sono dei residui. E non si fa nient’altro”.
Quarta tappa: la Basilica Emilia. Stavolta scopriamo insieme il progetto di restauro ecosostenibile portato avanti con gli enzimi e condotto con Enea e piccole imprese. La Basilica Emilia è la più antica Basilica, fondata nel 179 a.C. da Marco Fulvio Nobiliore e Marco Emilio Lepido. Qui è aperto un cantiere di pulitura di un fregio che risale alla fase augustea. “Questo progetto utilizza degli enzimi, tutto eco-sostenibile, tutto naturale”, fa presente Alfonsina Russo. “È un progetto speciale che coinvolge anche micro imprese proprio per sostenerle in questo momento molto difficile dal punto di vista economico”. Il restauro prevede interventi guidati dalla eco-sostenibilità, per il monumento con materiali originali dell’opera, per l’ambiente e per operatori e restauratori. “Il progetto ha avuto una piccola battuta di arresto dovuta alla pandemia”, ricorda la restauratrice, “ma ora è potuto ripartire grazie alla collaborazione delle piccole imprese e delle istituzioni. Abbiamo così potuto utilizzare un prodotto di nuova generazione a base di enzimi stabilizzati in una matrice di nanoparticelle. E vediamo che nelle prove effettuate la carica batterica si è completamente abbattuta. Questi interventi sono stati veramente di successo. E grazie alla collaborazione con Enea abbiamo la possibilità di testare un additivo tratto dalla pianta del fico d’India che conferisce solidità e compattezza alle malte di restauro. E ancora grazie alla collaborazione con una piccola impresa siciliana possiamo testare un compost riformulato a base di oli essenziali che ci consentirà di rimuovere le patine che nel PArCo sono molto presenti e avrà un’azione deterrente nella formazione di nuove patine. Nella sua globalità il progetto vuole incoraggiare questi interventi per arrivare a una pratica di questo tipo di interventi fornendo strumenti tecnici e scientifici ma anche amministrativi perché un’istituzione come il PArCo possa pensare a una gestione sostenibile degli interventi di restauro e a una loro esecuzione anche con procedure di appalto”.
Quinta e ultima tappa: per la prima volta in diretta dal cantiere di restauro dell’Arco di Settimio Severo. Si sale sui ponteggi per guardare da vicino i rilievi sul fronte nord-occidentale del monumento che sarà oggetto di importanti lavori per i prossimi 7 mesi. “Siamo in un luogo unico, straordinario: siamo al quinto piano del ponteggio di restauro dell’Arco di Settimio Severo, fronte verso il Campidoglio”, interviene Alfonsina Russo. “Qui ci sono i grandi pannelli che narrano le Guerre partiche per le quali venne realizzato l’arco che narrava le gesta appunto di Settimio Severo nel 203 d.C. Il cantiere è iniziato da circa un mese e ne durerà altri sette, quindi fino all’autunno inoltrato. E perciò avremo modo di seguire più volte i lavori. Questo monumento non si restaurava da moltissimi anni e non eravamo mai potuto essere così vicini ai rilievi per vedere il loro stato di conservazione. Purtroppo i rilievi sono molto deteriorati, però si possono ancora riconoscere i vari particolari. Queste erano come delle grandi pitture che venivano portate durante i trionfi per raccontare le gesta dell’imperatore in guerra. E sono state poi riprodotte in scultura sugli archi. Raccontano nei minimi dettagli le varie tappe della guerra contro i Parti”. Il cantiere è ancora in una fase di studio. “Stiamo testando varie tipologie di pulitura per alleggerire le croste nere”, spiega il restauratore, “e l’utilizzo di strumentazioni laser per la pulitura molto delicata. Inoltre abbiamo testato due prodotti biocida per vedere quale dà una risposta migliore. Possiamo notare anche dei restauri antichi, come le cerchiature in bronzo poste nell’Ottocento, o integrazioni in cemento di inizi Novecento. Sulla base delle colonne verrà sperimentato il bio-consolidamento con enzimi: l’intervento durerà circa due mesi”.
Roma. Il parco archeologico del Colosseo celebra la giornata del Mare promuovendo il progetto “La rotta di Enea”, itinerario culturale che segue il viaggio del mitico eroe da Troia al Lazio. Annunciati convegno sul Tempio di Vesta e una mostra sul Palladio. E nel 2022 convegno su “Le città di Troia, Cartagine e Roma tra mito e storia”


Giornata nazionale del Mare 2021
Oggi, 11 aprile 2021, è la Giornata nazionale del Mare, istituita in Italia nel 2018. Il parco archeologico del Colosseo celebra la Giornata nazionale del Mare sull’onda grande progetto “La rotta di Enea”, promosso dall’associazione Rotta di Enea (www.aeneasroute.org ), al quale il PArCo partecipa sin dalle fasi di avvio. Il progetto coinvolge un ampio network di istituzioni internazionali presenti nel bacino del Mediterraneo, unite da un itinerario culturale che segue il viaggio del mitico eroe, fuggitivo da Troia in fiamme e poi fondatore della città di Lavinium, mentre il figlio Ascanio fonderà sui Colli Albani Alba Longa e dalla sua stirpe nascerà Romolo, fondatore di Roma e suo primo re. Di questo e molto altro ha parlato recentemente in Curia Iulia Mario Lentano (Università di Siena) a proposito del suo volume “Enea. L’ultimo dei Troiani, il primo dei Romani”, edito da Salerno editrice. Chi non ha avuto la possibilità di seguire l’incontro, è disponibile il podcast Dialoghi in Curia | Enea. L’ultimo dei Troiani, il primo dei Romani – Parco archeologico del Colosseo | Podcast on Spotify.


Il logo dell’associazione Rotta di Enea
“Un progetto nel nome del mito di Enea”, spiega Giovanni Cafiero, presidente dell’associazione Rotta di Enea, “è un patto tra generazioni per non abbandonare il vecchio Anchise, ma allo stesso tempo per pre-occuparsi del futuro di Ascanio, un progetto di ripresa da un lungo periodo di smarrimento, che ruota intorno a un progetto umanistico comune. Uno smarrimento che ha portato a gravi crisi economiche e ambientali preesistenti, ma apparse più evidenti alla luce dell’emergenza pandemica. La Rotta di Enea costituisce un nuovo itinerario marittimo a tema archeologico, culturale e paesaggistico, che rappresenta – attraverso il mito di Enea e il racconto virgiliano dell’Eneide – la fusione del patrimonio culturale mediterraneo di cui la Roma antica fu erede e che sistematizzò attraverso istituzioni e leggi comuni che hanno costituito il riferimento per tutta l’Europa”.

Le tappe del viaggio di Enea. “Leggere l’Eneide – spiega l’associazione Rotta di Enea -vuol dire scoprire le radici mitiche della nostra storia nata intorno al Mediterraneo, culla di civiltà e luogo di incontro fra culture, quasi il liquido amniotico della nostra Europa. La Rotta di Enea, attraverso un itinerario fatto di secoli e di molte soste nel Mediterraneo, è un percorso fisico, attraverso le località toccate dall’eroe troiano in fuga dalla sua città in fiamme in cerca di un nuovo inizio in una terra sconosciuta. È un viaggio ideale, perché parla della storia dell’uomo, sempre pronto a viaggiare, per scelta o per necessità, e a cercare casa dove regnano pace e prosperità, portando con sé affetti e saperi. È una rotta culturale, perché racconta attraverso l’archeologia, la natura, la letteratura, una storia avvincente nella quale tutti possiamo riconoscerci. Il viaggio tocca cinque paesi diversi, ventuno località diverse, tra le quali ben cinque siti Unesco, ma anche molti altri luoghi straordinari ed affascinanti, tutti da scoprire”.

Il parco archeologico del Colosseo intende promuovere il patrimonio archeologico e culturale dei paesi coinvolti affacciati sul Mediterraneo, organizzando (dopo la riapertura) una serie di attività ed eventi che ne raccontano storia e leggende, natura e paesaggi. “Il 9 giugno 2021”, spiegano al PArCo, “abbiamo intenzione di proporre un convegno su “Il Tempio di Vesta – Archeologia, Architettura e Restauro” in occasione della conclusione delle attività di manutenzione straordinaria condotte sul monumento tra il 2020 e l’inizio del 2021. Verranno analizzati i diversi aspetti connessi all’evidenza archeologica e i differenti approcci alla conservazione e restauro di inizio Novecento”.

Tra i progetti in cantiere una mostra sul Palladio, la statua in legno (xoanon) di Pallade Atena che aveva il potere di proteggere l’intera città. Ulisse e Diomede la sottrassero ai troiani ed Enea la portò a Roma, dove fu conservata nel Tempio di Vesta nel Foro Romano per secoli. In questa occasione verrà esposto anche il famoso Palladio del museo Palatino. “Si tratta di una testa in marmo greco insulare, proveniente molto probabilmente dall’area del Colle Palatino”, spiegano gli archeologi del PArCo, “che appartiene ad una statua di Atena armata di dimensioni minori rispetto al naturale (circa 1 metro di altezza). La testa è caratterizzata da un elmo liscio che lascia in vista la capigliatura. L’occhio a mandorla, di taglio ionico con sopracciglio allungato, e le ciocche di capelli ondulate ad incorniciare la fronte datano l’originale al periodo tardo arcaico o alla prima età severa (480-450 a.C.). La raffigurazione di Atena armata, di dimensioni ridotte, prende il nome di Palladio, statuetta sacra che aveva il potere di proteggere un’intera città e che, secondo una tradizione, era stata portato a Roma da Enea ed era conservata nel tempio di Vesta nel Foro Romano”. Per il prossimo anno sono in programma altri eventi. Tra questi, una conferenza internazionale su “Le città di Troia, Cartagine e Roma tra mito e storia”, un momento di confronto e di analisi delle più recenti informazioni archeologiche.
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