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Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 7. Dedalo e l’ingegno etrusco, l’8. Fetonte e l’ambra, il 9. i Pelasgi e le origini di Spina e degli Etruschi

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Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024

Si sa che i Greci amavano metamorfosi e metafore e, probabilmente, gli Etruschi non erano da meno. Il mito offriva una materia quasi infinita da plasmare e una delle metafore miti-storiche più interessanti e seducenti riguarda l’archetipo stesso dell’uomo ingegnoso, Dedalo, l’inventore del labirinto, il primo uomo a volare, il costruttore di automi, in grado di competere per abilità e tecnica con il dio Efesto. Diverse fonti collocavano alcune sue imprese alla foce del Po, dove poi sarebbe nata Spina e, probabilmente, tali leggende hanno avuto origine proprio per via della presenza e dell’importanza acquisita nel tempo da Spina che seppe evidentemente manipolare e veicolare a proprio vantaggio l’immaginario di quei Greci che non potevano fare a meno di frequentarla per coltivare le proprie necessità e interessi commerciali. Di questo parla il settimo episodio del video-racconto in 19 puntate “Rasna. Una serie etrusca”, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, prodotto dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, approfondimento della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Dopo aver conosciuto i primi sei episodi – 1. la Grande Etruria, 2. Ulisse ed Eracle, 3. Caere/Pyrgi e Delfi, il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina (per episodi 4, 5, 6 vedi Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina | archeologiavocidalpassato) – ecco altri tre video: il 7, l’8 e il 9.

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Valle Fattibello, tipico paesaggio delle Valli di Comacchio (foto wikipedia)

Un paesaggio inospitale e paludoso, questo ci raccontano le fonti e così si presentava la foce del Po agli occhi degli Etruschi. Non possiamo certo dire che si persero d’animo. Viene loro riconosciuta una grande capacità organizzativa nel plasmare il paesaggio, domare il territorio, renderlo fertile e abitabile, ponendo le basi per espandere produzione e commerci. Da questa sistematica opera di bonifica e di riassetto idraulico vide la nascita Spina, fra il 530 e il 520 a.C. Il racconto di RASNA. UNA SERIE ETRUSCA riparte da qui, dalle Valli di Comacchio, unendo sapientemente mito e storia.

“7. DEDALO O DELL’INGEGNO”. “Gli Etruschi abitano una regione che produce di tutto e ingegnandosi nel lavoro hanno frutti con cui non solo possono nutrirsi a sufficienza ma anche concedersi una vita di piaceri e di lusso. Così Diodoro Siculo nel I sec. a.C. ricordava quella che è stata una delle prerogative degli Etruschi: la fertilità e la ricchezza dei luoghi nei quali scelsero di insediarsi. Questa ricchezza – spiega Valentino Nizzo – è diventata un motivo per criticarli da un certo momento in poi della loro storia. Agli occhi dei Greci e poi anche dei Romani, gli Etruschi erano proverbiali per la loro mollezza, per la loro oziosità. Orazio ha reso celeberrimo l’obesus etruscus, quello che noi vediamo e immaginiamo attraverso quei sarcofagi del III e II secolo a.C., in particolare da Tarquinia, dove si vedono uomini di grande stazza adagiati su un letto per l’eternità, così come facevano durante la vita quotidiana bevendo del buon vino o banchettando. Questa mollezza e questo lusso, però, sono frutto del lavoro, come diceva Diodoro, della loro capacità di plasmare il paesaggio e di renderlo adatto alla vita. Alle mie spalle si vede uno dei paesaggi più inospitali che gli Etruschi sono stati in grado di domare, quello delle valli di Comacchio.

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Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina (foto http://www.rivadelpo.it)

“Abbiamo dovuto aspettare il 1922 – continua Nizzo -, l’anno della scoperta di Spina e della bonifica di Valle Trebba, per raggiungere un’organizzazione, un livello tecnologico in grado di rendere nuovamente popolose terre che erano state per secoli malariche. Gli Etruschi hanno fatto lo stesso, lo hanno fatto oltre due millenni prima. E hanno dovuto raggiungere però quel livello organizzativo che nel VI secolo ha consentito a una federazione di città dell’Etruria padana con l’aiuto delle città tirreniche dell’Etruria interna di realizzare qualcosa di grandioso: un’opera sistematica di bonifica che ha consentito di fondare intorno al 530-520 a.C. la città di Spina, in un periodo di generale riassetto del territorio. Nei secoli precedenti queste zone non erano disabitate. Lo dimostra il transito di merci che ha sempre caratterizzato il Po con i suoi affluenti e la sua foce. Adria è stata una precorritrice di quelle che sono state poi le intenzioni concretizzatesi con la fondazione di Spina. Tuttavia ci vuole un impegno, una strategia, una capacità sociale per arrivare a risultati come questi.

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Un tratto della cloaca maxima a Roma ancora funzionante (foto sovrintendenza capitolina)

“Negli stessi anni in cui nasce Spina, a Roma gli Etruschi dell’ultimo dei Tarquini, il Superbo, realizzano opere grandiose come la Cloaca massima, una fognatura che ha consentito anche la bonifica della valle del Foro boario, dove gli Etruschi avevano il loro quartiere abitativo, il Vicus Tuscus. Negli stessi anni viene bonificata anche la valle Murcia, quella dove sarà realizzato il Circo massimo, una delle glorie della grande Roma dei Tarquini. Queste capacità organizzative, questa loro proverbiale capacità nell’ingegneria idraulica e nell’architettura sono delle prerogative che agli Etruschi sono state riconosciute dai Romani e dai Greci, che di solito non davano soddisfazione ai popoli considerati barbari. Siamo quindi in un contesto che rappresenta magnificamente quella che è stata una capacità concreta di domare la natura e renderla virtuosa, renderla ben soddisfacente alle esigenze di uomini che miravano a divenire grandi, al lusso, e a quel benessere che poi raggiunsero.

Nelle isole Elettridi, che si trovano nel golfo dell’Adriatico, dicono che ci siano due statue: una di stagno, una di bronzo, lavorate in stile arcaico. Si dice che sono opera di Dedalo, ricordo del passato, di quando egli fuggendo Minosse, dalla Sicilia e da Creta si spinse in questi luoghi. Dicono che il fiume Eridano abbia formato davanti alla sua foce queste isole. C’è anche una palude, secondo quanto si racconta, presso il fiume, la cui acqua è calda. Esala da essa un odore pesante e aspro. Gli animali non vi si abbeverano e gli uccelli non possono sorvolarlo perché cadono e muoiono. Le genti del luogo raccontano di Fetonte che cadde in questo lago, colpito dal fulmine, e che ci sono intorno molti pioppi dai quali cade il cosiddetto electron. Orbene, dicono che Dedalo sia giunto a queste isole, che se ne sia impadronito e che abbia dedicato in una di esse un’immagine sua e una di suo figlio Icaro. Poi essendo giunti per mare fino a loro i Pelasgi, profughi da Argo, Dedalo fuggì e raggiunse l’isola di Icaro. In questo passo, attribuito ad Aristotele, ma in realtà non è opera sua, un componimento nel quale vengono descritte le meraviglie del mondo, non solo quelle appartenenti all’orizzonte del mito, ma tutte le meraviglie naturali, abbiamo uno straordinario affresco di come doveva apparire ancora intorno al III secolo a.C. questa zona: la foce di un fiume mitico, l’Eridano, che noi identifichiamo con il Po, e che è documentato fin dall’epoca di Esiodo dalla fine dell’VIII secolo a.C., come luogo inospitale, paludoso, connesso – come dice Aristotele – al mito di Fetonte e alle lacrime delle Eliadi.

“Ma questa connessione di questi luoghi a Dedalo è rivelatrice di quanto ho detto poco fa – riprende Nizzo -. È una metafora che collega la capacità di vivere in questi luoghi alla foce del Po, dove erano le isole Elettridi, al più grande inventore del mito dell’antichità, Dedalo. Colui che aveva realizzato il labirinto, che aveva dotato se stesso e suo figlio Icaro di ali con le quali volare, che aveva realizzato automi e sculture straordinarie come quelle che li raffiguravano alla foce del Po, secondo questo passo.

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Olpe in bucchero (640 a.C.) dalla tomba 2 del tumulo in località San Paolo di Cerveteri, con Medea che ringiovanisce Giasone, gli argonauti che trasportano un drappo, due lottatori e Dedalo alato, conservata al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)

“C’è un vaso al museo di Villa Giulia straordinario – ricorda Nizzo -: un’olpe in bucchero risalente al 640 a.C. che raffigura Medea, il mito degli Argonauti e raffigura anche, a una delle estremità, Dedalo con le ali, Taitale in etrusco. Non conosciamo nessi tra il mito degli Argonauti e quello di Dedalo, ma sappiamo che anche gli Argonauti si fermarono alla foce del Po, lungo l’Eridano. Quindi, chissà, forse quel vaso, che precede di oltre un secolo la nascita di Spina racconta una leggenda che si è persa, che non si è conservata, una leggenda che doveva unire gli Argonauti a Dedalo. Certamente quello che sappiamo attraverso oggetti come la bulla d’oro, emigrata purtroppo a Baltimora, che doveva comporre una collana probabilmente con ulteriori inserti d’ambra, e da altre raffigurazioni rinvenute a Felsina e in altre aree delle città etrusche della pianura Padana, Dedalo qui era particolarmente venerato. Questa venerazione non faceva altro che richiamare quanto gli Etruschi di sé sapevano: essere maestri dell’idraulica e l’orgoglio per essere riusciti a rendere non solo abitabili e fertili questi luoghi, ma a trasformare la pianura Padana in un motore economico per l’intera Etruria. Quelle pianure Padana e Campana che fecero grande l’Etruria, come ricordava Polibio ancora nel II secolo a.C. e che resero gli Etruschi in grado di dominare su quasi tutta l’Italia, come ricordavano Tito Livio e Catone. “Paene omnis Italia in Tuscorum iure fuerat (Quasi tutta l’Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi)”, dicevano. E questa è la grandezza degli Etruschi e un’eredità che ci hanno lasciato”.

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Collana in ambra, vetro e oro da Spina conservata nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Lacrime che diventano pietre”, spiega Nizzo. “Così i Greci spiegavano le origini dell’elektron, come chiamavano l’ambra e, in questo modo, davano un senso a quanto empiricamente potevano constatare semplicemente sfregandola. Le cariche elettriche che rilasciava non sembravano infatti lasciare dubbi in merito all’origine divina di quella sostanza, scaturita dalle lacrime delle Elettridi, le figlie del Sole disperate per la morte del fratello Fetonte, fulminato da Zeus, per la sua pericolosa incapacità di guidare il carro paterno. Il mito, non a caso, era ambientato dove i Greci da secoli erano soliti procurarsi quella preziosa resina fossile: la foce del Po, sull’Adriatico. Il terminale ideale per tutti quei beni e quelle merci che vi giungevano tramite la sua fitta rete di affluenti dall’area appenninica, da quella alpina e dalle più estreme propaggini dell’Europa centrale e settentrionale. Gli Etruschi avevano saputo a lungo nascondere la provenienza baltica dell’ambra, facendo credere che i pioppi in cui le Elettridi erano state pietosamente tramutate fossero proprio lì, dove Spina sarebbe sorta, intorno al 520 a.C., accentrando presso il suo porto anche quel redditizio traffico commerciale. Ne parliamo nell’ottavo episodio di “Rasna. Una serie etrusca”.

“8. FETONTE E L’AMBRA O DELLA CAPACITÀ ECONOMICA”. “La nave era corsa lontano a vela. Entrarono profondamente nel corso del fiume Eridano, laddove un tempo Fetonte, colpito al cuore dal fulmine ardente e bruciato a metà, cadde dal carro del Sole nelle acque di questa profonda palude. Ed essa ancora oggi esala dalla ferita bruciante un tremendo vapore. Nessun uccello può sorvolare quelle acque spiegando le ali leggere, ma spezza il suo volo e piomba in mezzo alle fiamme. In questo brano Apollonio Rodio, nel III secolo a.C., descrive il viaggio degli Argonauti verso Occidente. Ed è una tappa che non era prevista in tutte le versioni del mito. Una tappa che toccava il fiume Eridano che, al tempo, il mito e la fantasia geografica dei Greci univa al Danubio in un percorso continuo. Gli Argonauti si muovono in terre ancora non civilizzate, dominate da paesaggi selvaggi e spiegate dai Greci alla luce di miti come quello di Fetonte. Un mito straordinario che è perdurato a lungo nel corso dell’antichità. E il mito con il quale i Greci spiegavano l’origine dell’ambra. Il figlio del Sole, di Helios Apollo, Fetonte lo splendente, un giorno riesce a convincere il padre a prestargli il carro del sole. Si vuole cimentare in qualcosa più grande di lui, una corsa attraverso il cielo. Tuttavia non riesce a domare i cavalli alati. Arriva a sfiorare il cielo. Secondo una versione del mito producendo quella Via Lattea che ancora oggi vediamo e che sarebbe stata realizzata dall’avvicinamento del sole alle stelle. Poi avvicinandosi alla Terra la desertificò, e rese gli Etiopi del colore scuro della pelle. Desertificò l’Africa. Insomma, alla fine, indusse il padre degli dei, Zeus, a fulminarlo. E tutto questo avvenne, secondo il mito, alla foce del Po, dove dovevano aver constatato i Greci la presenza di sorgenti sulfuree termali, quelle che ancora oggi alimentano la zona dei colli Euganei, Montegrotto, Abano Terme, legate al culto di Aponos-Apollo. Tutto questo quindi aveva un collegamento con la realtà geografica. Il mito prosegue dicendo che appunto nel luogo in cui Fetonte cade, la sua ferita prodotta dal fulmine continua ad emanare sostanze che avvelenano tutti gli animali che passano nei dintorni. E tutto questo avviene in presenza delle sorelle di Fetonte, le Eliadi, cui erano consacrate alcune isole alla foce del fiume Po.

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Pendente di ambra a testa femminile con tutulus (prima metà del V secolo a.C.) proveniente da Spina, Valle Pega, Tomba 740 Dosso A, e conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Le Eliadi, vedendo il fratello morente, colpito al corpo da Zeus – continua Nizzo -, cominciano a piangere. Ed è un pianto incessante, che non smette mai. E Zeus, impietosito per il loro dolore, le trasforma in pioppi e le loro lacrime si trasformano in quell’ambra, che vediamo magnificamente rappresentata in questa vetrina. Il termine greco per ambra era electron, un termine che significa anch’esso splendente come Phaeton, così come le Eliadi derivano il loro nome da Helios, il dio del sole. Il motivo è che già gli antichi conoscevano una delle caratteristiche, delle peculiarità dell’ambra che, se sfregata su un tessuto come la lana, produce delle cariche elettrostatiche che sono quelle che alla fine del Settecento hanno indotto a usare la parola greca per l’ambra per definire l’elettricità. Un fenomeno che poi sarebbe stato approfondito nel corso dell’Ottocento. Quindi idealmente questa materia, che non è altro che una resina fossile, quindi era giusto una parte del mito, si pensava che imprigionasse la potenza e i raggi del sole, che poi liberava in quelle cariche elettrostatiche che la rendevano così particolare. Si pensava che avesse delle facoltà curative, che non fosse quindi soltanto un ornamento ma qualcosa di più, anche un amuleto. E qui vediamo una rassegna della straordinaria quantità di ambre che a Spina sono state ritrovate nella necropoli, ma che da Spina venivano distribuite in tutto il Mediterraneo. Perché nessuno poteva fare a meno dell’ambra. Anzi, questa materia era commerciata fin dall’età del Bronzo, era molto ricercata in ambito miceneo. E veniva da molto lontano. Veniva dal Baltico, dal Nord Europa, e poi veniva smistata tra il Veneto e l’Emilia a quanti arrivavano alla foce del Po per procurarsi beni come queste. Prima ancora di Spina, Verucchio era stato uno dei centri di smistamento dell’ambra, poi la stessa Felsina. E poi naturalmente Spina diventa l’epicentro. E gli Etruschi di Spina molto probabilmente sono quelli che hanno fatto credere ai Greci la leggenda che l’ambra traesse origine dalle lacrime delle Eliadi e dalla morte di Fetonte, avvenuta in quest’area. Dobbiamo immaginare le Eliadi forse non diverse da queste donne, volti di donne, raffigurate in questa vetrina. O dobbiamo immaginare la passione degli Etruschi per questa materia prima, che li indusse a realizzare anche un dado in ambra, una pedina da gioco di quelle che gli Etruschi amavano, al punto che Erodoto attribuiva loro l’invenzione dei dadi.

“Ma la verità sull’ambra è un’altra – sottolinea Nizzo -, e la scoprirono ben presto i Greci. Ce lo racconta molto bene un passo di Luciano. Siamo nel II secolo d.C. Sono passati quasi 500 anni dall’epoca di Apollonio Rodio e quasi un millennio da quando Esiodo, per la prima volta, cita il fiume Eridano e la leggenda di Fetonte. Luciano ne parla in uno dei suoi Dialoghi ironici dal titolo l’Ambra o i cigni, che svela finalmente la verità sulle origini dell’ambra. Veramente anch’io, udendo queste cose dai poeti, speravo se mai capitasse sull’Eridano di andare sotto uno dei pioppi e, aprendo il seno della veste, raccogliere poche lacrime e così avere l’ambra. Finalmente, non è molto, capitai in quella contrada e risalendo in barca l’Eridano non ci vedevo pioppi, per guardare ch’io ci facessi d’intorno, né ambra. Anzi, neppure il nome di Fetonte sapevano quei paesani. Infatti io mi volli informare e domandai: quando verremo a quei pioppi che danno l’ambra? Mi risero in faccia. I barcaioli risposero dicessi più chiaro ciò che volevo. Ed io raccontai loro la favola, come Fetonte era un figliolo dl sole che, fattosi grandicello, chiese al padre di guidare il carro per una sola giornata. Il padre glielo diede, ma egli si ribaltò e morì. E le sorelle sue piangenti in qualche luogo di questi – dicevo io – perché egli cadde sull’Eridano, diventarono pioppi e piangono l’ambra sopra di lui. Qual bugiardo e falso ti ha raccontato questo? Risposero. Noi non vedemmo mai alcun cocchiere ribaltato. Né abbiamo i pioppi che tu dici. Se fosse una cosa simile, credi tu che noi per due oboli vorremo remare o tirare le barche contr’acqua potendo arricchirci raccogliendo le lacrime dei pioppi? Queste parole mi colpirono forte e tacqui, scornato. Che proprio come un fanciullo c’ero caduto a credere ai poeti che dicono le più sperticate bugie e non mai una verità. Probabilmente Luciano sta finalmente apprendendo una verità che forse già conosceva. Ha voluto fare dell’ironia sulla capacità degli Etruschi di nascondere la vera origine di una materia preziosissima, che ha fatto per secoli la loro fortuna”.

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Il tempietto di Alatri realizzato nel 1891 nel giardino del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma (foto etru)

Dove non arriva la storia, si ricorre alla fantasia, costruendo tradizioni e leggende che attraversano il tempo e lo spazio. È il destino dei Pelasgi, il popolo che affonda le origini nel mito e ritenuto, secondo i Greci, artefice delle possenti, titaniche mura poligonali, diffuse nell’Italia centro- meridionale, in Grecia e in Anatolia. Ma cosa lega la città di Spina ai Pelasgi? “Parliamo dell’arrivo dei Pelasgi a Spina, ovvero il mito fondante dell’origine stessa degli Etruschi agli occhi dei Greci. Un complesso coagulo di racconti che hanno contribuito nei millenni ad alimentare il cosiddetto mistero degli Etruschi”, comincia così Valentino Nizzo nell’introdurre il nuovo tema che, spiega, “incredibilmente ancora oggi tocca corde identitarie tutt’altro che sopite nelle quali il mito si intreccia e si confonde con la storia o, sarebbe meglio dire, con la sua manipolazione ideologica. Ho dedicato molti articoli e una monografia a queste tematiche; ne ho parlato in molti video e conferenze, quasi sempre accompagnate da strascichi di sterili polemiche, non prive di interesse per quanti si occupano di storia della mentalità e di persistenza contemporanea della questione pelasgica. Nel video provo a riassumere il tutto in circa 10 minuti, girati volutamente davanti al tempio etrusco-italico di Alatri, un luogo quest’ultimo ancora oggi legato al falso mito delle città pelasgiche”.

“9. IL MITO DEI PELASGI E LE ORIGINI DI SPINA E DEGLI ETRUSCHI”. “È una sensazione unica – ammette Nizzo – quella di trovarsi all’interno di un tempio etrusco-italico del III sec. a.C. È probabilmente il risultato che ambivano ad ottenere Felice Barnabei, il fondatore del museo di Villa Giulia, e l’architetto Adolfo Cozza, quando realizzarono questa ricostruzione in scala 1:1 di un tempio scavato pochi anni prima, tra il 1888 e il 1889, ad Alatri, nel Lazio meridionale, non lontano da Frosinone. Alatri è famosa non tanto per questo tempio ricostruito, di cui gli archeologi portarono alla luce solo le fondamenta, quanto per la poderosa cinta in opera poligonale che ancora oggi desta ammirazione ed è all’origine di miti moderni su chi l’ha realizzata. Sono gli stessi miti che hanno posto al centro di tante città con mura possenti i Ciclopi, i Pelasgi, gli alieni… insomma quanti non hanno il nome di un popolo reale, ma sono considerati in grado di realizzare opere titaniche. I Pelasgi in realtà sono un popolo del mito – spiega Nizzo -. Omero li definiva i divini Pelasgi. Hanno preceduto i Greci nella Grecia stessa, prima dell’arrivo di quelle stirpi elleniche che hanno poi sviluppato la loro identità nella chiave greca che oggi conosciamo. I Pelasgi sono quindi il popolo del mito che precede l’acquisizione di una consapevolezza da parte dei Greci.

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Un tratto delle mura poligonali di Micene, nel Peloponneso, in Grecia (foto graziano tavan)

È il popolo dell’epoca micenea, minoica, quella delle grandi città costruite con possenti mura poligonali: Micene, Tirinto, Gla, Orcomeno, la Grecia ne è circondata e costellata. I Greci nell’interrogarsi sul loro passato più antico, dove la memoria non arrivava, arrivavano con la fantasia. Per questo i Pelasgi sono diventati un popolo migrante e dove si riscontravano città con possenti mura poligonali, spesso nascevano leggende che amplificavano l’irradiazione dei Pelasgi. E questa è una costruzione della tradizione che è durata fino all’impero romano. Si è alimentata laddove non c’era un uso filologico delle fonti e la fantasia costituiva il punto di riferimento principale per colmare quello che la storia non era in grado di recuperare. E quindi attraverso gli occhi e l’osservazione di queste possenti mura di cui non si conservava più il ricordo di quando erano state costruite, anche città più recenti che con i Pelasgi nulla avevano a che fare, sono state considerate costruite dai Pelasgi.

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Un tratto delle mura poligonali / pelasgiche di Alatri (Fr) (foto graziano tavan)

“Questo è il caso di Alatri – puntualizza Nizzo -. Oggi si discute se quelle mura poderose siano state opera dei romani, come quelle di Norba, un’altra città del Lazio cosiddetto pelasgico. E questo deve essere avvenuto anche riguardo Spina e le sue origini. Anche se a Spina non c’è nessuna traccia di mura poligonali, né potrebbe esserci, perché le mura poligonali caratterizzano prevalentemente paesaggi con connotazione calcarea. Sono mura che si prestano a essere realizzate dove vi è una pietra un po’ più difficile da squadrare, che richiede anche una complessa maestria nel gestirla. Il primo che ci parla di Pelasgi a Spina è un contemporaneo di Erodoto, Ellanico di Lesbo, e lo fa indirettamente attraverso un passo di Dionigi di Alicarnasso. Dice: Durante il regno di Anas, i Pelasgi furono scacciati dal loro paese dai Greci e, lasciate le loro navi presso il fiume Spines nel golfo Ionio, presero Crotone, una città dell’interno, e partiti di lì occuparono quella che noi ora chiamiamo Tirrenia. Poche frasi che Dionigi di Alicarnasso pone al principio di una lunga trattazione nella quale si interroga sulle origini degli Etruschi, sulle origini di Roma. Il suo scopo è dimostrare a tutti i costi che Rona è una città greca, una polis ellenis e non una polis tyrrenis, cioè una città etrusca. Per fare questo deve dimostrare che gli Etruschi non hanno a che fare nulla con i Greci. Sono autoctoni, sono indigeni. E quindi non possono avere nulla a che fare con i Pelasgi. Nel farlo però cita anche le fonti che collegano i Tirreni, cioè gli Etruschi, ai Pelasgi o ad altre popolazioni della Grecia. E Ellanico è una delle prime fonti che Dionigi di Alicarnasso pone alla base di quella che poi diverrà nei secoli la questione dell’origine degli Etruschi. Perché i Pelasgi venivano collegati a Spina che non ha testimonianza di mura pelasgiche? Perché Spina nel momento in cui Ellanico scrive, siamo nella metà del V secolo a.C., era senza ombra di dubbio la città etrusca più importante. Le città dell’Etruria tirrenica avevano cominciato a decadere per effetto delle sconfitte avute a Cuma nel 524 a.C. sulla terraferma, e poi sul mare di fronte a Cuma nel 474 a.C. L’asse politico, economico e commerciale degli Etruschi si era cominciato a spostare verso quell’Adriatico, dove intorno al 530-520 a.C. gli Etruschi, insieme, in coalizione, avevano dato vita a questa città portuale alla foce del Po e in posizione strategica sull’Adriatico.

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Mappa della diaspora – secondo Ellanico – della diaspora dei Pelasgi dalla Grecia a Spina e di qui a Cortona e in Etruria (foto etru)

“Gli Ateniesi guardavano a Spina come l’elemento di raffronto e di dialogo più importante in ambito etrusco. Non potevano farne a meno – annota Nizzo -, non potevano fare a meno del grano e delle risorse della pianura Padana che Spina consentiva di far arrivare in Grecia lungo l’Adriatico, un mare che gli Etruschi controllavano e si contendevano con i Greci. Per questo quindi Ellanico e, probabilmente ancora prima di lui, Ecateo, già alla fine del VI sec. a.C., collocarono la diaspora del popolo pre-ellenico per eccellenza dei Pelasgi, a metà strada tra il mito e la storia, subito dopo il diluvio universale, quello greco di Deucalione, proprio a Spina da cui poi si sarebbero irradiati verso il centro della penisola in quella città che chiamano erroneamente Crotone, ma che dobbiamo identificare con la città etrusca di Cortona. Per poi spingersi oltre, verso l’Etruria propria, verso le città di Caere, di Tarquinia, e la stessa Roma lungo le valli del Tevere, dunque verso l’Etruria che noi conosciamo con questo nome. In questo modo, tramite questa irradiazione, continuava Ellanico, dai Pelasgi avrebbero avuto origine gli Etruschi, i Tirreni. Dionigi nel commentare Ellanico, però, approfondisce la questione, e dice che in realtà questi Pelasgi, non avendo nulla a che fare con i Tirreni, sarebbero stati conquistati dai Tirreni stessi, ma prima ancora si sarebbero uniti con gli aborigeni, dando vita a quel seme dei Latini che, unitosi poi con i Troiani, avrebbero fatto scaturire Roma, secondo quella versione resa celeberrima dall’Eneide. Tutto questo per affermare che Roma è città greca, aborigena, troiana, pelasgica e nulla ha a che fare con i Tirreni.

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Mappa della diaspora dei Tirreni – secondo Erodoto – da Smirne (Lidia, in Anatolia) a Spina (foto etru)

“Ma a complicare le cose sulle origini di Spina e su questi racconti-miti storici – riprende Nizzo – si aggiunge lo storico per eccellenza, Erodoto, con un brano che è celebre per il problema dell’origine orientale degli Etruschi. Un brano nel quale ci dice che gli Etruschi, i Tirreni, sarebbero profughi dalla Lidia e si sarebbero diretti in Occidente dopo una lunga carestia durata circa 18 anni, durante i quali avevano anche provato a ingannare il tempo digiunando un giorno e inventandosi giochi come la palla o i dadi, e gli altri giorni mangiando. Alla fine, stressati, Tirreno, il loro comandante, guida una metà della popolazione verso Occidente. Dice Erodoto: questi scesero a Smirne dove costruirono navi e, dopo averle caricate delle vettovaglie necessarie al viaggio, partirono in cerca di nuove terre finché, oltrepassati molti popoli, giunsero presso gli Umbri e là fondarono città e tuttora vi abitano, e dal loro condottiero si chiamano Tirreni. Erodoto localizza la diaspora dei Tirreni della Lidia nel paese degli Umbri, esattamente dove le fonti collocano Spina, in una terra che è ancora umbra prima di diventare tirrenica. Quindi Erodoto sta immaginando una diaspora non pelasgica, ma dei Tirreni della Lidia verso lo stesso orizzonte, verso quella Spina che nel V sec. a.C. era un punto di riferimento imprescindibile.

“Su questi due filoni mitici – conclude Nizzo – si fonda una riflessione miti-storica che segna anche l’evoluzione dei rapporti tra mondo greco e mondo tirrenico. Rapporti positivi laddove gli Etruschi sono assimilati ai Greci e grazie a questa assimilazione avevano potuto avere, Cerveteri e Spina, un thesauros a Delfi, e le altre fonti di matrice dorica in virtù delle quali gli Etruschi sono dei barbari, vanno sconfitti e vanno eliminati per consentire ai Greci di essere liberi in quel mar Tirreno e Adriatico verso il quale da tempo avevano mostrato i loro interessi, in particolare quelli dei Siracusani”.

Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina

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Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024

Quante volte ci siamo interrogati sul significato delle scene rappresentate sui vasi conservati nelle collezioni dei Musei? Un patrimonio di storie figurate tramandate fino a noi: paesaggi in fermo immagine, personaggi in movimento, miti perduti o metafore di storie contemporanee. Tutto questo traspare dalla lettura delle opere riemerse dalle sabbie di Spina, oltre cento anni fa, quando la sorpresa e la meraviglia colse gli operai impegnati nei lavori di bonifica delle valli Trebba e Pega. Attraverso quelle raffigurazioni possiamo conoscere molto dell’immaginario collettivo nel mondo antico, possiamo rileggere il mito e anche riprodurre la realtà, con gli occhi dei Greci. Comincia così l’introduzione al quarto episodio del video-racconto in 19 puntate “Rasna. Una serie etrusca”, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, prodotto dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, approfondimento della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Dopo aver conosciuto i primi tre episodi – 1. la Grande Etruria, 2. Ulisse ed Eracle, 3. Caere/Pyrgi e Delfi – (vedi Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco i primi tre episodi: la Grande Etruria, Ulisse ed Eracle, Caere/Pyrgi e Delfi | archeologiavocidalpassato) ecco altri tre video-racconti: il 4, 5 e 6.

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Cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore dei Satiri Villosi, con gigantomachia, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“I Greci avevano una parola precisa per designare condotte che si allontanavano dalla loro idea di morale o del vivere civile: hybris”, spiega Valentino Nizzo. “In italiano la rendiamo solitamente con un termine un po’ desueto, tracotanza, che tuttavia sarebbe assai opportuno ancora per descrivere molte situazioni che affliggono il nostro quotidiano. La hybris per eccellenza negli scenari del mito era quella dei Giganti, esseri divini dalla forza iperbolica, nati dalla terra e dunque a partire dall’ellenismo – ma io ritengo anche prima – rappresentati con la parte inferiore del corpo anguipede, cioè terminante con dei serpenti. Una delle loro rappresentazioni più efficaci è quella dei rilievi dell’altare di Pergamo, oggi a Berlino. Nel V secolo, tuttavia, la loro immagine non differisce da quella degli Dei con i quale avevano intrapreso una drammatica lotta per il controllo dell’Olimpo, come possiamo vedere nei due splendidi vasi con gigantomachia del museo Archeologico nazionale di Ferrara protagonisti del quarto video di “Rasna. Una serie etrusca”. L’unica differenza, tuttavia essenziale, riguarda le modalità di combattimento che li vede agire unicamente lanciando pietre colossali, grandi spesso come isole, al punto che i Greci riconducevano alla loro azione alcuni dei loro arcipelaghi. Si trattava dunque di un modo barbaro e incivile di lottare, al quale gli Dei dell’Olimpo contrapponevano le loro molteplici abilità, chi col fulmine, chi con il tridente, chi con forse meno efficaci kantharoi o fiaccole. Se, tuttavia, non avessero avuto l’aiuto di un mortale gli Dei non sarebbero mai riusciti a prevalere. Ma non un mortale qualunque. Eracle che con questa impresa, più che con le dodici fatiche, aveva meritato la sua apoteosi sull’Olimpo. Ma cosa c’entrano con tutto questo gli Etruschi? – si chiede Nizzo -. La loro tracotanza era proverbiale, sempre agli occhi dei Greci e la loro presunta discendenza da un popolo semidivino e immerso nel mito come i Pelasgi aveva forse favorito la loro assimilazione ai figli della terra, abili con le pietre così come si riteneva lo fossero i proverbiali costruttori delle mura cosiddette pelasgiche. Ma a questa analogia si aggiungevano forse anche degli elementi storici legati alla prima battaglia di Cuma nella quale Aristodemo nel 524 a.C. aveva sconfitto una temibile armata guidata dai Tirreni del golfo Ionio, quelli dell’area Padana dove contemporaneamente nasceva Spina”.

“4. ETRUSCHI E GIGANTI”. “Tra le più grandi perdite del mondo antico figura senza dubbio la scomparsa di gran parte e degli affreschi in cui i Greci eccellevano”, spiega Nizzo. “Li conosciamo attraverso racconti indiretti, testimonianze frammentarie come quelle di Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia o di Pausania o di Strabone. Fanno rabbrividire rispetto a quello che possiamo immaginare sia andato perso per sempre. I pittori greci erano in grado di ingannare addirittura con effetti 3D. Ci sono racconti che descrivono uccelli che provano ad afferrare i grappoli d’uva dipinti così realisticamente da ingannare anche la natura. Tutta quest’arte, al di là delle descrizioni delle poche fonti superstiti, la conosciamo indirettamente attraverso testimonianze figurate che sono grandi opere, ma dell’artigianato, non della grande arte.

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Ceramiche esposte nella mostra “Spina etrusca: un grande porto del Mediterraneo” al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-emilia-romagna)

“Il museo Archeologico nazionale di Ferrara – continua Nizzo – custodisce uno degli scrigni più importanti anche da questo punto di vista, grazie alle migliaia di vasi attivi integri o in frammenti e di dimensioni cospicue come questi grandi crateri che per le loro dimensioni consentono di avere una lontana idea di quello che dovevano essere le grandi pitture perse per sempre. Chiaramente i colori sono quelli piatti della ceramica attica, quella più antica a figure nere, quella più recente a figure rosse. Non potremo mai recuperare la policromia o dettagli e sfumature. Polignoto all’inizio del V secolo era riuscito a imprimere nei suoi personaggi il pathos, a fargli dischiudere la bocca mostrando addirittura i denti, un particolare che viene notato dai critici del tempo, a infondere naturalezza, a creare dei paesaggi, delle sovrapposizioni tra i personaggi. Un altro aspetto interessante di questo discorso è legato al linguaggio che queste pitture consentivano di esprimere, che non è mai un linguaggio soltanto per intrattenere il pubblico che le osservava. Come nelle grandi cattedrali, si volevano raccontare storie a un pubblico prevalentemente analfabeta ed erano storie collegate al mito, al patrimonio mitico e all’immaginario dei greci, ma anche alla storia contemporanea reinterpretata attraverso il mito. La saga dei “Sette contro Tebe” è tra le realtà maggiormente evocate all’inizio del V secolo per richiamare lo scontro fratricida che divideva i Greci e che gli unì contro i Persiani. Lo scontro fratricida di Eteocle contro Polinice che è una sorta di metafora delle contese che separavano le città greche del tempo, unite finalmente contro il barbaro persiano.

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Cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore dei Niobidi con raffigurata una Gigantomachia, proveniente dalla Tomba 313 della necropoli di Valle Trebba di Spina, e conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Un altro mito che evocava lo stesso orizzonte della libertà riconquistata – approfondisce Nizzo – è quello della gigantomachia. I Greci percepiscono se stessi come gli dei dell’Olimpo che, con l’aiuto di un uomo diventato semidio, Eracle, riescono a contrastare i Giganti che volevano conquistare l’Olimpo. I figli di Gea, che combattevano soltanto con delle pietre colossali, ambiscono per la loro forza, le loro dimensioni sovrumane, a contendere il potere agli dei dell’Olimpo di un’altra generazione. E qui vediamo una delle diverse gigantomachie che sono state restituite dalle sabbie di Spina. Risale al 460-450 a.C. ed è attribuita al Pittore dei Niobidi o alla sua cerchia. È stata rinvenuta in una delle migliaia di tombe della necropoli di Valle Trebba e qui, sul suo lato principale, vediamo raffigurato l’unico essere umano che partecipa a questa contesa: Eracle. Un oracolo aveva detto che gli dei dell’Olimpo avrebbero potuto sconfiggere i Giganti solo grazie all’aiuto di un uomo e quest’uomo era Eracle che meritò, non solo per le sue dodici fatiche, ma per l’aiuto dato agli dei dell’Olimpo, quell’unione con loro, tra gli dei, la vita eterna, la giovinezza eterna, e la compagnia della giovinetta Ebe, un premio dopo tutte le fatiche che avevano caratterizzato la sua esistenza. Qui è con il suo celebre arco che sta scagliando una freccia contro forse il capo dei giganti Porfirion, qui ormai atterrato, aggredito anche da Atena, la dea che protegge e segue in tutte le peripezie di Eracle, che lo sta anch’essa trafiggendo. I serpenti della sua egida lo mordono e dal cielo cade uno dei fulmini scagliati da Zeus. E così lungo il seguito del vaso ognuno degli altri dei dell’Olimpo contrasta un gigante. Abbiano Ares, Efesto, Ecate, Hera. Insomma non ne manca nessuno. Nemmeno Dioniso, Apollo e Artemide si sottraggono a questo scontro.

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Dettaglio con la falce di luna: cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore dei Satiri Villosi, con gigantomachia, da Spina, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Ma in un altro vaso lo vediamo raccontato con un linguaggio leggermente diverso. Sono passati tra i dieci e i venti anni, siamo intorno al 440-430 a.C. Questo cratere a calice è attribuito al Pittore di Polignoto o a un gruppo a lui vicino, al Pittore dei Satiri Villosi. Rappresenta la stessa scena, ma occupando tutta l’ampiezza del corpo del cratere, creando quindi una sovrapposizione tra i personaggi, proprio nello stile dell’arte e delle megalografie dell’inizio del secolo. Siamo in un cratere recuperato sempre a Spina, ma purtroppo senza il contesto. È un recupero della Guardia di Finanza. E tuttavia siamo di fronte a un’opera integra come poche altre. E qui quello che colpisce, e colpì l’attenzione dei primi interpreti, è in questo spicchio di luna che appare nel cielo accanto alla quadriga guidata da Nike, la dea della vittoria, quella che coronerà di successo l’impresa degli dei dell’Olimpo e di Eracle. Sembra che sia un riferimento al mito che voleva che la Luna e il Sole fossero stati eclissati per impedire a Gea, alla dea della Terra, madre dei Giganti, di aiutarli con un farmaco. Questa oscurità impedisce quindi di aiutare i Giganti che soccombono grazie appunto anche all’aiuto di Eracle. È il loro trionfo, e quello dell’uomo che diventerà dio grazie a questa impresa, il protagonista di questi vasi. Qui il tutto viene raccontato tramite ispirazione diretta alle raffigurazioni di questo mito fatte da Fidia nel Partenone, sullo scudo della grande Atena cui probabilmente si ispira quest’opera. E da cui ricaviamo la cronologia di questo vaso.

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Mappa dall’Egeo al Tirreno: segnati il monte Olimpo e i Campi Flegrei (foto etru)

“Cosa c’è dietro questi miti? L’ho già detto, c’è la volontà di richiamare la capacità degli uomini di primeggiare sulla brutalità dei Giganti – sottolinea Nizzo -. C’è un rifermento agli eventi della storia contemporanea, in particolare a quelli che riguardano i Persiani, ma questo mito è stato utilizzato probabilmente anche come metafora di altri barbari, gli Etruschi, che alla pari dei Persiani, dovevano essere sembrati ai Greci dei giganti da sconfiggere e questo, secondo alcuni, giustifica lo spostamento del luogo della battaglia tra gli dei dell’Olimpo con i Giganti dall’area ai piedi del monte Olimpo, la piana di Flegra, ai Campi Flegrei in Campania, caratterizzati da acque sulfuree che dovevano ricordare i Giganti fulminati da appunto il fulmine di Zeus. Sono i fenomeni tellurici che caratterizzano i Campi Flegrei e che lasciano l’idea di Giganti imprigionati al di sotto della terra, ma forse anche un’allusione a quella grande battaglia che a Cuma si svolge nel 524 a.C. e che vede primeggiare, quasi fosse un dio, Aristodemo, destinato a divenire tiranno come Eracle. L’uso ideologico della Gigantomachia potrebbe quindi avere avuto una localizzazione in Occidente ed essere stato applicato non solo a barbari come i Giganti e i Persiani, ma anche a dei giganti come gli Etruschi, o almeno agli occhi dei Greci così dovevano apparire, forse anche in virtù di quella discendenza presunta dai Pelasgi che, per la loro capacità di costruire grandi murature in opera poligonali, avevano assunto quasi la parvenza di esseri più simili agli dei che agli uomini, esseri divini. E i Tirreni, essendo i discendenti dei Giganti, potevano favorire nel mito e nell’ideologia questa assimilazione. Questo e molte altre cose vasi come questi ce lo raccontano, imprimendo in questo piccolo spazio la grande arte, altrimenti destinata a scomparire, e raccontando la grande storia, ricordando sempre che qui dentro si miscelava l’acqua con il vino per servirlo durante il simposio e durante il simposio questi racconti dovevano essere cantati accompagnati da fiati, da una bella musica e dai piaceri dello stare insieme.

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Dettaglio del cratere con i Sette contro Tebe da Spina, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto etru)

“Il cratere dei Sette contro Tebe è certamente la raffigurazione più completa del ciclo dei Sette contro Tebe sopravvissuta nella ceramica attica del V secolo quella del cratere della tomba 579 di Valle Trebba a Spina. Risale probabilmente all’epoca di Cimone, l’età d’oro della talassocrazia ateniese. “Siamo dunque intorno al 460-450 a.C. e gli Ateniesi celebrano le proprie glorie piegando le immagini del mito alle proprie ambizioni e ideologie”, spiega Valentino Nizzo. “La gigantomachia, di cui abbiamo parlato nel precedente episodio, e i Sette contro Tebe sono i due più fulgidi esempi di tale approccio. Sia l’uno che l’altro alludevano infatti al trionfo sui temibili Persiani di pochi anni prima. Tracotanti come i Giganti. Agli usurpatori d’oriente si erano colpevolmente alleati i Tebani, tradendo i loro connazionali e, dunque, divenendo meritevoli della condanna e della punizione divina che aveva colpito la stirpe del re di Tebe, Edipo, culminata con lo scontro dei suoi due figli, Eteocle e Polinice, morti l’uno per mano dell’altro nella contesa fratricida per il trono paterno. Il cratere di Spina mostra sia lo scontro dei Sette che quello risolutivo dei loro figli, gli epigoni. Una associazione rarissima e carica di significati che sarebbe stata magnificamente immortalata in quegli stessi anni da Eschilo.

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Frontone del Tempio A di Pyrgi conservato al museo nazionale di Villa Giulia a Roma (foto etru)

“Ma anche gli Etruschi adottarono questo mito per i propri scopi ideologici in uno dei loro capolavori più importanti, l’altorilievo di Pyrgi realizzato anch’esso intorno al 460 a.C. In occasione della mostra Spina Etrusca a Villa Giulia ho voluto collocare per la prima volta il cratere e l’altorilievo l’uno accanto all’altro. Una occasione unica per osservare e comprendere un messaggio che non ha tempo e che dall’antichità ad oggi continua a rappresentare un monito contro ogni forma di barbarie e inciviltà. Come ho provato a raccontare in meno di 10 minuti con questo 5° video di “Rasna. Una serie etrusca”.

“5. IL CRATERE DEI SETTE CONTRO TEBE”. “Sono davanti a uno dei capolavori della ceramografia attica”, precisa Valentino Nizzo. “È un’emozione vedere così da vicino una delle più importanti raffigurazioni del mito dei Sette contro Tebe, una delle leggende più importanti dell’antichità greca, carica di significati ideologici, particolarmente cara al mondo greco del V sec. a.C. Questo cratere è stato rinvenuto nel 1926 nella Tomba 579 di Valle Trebba. Non era comune trovare quasi integralmente conservato un monumento come questo, fragile ma così comunicativo, ancora oggi, dopo più di 2500 anni. È attribuito al Pittore di Bologna 279. Il nome non rende l’idea della capacità di questo ceramografo che si è confrontato con un tema che era andato alla ribalta all’indomani della vittoria dei Greci contro i Persiani nelle guerre persiane, quelle descritte da Erodoto. Una vittoria che aveva visto trionfare i Greci contro il barbaro invasore orientale. Non tutti i Greci però erano stati uniti in questa battaglia. Alcuni si erano schierati dalla parte sbagliata. I Tebani si erano collocati a favore dei Persiani e tutto questo sarà rappresentato nelle pitture realizzate all’interno del tempio di Atena Arèia a Platea, dove si voleva comunicare l’idea del fratricidio che i Tebani avevano commesso a danno degli altri Greci, evocando quella che è stata la guerra fratricida per eccellenza, quella tra Eteocle e Polinice che, in presenza di Edipo, lo vediamo qui, si contendono il regno di Tebe lasciato dal padre, perché Eteocle non aveva voluto cedere il trono, allo scadere dell’anno che gli era destinato come regno, al fratello Polinice, il quale si reca ad Argo dal re Adrasto chiedendo di mettere su una schiera di guerrieri, un esercito per riconquistare il suo trono. I due fratelli si scontreranno di fronte alle mura di Tebe. Tutti e due soccomberanno, l’uno contro l’altro, armati. Di fronte agli occhi della madre, Giocasta, e del padre Edipo, figlio di quella madre Giocasta, che aveva dato alla luce questi due figli maledetti. Gli altri guerrieri sono qui rappresentati nell’atto di combattere, distinguibile solo uno di loro, Anfiarao, alla base del vaso. L’indovino, prossimo a un destino divino per la sua capacità di pronosticare il futuro, era venerato quasi come un dio nel V secolo a.C. e qui lo vediamo nel momento in cui sprofonda nel ventre della terra, lui che aveva previsto il destino funesto di questa battaglia. Si vedono i quattro cavalli e colui che li guidava nel mentre che scompare. Gli altri guerrieri non sono facilmente riconoscibili. Vi era sicuramente Tideo, Capaneo.

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Particolare di Zeus che fulmina Capaneo dall’altorilievo del Tempio A di Pyrgi, al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)

“Li conosciamo attraverso una straordinaria raffigurazione in ambito etrusco, quello dell’altorilievo di Pyrgi che mostra il terribile atto crudele e barbaro di Tideo che in punto di morte divora il cervello attraverso il cranio di Melanippo, venendo destinato alla morte per colpa di questo atto scellerato. Atena doveva dargli l’immortalità, era pronta a fargli bere attraverso un’ampolla, ma lo scopre in un atto brutale da cui si ritrae disgustata e la sua immortalità passerà al figlio Diomede. Capaneo, l’altro eroe, sta per superare le mura di Tebe, bestemmia, appare Zeus e lo fulmina. Diomede è tra coloro i quali beneficiano della sorte funesta di Tideo. Conseguendo l’immortalità, lui si trasferirà in Occidente, sarà venerato lungo l’Adriatico e considerato addirittura il fondatore di Spina e probabilmente è da riconoscere tra questi personaggi. Secondo le interpretazioni più recenti accreditate di questo vaso, su quest’altro lato ci troviamo di fronte agli Epigoni, i figli dei Sette che riusciranno a conquistare finalmente Tebe, ricevendo il premio a distanza di una generazione. Diomede, fuggito in Occidente, fonderà Spina e altre città secondo la tradizione. Qui li vediamo un attimo prima però del loro trionfo. Vanno da Atena e hanno uno scopo, quello di dare giusta e onorata sepoltura ai loro padri, cosa che avverrà sul suolo sacro di Eleusi per l’intercessione del re di Atene Teseo, che è riconoscibile qui in questo guerriero con lo scudo che rappresenta un’amazzonomachia. Atene troneggia in questo messaggio ideologico che è un inno alla civiltà contro la barbarie. È un appello a non essere fratricidi – conclude Nizzo – e a rispettare le norme della giustizia e del vivere civile. Alla fine gli Epigoni trionfano e sono celebrati in tante opere della tragediografia, tra le quali l’Eschilo dei “Sette contro Tebe”, rappresentati dieci anni prima di questo capolavoro. Dieci anni circa. Che si data alla metà del V secolo a.C. ed è ancora pulsante delle sue innumerevoli storie”.

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La sala delle Carte geografiche al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

La sesta puntata di “Rasna. Una serie etrusca” è ospitata nel Salone delle Carte Geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara. Cornice del racconto che ripercorre le fasi cruciali della eccezionale scoperta della città di Spina. Ricca, potente, importante: non c’erano più dubbi sulla grandezza di questa città. Oltre 1200 corredi straordinari emergevano dal fango e offrivano una testimonianza senza precedenti della peculiarità di questo contesto. Il museo Archeologico nazionale di Ferrara nasceva nel 1935 come Regio Museo di Spina, sede naturale per accogliere i tesori delle campagne di scavo che dal 1922 al 1936 si susseguono senza sosta per restituire alla cittadinanza gli oggetti materiali di un glorioso passato. Se volete scoprire la città perduta di Spina, venite ad ammirare i capolavori in mostra. Sono oltre 700, legati fra loro da una storia comune, testimonianze di altissima qualità artistica, simboli della maestria di un popolo, ma anche oggetti parlanti che ancora oggi ci raccontano la fama e l’importanza del porto di Spina in tutto il Mediterraneo.

“6. LA SCOPERTA DI SPINA”. “Il 20 ottobre 1935 – ricorda Valentino Nizzo – un pubblico a festa gremiva questa sala, la Sala delle Carte geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara. Era il giorno di inaugurazione del regio museo di Spina. Erano passati pochi anni dal 3 aprile 2022 quando l’ingegner Aldo Mattei aveva comunicato alla soprintendenza Archeologica di Bologna una scoperta straordinaria che avrebbe cambiato la conoscenza dell’archeologia della pianura Padana, ma in generale dell’archeologia dell’Italia preromana e degli Etruschi, soprattutto. Era stata finalmente identificata una delle città sulle quali maggiormente si erano soffermate le fonti letterarie antiche, quella Spina che aveva avuto il privilegio con Cerveteri di possedere un thesauros a Delfi. Era stata una città ricca, potente, importante, grazie alla sua ardita collocazione geografica alla foce del Po e al controllo di quel mare Adriatico che costitutiva una via privilegiata di contatto con il mondo greco e in particolare con quello ateniese, almeno quanto il Po, con i suoi affluenti, costituiva una fondamentale via di penetrazione verso le Alpi, verso il centro e nord Europa. E poi fino a Spina arrivavano materie prime importanti dal Baltico, l’ambra, e dall’Etruria mineraria materie prime come il ferro, il rame. Insomma un epicentro economico che giustifica la ricchezza degli oltre 1200 corredi che vennero alla luce in una serie ininterrotta di campagne di scavo che dal 1922 al 1936 consentirono di completare l’esplorazione della necropoli di Valle Trebba. Quella che è evidenziata su una delle più importanti carte geografiche presenti in questa sala, la carta che mostra quello che era l’assetto delle opere di bonifica che portarono alla scoperta della necropoli di Spina, qui delimitata in azzurro. La Sala delle Carte geografiche celebra attraverso questa peculiare forma di comunicazione quanto dicevo prima in merito all’importanza strategica ed economica della collocazione di Spina. Lo fa ricostruendo quello che il protagonista di questo racconto, il Po, nella sua evoluzione attraverso il tempo, così come poteva essere ricostruita sulla base delle cartografie antiche, qui riprodotte in dimensioni monumentali, e delle conoscenze che si avevano appunto intorno agli anni ’30 del Novecento. Un’immagine della Tabula Peutingeriana evoca quello che è stato l’impero romano, erede chiaramente di quello etrusco, così come due grandi carte geografiche, di fronte a me, riproducono la massima espansione raggiunta dall’Etruria e quella che è stata la divisione in regioni voluta da Augusto, che recuperava molte delle tradizioni etniche dell’età preromana.

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L’ultima parte dell’Ode a Ferrara di Giosuè Carducci nella Sala delle Carte geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“In cima a queste piante – indica Nizzo – l’Ode a Ferrara di Giosuè Carducci evoca la tensione e l’attesa di quella Spina che in quel momento era ancora ignota, almeno rispetto alla sua localizzazione. E lo fa evocando le tante fonti che richiamavano l’importanza di questa città. Diomede, ritenuto il fondatore di Spina in alcune fonti, è all’inizio di questa citazione: “Diomede avea di delfic’oro e argivo onor vestita d’Adria reina Spina pelasga. Ahi nome vano or suona. Sparì, del vespro visione, in faccia alla sorgente con in man la croce ferrea Ferrara”. In questo parallelepipedo il taglio della poesia racchiude quella che è concettualmente la volontà di Ferrara di sentirsi erede di Spina. Questo ha spinto gli archeologi e gli uomini politici del tempo a individuare in questo luogo la sede più adatta del regio museo di Spina, in uno dei palazzi rinascimentali più importanti della nostra penisola e di questa città. Opera mirabile, anche se incompiuta, di Biagio Rossetti. Palazzo Costabili, detto di Ludovico il Moro, dalla tradizione che collegava Costabili a Ludovico il Moro, in quanto suo ambasciatore. Siamo nella Ferrara estense nel suo momento di massima floridezza. E questo palazzo, appena acquisito al Demanio dello Stato, fu oggetto di un complesso lavoro di restauro per trasformarlo in un museo archeologico. E fu certamente audace la volontà di arricchire con affreschi moderni, lo ricordo, degli anni ’30 del Novecento, quanto rimaneva di pareti spoglie delle originali decorazioni. Un modo per rendere idealmente questa sala, un tempo destinata a balli e feste, quella che oggi definiremmo una sala didattica ante litteram. È straordinario tutto questo. Dà l’idea della percezione dell’importanza di ciò che era stati scoperto in un’Italia che era l’Italia fascista e che a Ferrara aveva in un gerarca come Italo Balbo uno dei più entusiasti promotori di questo progetto con la Cassa di Risparmio e il Comune, ricordati in quelle lapidi dipinte alle mie spalle. Insomma un’opera collettiva che per una volta non celebrava la grandezza dell’impero, al quale il fascismo di ispirava, ma la grandezza di quel passato etrusco che aveva a sua volta reso grande Roma.

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In azzurro l’area della necropoli di Valle Trebba dipinta nella Sala delle Carte geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Per me è emozionante raccontare tutto questo tenendo in mano un testimone di queste imprese, uno dei giornali di scavo redatti dall’assistente Francesco Proni, con una cura, un’attenzione per i dettagli, una capacità di disegno davvero straordinarie. È incredibile per l’epoca la cura nella registrazione di dettagli minutissimi riguardanti la disposizione degli oggetti di corredo rispetto al cadavere, oggi indispensabile per l’interpretazione ideologica del significato di quegli oggetti, e per la ricostruzione della storia di quelle persone che li possedevano e che i loro familiari avevano voluto che li accompagnassero nell’ultima sepoltura. Francesco Proni era un modesto assistente di scavo diretto all’inizio dall’archeologo Nigrioli e poi dal soprintendente Salvatore Aurigemma. Ma ci ha lasciato davvero qualcosa di unico di cui oggi siamo tutti quanti debitori. Il 3 aprile 1922 l’ingegnere Mattei compie un gesto importante: segnalare la scoperta di una città che avrebbe restituito migliaia di tombe, in totale 4000, e poi, decenni dopo, avrebbe portato anche alla scoperta dell’abitato. Lì forse – conclude Nizzo – matura una nuova consapevolezza rispetto anche al metodo di scavo e al modo in cui le informazioni recuperate sul campo possono trasformarsi nella grande storia di città come Spina e nella piccola ma altrettanto importante storia di quegli uomini che hanno fatto grande quella città”.

Ferrara. Al museo Archeologico nazionale finissage della mostra “Spina etrusca: un grande porto nel Mediterraneo” con due visite guidate, un brindisi e uno spettacolo di danza etrusca

ferrara_archeologico_mostra-spina-etrusca_allestimento_1_foto-drm-emilia-romagnaAllestimento della mostra “Spina etrusca” al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-emilia-romagna)

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Ricostruzione di un’abitazione di Spina (foto università di zurigo)

Quattro mesi non erano stati sufficienti ad accogliere le migliaia di visitatori giunti al museo Archeologico nazionale di Ferrara per “scoprire” la Spina etrusca, scoperta un secolo fa, nella tarda primavera del 1922, durante le bonifiche dei bacini lagunari attorno a Comacchio: tra operai al lavoro e trincee colme di acque di risalita, riemerse dall’oblio la ricca città portuale degli Etruschi fondata in prossimità del delta del Po alla fine del sesto secolo a.C., sommersa per secoli dalle acque dolci e dal fango e perduta alla conoscenza diretta degli uomini. Solo le fonti antiche e i poeti (Boccaccio e Carducci, per fare qualche nome) ne conservarono memoria fino a cento anni fa. “L’impresa archeologica più importante nell’ambito dell’Italia settentrionale preromana”: così Nereo Alfieri, primo direttore del museo Archeologico di Ferrara, avrebbe chiosato quarant’anni dopo, nel 1960, l’epica vicenda degli scavi di Spina. Così, visto appunto il successo di pubblico, la mostra “Spina etrusca: un grande porto nel Mediterraneo” (vedi Ferrara. Al museo Archeologico nazionale aperta la mostra “Spina etrusca: un grande porto nel Mediterraneo”, culmine delle celebrazioni Spina100: racconta di una città costruita sull’acqua e votata alla navigazione per mare, potente centro dell’alto Adriatico in dialogo paritario con l’Atene di età classica | archeologiavocidalpassato), che rappresenta il culmine delle celebrazioni per il centenario della scoperta della città di Spina, vero spartiacque della archeologia etrusca, ad aprile 2023 era stata prorogata di quattro mesi, praticamente raddoppiando il tempo espositivo (Ferrara. Al museo Archeologico nazionale prorogata al 31 agosto la mostra “Spina etrusca. Un grande porto nel Mediterraneo”. Il direttore Trocchi: “Un successo oltre le aspettative”. Il direttore regionale Musei Cozzolino: “Un atto dovuto, nonostante il grosso sforzo amministrativo”. Aperta una nuova sezione sui sequestri da scavi illegali | archeologiavocidalpassato).

ferrara_archeologico_mostra-spina-etrusca-finissage_locandinaMa ora siamo giunti al finissage della mostra “Spina Etrusca. Un grande porto nel Mediterraneo”: e per il 31 agosto 2023, ultimo giorno di apertura, la direzione regionale Musei dell’Emilia Romagna e il museo Archeologico nazionale di Ferrara ha organizzato un pomeriggio-sera speciale. La giornata verrà scandita da due visite guidate gratuite, a cura dei servizi educativi del museo, rispettivamente alle 17.15 e alle 17.30, prenotabili telefonando al numero 0532 66299. Al termine delle visite guidate il direttore del Museo, Tiziano Trocchi, inviterà il pubblico ad un brindisi e ad assistere allo spettacolo di danza etrusca organizzato dall’ associazione storica Herentas.

Questo video della direzione regionale Musei dell’Emilia-Romagna svela il backstage della mostra “Spina Etrusca. Un grande porto nel Mediterraneo” allestita al museo Archeologico nazionale di Ferrara, attraverso le interviste del direttore del Museo, Tiziano Trocchi, e di Elisabetta Govi, docente dell’università di Bologna.

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Ceramiche esposte nella mostra “Spina etrusca: un grande porto del Mediterraneo” al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-emilia-romagna)

“Il successo della mostra ha sorpassato le nostre aspettative”, aveva spiegato il direttore Tiziano Trocchi. “Per fornire alcune cifre di riferimento, nelle giornate di Pasqua e lunedì dell’Angelo gli ingressi al Museo sono aumentati del 51% e del 73% rispetto alle stesse giornate dell’anno scorso. Questo conferma non solo l’aspettato richiamo dell’iniziativa, ma anche e soprattutto il ruolo centrale di Palazzo Costabili come punto di aggregazione culturale della città di Ferrara, che intendiamo consolidare nei nostri futuri programmi”.  Soddisfatto anche il direttore regionale Musei Emilia-Romagna, Giorgio Cozzolino: “La proroga di più di quattro mesi ha richiesto uno sforzo amministrativo notevole, data l’eccezionalità e la quantità di prestiti, più di 250, e la varietà dei prestatori. Tuttavia è stato un atto dovuto, come omaggio alla grande accoglienza della città di Ferrara, che si conferma sito d’elezione per l’organizzazione di grandi mostre a livello nazionale ed internazionale”.

Rovereto (Tn). Alla Caritro proiezione del film “La scoperta di Spina, città etrusca” e incontro dell’archeologo Battisti col regista Bornazzini per iniziativa dell’Accademia roveretana degli Agiati

rovereto_agiati_film-la-scoperta-di-spina_locandinaIl 3 aprile 1922, durante lo scavo di un canale di scolo in Valle Trebba, una delle Valli di Comacchio da poco prosciugata, vennero alla luce alcuni oggetti di terracotta di particolare interesse. La soprintendenza alle Antichità e Belle Arti, prontamente informata, annunciò che i reperti provenienti per lo più dalla necropoli della città etrusca di Spina erano di inestimabile valore. Era stata scoperta la città etrusca di Spina. Venerdì 17 febbraio 2023, alle 17.45, nella sala conferenze della Fondazione Caritro di Rovereto, in piazza Rosmini a Rovereto, per iniziativa dell’Accademia degli Agiati in collaborazione con il Rotary club Rovereto Vallagarina, proiezione del film “La scoperta di Spina, città etrusca” di Cesare Bornazzini (Italia, 33’). Il video è dedicato ai protagonisti della scoperta di Spina, ai loro collaboratori, e a tutti quelli che hanno dimostrato e dimostrano attenzione e interesse per l’antico insediamento. Introducono Ermanno Baldo, presidente del Rotary club Rovereto Vallagarina, e Patricia Salomoni, presidente dell’Accademia degli Agiati. Dopo la presentazione del video Maurizio Battisti della Fondazione museo civico Rovereto dialogherà con il regista.

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Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina (foto http://www.rivadelpo.it)

Ha così inizio, in maniera quasi casuale, una storia archeologica di eccezionali rinvenimenti che continua ancora oggi. A dirigere la prima campagna di scavi è inizialmente Augusto Negrioli, al quale succede Salvatore Aurigemma che manterrà la direzione dei lavori fino al 1935 quando viene inaugurato il Regio Museo Archeologico Nazionale di Ferrara a Palazzo di Lodovico il Moro. Dopo la parentesi della guerra, al nuovo soprintendente Paolo Enrico Arias, nominato nel 1946, è affidato il difficile compito della ricostruzione o, meglio, di ridare nuova vita alla Soprintendenza archeologica dell’Emilia – Romagna e al museo di Spina. L’anno successivo, nel 1947, giunge alla direzione del museo Nereo Alfieri e viene così a comporsi quel binomio Arias-Alfieri che dà vita alla seconda campagna di scavi in Valle Pega, un’altra valle da poco bonificata.

Ferrara. Al museo Archeologico nazionale aperta la mostra “Spina etrusca: un grande porto nel Mediterraneo”, culmine delle celebrazioni Spina100: racconta di una città costruita sull’acqua e votata alla navigazione per mare, potente centro dell’alto Adriatico in dialogo paritario con l’Atene di età classica

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Ricostruzione di un’abitazione di Spina (foto università di zurigo)


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Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina (foto http://www.rivadelpo.it)

“L’impresa archeologica più importante nell’ambito dell’Italia settentrionale preromana”: così Nereo Alfieri, primo direttore del museo Archeologico di Ferrara, chiosò nel 1960 l’epica vicenda degli scavi di Spina, che andavano allora chiudendosi dopo una stagione assai intensa di scoperte e ritrovamenti, campagne di scavo e trafugamenti, clamore mediatico e partecipazione popolare. Nella tarda primavera del 1922, durante le bonifiche dei bacini lagunari attorno a Comacchio, tra operai al lavoro e trincee colme di acque di risalita, riemerse dall’oblio la ricca città portuale degli Etruschi fondata in prossimità del delta del Po alla fine del sesto secolo a.C., sommersa per secoli dalle acque dolci e dal fango e perduta alla conoscenza diretta degli uomini. Solo le fonti antiche e i poeti (Boccaccio e Carducci, per fare qualche nome) ne conservarono memoria fino a cento anni fa.

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Locandina della mostra “Spina etrusca. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo Archeologico nazionale di Ferrara dal 22 dicembre 2022 al 23 aprile 2023

 

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Presentazione della mostra “Spina etrusca”: da sinistra, Massimo Osanna, Vittorio Sgarbi e Giorgio Cozzolino (foto drm-emilia-romagna)

Dopo un secolo dall’impresa archeologica, il museo Archeologico nazionale di Ferrara, diretto da Tiziano Trocchi, nato per Spina e inaugurato nel 1935, intende celebrare questa ricorrenza con una mostra ospitata nei saloni di Palazzo Costabili, che – inaugurata il 22 dicembre 2022 – rimarrà aperta al pubblico fino al 23 aprile 2023: “Spina etrusca: un grande porto nel Mediterraneo” (nel video, la presentazione ufficiale con Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura; Giorgio Cozzolino, direttore regionale Musei Emilia-Romagna; Massimo Osanna, direttore generale Musei; Monica Miari, soprintendente ABAP-BO reggente; Cristina Ambrosini, responsabile Cultura della Regione Emilia-Romagna; Marco Gulinelli, assessore alla Cultura del Comune di Ferrara; Giuseppe Sassatelli, presidente dell’istituto nazionale di Studi etruschi ed italici e presidente del comitato scientifico della mostra). La mostra racconta di una città costruita sull’acqua e votata alla navigazione per mare, potente centro dell’alto Adriatico in dialogo paritario con l’Atene di età classica, porto dalla strategia aggressiva a controllo delle rotte verso occidente. La mostra rappresenta il culmine delle iniziative per le celebrazioni del centenario, coordinate dalla direzione generale Musei in stretta collaborazione con la direzione regionale Musei Emilia-Romagna e il museo Archeologico nazionale di Ferrara, d’intesa con la soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e per le province di Modena Reggio Emilia e Ferrara, con la partecipazione di Regione Emilia-Romagna, delle amministrazioni comunali di Ferrara e Comacchio e delle università di Ferrara, Bologna e Zurigo.

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Allestimento della mostra “Spina etrusca” al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-emilia-romagna)

L’allestimento sceglie di affidarsi in modo consistente al linguaggio delle tecnologie di ricostruzione dei paesaggi e dei contesti antichi per dare vita a una narrazione di forte suggestione. Al di là dell’indubbio splendore materico dei reperti esposti – con importanti prestiti dai principali musei archeologici italiani e prestigiosi materiali provenienti dal Metropolitan Museum of Art di New York, alla cui presenza in mostra ha contribuito anche la Regione Emilia-Romagna -, la mostra intende suggerire ai visitatori il significato del grande porto di Spina per gli Etruschi del V secolo a.C. e per i cittadini “mediterranei” del 2022.

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Ceramiche esposte nella mostra “Spina etrusca: un grande porto del Mediterraneo” al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-emilia-romagna)

Col tragitto per mare dal Pireo fino al delta del Po, su imbarcazioni percorse da marinai, cariche di contenitori di vino e profumi, ricche di raffigurazioni mitiche ben note agli Etruschi, comincia il percorso espositivo, accompagnato dalle narrazioni mitologiche che ambientavano qui, alla foce dell’Eridano (antico nome del fiume Po), le tristi vicende di Fetonte e di Icaro, degli eroi greci civilizzatori per antonomasia, Diomede ed Eracle. Il profilo di Spina, per chi vi approdava dal mare, si mostrava coi dossi e le depressioni delle sue necropoli, ancora evocati nella rappresentazione delle carte geografiche del Salone d’Onore del museo, e dichiarava nelle scelte del rituale funebre la complessità della comunità che vi abitava.

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Corredi dalla necropoli di Spina (foto drm-emilia-romagna)

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Bronzetto esposto nella mostra “Spina etrusca: un grande porto nel Mediterraneo” al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-emilia-romagna)

Gli spineti si facevano seppellire con ricchi corredi di materiali ceramici e bronzei di provenienza eterogenea, che evocavano analoghe scelte nel rituale condivise con le élites aristocratiche degli altri grandi centri etruschi della Penisola. È una rete complessa di echi, di rimandi, somiglianze ed evocazioni quelle che si dipana tra gli oggetti delle tombe da Spina e da Pisa, Adria o Cerveteri. Ma la vita quotidiana degli spineti si muoveva tra l’abitato, con le sue costanti esigenze di manutenzione e adattamento all’ambiente lagunare, e il porto, fulcro dell’attività commerciale ed economica della città e dei suoi dintorni. Mercanti, anfore e marinai, rumori di sartie e di magazzini, prezzi e contrattazioni in più lingue. Anche testimonianze di culto, per pregare e ringraziare di un viaggio pericoloso giunto a destinazione. Il richiamo all’attualità, evocata con discrezione per associazione di funzioni e significati, senza mai sottintendere confronti impossibili, invita il visitatore a immaginare la storia “organica” che sfugge ai metodi di ricerca della disciplina archeologica: gli uomini, i rumori, gli odori che dovevano seguire il percorso dei bellissimi capolavori di ceramica attica oggi esposti in museo. Due mari, Tirreno e Adriatico, due porti, e lo stesso privilegio: come ci tramandano Dionigi e Strabone, entrambe le città etrusche di Spina e Pyrgi (Cerveteri), a cui la mostra dedica un’intera sezione, ebbero l’onore di costruire un donario nel santuario panellenico di Delfi.

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Preziose ceramiche a figure rosse dagli scavi di Spina (foto drm-emilia-romagna)

L’incredibile mobilità che connota la comunità spinete si riflette nella pluralità delle provenienze degli oggetti delle necropoli e nella molteplicità culturale ed etnica della compagine cittadina, frequentata da persone che parlavano e scrivevano in lingue differenti. La mostra non trascura di raccontare anche di una mobilità più recente, che testimonia i fenomeni di dispersione del patrimonio emerso dalle valli di Spina in diversi musei italiani e stranieri. Il prestigioso prestito dei vasi del Metropolitan Museum of Art di New York si fa portavoce di questo racconto e porta luce sulla presenza internazionale di Spina in numerose esposizioni museali. Il viaggio per mare dalle coste della Grecia si conclude con un percorso che termina a Ferrara, nel momento della scoperta della necropoli di Valle Trebba e nella conseguente decisione di dar vita al Regio Museo di Spina, oggi Museo archeologico nazionale di Ferrara. La mostra che celebra a Ferrara il centenario della scoperta di Spina segue dopo quasi vent’anni l’ultima grande esposizione dedicata alla città etrusca e vuole narrare il volto di un centro nodale nei traffici mediterranei e adriatici di età classica.

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Hydria etrusca a figure nere del Pittore del Vaticano 238 dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto drm-emilia-romagna)

Nella seconda metà del 2023 la mostra “Spina etrusca” sarà ospitata dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, ultima tappa del suo viaggio. “Un grande motivo di orgoglio”, commenta il direttore Valentino Nizzo, “di cui dobbiamo ringraziare la direzione regionale musei dell’Emilia Romagna e la Direzione generale Musei del MiC. Cercheremo di onorare adeguatamente l’impegno rendendo omaggio a Spina e a ciò che rappresenta nell’archeologia, nell’arte, nella storia e nel mito”.

Bologna. Al via “IMAGINES. Obiettivo sul passato”, rassegna del documentario archeologico promossa dal Gruppo archeologico bolognese giunta alla 20.ma edizione: due giornate con film introdotti dagli esperti e dai protagonisti, aperto dal film di Alberto Castellani sull’Afghanistan

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L’esterno della Mediateca di San Lazzaro di Savena (Bo) che ospita la rassegna IMAGINES del gruppo archeologico bolognese (foto gabo)

Il Gruppo archeologico bolognese accende la ventesima candelina di “IMAGINES. Obiettivo sul passato”, rassegna del documentario archeologico, tradizionale appuntamento di fine autunno atteso dagli appassionati, organizzato insieme al museo della Preistoria “Luigi Donini” di San Lazzaro, col patrocinio del Comune di Bologna e del Comune di San Lazzaro. IMAGINES è in programma sabato 3 e domenica 4 dicembre 2022 nella sala eventi della Mediateca Comunale di San Lazzaro di Savena (Bo). Un’edizione ancora in forma ridotta, come nel 2021, ma non per questo meno ricca: tre film per giornata introdotti da esperti. L’ingresso è libero e gratuito fino ad esaurimento dei posti disponibili. Non è obbligatorio l’uso della mascherina per tutta la durata della manifestazione. Il suo utilizzo è vivamente consigliato alle persone fragili. Al termine di ogni giornata di IMAGINES sarà estratto fra i presenti un abbonamento annuale alla rivista Archeologia Viva. Inoltre, domenica 4 sarà estratta la partecipazione gratuita ad un viaggio di un giorno organizzato da Insolita Itinera per il Gruppo Archeologico Bolognese.

SABATO 3 DICEMBRE 2022. Alle 15.30, inizio delle proiezioni con il film “Afghanistan, tracce di una cultura sfregiata” (Italia, 2022; 52’) di Alberto Castellani, che dà voce e spazio al dolore, alla sofferenza ma anche alla lotta per resistere e salvare il patrimonio, della nazione e del popolo afghano. L’Afghanistan, il cui patrimonio è sottoposto a sistematico saccheggio, rischia di perdere la propria identità e di svegliarsi dal caos attuale senza la coscienza di possedere una storia. L’Archeologia con le sue capacità di scoprire e ricostruire il passato può fornire un prezioso contributo per la sua rinascita (vedi “Afghanistan: tracce di una cultura sfregiata”: il regista veneziano Alberto Castellani svela in anteprima il suo nuovo film che racconta di un Paese martoriato, un popolo umiliato, una cultura millenaria e un patrimonio archeologico ricchissimo a rischio; con il contributo dei massimi esperti in materia | archeologiavocidalpassato). Il film sarà introdotto dal regista Alberto Castellani. Segue il film “L’antichità svelata” di Claudio Busi (30’), introdotto da Gabriele Nenzioni, direttore del museo della Preistoria “Luigi Donini” di San Lazzaro di Savena (Bo).

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Il tempio di Amnehotep II (Amenofi II) a Tebe Ovest (foto khekeru.ch)

Dopo l’intervallo, proiezione del film “Una stagione di scavo sui resti del tempio di Amenhotep II a Tebe Ovest” di Claudio Busi (30’) introdotto dal regista Claudio Busi, speleologo, viaggiatore e film-maker. Il tempio di Amenhotep II venne sommariamente scavato, insieme ad altre strutture templari, da Sir William Matthew Flinders Petrie, che pubblicò i risultati della sua indagine in Six Temples at Thebes 1896. Nel 1997 il CEFB ha riaperto le ricerche sul sito del tempio funerario di Amenhotep II.

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Le ricche necropoli della città di Spina furono scoperte nel 1922

Comacchio_mostra-spina-100_locandinaDOMENICA 4 DICEMBRE 2022. Le proiezioni iniziano alle 15.30 con il film “Gli architetti del deserto” di Joseph C. Sousa (43’) introdotto da Silvia Romagnoli, archeologa e travel designer. Seguono due film per ricordare i 100 anni dalla scoperta dell’antica città di Spina: “La scoperta di Spina. I personaggi” di Cesare Bornazzini (33’) e “Le tombe di Spina” di Salvatore Aurigemma (17’) introdotti da Silvia Romagnoli. La necropoli della città greco-etrusca di Spina, nelle Valli di Comacchio fu scoperta il 23 aprile 1922. La scoperta del sito è legata alle opere di bonifica del primo dopoguerra, come ricostruisce Nereo Alfieri in “Spina. Storia di una città tra Greci ed etruschi” (catalogo mostra, 1994). La prima comunicazione, infatti, è dell’ingegner Aldo Mattei, direttore della sezione staccata del Genio civile a Comacchio, con una lettera alla soprintendenza agli Scavi e Monumenti archeologici di Bologna: “Nella valle Trebba (Valli settentrionali di Comacchio), in cui è stata compiuta la bonifica idraulica a cura dello Stato e dove si stanno facendo da Comuni interessati opere di bonifica agraria, è stato scoperto casualmente da un operaio un sepolcreto probabilmente dell’epoca etrusca: così almeno ritengo vai vasi istoriati scoperti”. Le campagne di scavo, condotte fino al 1935 dal neo soprintendente Salvatore Aurigemma nell’area di Valle Trebba portarono alla luce la zona settentrionale della necropoli di Spina con più di 1200 sepolture i cui materiali sono oggi esposti al museo Archeologico nazionale di Ferrara (vedi Comacchio. A Palazzo Bellini apre la mostra “Spina 100. Dal mito alla scoperta” per le celebrazioni nazionali del centenario della scoperta della città etrusca di Spina (1922-2022) | archeologiavocidalpassato). Dopo l’intervallo, la rassegna si conclude con il film “I luoghi del mito. Demetra e Kore” di Gaspare Mannoia (30’) introdotto da Giuseppe Mantovani, Vicedirettore del Gruppo Archeologico Bolognese e curatore di IMAGINES.

 

Roma. Per “Dialoghi in Curia” incontro in presenza e in streaming su “1922-2022. Spina etrusca: a cent’anni dalla scoperta di un grande porto mediterraneo” con Sassatelli, Braccesi e Michetti

roma_dialoghi-in-curia_spina-etrusca_sassatelli-braccesi-michetti_locandinaNuovo appuntamento con i “Dialoghi in Curia” promossi dal parco archeologico del Colosseo. Giovedì 17 novembre 2022, alle 16.30, la Curia Iulia ospita “1922-2022. Spina etrusca: a cent’anni dalla scoperta di un grande porto mediterraneo”: una conferenza dedicata al centenario della scoperta di Spina, grande porto etrusco del Mediterraneo rinvenuto casualmente nel 1922. Le successive indagini scientifiche furono dirette dalla soprintendenza alle Antichità dell’Emilia e della Romagna, istituita il 19 settembre 1924. Le campagne di scavo, condotte fino al 1935dal neo soprintendente Salvatore Aurigemma nell’area di Valle Trebba, portarono alla luce la zona settentrionale della necropoli di Spina con più di 1200 sepolture. La successiva bonifica di Valle Pega portò alla scoperta, tra il 1953 e il 1956, dell’area meridionale della necropoli che, nell’arco di altri dieci anni di scavi alla guida del soprintendente Paolo Enrico Arias e del direttore del Museo Nereo Alfieri, restituì ben 3mila tombe. Tra il 1957 e il 1964 fu individuato anche l’abitato, nella Valle del Mezzano, oggetto, negli ultimi anni, di nuove indagini estensive volte a definire meglio gli aspetti strutturali e cronologici urbani. Dopo i saluti di Alfonsina Russo, direttore del PArCo, introduce Massimo Osanna, direttore generale Musei. Intervengono Giuseppe Sassatelli, presidente dell’istituto nazionale di Studi Etruschi e Italici; Lorenzo Braccesi, già professore universitario, storico e saggista; e Laura Michetti, professoressa alla Sapienza Università di Roma. Prenotazione obbligatoria fino a esaurimento posti (max 100) su www.eventbrite.it. Ingresso da largo della Salara Vecchia n.5. All’ingresso del PArCo sarà richiesto di indossare la mascherina. L’evento sarà trasmesso in diretta streaming online sulla pagina Facebook del Parco archeologico del Colosseo.

“SPINA. La scrittura nel porto adriatico”: è il tema sviluppato dal progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con le iscrizioni etrusche su reperti del museo Archeologico nazionale di Ferrara

“SPINA. La scrittura nel porto adriatico” è il tema sviluppato dagli studenti del laboratorio di Epigrafia etrusca dell’università Alma Mater di Bologna studiando i reperti conservati al museo Archeologico nazionale di Ferrara con iscrizioni etrusche nel percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” nell’ambito del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con la direzione del professor Andrea Gaucci. I cinque approfondimenti proposti sono articolati con grafiche e scritti disponibili anche in podcast audio. Autori: Jacopo Bellezza, Francesca Bonsanto, Jessica Ghini, Michela Martino, Lucia Scandellari (podcast https://anchor.fm/andrea-gaucci/episodes/Spina-sullAdriatico–Un-porto–molte-genti-egv51p).

Sulla copertina dello studio “Spina sull’Adriatico. Un porto, molte genti” nell’ambito del progetto Zich, il ciotolo con l’inscrizione “mi tular” (foto unibo)

Spina sull’Adriatico. Un porto, molte genti. Spina, città di fondazione etrusca degli ultimi decenni del VI secolo a.C., sviluppò sin dalla nascita una fisionomia che la distingue da tutte le altre città etrusche. La sua collocazione presso la foce del Po, a pochi chilometri dal mar Adriatico, ne favorì la funzione di scalo marittimo e lo sviluppo di una intensa attività commerciale tra il mondo greco, in particolare Atene, e quello etrusco dell’entroterra padano che aveva come fulcro Felsina. Dopo la metà del IV sec. a.C., la città diventò un polo di attrazione per gli etruschi in fuga dagli altri centri padani a seguito dell’occupazione gallica. Per far fronte alla crisi economica diventò protagonista di una nuova rete commerciale tra i porti dell’Adriatico, intraprendendo anche azioni di pirateria. Il corpus epigrafico di Spina, conosciuto come il più ampio dell’Etruria Padana, registra molte centinaia d’iscrizioni, di cui la maggior parte databile all’ultima fase di vita della città. La scrittura segue le tendenze evolutive comuni a tutta l’Etruria. Le iscrizioni sono tutte graffite su vasi e riportano perlopiù nomi di persona, ad eccezione di una realizzata su un ciottolo di pietra, recante il testo “mi tular” (cioè “io sono il confine”). Questo documento viene considerato di notevole importanza poiché documenta il rituale di fondazione etrusco della città e l’organizzazione dello spazio urbano. Nella fase antica, un significativo numero di iscrizioni attesta la presenza di Greci, attirati a Spina dalle prospettive di commercio con gli Etruschi della pianura padana. La definizione di polis hellenis data dagli scrittori antichi a questa città e anche altre evidenze archeologiche sono riprova di questa radicata presenza. Se nella fase più antica la maggior parte delle iscrizioni etrusche provengono dall’abitato, dopo il IV sec. a.C. aumentano considerevolmente le iscrizioni da necropoli, segno di pratiche rituali che coinvolgevano maggiormente la scrittura. I testi mostrano la diffusa etruschizzazione di nomi italici e greci, a dimostrazione della natura di porto della città ancora nei decenni anteriori alla sua fine, databile prima del 200 a.C.

Ciotola a vernice nera con iscrizione dalla Tomba 1057 della necropoli di Valle Trebba di Spina conservata nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto archeofe)
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Grafica dell’iscrizione sulla ciotola dalla Tomba 1057 della necropoli Valle Trebba di Spina (foto unibo)

Una famiglia molto antica. Il testo esprime solo un nome maschile, nel quale il suffisso –nalo denota chiaramente come un gentilizio. Questo appartiene all’importante famiglia dei Per(e)kena/Perkna, nota dal VII sec a. C. fino all’età romana. Originaria della zona della Valdelsa (la più antica attestazione risale al VII sec a.C.), e da lì diffusasi verso Chiusi e Cortona, arrivò ad insediarsi a Marzabotto, nella prima metà del V sec a.C., e poi a Spina, dove è documentata nel IV e III sec. a.C. A dimostrazione del profondo radicamento della famiglia nel territorio, abbiamo numerose attestazioni del termine Perkna dalle iscrizioni rinvenute nelle aree funerarie di Valle Trebba e di Valle Pega a Spina, in gruppi di tombe che dimostrano la scelta di un medesimo spazio sepolcrale da parte degli stessi membri, cioè veri e propri recinti. I ricchi corredi sembrano appartenere ad individui di una élite sociale coesa, che si autorappresenta attraverso rituali comunitari di consumo del vino, testimoniati dal numeroso vasellame deposto assieme al defunto. È assai probabile quindi che si trattasse di un’influente famiglia all’interno del panorama socio-politico della città, in quanto la frequenza di rinvenimento di iscrizioni che fanno riferimento a questo gentilizio rimarca l’appartenenza a questa gens del defunto o di chi offriva il dono funebre.

Piattello a vernice nera con iscrizione dalla Tomba 623 della necropoli di Valle Trebba di Spina, conservato nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto archeofe)
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Grafica dell’iscrizione sul piattello dalla Tomba 623 della necropoli Valle Trebba di Spina (foto unibo)

Un etrusco dalle radici greche. L’iscrizione è stata rinvenuta nel corredo della Tomba 623 nella Necropoli di Valle Trebba sul piede di un piatto in argilla databile attorno al 300 a.C. Si tratta di una formula di possesso, che permetteva al proprietario di rimarcare la proprietà dell’oggetto. È possibile tradurre come “io (sono) di Venu Platunalu”, dove al pronome personale mi, tradotto “io”, segue il prenome maschile Venu e infine il gentilizio Platunalu. Venu, il nome proprio dell’uomo, è attestato in Etruria settentrionale, a Bologna già dal periodo orientalizzante, e poi ad Adria e nella stessa Spina diffuso in periodo ellenistico. Il gentilizio Platunalu non ha altre attestazioni ed è formato con il suffisso di ambito padano –alu. In esso si riconosce una formazione dal nome greco Πλάτων, che registra la storia di un Greco, immigrato in Etruria padana e integrato in una delle comunità etrusche con un atto formale che prevedeva l’assegnazione di un gentilizio. Il nome di famiglia è estraneo al sistema onomastico greco, che perciò in questi casi veniva costruito ex novo. È incerto se la cittadinanza fosse stata acquisita proprio da Venu Platunaluo da un suo antenato, ma si può dire che il personaggio fosse pienamente integrato nella compagine civica di Spina. Questa iscrizione è un’ulteriore prova del traffico di genti e di prodotti caratteristico della città, tanto che, a volte, c’era chi, per ragioni commerciali, politiche o sociali, rimaneva a vivere fino ad essere pienamente integrato.

Piatto in argilla grigia con iscrizione da contesto domestico di Spina distrutto da un incendio conservato nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto archeofe)
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Grafica dell’iscrizione sul piatto da contesto domestico di Spina (foto unibo)

Una donna etrusca dalle radici greche. Un caso unico nel contesto dell’abitato di Spina è quello di un gruppo di iscrizioni apposte su un intero servizio di vasi di tipo diverso (sei piatti e dodici ciotole), rinvenute all’interno di una casa distrutta da un incendio avvenuto nel IV sec a.C. Le iscrizioni contengono la medesima formula onomastica, formata da un prenome e un gentilizio con desinenza –i  che identifica Tata Kephlei come una donna. La struttura onomastica è chiaramente etrusca, anche se il nome di famiglia, a tutt’oggi privo di riscontri, tradisce un’origine greca. Anche il nome proprio Tata è attestato fino ad ora solo a Spina. Nei corredi rinvenuti all’interno delle tombe delle aree funerarie della città questo si caratterizza per identificarsi in alcuni casi come femminile in altri come maschile. Questa eccezionale condizione e la distribuzione dei gentilizi derivati da esso, come l’orvietano Tatana, ha portato ad ipotizzare che Tata sia stato acquisito da un ambiente linguistico non etrusco. Non a caso, le attestazioni dei gentilizi si contano fin dal periodo arcaico ad Orvieto, a Perugia e in Campania, città e luoghi con fortissime interazioni tra popolazioni e lingue diverse. Le iscrizioni di Tata Kephlei dunque, ci ricordano una cittadina di Spina di origine greca, che marcò con il suo nome un intero set da mensa.

Askòs con duplice iscrizione dalla Tomba 1026 della necropoli di Valle Trebba di Spina, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto archeofe)
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Grafica delle due iscrizioni sull’askos dalla Tomba 1026 della necropoli Valle Trebba di Spina (foto unibo)

Scrivere in etrusco o scrivere in greco? Il nome Herine è usato come gentilizio a Chiusi e in altre città dell’Etruria settentrionale. È probabile che questo trovi la sua origine nel mondo italico, diffondendosi poi in Etruria. Riguardo a Spina, si hanno due testimonianze di questo nome, entrambe su un askos all’interno della Tomba 1026 della Necropoli di Valle Trebba di IV sec a.C. La prima iscrizione, “mi herineś”, è stata rinvenuta sul corpo del vaso, al di sotto dell’ansa, mentre la seconda, “herines”, sul piede. Nel primo caso il possesso è indicato attraverso l’espediente dell’oggetto parlante: il pronome “mi” ha funzione di soggetto (“io”), ed è proprio il vaso stesso che si definisce come proprietà di “Herine”, il cui nome è declinato al genitivo. Nella seconda iscrizione invece abbiamo il solo genitivo che può essere tradotto come “di Herine”. È interessante notare che, sebbene le due iscrizioni riportino lo stesso nome, la prima è scritta le caratteristiche scrittorie tipiche di Spina, mentre la seconda sembra presentare alcune lettere di aspetto greco come in particolare il sigma finale a quattro tratti , suggerendo la competenza di più scritture e forse lingue di chi l’ha realizzato. Sempre nella seconda iscrizione, l’ acca a cerchiello tagliato esplicita la ricezione di una riforma grafica elaborata a Spina e influenzata dalla città greca di Taranto, a dimostrazione dello stretto legame culturale tra questi mondi nella fase tarda della città.

Ritrovare l’antica città etrusca di Spina (le vaste necropoli sono state una delle scoperte più importanti del Novecento): è l’obiettivo del progetto Eos (Etruscans on the Sea) dell’università di Bologna all’interno del progetto interreg Value. A Comacchio la presentazione in streaming della prima campagna di scavo e le attività future. Intanto a Stazione Foce sta nascendo la ricostruzione dell’abitato di Spina

Locandina dell’evento in streaming da Comacchio “L’università di Bologna a Spina. Progetto Value. Prima campagna di indagini”

È stata una delle scoperte più importanti per l’archeologia italiana del Novecento. L’antico centro etrusco di Spina, situato nel Delta del Po, è rimasto sommerso per secoli nelle lagune. Poi, in seguito alle bonifiche che sono state realizzate in quella zona fra gli anni Venti e Sessanta del secolo scorso, sono venute alla luce vaste e ricche necropoli, insieme a parti dell’abitato. Ma le ricerche sono riprese col progetto EOS (Etruscans on the Sea) dell’Alma Mater Studiorum, università di Bologna volto alla riscoperta di Spina. Per saperne di più venerdì 23 ottobre 2020, alle 17.30, appuntamento in streaming con il Comune di Comacchio (basta collegarsi al sito comunale www.comune.comacchio.fe.it) per la Conversazione sull’archeologia “L’Università di Bologna a Spina e la prima campagna della missione archeologica EOS”. Interverranno Emanuele Mari, assessore comunale alla Cultura, che porterà i saluti da parte della soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena Reggio Emilia e Ferrara; Roberto Cantagalli, dirigente Cultura e Turismo; Andrea Gaucci, dipartimento di Storia Culture Civiltà università di Bologna; e l’equipe Alma Mater Studiorum università di Bologna: Giacomo Mancuso, Enrico Zampieri, Anna Serra e Carlotta Trevisanello. Nell’incontro a cura di Andrea Gaucci e dell’equipe Unibo oltre alla presentazione dello studio della vasta necropoli di Valle Trebba, la chiusura della prima campagna della missione archeologica nel territorio dell’antica città etrusca permette di affrontare un preliminare bilancio e programmare le future attività nel sito.

Abitato di Spina: ricerche di superficie dell’equipe dell’università di Bologna nell’ambito del progetto Eos (Etruscan on the Sea)

Una nuova missione archeologica per riscoprire la città etrusca di Spina. Tre settimane di indagini archeologiche nelle valli attorno a Spina per riscoprire il tessuto urbano dell’antica città etrusca che dominava il mare Adriatico e aveva rapporti privilegiati con la Grecia. È la prima tappa del nuovo progetto EOS (Etruscans On the Sea), guidato dal dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’università di Bologna. “Obiettivo primario di questa nuova missione archeologica è la comprensione dell’articolazione dell’antica città portuale di Spina, di cui oggi sappiamo ancora poco, a partire dalla localizzazione del porto e degli edifici sacri”, spiega la professoressa Elisabetta Govi, titolare della cattedra di Etruscologia dell’Alma Mater e direttrice della missione. “I dati raccolti consentiranno di programmare nuove attività di ricerca in aree mirate: questa è infatti solo la prima tappa, mentre un secondo intervento è già in programma per il prossimo inverno”. In questa prima campagna archeologica sono state infatti realizzate indagini preliminari e propedeutiche allo scavo vero e proprio, possibili grazie alla concessione di indagine autorizzata dalla soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. “Queste indagini permetteranno di individuare tracce di strutture sepolte all’interno di un’area vastissima, ampia circa 28 chilometri quadrati”, dice il professor Andrea Gaucci, che coordina la missione sul campo. “Saranno realizzate ricognizioni sui campi con percorsi all’interno di griglie rigide, un’indagine geofisica e l’acquisizione di fotografie multispettrali attraverso l’utilizzo di droni: metodi oggi imprescindibili all’interno della più aggiornata ricerca archeologica”. Le operazioni sono realizzate in collaborazione con il Consorzio di Bonifica Pianura di Ferrara e con l’università di Ferrara. La missione coinvolge ricercatori e tecnici di laboratorio, assegnisti di ricerca, dottorandi, allievi della scuola di specializzazione in Beni archeologici e studenti del corso di laurea magistrale in “Archeologia e culture del mondo antico” dell’Alma Mater.

Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina

L’università di Bologna ha una lunga tradizione di studi e ricerche nelle valli di Comacchio: dall’opera di Nereo Alfieri, prima direttore del Museo di Ferrara e poi professore di Topografia antica all’Alma Mater, fino alla recente impresa di studio e di edizione delle 1215 tombe della necropoli di Valle Trebba, progetto avviato dalla Cattedra di Etruscologia sotto il coordinamento del professor Giuseppe Sassatelli e continuato da Elisabetta Govi. Un impegno che prosegue ora con il progetto EOS (Etruscans On the Sea), che punta a far tornare alla luce in tutta la sua estensione l’antica città etrusca di Spina. L’iniziativa nasce all’interno di VALUE – enVironmental And cuLtUral hEritage development, progetto europeo Interreg che coinvolge cinque partner italiani (il Comune di Comacchio in qualità di capofila, la Regione Veneto, la Regione Emilia-Romagna, il Parco del Delta del Po regionale del Veneto e l’agenzia di sviluppo territoriale DELTA 2000) e tre partner croati (i comuni di Kastela, Korcula e Cres).

Progetto Value: ricostruzione dell’antico abitato di Spina a Stazione Foce nel parco delle Valli di Comacchio (foto http://www.rivadelpo.it)

Intanto col Progetto VALUE nelle Valli di Comacchio sta nascendo una ricostruzione di abitazioni dell’antica città di Spina (vedi www.rivadelpo.it). Nell’area di Stazione Foce, nelle Valli di Comacchio, sta nascendo un vero e proprio Parco Open Air, dove turisti, appassionati e cittadini potranno ammirare dal vivo la ricostruzione di uno spaccato dell’antica Spina. Il progetto, coordinato dal dipartimento Storia Culture Civiltà dell’Alma Mater Studiorum università di Bologna, e seguito dal prof. Antonio Gottarelli, già esperto di queste ricostruzioni nell’abitato etrusco di Monte Bibele (Monterenzio, BO), permetterà, per la prima volta, di “apprezzare dal vivo” quello che un tempo doveva essere Spina. Si potrà infatti passeggiare tra due grandi abitazioni, in scala reale, interamente realizzate in legno e canne palustri, edificate seguendo gli indizi offerti dalle indagini archeologiche, mostrando così quello che nell’antica città giace oggi sepolto sotto 4 metri di terra e di storia. Il punto scelto dagli esperti per ricreare queste installazioni museali non è casuale. Il paesaggio che oggi si apprezza visitando le Valli di Comacchio, si avvicina molto all’ambiente che 2500 anni fa un greco o un etrusco potevano ammirare visitando il grande emporio Spinetico. Inoltre, l’attrattiva delle Valli, con un pubblico annuale che si aggira attorno alle 35.000 presenze, potrà fungere da attrattore per il museo Delta Antico a Comacchio. Non appena il Parco sarà ultimato il percorso di visita per le Valli inizierà proprio attraversando questa installazione, in un percorso immersivo che trasporterà i turisti in un vero e proprio viaggio nel tempo.