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Archeologia medievale. A cinque anni dalla scoperta del più grande cimitero medievale ebraico noto in Italia, esce il libro “Il cimitero ebraico medievale di Bologna: un percorso tra memoria e valorizzazione” a cura di Curina e Di Stefano

Gli scavi archeologici al cimitero ebraico medievale di Bologna hanno rinvenuto 408 sepolture (foto Cooperativa Archeologia)

Anello d’oro recuperato dagli scavi del cimitero ebraico medievale di Bologna (foto Roberto Macrì)

Soppresso 450 anni fa, col tempo se n’erano perse le tracce del cimitero ebraico medievale di Bologna, citato dalle fonti storiche e documentarie, anche se una tradizione popolare non ha mai dimenticato la presenza degli “orti degli ebrei”. Ci ha pensato l’archeologia. Tra il 2012 e il 2014 l’area di via Orfeo a Bologna è stata oggetto di ricerche archeologiche che hanno individuato il cimitero ebraico medievale, il più grande finora noto in Italia con le sue 408 sepolture, il quale è stato oggetto e punto di partenza di un progetto di valorizzazione del patrimonio culturale ebraico del capoluogo felsineo. “È la più vasta area cimiteriale medievale mai indagata in città, testimone di eventi che hanno radicalmente mutato la storia e la vita di una parte della popolazione bolognese tra il XIV e il XVI secolo. Per 176 anni è stato il principale luogo di sepoltura degli ebrei bolognesi ma dopo le bolle papali della seconda metà del Cinquecento -che autorizzano la distruzione dei cimiteri ebraici della città- sopravvive per secoli solo nel toponimo di Orto degli Ebrei”, avevano raccontato alla presentazione della scoperta Renata Curina e Valentina Di Stefano, archeologhe della soprintendenza, e Laura Buonamico di Cooperativa Archeologia, che hanno seguito le ricerche archeologiche (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/01/02/archeologia-medievale-scoperto-in-via-orfeo-a-bologna-il-cimitero-ebraico-soppresso-450-anni-fa-con-le-sue-408-sepolture-e-il-piu-grande-ditalia-e-il-secondo-in-europa-sara-il-fulcro-di-un/).

Il sepolcreto si colloca nei pressi del monastero di San Pietro Martire, nell’isolato compreso tra via Orfeo, via de’ Buttieri, via Borgolocchi e via Santo Stefano (foto Sabap – Bo)

Il sepolcreto si colloca nei pressi del monastero di San Pietro Martire, nell’isolato compreso tra via Orfeo, via de’ Buttieri, via Borgolocchi e via Santo Stefano. “Le fonti d’archivio riportano che quest’area fu acquistata nel 1393 da un membro della famiglia ebraica dei Da Orvieto (Elia ebreo de Urbeveteri)”, spiegano le tre archeologhe, “per poi essere lasciata in uso agli ebrei bolognesi come luogo di sepoltura. Questa funzione permane fino al 1569, quando l’emanazione di due Bolle Papali condanna le persone di religione ebraica ad abbandonare le città dello Stato Pontificio e ad essere cancellate dalla memoria dei luoghi dove avevano vissuto e operato. Uno degli effetti più violenti di queste persecuzioni è l’autorizzazione a distruggere i cimiteri e a profanare le sepolture ebraiche presenti in città. Una damnatio memoriae che riesce solo in parte visto che negli atti e registri degli anni seguenti, ma soprattutto nella consuetudine orale, quell’area continua ad essere indicata come Orto degli Ebrei”.

Preziosi anelli rinvenuti nell’area del cimitero ebraico di via Orfeo

La copertina del libro di Renata Curina e Valentina Di Stefano “Il cimitero ebraico medievale di Bologna: un percorso tra memoria e valorizzazione”

L’analisi dei dati archeologici condotta dalla soprintendenza, lo studio antropologico sugli inumati effettuato dall’università di Bologna e la costante collaborazione della Comunità Ebraica Bolognese – il tutto con il sostegno della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna – hanno aperto la strada a un processo di conoscenza più sistematico su periodi e aspetti della storia di Bologna, delle sue tradizioni e delle abitudini di vita dei suoi abitanti. Ora, a pochi anni da questa eccezionale scoperta e grazie al contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, esce il volume curato dalle archeologhe Renata Curina e Valentina Di Stefano “Il cimitero ebraico medievale di Bologna: un percorso tra memoria e valorizzazione” che viene presentato giovedì 11 luglio 2019, alle 17, nel Salone d’Onore di Palazzo Dall’Armi Marescalchi, via IV Novembre n. 5 a Bologna, sede della soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Intervengono: Giusella Finocchiaro, presidente Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna; Cristina Ambrosini, soprintendente Archeologia, belle arti e Paesaggio di Bologna; Daniele De Paz, presidente Comunità Ebraica di Bologna; Alberto Sermoneta, rabbino capo Comunità Ebraica di Bologna; Sauro Gelichi, università Ca’ Foscari Venezia; Daniela Rossi, soprintendenza speciale Archeologia, belle arti e Paesaggio di Roma. Il volume, tredicesimo della collana DEA, Documenti ed Evidenze di Archeologia, della soprintendenza, documenta gli studi e le ricerche effettuate nell’ultimo lustro e offre abbondante materia di riflessione per individuare modalità di restituzione della memoria e di valorizzazione di questo importante patrimonio culturale ebraico di Bologna.

La locandina della mostra “LA CASA DELLA VITA. Ori e Storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna”

Per gli interessati, fino al 6 gennaio 2020 è allestita al MEB – Museo Ebraico di Bologna in via Valdonica 1/5 a Bologna la mostra “La Casa della Vita. Ori e Storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna”, visitabile da domenica a giovedì, dalle 10 alle 17.30, venerdì (dalle 10 alle 15.30), chiusa sabato e festività ebraiche. “La Casa della Vita” o Beth ha-Chaim è uno dei modi con cui gli ebrei indicano tradizionalmente il cimitero (Beth ha-kevaroth): “… ti ho posto davanti la vita e la morte … scegli dunque la vita, onde tu viva, tu e la tua progenie” Deuteronomio (30,19). La mostra consente di ripercorrere, in modo globale e sistematico, la storia di una minoranza, dei suoi usi, della sua cultura e delle sue interazioni con la società cristiana del tempo (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2019/06/19/bologna-ad-alcuni-dalla-scoperta-in-citta-del-piu-importante-cimitero-ebraico-finora-noto-in-italia-apre-la-mostra-la-casa-della-vita-ori-e-storie-intorno-allantico-cimitero-ebrai/).

Bologna. Dopo quasi vent’anni riapre al pubblico il teatro romano, scoperto nel 1977 in via Carbonesi: visite guidate con gli archeologi della soprintendenza. È uno degli edifici più importanti della Bononia romana, e forse il più antico esempio di teatro romano in muratura noto in Italia

Via Carbonesi, nel cuore di Bologna, dove è stato individuato il teatro romano di Bononia

Il percorso musealizzato del teatro romano all’interno della galleria commerciale nel 1994 (foto Paolo Utimperger)

Pochi metri sotto il piano di calpestio di via Carbonesi 5, nel cuore di Bologna, a un passo da piazza Maggiore, si può leggere una pagina di storia importante della Bononia romana. È qui, infatti, che nel 1977, in occasione di lavori di ristrutturazione in un edificio di via Carbonesi, fu scoperto il teatro romano di Bologna, un manufatto straordinario per la storia della città e dell’architettura antica, essendo uno dei più rilevanti edifici pubblici identificati a Bononia e forse il più antico esempio di teatro romano in muratura attualmente noto in Italia. Il monumento è stato il fulcro di un importante progetto di valorizzazione e collaborazione fra due soggetti pubblici (Comune e Soprintendenza) e due privati (proprietà dell’immobile e Gruppo Coin) che ha consentito nel 1994 di trasformare in patrimonio pubblico un bene altrimenti fruibile solo dagli specialisti grazie all’apertura di un punto vendita Coin. Per l’ex soprintendente Filippo Maria Gambari, “il teatro, la cui costruzione inizia intorno all’88 a.C., come la Basilica (oggi sotto Salaborsa) si inserisce in un programma edilizio pubblico di munificenza civile legato alla celebrazione monumentale del passaggio del rango della città di Bononia da colonia di diritto latino a municipium romano, con piena cittadinanza romana, esattamente 2100 anni fa. Il fatto che il Teatro romano di Bologna sia il primo teatro in muratura dell’architettura romana rappresenta un primato notevole, considerando che nella stessa Roma le rappresentazioni teatrali avvenivano su strutture in legno e che il primo teatro in muratura (theatrum marmoreum) viene realizzato solo per impulso di Gneo Pompeo Magno nel Campo Marzio tra il 61 ed il 55 a.C., anno del suo secondo consolato (con Crasso), mentre teatri in muratura secondo i principi dell’architettura ellenistica (scavati in un pendio collinare) erano presenti nelle città greche ed etrusche dell’Italia antica”.

La musealizzazione del teatro romano di via Carbonesi a Bologna (foto Sabap-Bo)

Purtroppo con la chiusura dell’esercizio commerciale, avvenuta nel 2000, non è più stato riaperto al pubblico, se non in rare occasioni. Ma dopo quasi vent’anni, c’è una svolta: c’è un progetto per la valorizzazione del teatro romano di Bologna. E giovedì 4 luglio 2019, alle 18, 19, 20 e 21, la soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara propone visite guidate gratuite condotte dai suoi archeologi Tiziano Trocchi, Renata Curina, Valentina Di Stefano e Valentina Manzelli, inaugurando così un piano di valorizzazione dell’importante struttura che si protrarrà per tutta l’estate in previsione della futura, definitiva riapertura al pubblico. Sono previste massimo 30 persone per visita, l’accesso è gratuito ma è obbligatoria la prenotazione a sabap-bo.stampa@beniculturali.it (inviare mail con orario prescelto, nome, telefono e numero partecipanti e attendere mail di conferma).

Il rilievo planimetrico del teatro romano di Bologna ricostruito dagli archeologi (foto Sabap-Bo)

Storia delle ricerche. Nel 1977 iniziarono i lavori di restauro e ristrutturazione in un edificio situato in pieno centro storico, in via Carbonesi, destinato a diventare sede commerciale e complesso residenziale. “Durante l’esecuzione dei primi lavori emersero, scavando, ciò di cui solo si supponeva l’esistenza sulla base di deboli tracce storiche e scarsi indizi: i resti del Teatro Romano di Bologna”, ricordano gli archeologi della soprintendenza. “I primi rinvenimenti risalgono al 1978 quando le opere di scavo per la bonifica e l’abbassamento dei vecchi scantinati portarono a individuare un tratto di strada romana acciottolata e una pavimentazione laterizia non direttamente riferibili all’edificio teatrale. L’avanzamento dei lavori nel piano interrato, con la rimozione dei pavimenti e degli intonaci, evidenziò antiche strutture murarie di tale estensione da indurre gli archeologi a intervenire con una serie di indagini metodiche che si protrassero dal 1982 al 1984, con ulteriori verifiche nel 1989 (Archivio di Stato). L’esplorazione risultò molto difficoltosa per le condizioni ambientali in cui si dovette operare, peraltro abituali nel caso dell’archeologia urbana: un cantiere sotterraneo di circa 1500 mq., interrotto dai muri di stretti scantinati e attraversato da vecchie fogne e condutture. I ruderi, generalmente distrutti fino al livello delle fondazioni, erano in pessimo stato di conservazione; ciononostante il rilievo planimetrico dei tracciati murari permise di riconoscere i resti di un sistema di murature di sostegno a raggiera (sistema sostruttivo radiale-concentrico), chiaramente riferibile ad un settore di un emiciclo destinato ad accogliere gli spettatori (cavea) di un complesso teatrale romano. La successiva proiezione geometrica dei muri curvilinei consentì di ricostruirne l’estensione originaria entro i limiti dell’isolato attualmente compreso tra le vie Carbonesi, D’Azeglio, Val d’Aposa, Spirito Santo e piazza dei Celestini. Accertata la natura teatrale dell’edificio – continuano – e approfittando di una fortunata coincidenza (l’apertura nella zona di altri due cantieri per la ristrutturazione edilizia di palazzo Rodriguez, in via D’Azeglio e di palazzo Zambeccari, fra le vie Val d’Aposa e Carbonesi) si è proceduto su due strade parallele. Da un lato si è effettuato il rilievo sistematico di tutte le strutture ancora rintracciabili nel sottosuolo in modo da ottenere una documentazione cartografica quanto più completa possibile; contemporaneamente si sono svolte ricerche specifiche per studiare la conformazione volumetrica e la tecnica costruttiva dell’edificio e la determinazione cronologica della sua fondazione e delle successive vicende”.

Le sezioni del teatro romano di Bologna indagate dagli archeologi (foto Sabap-Bo)

Archeologia urbana: ricerche difficili. “È evidente che non possiamo considerare esaustive le indagini svolte finora”, spiegano gli archeologi della soprintendenza, “ma non è stato possibile procedere oltre. I ruderi romani si trovano sotto gli edifici di un intero isolato abitativo che li occulta quasi totalmente. Le radicali distruzioni operate nel corso degli ultimi cinque secoli – ben più dannose delle spoliazioni subite dal teatro nell’antichità – ci privano della possibilità di apprezzare la conformazione architettonica dell’intero monumento di cui restituiscono parti sparse (membrature), generalmente riconoscibili solo in fondazione a parte alcuni tratti della fronte esterna della cavea, in elevato, che si sono preservati in quanto ricadenti in un’area cortilizia mai scavata in precedenza. Si segnala comunque come tutte le strutture più significative, ad iniziare da quelle del settore appena ricordato, siano state conservate in vista e, ove necessario, restaurate così da creare un articolato percorso di visita. I settori esplorati hanno evidenziato alcune importanti caratteristiche strutturali dell’imponente architettura che consentono di riconoscervi due distinte fasi costruttive”.

Il complesso archeologico del teatro romano di Bologna integrato nella galleria commerciale (foto Paolo Utimperger)

La creazione – nel 1994 – di una Galleria commerciale in via de’ Carbonesi, a Bologna, è nata dall’intensa collaborazione fra due soggetti pubblici (il Comune di Bologna e l’allora soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna) e due privati (la proprietà dell’immobile e il Gruppo Coin), all’insegna del rispetto dei reciproci doveri e rispettive competenze, nel quadro di una unità di intenti volta a salvaguardare l’interesse pubblico e sociale. Le superfici della galleria, su tre livelli, sono state articolate intorno al nucleo dei ritrovamenti archeologici, rendendo possibile la visione del teatro romano da ogni posizione e comprendendo un percorso museale di grande suggestione e interesse. “Si può dire che allora fu raggiunto l’obiettivo di integrare il complesso archeologico nel respiro della città, trasformando in patrimonio pubblico un bene altrimenti accessibile solo agli specialisti”.

Resti della facciata esterna (I° fase) e dei posteriori muri radiali (II° fase) della cavea del teatro romano di Bologna (foto Sabap-Bo)

La prima fase costruttiva (entro l’80 a.C.). “Nella sua prima fase edilizia, corrispondente all’impianto di fondazione”, spiegano gli esperti, “l’emiciclo del teatro bolognese aveva probabilmente la forma di un semicerchio pieno di circa 75 metri di diametro, aperto verso Nord secondo quelle che sarebbero state anche le prescrizioni dei trattati di Vitruvio. La struttura era del tutto autoportante e fondata su una fitta serie di murature radiali e concentriche costruite a vista entro un vasto cavo di fondazione, progressivamente reinterrato in corso d’opera. Le gradinate (gradationes) si sviluppavano lungo la parete semicircolare ed erano costituite da bassi sedili a gradino in laterizio che si sviluppavano con lieve pendenza lungo l’invaso della cavea. Tra i settori delle gradinate dovevano poi aprirsi gli sbocchi dei corridoi rettilinei che, risalendo a rampa piana, fungevano da ingressi secondari -almeno quattro- per gli spettatori. Per quanto riguarda gli ingressi principali dell’edificio non è stato ancora possibile stabilire se il collegamento diretto con l’orchestra e la parte inferiore delle gradinate (ima cavea) fosse garantito da passaggi laterali coperti. A caratterizzare maggiormente l’impianto architettonico del teatro bolognese di prima fase fu indubbiamente la conformazione della fronte curvilinea della cavea di contenimento della struttura interna a terrapieno. Di aspetto solido e massiccio, il muro perimetrale dell’emiciclo -alto intorno ai 6 metri- era scandito da un ordine di contrafforti articolati che si sviluppavano in serie continua: si trattava di arcate cieche su semi-pilastri rettangolari, di forma alta e stretta, verosimilmente chiuse a tutto sesto e sovrastate da un attico”.

I resti del teatro romano come si vedevano nella galleria commerciale aperta nel 1994 (foto Paolo Utimperger)

“Numerose e particolarmente interessanti – continuano – sono le indicazioni relative alle tecniche edilizie impiegate nella costruzione che comportò il sistematico uso di arenaria, una pietra tenera abbondante nelle cave dell’Appennino locale. Grandi lastre ben squadrate pavimentavano il piano dell’orchestra mentre piccole scaglie componevano l’opus caementicium dei muri di fondazione. Blocchetti parallelepipedi di rinforzo angolare e scapoli tronco-piramidali di buona rifinitura erano impiegati per comporre il rivestimento in opus incertum, dall’accurata tessitura, usato in tutte le parti di muratura destinate a rimanere a vista. Uno dei principali elementi di interesse che il teatro presenta nella sua fase originaria è indubbiamente la cronologia decisamente alta. La forma architettonica e la tecnica costruttiva impiegate riconducono a quel filone dell’architettura romana tardo repubblicana compresa nell’arco che va dal 120 all’80 a.C. Se la notevole antichità inserisce a pieno titolo il monumento bolognese nella fase formativa dell’architettura teatrale romana, alcune delle soluzioni tecniche e formali utilizzate per la sua costruzione risultano per l’epoca decisamente innovative. In particolare l’autoportanza, certamente la principale innovazione del teatro romano rispetto al teatro di tradizione greca”.

Tratto di muro di opus quadratum in selenite per il sostegno della cavea del teatro romano di Bologna in età imperiale (foto Sabap-Bo)

La seconda fase costruttiva (tra il 53 e il 60 d.C.). Al momento della fondazione il teatro bolognese, con i suoi 75 metri di diametro, fu indiscutibilmente un’opera edilizia di grande portata. Col passare del tempo però la crescita demografica e il progressivo rinnovamento della veste architettonica di Bologna dovettero porre nuove esigenze – sia di ordine dimensionale che formale – che in qualche modo ne provocarono l’obsolescenza. Ci sono tracce di una prima ristrutturazione già in età proto-imperiale, come testimonia il rinvenimento di un frammento di grande trabeazione marmorea di età augustea probabilmente proveniente dall’edificio scenico. Ma è alcuni decenni più tardi – verso la metà del I sec. d.C.- che avrà luogo la radicale e completa trasformazione dell’edificio. Con questi lavori si mirò evidentemente ad ottenere un duplice scopo: ampliare la capienza dell’emiciclo e abbellirne la veste esteriore per adeguarlo a tipologie architettoniche più aggiornate e nettamente più evolute rispetto alla vecchia tradizione costruttiva di età repubblicana. “In questa seconda fase”, sintetizzano gli archeologi, “si trasformò, come prima cosa, il muro di contenimento della cavea, demolendo e rasando le arcate cieche di contrafforte e chiudendo la rientranza centrale posteriore. Subito dopo, al vecchio anello in opus incertum fu addossata una serie di nuovi muri radiali, lunghi circa 9 metri con potenti fondazioni, destinati a sostenere alzati in opera quadrata di selenite. Ciò consentì l’ampliamento dell’emiciclo -che raggiunse i 93 metri di diametro- e il suo innalzamento, che si ipotizza abbia raggiunto gli 11 metri sufficienti ad accogliere sulla facciata esterna un doppio ordine di arcate. Anche l’orchestra dovette subire qualche modifica, con l’allargamento del diametro a 21 metri e una nuova pavimentazione probabilmente in lastre di marmo. Le gradinate, per quanto con sedili rinnovati, conservarono una pendenza assai modesta, appena più accentuata rispetto alla precedente”.

Teatro romano di Bologna: frammento di lastra di rivestimento decorata a rilievo (foto Sabap-Bo)

“Alle opere strutturali si accompagnarono altri interventi accessori, tra i quali segnaliamo le decorazioni ambientali e architettoniche la cui ricchezza ed elaborazione ancora traspaiono dai pochi resti che si sono conservati. Pavimenti a mosaico e opus sectile di marmi pregiati e rivestimenti parietali musivi, a stucco o con affreschi a decorazioni vegetali ornavano le grandi camere con copertura a volta dell’ordine inferiore della cavea. Lastre calcaree con delicati rilievi architettonici, floreali e figurativi rivestivano i vestiboli dei corridoi d’accesso. Fini membrature e colonne – anche in marmo cipollino e giallo antico – dovevano decorare il prospetto esterno dell’emiciclo”.

Torso di statua imperiale loricata attribuita a Nerone conservata al museo civico Archeologico di Bologna (foto Sabap-Bo)

“Ancora a proposito degli ornamenti accessori, ricordiamo il pregevole torso marmoreo con corazza (loricato) rinvenuto ai primi del Cinquecento nell’area di via Carbonesi e oggi conservato al museo civico Archeologico di Bologna. Questo torso – attribuito all’imperatore Nerone – apparteneva a una statua iconica che originariamente doveva ergersi sul retro della cavea, alla sommità di un attico o in un ambiente di rappresentanza alla base del perimetro esterno. Se questo dato è coerente con la frequenza con cui personaggi della cerchia imperiale comparivano nei cicli statuari posti all’interno degli edifici teatrali”, sottolineano gli archeologi della soprintendenza, “l’interesse è accentuato dal fatto che allo stesso Nerone è stato attribuito un frammento di iscrizione dedicatoria monumentale, in lettere in bronzo, rinvenuto nelle immediate vicinanze e datato al 60 d.C. L’esistenza presso il teatro bolognese di due importanti elementi onorari dedicati a Nerone non pare casuale ed anzi si collega all’amore dell’imperatore per questa città testimoniata dalla perorazione tenuta in Senato dal giovane Nerone – che fruttò a Bologna una consistente elargizione in denaro per finanziare interventi edilizi – e dai materiali rinvenuti nei livelli della fase di ampliamento del teatro che suggeriscono una datazione alla metà del I sec. d.C.. In definitiva si ritiene assai probabile che l’ampliamento e la ristrutturazione del teatro bolognese siano dovuti proprio al personale e diretto intervento di Nerone in favore della città. Dopo la radicale trasformazione in età neroniana la cavea non dovette più subire interventi strutturali di grande rilievo. Dall’età medio e tardoimperiale le sole modifiche da registrare sono di tipo disgregativo: alla fine del III secolo viene parzialmente spogliato degli arredi di maggior pregio e a partire dalla seconda metà del IV progressivamente demolito per recuperare e reimpiegare le murature esterne in selenite. Alla distruzione dei principali corpi costruttivi e al completo abbandono dell’edificio – concludono – seguì il crollo degli alzati residui e il progressivo interramento dell’invaso della cavea, con spessi depositi di terre nere che in età altomedievale occultarono definitivamente i ruderi del complesso e furono saltuariamente occupati da precarie e deboli strutture insediative in legno”.

Bologna. Ad alcuni anni dalla scoperta in città del più importante cimitero ebraico finora noto in Italia, apre la mostra “LA CASA DELLA VITA. Ori e Storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna” con gioielli in oro, pietre incise, oggetti in bronzo recuperati in più di quattrocento sepolture scavate

Gli scavi archeologici al cimitero ebraico medievale di Bologna hanno rinvenuto 408 sepolture (foto Cooperativa Archeologia)

Bologna racchiusa nelle sue mura nella pianta del Blaeu (1640)

Con le sue 408 sepolture il cimitero ebraico scoperto in via Orfeo a Bologna è il più grande finora noto in Italia. “È la più vasta area cimiteriale medievale mai indagata in città”, avevano raccontato Renata Curina e Valentina Di Stefano, archeologhe della soprintendenza, e Laura Buonamico di Cooperativa Archeologia, alla presentazione della scoperta, “testimone di eventi che hanno radicalmente mutato la storia e la vita di una parte della popolazione bolognese tra il XIV e il XVI secolo. Per 176 anni è stato il principale luogo di sepoltura degli ebrei bolognesi ma dopo le bolle papali della seconda metà del Cinquecento -che autorizzano la distruzione dei cimiteri ebraici della città- sopravvive per secoli solo nel toponimo di Orto degli Ebrei”. E fin da subito l’impegno è stato chiaro da parte della soprintendenza: il cimitero ebraico di via Orfeo a Bologna sarà oggetto e punto di partenza di un progetto di valorizzazione del patrimonio culturale ebraico del capoluogo felsineo sarà oggetto e punto di partenza di un progetto di valorizzazione del patrimonio culturale ebraico del capoluogo felsineo (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/01/02/archeologia-medievale-scoperto-in-via-orfeo-a-bologna-il-cimitero-ebraico-soppresso-450-anni-fa-con-le-sue-408-sepolture-e-il-piu-grande-ditalia-e-il-secondo-in-europa-sara-il-fulcro-di-un/). Sono passati cinque anni dalla fine degli scavi, e finalmente una mostra racconta la storia della comunità ebraica cittadina nei secoli del suo massimo splendore attraverso gli straordinari reperti rinvenuti – come si diceva – in via Orfeo a Bologna, poco lontano dalle mura trecentesche, in uno dei più ampi cimiteri ebraici medievali del mondo.

La locandina della mostra “LA CASA DELLA VITA. Ori e Storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna”

Appuntamento al museo Ebraico di Bologna, giovedì 20 giugno 2019, alle 18.30, per l’inaugurazione della mostra “LA CASA DELLA VITA. Ori e Storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna”, con Guido Ottolenghi, presidente Fondazione Museo Ebraico di Bologna; Cristina Ambrosini, soprintendente Archeologia, belle arti e paesaggio di Bologna; Daniele De Paz, presidente Comunità Ebraica di Bologna. “La Casa della Vita” o Beth ha-Chaim è uno dei modi con cui gli ebrei indicano tradizionalmente il cimitero (Beth ha-kevaroth): “… ti ho posto davanti la vita e la morte … scegli dunque la vita, onde tu viva, tu e la tua progenie” Deuteronomio (30,19). La mostra, aperta dal 20 giugno 2019 al 6 gennaio 2020, curata e organizzata dal museo Ebraico di Bologna e dalla soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, in collaborazione con Comunità Ebraica di Bologna, consente di ripercorrere, in modo globale e sistematico, la storia di una minoranza, dei suoi usi, della sua cultura e delle sue interazioni con la società cristiana del tempo.

Preziosi anelli rinvenuti nell’area del cimitero ebraico di via Orfeo

Anello d’oro recuperato dagli scavi del cimitero ebraico medievale di Bologna (foto Roberto Macrì)

Tra il 2012 e il 2014, gli scavi estensivi condotti dalla soprintendenza in via Orfeo a Bologna, preventivi alla costruzione di un complesso residenziale, hanno prodotto una delle scoperte archeologiche più importanti degli ultimi decenni: il ritrovamento del “perduto” cimitero ebraico medievale della città. Nota alle fonti d’archivio e sopravvissuta nella consuetudine orale – quest’area continua a essere indicata come “Orto degli Ebrei” ben oltre la Bolla Papale del 1569 che ne autorizzava la distruzione – l’area cimiteriale di via Orfeo ha restituito non solo centinaia di sepolture a inumazione perfettamente ordinate in file parallele ma anche straordinarie tracce di vita vissuta. Gioielli in oro di eccezionale fattura e bellezza, pietre incise, oggetti in bronzo recuperati in più di quattrocento sepolture, attestano la presenza a Bologna di una fiorente comunità proficuamente inserita nel contesto urbano e sociale fino a quando l’emanazione di due Bolle Papali la condanna ad abbandonare le città dello Stato Pontificio e ad essere cancellata dalla memoria dei luoghi dove avevano vissuto e operato. Questi reperti, finalmente visibili dopo anni di studi e restauri, sono i protagonisti della mostra “La Casa della Vita. Ori e Storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna”. Una settantina di reperti riaffiorati dal sottosuolo danno testimonianza di un luogo di cui le fonti archivistiche attestavano l’esistenza ma di cui si era perduta ogni traccia, e sollevano interrogativi che ridestano ancora una volta curiosità verso un’epoca tra le più interessanti ed enigmatiche della storia culturale italiana.

Una sala espositiva del museo Ebraico di Bologna

Nel Ventennale del museo Ebraico di Bologna si torna dunque a parlare della presenza ebraica tra Quattro e Cinquecento in uno dei centri più importanti dell’ebraismo italiano. Durante il periodo della mostra, un percorso espositivo diffuso tra musei e istituzioni culturali della città – museo civico Medievale, Biblioteca Universitaria, museo internazionale della Musica, museo del Patrimonio industriale, museo civico del Risorgimento-Certosa di Bologna – consentirà al pubblico di conoscere luoghi, episodi e persone che hanno fatto la storia ebraica di Bologna dipingendo un quadro complessivo di grande respiro e insospettabile ricchezza. Inoltre a breve sarà pubblicato il volume “Il Cimitero ebraico medievale di Bologna: un percorso tra memoria e valorizzazione” curato da Renata Curina e Valentina Di Stefano, tredicesimo della collana Dea (Documenti ed Evidenze di Archeologia), della soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Il volume esce grazie al contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.

Al museo Archeologico di Bologna si presentano le scoperte archeologiche a Claterna e il nuovo museo della Città romana di Claterna (Ozzano Emilia) nell’incontro “Vivere una città romana. Claterna, dallo scavo al Museo”

L’ipotesi di ricostruzione del teatro romano di Claterna (Ozzano Emilia)  (foto Sabap -Bo)

“Vivere una città romana: Claterna”: la locandina

Il foro, il teatro, le domus private e le officine artigianali, e forse anche l’anfiteatro e l’impianto termale: l’antica città romana di Claterna nel territorio di Ozzano dell’Emilia, tra Bologna e Imola, definisce ogni anno di più la sua forma urbis, svelando i propri segreti e confermando le ipotesi ricostruttive proposte nel corso dei vari scavi. Martedì 18 giugno 2019, alle 15.30, nella sala Risorgimento del museo civico Archeologico di Bologna (ingresso da via dei Musei 8), si terrà un incontro di presentazione delle scoperte archeologiche e del nuovo museo della Città romana di Claterna: “Vivere una città romana. Claterna, dallo scavo al Museo”. L’incontro è promosso da soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara in collaborazione con museo della Città romana di Claterna e museo civico Archeologico – Istituzione Bologna Musei. L’ingresso è libero fino a esaurimento posti disponibili.

Sala espositiva del nuovo museo della Città romana di Claterna a Ozzano Emilia (Bo)

In un pomeriggio di studi aperto al pubblico saranno dunque presentati gli esiti di quasi due secoli di ricerche e sondaggi sistematici che hanno permesso di disegnare un quadro pressoché completo dell’area e il museo della Città romana di Claterna, recentemente inaugurato a Ozzano dell’Emilia. Il programma: dopo i saluti di Paola Giovetti, responsabile museo civico Archeologico – Istituzione Bologna Musei, apre gli interventi Marinella Marchesi (museo civico Archeologico – Istituzione Bologna Musei) su “Le prime scoperte a Claterna”. Seguono Claudio Negrelli (università Ca’ Foscari, Venezia) con “Esplorare una città sepolta”, Maurizio Molinari (Centro Studi Claterna “Giorgio Baldella e Aureliano Dondi”) con “L’esperienza di alternanza Scuola-lavoro”. Chiude Renata Curina (soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara) con “Dallo scavo alla valorizzazione. L’apertura del Museo della città di Claterna”.

Veduta aerea dell’area pubblica di Claterna romana (foto Sabap – Bo)

Mosaico a motivi geometrici bianco-neri del complesso termale di Claterna (foto di Cristina Falla)

Ogni campagna di scavo porta con sé nuove sfide e nuove prove. L’integrazione tra ricerche archeologiche tradizionali eseguite in sinergia con l’università Ca’ Foscari di Venezia, prospezioni geomagnetiche condotte dall’università di Siena nel 2018 e mappatura delle tracce aerofotografiche portata avanti in lunghi anni di ricerche ha prodotto un quadro quasi completo dell’area urbana e di parte del suburbio di Claterna. Questi nuovi dati permettono di individuare meglio, tra le tante altre particolarità, tutto il comparto pubblico (compresi alcuni edifici mai individuati prima) e la scansione interna del tessuto urbano di questo centro. Tutte le informazioni raccolte nel corso delle ricerche e una significativa scelta di materiali hanno trovato la giusta collocazione espositiva nel Museo della Città romana di Claterna, inaugurato lo scorso 30 marzo 2019 nel Palazzo della Cultura a Ozzano dell’Emilia.

La città romana di Claterna sorgeva lungo la via Emilia

Dopo l’apertura nel 2010 di uno spazio espositivo dedicato all’area archeologica di Claterna, l’esperienza della mostra/museo maturata all’interno del Progetto Civitas Claterna viene istituzionalizzata ed ereditata dal nuovo Museo che, ampliato e riallestito rispetto alla precedente esposizione, diventa un nuovo elemento attivo nella valorizzazione storico-archeologica del territorio, in sinergia con gli Enti scientifici di riferimento e le associazioni culturali territoriali già operanti in quest’ambito, quali il Centro Studi Claterna “Giorgio Bardella e Aureliano Dondi”. Questa ulteriore fase di musealizzazione consente una più ampia conoscenza e fruibilità da parte di tutti e si pone come una tappa significativa nel lungo percorso di indagine storico-archeologica rivolta al territorio ozzanese e non solo, dedicando il proprio spazio espositivo alle conoscenze acquisite sul sito archeologico di Claterna. L’obiettivo è quello di raccontare le vicende che caratterizzano la storia della città romana di Claterna e del territorio di Ozzano sviluppando, attraverso l’esposizione di reperti e di alcuni materiali particolarmente significativi ed evocativi, un racconto storico completo ed attrattivo che illustra le origini dell’antica città e la sua riscoperta, proseguendo con la struttura urbanistica e le caratteristiche dei principali spazi urbani, pubblici e privati, per terminare con un richiamo alle indagini e ricerche attualmente in corso.

La planimetria degli scavi nell’area archeologica di Claterna (foto Sabap – Bo)

Le ricerche avviate alla fine dell’Ottocento con le prime eccezionali scoperte, la prosecuzione delle indagini con le più moderne tecnologie, l’avvio di ampi progetti di studio e di sperimentazioni di tecniche antiche, il coinvolgimento di studenti di licei impegnati in esperienza di alternanza scuola-lavoro saranno presentate nella giornata di studi al museo civico Archeologico di Bologna, che custodisce i reperti archeologici provenienti dai primi scavi effettuati a Claterna nel XIX secolo e ha concesso in prestito al nuovo Museo uno degli oggetti più significativi della città romana.

Per le Giornate europee dell’archeologia a Bologna giornata di studio “Sotto-Sopra: ricerca archeologica e narrazione del passato”, viaggio trasversale tra i molteplici aspetti dell’attività di tutela archeologica: scavi, valorizzazione, conservazione, produzione pubblicistica ed espositiva, nuove metodologie d’indagine, problematiche del restauro

Gli scavi archeologici al cimitero ebraico medievale di Bologna hanno rinvenuto 408 sepolture (foto Cooperativa Archeologia)

Il manifesto delle Giornate europee dell’Archeologia 2019

Che cos’hanno in comune un abitato d’età protostorica a grande profondità e una necropoli ebraica in pieno centro storico? La storia delle più recenti scoperte archeologiche in Emilia-Romagna offre lo spunto per discutere delle strategie e soluzioni più innovative da adottare. In occasione delle Giornate dell’archeologia in Europa 2019 la soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio di Bologna propone un dibattito aperto tra professionisti, studiosi e rappresentanti delle istituzioni per parlare della sfida principale del lavoro dell’archeologo: ricostruire la storia di un territorio e restituirla ai suoi abitanti… senza perdersi d’animo! L’appuntamento con “Sotto-Sopra: ricerca archeologica e narrazione del passato”, un incontro con archeologi, restauratori e rappresentanti di enti locali moderato dalla soprintendente Cristina Ambrosini, è per venerdì 14 giugno 2019, alle 15.30, a Bologna nel salone d’onore di Palazzo dall’Armi Marescalchi, sede della soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio di Bologna, in via IV novembre n. 5. Ingresso libero fino a esaurimento posti (capienza massima 90 persone). Non saranno Indiana Jones ma anche il loro lavoro è all’insegna dell’imprevisto e dei colpi di scena. Dimenticate i topi da biblioteca o i maniaci di reperti impolverati, se mai lo sono stati: gli archeologi del terzo millennio sono figure interdisciplinari e multitasking, in precario equilibrio tra tutela e progresso, applicazione di normative e strategie di intervento, pianificazione pubblica ed esigenze del mondo privato. Per raccontarlo e raccontarsi, archeologi e restauratori della Soprintendenza propongono un dialogo aperto con il pubblico per illustrare le mille sfaccettature della quotidiana attività di tutela e non solo. L’incontro promosso dalla soprintendenza bolognese vuole essere un viaggio trasversale tra i molteplici aspetti dell’attività di tutela archeologica, dagli scavi alla valorizzazione, dalla conservazione alla ricca produzione pubblicistica ed espositiva, dalle nuove metodologie d’indagine alle problematiche del restauro.

Lo scavo nel 2017 della mansio lungo la via Emilia a Castelfranco Emilia (la romana Forum Gallorum) (foto Sabap-Bo)

La soprintendente Cristina Ambrosini

Partendo dall’illustrazione di alcuni scavi, gli archeologi spiegheranno le principali tematiche che devono quotidianamente affrontare. Lo scavo di una stazione di posta romana (una mansio) a Castelfranco Emilia sarà l’occasione per parlare di archeologia preventiva e di ciò che comporta mentre l’indagine di una terramara a Malalbergo mostrerà le sfide, i problemi e le soluzioni di uno scavo condotto a grandi profondità. Un importante intervento di archeologia privata (lo scavo di un cimitero ebraico medievale in via Orfeo a Bologna) consentirà di illustrare quanto l’integrazione di diverse discipline sia fondamentale per una migliore comprensione dei dati di scavo ma anche come relazionarsi con un’importante comunità religiosa; infine, la pubblicazione dello scavo di via Fondazza a Bologna aiuterà a capire come possono essere riletti e diffusi i risultati di un’indagine condotta trent’anni fa. Si cercherà anche di spiegare come e quanto sia cambiata negli ultimi decenni la professione dell’archeologo, come si sia evoluta in funzione delle “nuove” metodologie d’indagine e del rapporto con esperti di altre discipline, e quanto sia importante la collaborazione con i restauratori, a loro volta impegnati in continui aggiornamenti sulle più innovative soluzioni tecnologiche. Grazie alla presenza del direttore dell’IBC Laura Moro sarà aperta un’ulteriore finestra sul rapporto tra musei, comunità e territorio, con particolare attenzione al delicato tema della restituzione alla collettività del patrimonio archeologico rinvenuto o restaurato tramite mostre, incontri ed eventi ma anche grazie alle pubblicazioni di cui la soprintendenza è particolarmente feconda. Archeologia a tutto tondo, insomma, che non è solo scoprire, conoscere e proteggere ma continuo confronto con l’applicazione di norme, l’adozione delle pratiche più virtuose e l’ascolto dei propri interlocutori, siano enti pubblici, privati cittadini, terzo settore o sponsor.

I contrasti dell’archeologia: in questa foto dello scavo degli anni Ottanta in Via Fondazza, la grandezza del passato che emerge dal sottosuolo si confronta e dialoga con il degrado degli edifici in superficie (foto Sabap-Bo)

Lo scavo in profondità della terramara di Malalbergo (foto Sabap-Bo)

Intenso il programma dell’incontro “Sotto-Sopra: ricerca archeologica e narrazione del passato”. Apre, alle 15.30, la soprintendente Cristina Ambrosini introducendo la giornata: obiettivi, ruolo e lavoro della soprintendenza archeologica; quindi iniziano gli interventi. Alle 15.45, Laura Moro, direttore IBC, su “Il ruolo dell’IBC nel rapporto tra Musei-comunità-territorio”; 16, Chiara Guarnieri, archeologa SABAP-BO, su “La professione dell’archeologo”; 16.15, Monica Miari, archeologa SABAP-BO, su “Caso per caso. Ogni scavo è diverso: norma, contesto, strategia d’intervento”; 16.30, Sara Campagnari, Valentina Manzelli, archeologhe SABAP-BO, su “Archeologia preventiva: la mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia”; 16.45, Monica Miari, Tiziano Trocchi, Rossana Gabusi, archeologi SABAP-BO, su “Archeologia in profondità: un abitato del II Millennio a Ponticelli di Malalbergo”; 17.15, Renata Curina, Valentina Di Stefano, archeologhe SABAP-BO, su “Archeologia privata: il cimitero ebraico medievale di via Orfeo a Bologna”; 17.30, Diana Neri, direttore del museo Archeologico di Castelfranco Emilia, su “Archeologia recuperata: lo studio dello scavo di Via Fondazza a Bologna, un’indagine degli anni ’80”; 17.45, Mauro Ricci, Virna Scarnecchia, restauratori SABAP-BO, su “Il lavoro dei restauratori su oggetti e aree archeologiche”; 18.05, Annalisa Capurso, archeologa SABAP-BO, su “Le pubblicazioni archeologiche della Soprintendenza”. Alle 18.10, chiude la giornata il dibattito “Condividere la cultura con la collettività: incontri, eventi, mostre in corso o appena concluse”.

Com’era organizzata una mansio romana? Come ci si viveva? La risposta dall’eccezionale scoperta a Castelfranco Emilia nella mostra “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi. La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia”

Lo scavo nel 2017 della mansio lungo la via Emilia a Castelfranco Emilia , la romana Forum Gallorum (foto Sabap-Bo)

Il museo civico Archeologico “Anton Celeste Simonini” di Castelfranco Emilia

La recente scoperta di una mansio romana lungo la via Emilia, a Castelfranco Emilia in direzione Modena, con diverse fasi strutturali a partire dall’epoca repubblicana e molti reperti di inestimabile valore storico ha fornito l’occasione per riscoprire il territorio castelfranchese anticamente posto fra le colonie di Mutina e Bononia e riqualificare alcuni servizi offerti dal museo civico Archeologico “A.C. Simonini”. A questa importante scoperta è dedicata la mostra curata da Sara Campagnari, Francesca Foroni e Diana Neri “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi. La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia”, aperta fino al 10 giugno 2019 al museo civico Archeologico “Anton Celeste Simonini (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2019/03/24/una-sosta-lungo-la-via-emilia-tra-selve-e-paludi-apre-a-castelfranco-emilia-la-mostra-sulla-mansio-di-forum-gallorum-eccezionale-recente-scoperta-lungo-la-via-emilia-rimasta-in-vita-per/). La mostra è promossa da soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara e dal Comune di Castelfranco Emilia in collaborazione con università di Bologna, università di Modena e Reggio Emilia, IBC Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna e associazione culturale museale Forum Gallorum. Il catalogo scientifico “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi. La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia” a cura di Sara Campagnari, Francesca Foroni e Diana Neri contiene la pubblicazione integrale dello scavo e del materiale rinvenuto. L’importante ritrovamento è avvenuto nell’estate 2017 quando gli scavi effettuati dalla soprintendenza nell’ambito delle procedure di verifica preventiva dell’interesse archeologico in due lotti adiacenti situati alla periferia ovest di Castelfranco Emilia hanno intercettato un edificio affacciato sul tracciato dell’attuale via Emilia (all’intersezione con via Valletta), sostanzialmente coincidente con quello di epoca romana, e le infrastrutture ad esso correlate (canali e condotta in laterizi). Il prosieguo degli scavi, terminati nel dicembre 2018, ha evidenziato l’ampia planimetria di questo edificio che raggiunge la massima espansione nella seconda metà del I sec. d.C. (più di mille metri quadrati) e che per l’articolazione degli ambienti, la relazione con la consolare, le opere di drenaggio e la datazione è stata identificata con un’antica stazione di sosta, una mansio. Lo scopo della mostra e degli studi correlati è di fornire una base documentaria che possa costituire un utile spunto di riflessione nel quadro per certi versi ancora lacunoso degli studi sulle strutture di epoca romana a servizio della viabilità. A tale scopo sono particolarmente significativi i confronti con le antefisse da santuario e le lucerne recuperate nella Mutatio Ponte Secies di Cittanova e la testina di celta in terracotta proveniente dalla probabile mansio dell’area del Compito a San Giovanni sul Rubicone. La mostra archeologica espone nelle tre sale di Palazzo Piella 163 reperti che affiancano la collezione permanente del Museo “A.C. Simonini”. Accanto alla tradizionale esposizione del museo, grazie alle tecnologie multimediali, si è voluto promuovere ulteriormente la conoscenza del patrimonio e delle risorse potenzialmente correlate.

La posizione della mansio di Castelfranco Emilia lungo la Via Emilia (foto Sabap-bo)

L’edificio rimase in vita per circa sei secoli, dall’inizio del II sec .a.C. al V sec. d.C., e venne rifatto in media ogni cento anni senza mutare nella sostanza la configurazione degli ambienti. “La pianta rimase essenzialmente rettangolare e centripeta”, spiegano gli archeologi della soprintendenza, “e la conservazione delle partizioni interne, corrispondenti alle diverse destinazioni d’uso, testimonia il perfetto adeguamento dell’edificio alle esigenze che avevano portato alla sua costruzione. Quello che invece cambia costantemente è la configurazione e la posizione delle infrastrutture poste tra l’edificio e la via Emilia, che vengono spostate, allargate e strutturate diversamente pur continuando a mantenere la funzione di drenaggio della carreggiata. La peculiare posizione dell’edificio, a stretto contatto con la consolare e a circa 2,5 km dal fiume Panaro, e la specifica organizzazione degli ambienti – piccole stanze per il riposo disposte attorno a uno spazio aperto, con aree di servizio e alloggiamenti per gli animali – richiamano immediatamente, seppure con importanti differenze, il complesso della mutatio ponte Secies individuato a ovest di Mutina, a Cittanova (del cui studio da parte di Donato Labate si dà conto nel catalogo scientifico della mostra), e ne propongono l’identificazione in una mansio, edificata probabilmente in contemporanea con il primo impianto della via Emilia di Lepido. L’edificio è ubicato al di fuori o ai margini occidentali dell’abitato di Forum Gallorum, a poca distanza dall’area di necropoli di Madonna degli Angeli, e come confermano le fonti – disponibili dall’età imperiale – le stazioni di sosta relative alla vehiculatio, il servizio di trasporto statale, si trovavano sempre in posizione extraurbana e adiacente la strada. A differenza di quanto riscontrato per la mutatio di Cittanova e numerosi altri luoghi di sosta correlati al cursus publicus, la mansio di Forum Gallorum non presenta una relazione diretta con aree destinate al culto, né all’interno dell’edificio né in zone limitrofe. Va però ricordata a non troppa distanza la testimonianza certa di aree di culto in relazione ai fontanili a sud della via Emilia presenti nell’area di Prato dei Monti, a est dell’attuale centro abitato, e la suggestiva presenza a sud-ovest della mansio di un’area di risorgive, i fontanili di Sant’Anna. Quello che appare certo è che, fin dalle fasi di età repubblicana, questo tratto di via Emilia sia stato oggetto di un’attenzione particolare per quanto riguardava il drenaggio delle acque che scorrevano in abbondanza nel territorio, come attesta il grande canale della larghezza di oltre 4 metri realizzato nella fase di primo impianto del II sec. a.C.”.

Dettaglio della Tabula Peuntingeriana con la via Emilia e il vicus di Forum Gallorum

“Un altro dato interessante – continuano gli archeologi – riguarda il tenore di vita degli abitanti della mansio e degli ospiti temporanei che, a dispetto dell’apparente semplicità delle strutture rinvenute, doveva essere di tutto rispetto, come attesta in particolare la qualità della suppellettile da mensa che annovera, oltre alle numerose classi ceramiche attestate, una buona quantità di vasellame in vetro, particolarmente concentrato tra l’età augustea e il II sec. d.C., e un raro esemplare coppa in ceramica invetriata. Ulteriore elemento a conferma della funzione di luogo di sosta bene inserito in un vivace contesto commerciale è il cospicuo quantitativo di anfore presenti sia nell’edificio che nel territorio di Forum Gallorum sin dalle prime fasi repubblicane. La presenza di una mansio a Forum Gallorum è sicuramente confermata dalla Tabula Peutingeriana che costituisce, con l’Anonimo Ravennate, la principale testimonianza dell’esistenza del vicus, posto in un importante snodo itinerario, la cui funzione permane evidentemente anche in epoca medievale”.

Lucerne fittili romane in mostra a Castelfranco Emilia

L’edificio romano. FASE 1. In un momento iniziale del II secolo a.C. viene impiantato un fabbricato di forma quadrangolare e dell’estensione di almeno 719 mq, separato dalla via Emilia tramite un ampio canale largo oltre 4 metri, a servizio della via Emilia. I corpi di fabbrica che lo compongono si affacciano su un cortile interno pavimentato in ciottoli. Il sito indagato si trova circa 400 metri a sud-est dell’abitato etrusco del Forte Urbano che alla metà del IV sec. a.C. risulta già destrutturato. Provengono da siti circostanti significative attestazioni di ceramica di tradizione non locale, attribuibile alla cultura ligure o celto-ligure, in molti casi in continuità con le fasi repubblicane, almeno per tutto il II sec. a.C. La prima opera di drenaggio, chiaramente riferibile al tracciato della via Emilia, è costituita da un ampio canale scavato a brevissima distanza dall’edificio, a nord della consolare. Sulla base dei materiali dei riempimenti è possibile ipotizzare una datazione del canale alla fase più antica della consolare, dunque all’epoca dei primi interventi dovuti a Marco Emilio Lepido.

La “tabula lusoria”, ricavata da un frammento di laterizio, trovata nello scavo della mansio di Castelfranco Emilia (foto Sabap-Bo)

L’edificio romano. FASE 2. Si datano dalla metà del I secolo a.C. il primo rifacimento dell’edificio, ora dell’estensione accertata di 833,60 mq, e la sostituzione del canale della via Emilia con una condotta in laterizio. Vengono mantenuti sostanzialmente immutati e sfruttati come fondazioni i perimetrali dei corpi di fabbrica precedenti, ad eccezione della parte settentrionale che vede l’inserimento di una nuova area cortiliva alla quale si collega un vano aperto verso l’esterno. “La migliore leggibilità della suddivisione in ambienti – spiegano gli esperti della soprintendenza – ci consente di avanzare alcune ipotesi verosimili sulla funzionalità delle diverse aree della mansio. Ad eccezione dei cortili, tutti gli ambienti presentano pavimentazioni in battuto, non sono stati rinvenuti elementi di rivestimento pavimentale e parietale, e gli alzati sembrano essere in materiale deperibile, telai lignei rivestiti in argilla cruda impostati su assi o travi. L’edificio era dunque connotato da una forte essenzialità degli ambienti, probabilmente motivata dalla spiccata vocazione essenzialmente logistica. La presenza di due vani scala, consente di ipotizzare almeno per un corpo di fabbrica la presenza di un piano soprelevato mentre attorno a un cortile doveva correre un ballatoio in legno. I vani posti sul retro, che si differenziano per le notevoli dimensioni e l’orientamento leggermente obliquo, avevano probabilmente funzione di servizio e, tenendo conto delle loro ampie dimensioni, se ne ipotizza un probabile utilizzo quali depositi o recinti coperti. La parte riservata alle attività quotidiane era costituita da un corpo di fabbrica organizzato in una serie di piccoli vani dove preparare i pasti: da qui provengono una notevole quantità di frammenti di vasellame da cucina e da mensa e in uno di questi è stato individuato un focolare in mattoni. Un vano di maggiori dimensioni sembra invece aver ospitato molteplici attività quotidiane, fra le quali sicuramente anche il consumo del cibo, come attestano i frammenti di lucerne, i pesi da telaio verticale e un quadrans in piombo per le attività di pesatura rinvenuti in questa zona. Forse questo ambiente, vicino alla cucina e dunque ben riscaldato, ospitava anche i momenti di svago di chi transitava nell’edificio: parrebbero indiziarlo il rinvenimento di due pedine da gioco e di una sorta di tabula lusoria ricavata da un frammento laterizio”.

Rilievo romano con un carro con passeggeri vicino a una mansio (foto Graziano Tavan)

Per le particolari dimensioni, gli ambienti del corpo di fabbrica occidentale sono compatibili con l‘identificazione in stanze per la notte, probabilmente riscaldate all’interno da bracieri dal momento che non sono state trovate tracce di punti di fuoco sui battuti pavimentali; la capacità ricettiva veniva raddoppiata dalla presenza di un piano superiore. Il corpo di fabbrica affacciato sulla via Emilia presenta ambienti ben distinti di cui uno, quello a ovest, più grande degli altri, era probabilmente un vano di servizio e dispensa (nella fase successiva saranno inserite nel pavimento due anfore). Qui è stata rinvenuta una porzione di mola manualis (macina manuale) e di un frammento di cote. Per gli altri cinque piccoli ambienti (sei nella fase successiva) caratterizzati da dimensioni modulari e ridotte, vista la loro collocazione sul fronte sud, è stata proposta un’identificazione in stalle per il ricovero temporaneo degli animali da trasporto che sostavano nella mansio. “Secondo le fonti latine, in particolare Catone, Varrone e Columella, le aree più adatte alla stabulazione dovevano essere orientate a sud ed essere ubicate in luoghi caldi e vicino alla cucina; inoltre, nel caso dell’equile (la stalla per i cavalli), era consigliabile la presenza di praesepia (cioè di recinzioni per tenere gli animali separati) oltre a una buona e costante pulizia delle stalle. Nel caso della mansio di Castelfranco l’incrocio dei dati materiali con queste indicazioni dalle fonti parrebbe avvalorare la possibile ubicazione dell’equile sul fronte sud. Per confermare ulteriormente questa ipotesi, si è proceduto con le analisi chimiche e faunistiche sui campioni di terreno prelevati dai battuti pavimentali degli ambienti ipoteticamente adibiti a stalle e – per confronto – dagli altri vani dell’edificio, nonché dalle immediate adiacenze della mansio; in particolare, si sono cercati accumuli di fosforo indicativi della presenza continuativa di animali e di esseri umani. La notevole concentrazione di fosfati rilevata in tutti i campioni è compatibile con la presenza generica di aree di stabulazione e con la presenza di equini riscontrata nello studio dei resti faunistici”.

Il tracciato della via Emilia, strada consolare romana, da Ariminum a Placentia

L’edificio romano. FASE 3. In questa fase, che inizia con la seconda metà del I sec. d.C., l’edificio raggiunge la massima estensione (mq 1076,70), mediante l’aggiunta a Est di un cortile recintato e di un nuovo corpo di fabbrica tripartito, sporgente verso un ampio spiazzo inghiaiato realizzato dopo la defunzionalizzazione e il tombamento della condotta in laterizio. Più a Sud viene aperto un nuovo canale a servizio della via Emilia. FASI 4a e 4b. Dopo la metà del II sec. d.C. intervengono solo alcune modeste ma significative variazioni alla struttura, come un vano adibito a un’imprecisata funzione produttiva e piccoli interventi di manutenzione che paiono indicare una mutata attenzione nei confronti dell’edificio; in ogni caso, a partire dal V secolo, il complesso è già in disuso e oggetto di uno smantellamento sistematico che si conclude al massimo entro la prima metà del VI secolo.

Il complesso abbaziale benedettino di Nonantola

La rioccupazione tardo medievale. In un momento non precisabile dell’età medievale il sito viene nuovamente occupato in maniera stabile. Le poche evidenze archeologiche individuate restituiscono le forme di un edificio di dimensioni più ridotte rispetto all’età romana (almeno mq 125,21), parallelo alla via Emilia di cui segue l’orientamento, con almeno due partizioni interne e a sud e un ampio ambiente interpretabile come portico. Rimangono certi lo stretto rapporto con la strada, della quale sono stati individuati lacerti del piano inghiaiato, e la presenza di un canale parallelo al ciglio nord della stessa. “Nonostante la parzialità delle tracce materiali -comunque sufficienti a definire la nuova struttura come dotata di un certo impegno strutturale e a collocarne la demolizione entro il XIV secolo- è possibile tentare alcune ipotesi relative alla sua funzionalità a partire da alcune considerazioni. La presenza dell’ampio vano porticato rivolto verso la via Emilia, unita alle ampie dimensioni dell’ambiente adiacente a Nord, fanno pensare a una funzione di accoglienza confrontabile con il non lontano ospitale di San Bartolomeo a Spilamberto, fondato entro il 1162 ed emanazione indiretta dell’abbazia di Nonantola lungo il tracciato della strada che collegava Nonantola con il Tirreno costeggiando la valle del Panaro. La strada fu voluta del re longobardo Astolfo per ripristinare le comunicazioni fra la Toscana e la pianura padana centrale e garantirne non solo un’adeguata attività di assistenza ai viaggiatori ma anche un efficace controllo su terre di recente conquista. L’edificio medievale individuato in via Valletta si colloca in prossimità di tale tracciato o nelle sue immediate vicinanze, lungo la Via Emilia e a poca distanza dal punto in cui il Torbido la attraversa, presenta caratteristiche planimetriche coerenti con quelle delle strutture ospitaliere e nasce sopra un edificio di età romana pensato per l’ospitalità. Perché non pensare che possa avere ereditato la funzionalità romana per portarla fino alle soglie dell’età moderna?”.

La terramara di Ponticelli di Malalbergo: a quattro anni dalla scoperta viene presentato un libro che illustra lo scavo e i risultati sull’abitato del II millennio a.C. e le successive trasformazioni del territorio

La locandina della serata di presentazione del libro “Ponticelli di Malalbergo. Un abitato del II millennio a.C. e le successive trasformazioni del territorio”

Dalla scoperta a Ponticelli di Malalbergo (Bo) della terramara del II millennio a.C. (“intercettata” nel 2015 dal cantiere di un metanodotto della Snam) alle successive trasformazioni del territorio: è quanto descritto nel libro “Ponticelli di Malalbergo. Un abitato del II millennio a.C. e le successive trasformazioni del territorio” a cura di Rossana Gabusi, Monica Miari e Tiziano Trocchi che sarà presentato martedì 14 maggio 2019, alle 20.30, in sala Zucchini di piazza Caduti della Resistenza n. 1 a Malalbergo (Bo). Il volume, edito nel 2018 per i tipi di Ante Quem di Bologna, fa parte della collana DEA – Documenti ed evidenze di Archeologia (n. 11). La presentazione, a ingresso libero e gratuito, è promossa da soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, Comune di Malalbergo, HYDRIA associazione di promozione sociale-archeologica e gruppo archeologico “Il saltopiano” di San Pietro in Casale, con la collaborazione di Snam. Intervengono alla serata due rappresentanti dell’amministrazione comunale, gli archeologi della soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, Rossana Gabusi, Monica Miari e Tiziano Trocchi, curatori del volume, e Claudio Calastri di Ante Quem srl.

Disegno ricostruttivo di una tipica Terramara con il villaggio fortificato circondato da un terrapieno o un fossato

La terramara di Ponticelli di Malalbergo (Bo) a fine scavo

In località Ponticelli di Malalbergo, la Snam doveva attraversare un canale di regolamentazione delle acque e per fare ciò sono state realizzate due ampie e profonde buche ai lati per consentire il passaggio delle tubature al di sotto dell’alveo. Questa operazione, effettuata tra l’estate 2015 e la primavera 2016 sotto la direzione scientifica di Paolo Boccuccia, ha permesso di intercettare ed indagare per oltre 400mq – e a una profondità media di circa 5,50 m dal piano di calpestio – i resti di una terramara databile, a un primo esame, a un periodo compreso tra il XIV e il XII sec. a.C. “Le Terramare”, spiegano gli archeologi della soprintendenza, “rappresentano una delle civiltà più complesse dell’Europa del II millennio a.C., un fenomeno economico e sociale di una tale portata storica da non aver precedenti non solo in Italia ma nemmeno in buona parte del continente. Nessuna società aveva mai prodotto in così pochi secoli (dal XVII al XII a.C.) un impatto così profondo sul territorio, in questo caso l’ampia e fertile pianura padana, trasformandolo radicalmente in un paesaggio “moderno”: un paesaggio in cui l’opera umana, dai villaggi -con un’organizzazione spaziale interna molto ben definita- alle fortificazioni, dai luoghi sacri alle infrastrutture ad uso agricolo, incide profondamente sulla componente naturale. Dal territorio centrale della pianura attraversata dal Po, abbiamo testimonianze di decine e decine di villaggi. Ma la presenza di una terramara all’interno del territorio comunale di Malalbergo rappresenta una novità nel panorama delle nostre conoscenze in quanto viene a colmare un vuoto nella distribuzione geografica di tali insediamenti. Si può ora ipotizzare che tale assenza fosse da attribuire prevalentemente alla loro profondità rispetto al piano di campagna attuale a causa della spessa copertura dovuta all’apporto di terreno alluvionale legato alle attività del bacino del Po e dei suoi affluenti”. L’ottimo stato di conservazione del sito -dovuto alla profondità alla quale è stato rinvenuto il deposito archeologico- ha consentito anche di indagare le ultime fasi di vita dell’abitato i cui resti raramente sono conservati a causa dell’uso del suolo nelle epoche successive: ciò potrà contribuire a far luce sul periodo finale della civiltà terramaricola tra XII e XI sec. a.C.

Forlimpopoli (Forlì-Cesena), al museo Archeologico incontro sul cibo dalla preistoria all’età moderna. Tutto il calendario delle “Conversazioni al Maf”. Ultimi giorni della mostra “uniCIBO, Storia di cibo dal Neolitico al Paleolitico”

Al museo Archeologico di Forlimpopoli (Forlì-Cesena) ciclo di incontri sul cibo dalla preistoria all’età moderna

Tutto quello che avreste voluto sapere sul cibo, dalla Preistoria al XIX secolo: dall’archeologia culinaria alla simbologia della preparazione, rituali e curiosità sull’uso e l’evoluzione del cibo, elemento di condivisione per eccellenza. È l’obiettivo del ciclo di incontri “Conversazioni al MAF”, a cura di Silvia Bartoli e Mirko Traversari, dedicati ai temi del cibo e dell’alimentazione nel mondo antico con l’intento di offrire diversi punti di vista e nuovi spunti di riflessione. Primo appuntamento al museo Archeologico “Tobia Aldini” di Forlimpopoli (Forlì-Cesena) venerdì 10 maggio 2019, alle 20.15, con “Il cibo tra necessità, condivisione e ostentazione dalla Preistoria all’età moderna”, promossa dal MAF Museo Archeologico di Forlimpopoli, in collaborazione con la soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, in concomitanza con gli ultimi giorni della mostra “uniCIBO, Storia di cibo dal Neolitico al Paleolitico”, ospitata nelle sale del MAF fino al 19 maggio 2019.

Locandina della mostra “uniCIBO. Storia di cibo dal Neolitico al Paleolitico”

La mostra “uniCIBO, Storia di cibo dal Neolitico al Paleolitico”, a cura di Maria Giovanna Belcastro, Silvia Bartoli e Mirko Traversari, è stata promossa nell’ambito dell’Anno del Cibo italiano, sancito dal MIBAC nel 2018. L’esposizione illustra come si può ricostruire la dieta nelle popolazioni del passato attraverso l’esposizione di pezzi originali e di pannelli esplicativi, soffermandosi sui metodi e sui cambiamenti alimentari con particolare attenzione alle fasi di transizione. Quanto esposto è frutto delle attività di ricerca svolte in questo ambito dal Laboratorio di Bioarcheologia e osteologia forense dell’Università degli Studi di Bologna. “Mangiare è vitale, è conviviale, è buono, è bello”, spiegano i curatori. “Dalla necessità alla sublimazione – la storia dell’uomo e della sua alimentazione attraverso una documentazione insolita: ossa, denti, semi e piante. L’uomo circa 10.000 anni fa attua la più grande rivoluzione di tutti i tempi. Cambia radicalmente il suo rapporto con l’ambiente, con gli animali, con le piante, con i suoi simili, cambia radicalmente la sua visione del mondo. Tutti noi (o quasi) oggi siamo eredi di quei cambiamenti. Da lì siamo partiti per arrivare oggi alle nuove transizioni tecnologiche. Ci sono cibi antichi e cibi moderni, cibi consueti e cibi insoliti, cibi consentiti e cibi proibiti, cibi sani e cibi dannosi alla salute, cibi semplici e cibi trasformati, ma tutti ricavati da piante, semi, radici, tuberi, terra, piccoli e grandi animali, uomini!….anche uomini. L’antropofagia ha attraversato tutta la storia dell’uomo per fame, per odio, per amore, per caso, per celebrare momenti speciali e importanti…”.

L’archeologa Cinzia Cavallari

Venerdì 10 maggio 2019, al Maf, l’archeologa Cinzia Cavallari e la storica dell’arte Anna Stanzani, entrambe funzionarie della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio di Bologna, propongono un percorso per immagini commentate sul tema dell’alimentazione e della “liturgia” dei pasti. Nel corso della Preistoria, da un’economia basata sulla caccia e la raccolta dei frutti spontanei si passa, a seguito della scoperta dell’agricoltura e dell’allevamento, a un cambiamento radicale: di fatto il focolare domestico diventa simbolo di famiglia e di comunità. L’alimentazione accompagna la storia dell’uomo in tutte le sue sfaccettature, tra necessità di sostentamento a strumento di ostentazione di stato sociale. Pasti frugali, banchetti sontuosi in età romana e medievale, mutazioni del gusto, mode, sfruttamento delle risorse naturali, cucine, vasellame da mensa e contenitori per la cottura e la conservazione dei cibi costituiranno un’originale chiave di lettura per comprendere l’evoluzione delle società antiche, medievali e post-medievali. Per l’età moderna, si aprirà una finestra particolare: quali sono i cibi e le suppellettili messi in tavola dai pittori? E quali sono le occasioni principali per rappresentare il cibo e i temi conviviali? Banchetti sacri e profani, cucine e osterie, nature morte e mercati saranno il filo conduttore di un viaggio nella civiltà della tavola.

La locandina del ciclo di incontri “Conversazioni al Maf”

Il ciclo “Conversazioni al Maf” continua fino al 24 maggio 2019. Prossimi incontri: venerdì 17 maggio, alle 20.30, con Massimo Montanari, storico, università di Bologna, presidente Comitato scientifico Casa Artusi, su “Crudo, cotto, cucinato. Pratiche alimentari fra natura e cultura”; venerdì 24 maggio, alle 20.30, con Donata Luiselli, antropologa, università di Bologna – Campus di Ravenna, su “Dieta, clima e infezioni nel passato: che eredità nel presente degli Italiani?”. Tutte le conferenze si tengono nella sala delle Anfore del MAF e sono a ingresso libero e gratuito fino ad esaurimento posti. Info 0543 748071 (venerdì 9-13, sabato e domenica 10-13 e 15.30-18.30); info@maforlimpopoli.ithttp://www.maforlimpopoli.it

Faenza mette in mostra i ricchi pavimenti a mosaico delle domus romane con il progetto espositivo “Archeologia nella corte di Palazzo Mazzolani“

Mosaico policromo con svastica realizzata con treccia ed emblemata multipli (III secolo d.C.) scoperto a Faenza in via Azzo Ubaldini 4 nel 1896, già conservato nel Lapidario Comunale

La città di Faenza, di fondazione romana, conserva un patrimonio archeologico fra i più importanti dell’Emilia-Romagna, frutto dei numerosi ritrovamenti. Poco meno di due anni fa, l’atrio di Palazzo Mazzolani, storico edificio del primo Settecento faentino, è stato oggetto di un importante intervento di riqualificazione che ha reso visibili al suo interno una selezione di reperti archeologici faentini. Ora il Rotary Club Faenza ha promosso “Archeologia nella corte di Palazzo Mazzolani “, un progetto per rendere visibili in modo permanente i mosaici romani ritrovati in città: un museo di nuova concezione in un ambiente visibile, ma non visitabile, che accoglie una selezione dei mosaici romani di Faenza, un luogo che va incontro alla città e che rappresenta un modello replicabile per dare lustro ai tesori nascosti della storia faentina. L’inaugurazione giovedì 11 aprile 2019, alle 18, nella corte di Palazzo Mazzolani, in corso Mazzini n. 93 a Faenza (Ra). Intervengono Tiziano Rondinini, presidente Rotary Club Faenza; Giovanni Malpezzi, sindaco di Faenza; Giorgio Cozzolino, soprintendente Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini; Michele De Pascale, presidente Provincia di Ravenna; Massimo Caroli, presidente ASP Azienda Servizi alla Persona della Romagna Faentina; Chiara Guarnieri, archeologa della soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara; Massimo Isola, assessore Cultura Comune di Faenza; Ennio Nonni, dirigente Unione Romagna Faentina.

Il logo del progetto “Archeologia nella corte di Palazzo Mazzolani“

L’esposizione storico-cronologica dei mosaici romani, curata dalla soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini in collaborazione con la soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, restituisce il quadro di una città non solo ricca ed elegante ma soprattutto all’avanguardia per qualità, tecnica e cultura. Sono esposti alcuni dei più importanti pavimenti di età romana (dal I al VI secolo d.C.) rinvenuti nel corso di scavi archeologici a Faenza, un dolio (contenitore in genere interrato che serviva alla conservazione delle granaglie) e un gruppo di anfore usate per il trasporto e la conservazione di olio, vino e salse.

Due esempi di mosaici esposti nella corte di Palazzo Mazzolani, da domus scoperta in Faenza nel 1899

Nella parte orientale di Faventia, nei primi secoli dell’Impero, erano presenti domus di vasta estensione, caratterizzate dalla presenza di mosaici estremamente raffinati. Ne sono un esempio le porzioni di pavimentazioni nn. 5, 6, 7, 9, 1O, 11, le prime tre scavate nel 1993 e le altre scoperte nel 1899. Solo attraverso uno studio attento delle caratteristiche di questi pavimenti si è potuto appurare che facevano parte di un’unica, estesa abitazione. A questa domus appartenevano anche altri due pavimenti a mosaico, integri, attualmente esposti a TAMO – Ravenna. Per le zone residenziali e di rappresentanza della domus veniva utilizzato il mosaico, sia con una decorazione ripetitiva e continua, chiamata per questo motivo “a tappeto” (ad es. n. 12), sia utilizzando riquadri (emblemata) con raffigurazioni più o meno complesse (ad es. n. 13). In questo secondo caso il committente sceglieva temi legati alla moda del tempo o che potevano esaltare in modo allusivo la sua figura o la sua ospitalità. In alcuni casi i pavimenti erano realizzati in marmi colorati, con raffigurazioni geometriche (opus sectile). Oltre al mosaico, in età romana per le pavimentazioni erano utilizzati diversi materiali; in alcuni ambienti residenziali, soprattutto tra il II sec. a.C. e il I sec. d.C. veniva impiegato anche il battuto di cocciopesto (ad es. n. 8) sia decorato con frammenti marmorei distribuiti disordinatamente, sia a formare delle raffigurazioni geometriche o in taluni casi privi di decorazione. Nelle zone di maggiore utilizzo erano impiegate le pavimentazioni in laterizio (ad es. n. 2) realizzate in varie fogge: con mattoncini posati a spina pesce, a coltello o di piatto oppure conformati ad esagonette, rombi, talvolta decorati con tessere in pietra. In età tardo antica (IV-VII secolo d.C.) la città di Faenza subì l’influenza di Ravenna, divenuta capitale nel 402 d.C. Per questo motivo vennero costruite residenze di rappresentanza di vasta estensione e riccamente decorate con mosaici policromi. Ne sono testimonianza le pavimentazioni rinvenute in particolar modo nell’area a Nord-Est della città come le nn. 12, 14 e 19, appartenenti a un unico complesso abitativo databile attorno al V sec. d.C., o il grande mosaico scoperto in piazza Martiri della Libertà (n. 16) pertinente a un ambiente di m 14×8.

Esempio di mosaico recuperato dal pavimento di una domus con la tecnica dello strappo

I manufatti esposti sono un interessante repertorio di storia del restauro musivo legato alla conoscenza e al gusto dei tempi. I mosaici restaurati a fine ‘800 sono testimoni dell’interesse esclusivo per aspetti stilistici ed iconografici, con distacchi da scavo in porzioni a massello (nn. 9 -11). I mosaici già esposti nei primi decenni del ‘900 presentano successive rimozioni di alcuni motivi decorativi giudicati evocativi del regime politico appena trascorso (n. 13). I pavimenti musivi rinvenuti e restaurati negli anni ’60 – ’70 del ‘900 sono testimonianza dell’avvento delle malte cementizie impiegate come nuovo supporto dei tessellati rimossi da scavo con la tecnica dello strappo (nn. 18, 19). Le estese superfici musive sono il risultato degli interventi di restauro eseguiti negli anni ’90 del ‘900 che recuperano l’interezza delle superfici pavimentali e utilizzano nuovi supporti alleggeriti costituiti da pannelli alveolari in alluminio (nn. 5 – 8).

“Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi”: apre a Castelfranco Emilia la mostra sulla mansio di Forum Gallorum, eccezionale recente scoperta lungo la via Emilia, rimasta in vita per quasi 600 anni dal II sec. a.C. al V d.C.

Lo scavo nel 2017 della mansio lungo la via Emilia a Castelfranco Emilia (la romana Forum Gallorum)

Il museo civico Archeologico “Anton Celeste Simonini” di Castelfranco Emilia

È rimasta in vita per circa seicento anni, dall’inizio del II sec. a.C. al V sec. d.C.: è la mansio scoperta di recente lungo la via Emilia, a Ovest dell’abitato di Castelfranco Emilia, la romana Forum Gallorum. Ad essa è dedicata la mostra curata da Sara Campagnari, Francesca Foroni e Diana Neri “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi. La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia” che prenderà il via al museo civico Archeologico “Anton Celeste Simonini” sabato 13 aprile 2019: l’inaugurazione sarà alle 17.30. La mostra, che rimarrà aperta fino al 10 giugno 2019, è promossa da soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara e dal Comune di Castelfranco Emilia in collaborazione con università di Bologna, università di Modena e Reggio Emilia, IBC Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna e associazione culturale museale Forum Gallorum. Il catalogo scientifico “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi. La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia” a cura di Sara Campagnari, Francesca Foroni e Diana Neri contiene la pubblicazione integrale dello scavo e del materiale rinvenuto. È il volume 12 della Dea, Documenti ed Evidenze di Archeologia, collana della soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Oltre a mappe e installazioni multimediali, la mostra espone 163 reperti che danno conto di come, a dispetto della apparente semplicità delle strutture rinvenute, il tenore di vita degli abitanti della mansio e degli ospiti temporanei fosse di tutto rispetto: suppellettile da mensa di elevata qualità, vasellame in vetro e un raro esemplare coppa in ceramica invetriata. Ulteriore elemento a conferma di un luogo di sosta bene inserito nel vivace contesto commerciale è il cospicuo quantitativo di anfore presenti nell’edificio, così come nel territorio di Forum Gallorum, sin dalle prime fasi repubblicane.

Aerofotogrammetria della mansio di Castelfranco Emilia e moneta proveniente dallo scavo nelal locandina di presentazione della mostra “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi”

La mostra “Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi. La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia” sarà presentata in anteprima giovedì 28 marzo 2019, alle 20.30, nella sala “Gabriella Degli Esposti” della Biblioteca Comunale in piazza della Liberazione a Castelfranco Emilia (Mo). Interverranno Sara Campagnari e Valentina Manzelli, archeologhe della soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara; Diana Neri, direttrice del Museo Civico Archeologico “A. C. Simonini” di Castelfranco Emilia; Roberta Michelini, archeologa. La peculiare posizione del ritrovamento, in stretto rapporto con la strada e a circa 2,5 km. dal fiume Panaro, e la specifica organizzazione degli ambienti – piccole stanze per il riposo attorno ad uno spazio aperto, adatto ad alloggiare carri e animali – hanno indotto gli archeologi a identificare l’edificio con una mansio, o più genericamente una stazione di posta, analogamente al complesso Mutatio Ponte Secies precedentemente individuato a Cittanova, a ovest di Mutina. “La mansio di Castelfranco Emilia – spiegano in soprintendenza – presenta diverse fasi strutturali (a partire dall’epoca repubblicana) e ha restituito molti reperti di inestimabile valore storico, fornendo l’occasione per riscoprire e valorizzazione il territorio castelfranchese anticamente posto fra le colonie di Mutina e Bononia”. La serata è realizzata in collaborazione con l’Associazione Culturale Forum Gallorum.

Il tracciato della via Emilia, strada consolare romana, da Ariminum a Placentia

Per costruire un impero ci vogliono strade su cui spostare uomini, eserciti, merci; per governarlo bisogna attrezzarle con stazioni di sosta dove ufficiali, dignitari, portatori di ordini e dispacci possano riposare, rifocillarsi, accudire gli animali da trasporto, riparare i veicoli danneggiati e ripartire con la massima rapidità. Lo sapevano bene i Romani che punteggiarono la fitta rete stradale con un cospicuo numero di mansiones o mutationes (mansio, dal verbo manere, fermarsi, rimanere. Era detta così la stazione di sosta situata lungo le strade romane, messa a disposizione di dignitari, ufficiali o chiunque viaggiasse per ragioni di stato), aree di sosta a servizi differenziati –una sorta di moderni autogrill- ben note ai viaggiatori grazie a una serie di strumenti paragonabili alle odierne carte Michelin. Una di queste mansiones è stata recentemente trovata alla periferia occidentale di Castelfranco Emilia.

Frammenti di oggetti in vetro provenienti dallo scavo della mansio di Castelfranco Emilia

L’esposizione offre l’occasione non solo per presentare una scoperta eccezionale per le diverse fasi strutturali e i tanti reperti di grande valore storico rinvenuti ma anche per aprire una finestra sul mondo delle strutture a servizio della viabilità di epoca romana, per molti versi ancora poco studiato. La mansio rinvenuta a Castelfranco Emilia è un caso da manuale: stazione di sosta affacciata su una strada consolare, ubicata a poca distanza ma comunque fuori dal centro abitato di Forum Gallorum (posizione tipica delle stazioni di sosta relative alla vehiculatio, il servizio di trasporto statale), non troppo lontana dal fiume Panaro. Un edificio complesso formato da più corpi di fabbrica con diverse destinazioni d’uso, costruito attorno a un grande cortile scoperto su cui si affacciavano i diversi ambienti, le stalle, i depositi, i locali di servizio, le camere spesso dotate di focolari autonomi e un’area di cucina comune. Gli archeologi hanno ricostruito l’intera sequenza insediativa di questa mansio usata ininterrottamente dall’inizio del II sec. a.C. al V sec. d.C., che mostra una significativa ristrutturazione in età augustea – in concomitanza con la riorganizzazione del cursus publicus operata da Ottaviano Augusto- e che raggiunge la massima estensione (mq 1076,70) nella seconda metà del I sec. d.C. con l’aggiunta di un cortile e un nuovo corpo di fabbrica. Gli scavi ci dicono che l’edificio veniva rifatto in media ogni cento anni senza però mutare la configurazione degli ambienti, segno evidente che la mansio era perfettamente adeguata alle esigenze che avevano portato alla sua costruzione. Quello che invece cambiava sempre era la configurazione e posizione delle infrastrutture poste tra l’edificio e la via Emilia, canali e condotte necessarie al drenaggio della carreggiata che venivano continuamente spostate, allargate e strutturate.

Dettaglio della Tabula Peuntingeriana con la via Emilia e il vicus di Forum Gallorum

La presenza di una mansio a Forum Gallorum è confermata dalla Tabula Peutingeriana che, con l’Anonimo Ravennate, costituisce la principale testimonianza dell’esistenza del vicus, posto in un importante snodo itinerario e che permane anche in epoca medievale. Le fonti letterarie ci forniscono un ulteriore indizio a favore dell’esistenza di una struttura ricettiva già bene organizzata nel I sec. a.C. Nel passo di Appiano sulla battaglia di Forum Gallorum si narra che Antonio, dopo avere combattuto contro il console Irzio, si fosse ritirato vicino al campo di battaglia “senza alcun trinceramento”. “Vista la natura impervia dei luoghi e il momento del conflitto (la primavera del 43 a.C.)”, si chiedono gli archeologi, “non è possibile che Antonio abbia trovato una sistemazione per la notte in un edificio già qualificato da tempo come stazione di sosta ben strutturata e in posizione funzionale a una rapida mobilità? E non potrebbe derivare dalla vittoria del giovane Ottaviano su Antonio la denominazione di Victoriolae con cui sembra registrata sull’Itinerarium Burdigalense?”. Con la fine dell’Impero Romano il complesso cade in disuso e diventa oggetto di uno smantellamento sistematico. Qualcosa però rinasce in un momento imprecisato del tardo Medioevo quando il sito è nuovamente occupato in maniera stabile da un edificio di dimensioni più ridotte: la sua struttura farebbe pensare a una funzione di accoglienza, confrontabile con il non lontano ospitale di San Bartolomeo a Spilamberto, fondato entro il 1162 e legato all’Abbazia di Nonantola. “Perché allora non pensare che possa avere ereditato la funzionalità romana per portarla fino alle soglie dell’età moderna, assolvendo la propria vocazione all’ospitalità non per ragioni politiche ma di fede?”.