Firenze. Per “I pomeriggi all’Archeologico” al MAF la conferenza “Vini e vitigni del mondo romano: la classificazione di Plinio il Vecchio” con Eva Falaschi (Humboldt Fellow, Universität Tübingen)
Al museo Archeologico nazionale di Firenze ricomincia la rassegna dei “Pomeriggi dell’Archeologico” con la conferenza di Eva Falaschi (Humboldt Fellow, Universität Tübingen) “Vini e vitigni del mondo romano: la classificazione di Plinio il Vecchio”: appuntamento al MAF giovedì 2 ottobre 2025, alle 17; ingresso gratuito solo su prenotazione obbligatoria scrivendo all’indirizzo: man-fi@cultura.gov.it. La Naturalis Historia di Plinio il Vecchio è uno dei testi principali per conoscere la viticoltura, la vinificazione e il consumo di vino in epoca romana. Plinio restituisce due lunghe liste di vitigni e di vini, che rappresentano un unicum nella letteratura latina e il più antico tentativo di classificazione sopravvissuto nella storia europea. Ma quali criteri lo guidano nel costruire la sua descrizione di un fenomeno che ha plasmato la società e la cultura romane, e non solo?
Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina


Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024
Quante volte ci siamo interrogati sul significato delle scene rappresentate sui vasi conservati nelle collezioni dei Musei? Un patrimonio di storie figurate tramandate fino a noi: paesaggi in fermo immagine, personaggi in movimento, miti perduti o metafore di storie contemporanee. Tutto questo traspare dalla lettura delle opere riemerse dalle sabbie di Spina, oltre cento anni fa, quando la sorpresa e la meraviglia colse gli operai impegnati nei lavori di bonifica delle valli Trebba e Pega. Attraverso quelle raffigurazioni possiamo conoscere molto dell’immaginario collettivo nel mondo antico, possiamo rileggere il mito e anche riprodurre la realtà, con gli occhi dei Greci. Comincia così l’introduzione al quarto episodio del video-racconto in 19 puntate “Rasna. Una serie etrusca”, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, prodotto dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, approfondimento della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Dopo aver conosciuto i primi tre episodi – 1. la Grande Etruria, 2. Ulisse ed Eracle, 3. Caere/Pyrgi e Delfi – (vedi Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco i primi tre episodi: la Grande Etruria, Ulisse ed Eracle, Caere/Pyrgi e Delfi | archeologiavocidalpassato) ecco altri tre video-racconti: il 4, 5 e 6.

Cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore dei Satiri Villosi, con gigantomachia, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“I Greci avevano una parola precisa per designare condotte che si allontanavano dalla loro idea di morale o del vivere civile: hybris”, spiega Valentino Nizzo. “In italiano la rendiamo solitamente con un termine un po’ desueto, tracotanza, che tuttavia sarebbe assai opportuno ancora per descrivere molte situazioni che affliggono il nostro quotidiano. La hybris per eccellenza negli scenari del mito era quella dei Giganti, esseri divini dalla forza iperbolica, nati dalla terra e dunque a partire dall’ellenismo – ma io ritengo anche prima – rappresentati con la parte inferiore del corpo anguipede, cioè terminante con dei serpenti. Una delle loro rappresentazioni più efficaci è quella dei rilievi dell’altare di Pergamo, oggi a Berlino. Nel V secolo, tuttavia, la loro immagine non differisce da quella degli Dei con i quale avevano intrapreso una drammatica lotta per il controllo dell’Olimpo, come possiamo vedere nei due splendidi vasi con gigantomachia del museo Archeologico nazionale di Ferrara protagonisti del quarto video di “Rasna. Una serie etrusca”. L’unica differenza, tuttavia essenziale, riguarda le modalità di combattimento che li vede agire unicamente lanciando pietre colossali, grandi spesso come isole, al punto che i Greci riconducevano alla loro azione alcuni dei loro arcipelaghi. Si trattava dunque di un modo barbaro e incivile di lottare, al quale gli Dei dell’Olimpo contrapponevano le loro molteplici abilità, chi col fulmine, chi con il tridente, chi con forse meno efficaci kantharoi o fiaccole. Se, tuttavia, non avessero avuto l’aiuto di un mortale gli Dei non sarebbero mai riusciti a prevalere. Ma non un mortale qualunque. Eracle che con questa impresa, più che con le dodici fatiche, aveva meritato la sua apoteosi sull’Olimpo. Ma cosa c’entrano con tutto questo gli Etruschi? – si chiede Nizzo -. La loro tracotanza era proverbiale, sempre agli occhi dei Greci e la loro presunta discendenza da un popolo semidivino e immerso nel mito come i Pelasgi aveva forse favorito la loro assimilazione ai figli della terra, abili con le pietre così come si riteneva lo fossero i proverbiali costruttori delle mura cosiddette pelasgiche. Ma a questa analogia si aggiungevano forse anche degli elementi storici legati alla prima battaglia di Cuma nella quale Aristodemo nel 524 a.C. aveva sconfitto una temibile armata guidata dai Tirreni del golfo Ionio, quelli dell’area Padana dove contemporaneamente nasceva Spina”.
“4. ETRUSCHI E GIGANTI”. “Tra le più grandi perdite del mondo antico figura senza dubbio la scomparsa di gran parte e degli affreschi in cui i Greci eccellevano”, spiega Nizzo. “Li conosciamo attraverso racconti indiretti, testimonianze frammentarie come quelle di Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia o di Pausania o di Strabone. Fanno rabbrividire rispetto a quello che possiamo immaginare sia andato perso per sempre. I pittori greci erano in grado di ingannare addirittura con effetti 3D. Ci sono racconti che descrivono uccelli che provano ad afferrare i grappoli d’uva dipinti così realisticamente da ingannare anche la natura. Tutta quest’arte, al di là delle descrizioni delle poche fonti superstiti, la conosciamo indirettamente attraverso testimonianze figurate che sono grandi opere, ma dell’artigianato, non della grande arte.

Ceramiche esposte nella mostra “Spina etrusca: un grande porto del Mediterraneo” al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-emilia-romagna)
“Il museo Archeologico nazionale di Ferrara – continua Nizzo – custodisce uno degli scrigni più importanti anche da questo punto di vista, grazie alle migliaia di vasi attivi integri o in frammenti e di dimensioni cospicue come questi grandi crateri che per le loro dimensioni consentono di avere una lontana idea di quello che dovevano essere le grandi pitture perse per sempre. Chiaramente i colori sono quelli piatti della ceramica attica, quella più antica a figure nere, quella più recente a figure rosse. Non potremo mai recuperare la policromia o dettagli e sfumature. Polignoto all’inizio del V secolo era riuscito a imprimere nei suoi personaggi il pathos, a fargli dischiudere la bocca mostrando addirittura i denti, un particolare che viene notato dai critici del tempo, a infondere naturalezza, a creare dei paesaggi, delle sovrapposizioni tra i personaggi. Un altro aspetto interessante di questo discorso è legato al linguaggio che queste pitture consentivano di esprimere, che non è mai un linguaggio soltanto per intrattenere il pubblico che le osservava. Come nelle grandi cattedrali, si volevano raccontare storie a un pubblico prevalentemente analfabeta ed erano storie collegate al mito, al patrimonio mitico e all’immaginario dei greci, ma anche alla storia contemporanea reinterpretata attraverso il mito. La saga dei “Sette contro Tebe” è tra le realtà maggiormente evocate all’inizio del V secolo per richiamare lo scontro fratricida che divideva i Greci e che gli unì contro i Persiani. Lo scontro fratricida di Eteocle contro Polinice che è una sorta di metafora delle contese che separavano le città greche del tempo, unite finalmente contro il barbaro persiano.

Cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore dei Niobidi con raffigurata una Gigantomachia, proveniente dalla Tomba 313 della necropoli di Valle Trebba di Spina, e conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“Un altro mito che evocava lo stesso orizzonte della libertà riconquistata – approfondisce Nizzo – è quello della gigantomachia. I Greci percepiscono se stessi come gli dei dell’Olimpo che, con l’aiuto di un uomo diventato semidio, Eracle, riescono a contrastare i Giganti che volevano conquistare l’Olimpo. I figli di Gea, che combattevano soltanto con delle pietre colossali, ambiscono per la loro forza, le loro dimensioni sovrumane, a contendere il potere agli dei dell’Olimpo di un’altra generazione. E qui vediamo una delle diverse gigantomachie che sono state restituite dalle sabbie di Spina. Risale al 460-450 a.C. ed è attribuita al Pittore dei Niobidi o alla sua cerchia. È stata rinvenuta in una delle migliaia di tombe della necropoli di Valle Trebba e qui, sul suo lato principale, vediamo raffigurato l’unico essere umano che partecipa a questa contesa: Eracle. Un oracolo aveva detto che gli dei dell’Olimpo avrebbero potuto sconfiggere i Giganti solo grazie all’aiuto di un uomo e quest’uomo era Eracle che meritò, non solo per le sue dodici fatiche, ma per l’aiuto dato agli dei dell’Olimpo, quell’unione con loro, tra gli dei, la vita eterna, la giovinezza eterna, e la compagnia della giovinetta Ebe, un premio dopo tutte le fatiche che avevano caratterizzato la sua esistenza. Qui è con il suo celebre arco che sta scagliando una freccia contro forse il capo dei giganti Porfirion, qui ormai atterrato, aggredito anche da Atena, la dea che protegge e segue in tutte le peripezie di Eracle, che lo sta anch’essa trafiggendo. I serpenti della sua egida lo mordono e dal cielo cade uno dei fulmini scagliati da Zeus. E così lungo il seguito del vaso ognuno degli altri dei dell’Olimpo contrasta un gigante. Abbiano Ares, Efesto, Ecate, Hera. Insomma non ne manca nessuno. Nemmeno Dioniso, Apollo e Artemide si sottraggono a questo scontro.

Dettaglio con la falce di luna: cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore dei Satiri Villosi, con gigantomachia, da Spina, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“Ma in un altro vaso lo vediamo raccontato con un linguaggio leggermente diverso. Sono passati tra i dieci e i venti anni, siamo intorno al 440-430 a.C. Questo cratere a calice è attribuito al Pittore di Polignoto o a un gruppo a lui vicino, al Pittore dei Satiri Villosi. Rappresenta la stessa scena, ma occupando tutta l’ampiezza del corpo del cratere, creando quindi una sovrapposizione tra i personaggi, proprio nello stile dell’arte e delle megalografie dell’inizio del secolo. Siamo in un cratere recuperato sempre a Spina, ma purtroppo senza il contesto. È un recupero della Guardia di Finanza. E tuttavia siamo di fronte a un’opera integra come poche altre. E qui quello che colpisce, e colpì l’attenzione dei primi interpreti, è in questo spicchio di luna che appare nel cielo accanto alla quadriga guidata da Nike, la dea della vittoria, quella che coronerà di successo l’impresa degli dei dell’Olimpo e di Eracle. Sembra che sia un riferimento al mito che voleva che la Luna e il Sole fossero stati eclissati per impedire a Gea, alla dea della Terra, madre dei Giganti, di aiutarli con un farmaco. Questa oscurità impedisce quindi di aiutare i Giganti che soccombono grazie appunto anche all’aiuto di Eracle. È il loro trionfo, e quello dell’uomo che diventerà dio grazie a questa impresa, il protagonista di questi vasi. Qui il tutto viene raccontato tramite ispirazione diretta alle raffigurazioni di questo mito fatte da Fidia nel Partenone, sullo scudo della grande Atena cui probabilmente si ispira quest’opera. E da cui ricaviamo la cronologia di questo vaso.

Mappa dall’Egeo al Tirreno: segnati il monte Olimpo e i Campi Flegrei (foto etru)
“Cosa c’è dietro questi miti? L’ho già detto, c’è la volontà di richiamare la capacità degli uomini di primeggiare sulla brutalità dei Giganti – sottolinea Nizzo -. C’è un rifermento agli eventi della storia contemporanea, in particolare a quelli che riguardano i Persiani, ma questo mito è stato utilizzato probabilmente anche come metafora di altri barbari, gli Etruschi, che alla pari dei Persiani, dovevano essere sembrati ai Greci dei giganti da sconfiggere e questo, secondo alcuni, giustifica lo spostamento del luogo della battaglia tra gli dei dell’Olimpo con i Giganti dall’area ai piedi del monte Olimpo, la piana di Flegra, ai Campi Flegrei in Campania, caratterizzati da acque sulfuree che dovevano ricordare i Giganti fulminati da appunto il fulmine di Zeus. Sono i fenomeni tellurici che caratterizzano i Campi Flegrei e che lasciano l’idea di Giganti imprigionati al di sotto della terra, ma forse anche un’allusione a quella grande battaglia che a Cuma si svolge nel 524 a.C. e che vede primeggiare, quasi fosse un dio, Aristodemo, destinato a divenire tiranno come Eracle. L’uso ideologico della Gigantomachia potrebbe quindi avere avuto una localizzazione in Occidente ed essere stato applicato non solo a barbari come i Giganti e i Persiani, ma anche a dei giganti come gli Etruschi, o almeno agli occhi dei Greci così dovevano apparire, forse anche in virtù di quella discendenza presunta dai Pelasgi che, per la loro capacità di costruire grandi murature in opera poligonali, avevano assunto quasi la parvenza di esseri più simili agli dei che agli uomini, esseri divini. E i Tirreni, essendo i discendenti dei Giganti, potevano favorire nel mito e nell’ideologia questa assimilazione. Questo e molte altre cose vasi come questi ce lo raccontano, imprimendo in questo piccolo spazio la grande arte, altrimenti destinata a scomparire, e raccontando la grande storia, ricordando sempre che qui dentro si miscelava l’acqua con il vino per servirlo durante il simposio e durante il simposio questi racconti dovevano essere cantati accompagnati da fiati, da una bella musica e dai piaceri dello stare insieme.

Dettaglio del cratere con i Sette contro Tebe da Spina, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto etru)
“Il cratere dei Sette contro Tebe è certamente la raffigurazione più completa del ciclo dei Sette contro Tebe sopravvissuta nella ceramica attica del V secolo quella del cratere della tomba 579 di Valle Trebba a Spina. Risale probabilmente all’epoca di Cimone, l’età d’oro della talassocrazia ateniese. “Siamo dunque intorno al 460-450 a.C. e gli Ateniesi celebrano le proprie glorie piegando le immagini del mito alle proprie ambizioni e ideologie”, spiega Valentino Nizzo. “La gigantomachia, di cui abbiamo parlato nel precedente episodio, e i Sette contro Tebe sono i due più fulgidi esempi di tale approccio. Sia l’uno che l’altro alludevano infatti al trionfo sui temibili Persiani di pochi anni prima. Tracotanti come i Giganti. Agli usurpatori d’oriente si erano colpevolmente alleati i Tebani, tradendo i loro connazionali e, dunque, divenendo meritevoli della condanna e della punizione divina che aveva colpito la stirpe del re di Tebe, Edipo, culminata con lo scontro dei suoi due figli, Eteocle e Polinice, morti l’uno per mano dell’altro nella contesa fratricida per il trono paterno. Il cratere di Spina mostra sia lo scontro dei Sette che quello risolutivo dei loro figli, gli epigoni. Una associazione rarissima e carica di significati che sarebbe stata magnificamente immortalata in quegli stessi anni da Eschilo.

Frontone del Tempio A di Pyrgi conservato al museo nazionale di Villa Giulia a Roma (foto etru)
“Ma anche gli Etruschi adottarono questo mito per i propri scopi ideologici in uno dei loro capolavori più importanti, l’altorilievo di Pyrgi realizzato anch’esso intorno al 460 a.C. In occasione della mostra Spina Etrusca a Villa Giulia ho voluto collocare per la prima volta il cratere e l’altorilievo l’uno accanto all’altro. Una occasione unica per osservare e comprendere un messaggio che non ha tempo e che dall’antichità ad oggi continua a rappresentare un monito contro ogni forma di barbarie e inciviltà. Come ho provato a raccontare in meno di 10 minuti con questo 5° video di “Rasna. Una serie etrusca”.
“5. IL CRATERE DEI SETTE CONTRO TEBE”. “Sono davanti a uno dei capolavori della ceramografia attica”, precisa Valentino Nizzo. “È un’emozione vedere così da vicino una delle più importanti raffigurazioni del mito dei Sette contro Tebe, una delle leggende più importanti dell’antichità greca, carica di significati ideologici, particolarmente cara al mondo greco del V sec. a.C. Questo cratere è stato rinvenuto nel 1926 nella Tomba 579 di Valle Trebba. Non era comune trovare quasi integralmente conservato un monumento come questo, fragile ma così comunicativo, ancora oggi, dopo più di 2500 anni. È attribuito al Pittore di Bologna 279. Il nome non rende l’idea della capacità di questo ceramografo che si è confrontato con un tema che era andato alla ribalta all’indomani della vittoria dei Greci contro i Persiani nelle guerre persiane, quelle descritte da Erodoto. Una vittoria che aveva visto trionfare i Greci contro il barbaro invasore orientale. Non tutti i Greci però erano stati uniti in questa battaglia. Alcuni si erano schierati dalla parte sbagliata. I Tebani si erano collocati a favore dei Persiani e tutto questo sarà rappresentato nelle pitture realizzate all’interno del tempio di Atena Arèia a Platea, dove si voleva comunicare l’idea del fratricidio che i Tebani avevano commesso a danno degli altri Greci, evocando quella che è stata la guerra fratricida per eccellenza, quella tra Eteocle e Polinice che, in presenza di Edipo, lo vediamo qui, si contendono il regno di Tebe lasciato dal padre, perché Eteocle non aveva voluto cedere il trono, allo scadere dell’anno che gli era destinato come regno, al fratello Polinice, il quale si reca ad Argo dal re Adrasto chiedendo di mettere su una schiera di guerrieri, un esercito per riconquistare il suo trono. I due fratelli si scontreranno di fronte alle mura di Tebe. Tutti e due soccomberanno, l’uno contro l’altro, armati. Di fronte agli occhi della madre, Giocasta, e del padre Edipo, figlio di quella madre Giocasta, che aveva dato alla luce questi due figli maledetti. Gli altri guerrieri sono qui rappresentati nell’atto di combattere, distinguibile solo uno di loro, Anfiarao, alla base del vaso. L’indovino, prossimo a un destino divino per la sua capacità di pronosticare il futuro, era venerato quasi come un dio nel V secolo a.C. e qui lo vediamo nel momento in cui sprofonda nel ventre della terra, lui che aveva previsto il destino funesto di questa battaglia. Si vedono i quattro cavalli e colui che li guidava nel mentre che scompare. Gli altri guerrieri non sono facilmente riconoscibili. Vi era sicuramente Tideo, Capaneo.

Particolare di Zeus che fulmina Capaneo dall’altorilievo del Tempio A di Pyrgi, al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)
“Li conosciamo attraverso una straordinaria raffigurazione in ambito etrusco, quello dell’altorilievo di Pyrgi che mostra il terribile atto crudele e barbaro di Tideo che in punto di morte divora il cervello attraverso il cranio di Melanippo, venendo destinato alla morte per colpa di questo atto scellerato. Atena doveva dargli l’immortalità, era pronta a fargli bere attraverso un’ampolla, ma lo scopre in un atto brutale da cui si ritrae disgustata e la sua immortalità passerà al figlio Diomede. Capaneo, l’altro eroe, sta per superare le mura di Tebe, bestemmia, appare Zeus e lo fulmina. Diomede è tra coloro i quali beneficiano della sorte funesta di Tideo. Conseguendo l’immortalità, lui si trasferirà in Occidente, sarà venerato lungo l’Adriatico e considerato addirittura il fondatore di Spina e probabilmente è da riconoscere tra questi personaggi. Secondo le interpretazioni più recenti accreditate di questo vaso, su quest’altro lato ci troviamo di fronte agli Epigoni, i figli dei Sette che riusciranno a conquistare finalmente Tebe, ricevendo il premio a distanza di una generazione. Diomede, fuggito in Occidente, fonderà Spina e altre città secondo la tradizione. Qui li vediamo un attimo prima però del loro trionfo. Vanno da Atena e hanno uno scopo, quello di dare giusta e onorata sepoltura ai loro padri, cosa che avverrà sul suolo sacro di Eleusi per l’intercessione del re di Atene Teseo, che è riconoscibile qui in questo guerriero con lo scudo che rappresenta un’amazzonomachia. Atene troneggia in questo messaggio ideologico che è un inno alla civiltà contro la barbarie. È un appello a non essere fratricidi – conclude Nizzo – e a rispettare le norme della giustizia e del vivere civile. Alla fine gli Epigoni trionfano e sono celebrati in tante opere della tragediografia, tra le quali l’Eschilo dei “Sette contro Tebe”, rappresentati dieci anni prima di questo capolavoro. Dieci anni circa. Che si data alla metà del V secolo a.C. ed è ancora pulsante delle sue innumerevoli storie”.

La sala delle Carte geografiche al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
La sesta puntata di “Rasna. Una serie etrusca” è ospitata nel Salone delle Carte Geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara. Cornice del racconto che ripercorre le fasi cruciali della eccezionale scoperta della città di Spina. Ricca, potente, importante: non c’erano più dubbi sulla grandezza di questa città. Oltre 1200 corredi straordinari emergevano dal fango e offrivano una testimonianza senza precedenti della peculiarità di questo contesto. Il museo Archeologico nazionale di Ferrara nasceva nel 1935 come Regio Museo di Spina, sede naturale per accogliere i tesori delle campagne di scavo che dal 1922 al 1936 si susseguono senza sosta per restituire alla cittadinanza gli oggetti materiali di un glorioso passato. Se volete scoprire la città perduta di Spina, venite ad ammirare i capolavori in mostra. Sono oltre 700, legati fra loro da una storia comune, testimonianze di altissima qualità artistica, simboli della maestria di un popolo, ma anche oggetti parlanti che ancora oggi ci raccontano la fama e l’importanza del porto di Spina in tutto il Mediterraneo.
“6. LA SCOPERTA DI SPINA”. “Il 20 ottobre 1935 – ricorda Valentino Nizzo – un pubblico a festa gremiva questa sala, la Sala delle Carte geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara. Era il giorno di inaugurazione del regio museo di Spina. Erano passati pochi anni dal 3 aprile 2022 quando l’ingegner Aldo Mattei aveva comunicato alla soprintendenza Archeologica di Bologna una scoperta straordinaria che avrebbe cambiato la conoscenza dell’archeologia della pianura Padana, ma in generale dell’archeologia dell’Italia preromana e degli Etruschi, soprattutto. Era stata finalmente identificata una delle città sulle quali maggiormente si erano soffermate le fonti letterarie antiche, quella Spina che aveva avuto il privilegio con Cerveteri di possedere un thesauros a Delfi. Era stata una città ricca, potente, importante, grazie alla sua ardita collocazione geografica alla foce del Po e al controllo di quel mare Adriatico che costitutiva una via privilegiata di contatto con il mondo greco e in particolare con quello ateniese, almeno quanto il Po, con i suoi affluenti, costituiva una fondamentale via di penetrazione verso le Alpi, verso il centro e nord Europa. E poi fino a Spina arrivavano materie prime importanti dal Baltico, l’ambra, e dall’Etruria mineraria materie prime come il ferro, il rame. Insomma un epicentro economico che giustifica la ricchezza degli oltre 1200 corredi che vennero alla luce in una serie ininterrotta di campagne di scavo che dal 1922 al 1936 consentirono di completare l’esplorazione della necropoli di Valle Trebba. Quella che è evidenziata su una delle più importanti carte geografiche presenti in questa sala, la carta che mostra quello che era l’assetto delle opere di bonifica che portarono alla scoperta della necropoli di Spina, qui delimitata in azzurro. La Sala delle Carte geografiche celebra attraverso questa peculiare forma di comunicazione quanto dicevo prima in merito all’importanza strategica ed economica della collocazione di Spina. Lo fa ricostruendo quello che il protagonista di questo racconto, il Po, nella sua evoluzione attraverso il tempo, così come poteva essere ricostruita sulla base delle cartografie antiche, qui riprodotte in dimensioni monumentali, e delle conoscenze che si avevano appunto intorno agli anni ’30 del Novecento. Un’immagine della Tabula Peutingeriana evoca quello che è stato l’impero romano, erede chiaramente di quello etrusco, così come due grandi carte geografiche, di fronte a me, riproducono la massima espansione raggiunta dall’Etruria e quella che è stata la divisione in regioni voluta da Augusto, che recuperava molte delle tradizioni etniche dell’età preromana.

L’ultima parte dell’Ode a Ferrara di Giosuè Carducci nella Sala delle Carte geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“In cima a queste piante – indica Nizzo – l’Ode a Ferrara di Giosuè Carducci evoca la tensione e l’attesa di quella Spina che in quel momento era ancora ignota, almeno rispetto alla sua localizzazione. E lo fa evocando le tante fonti che richiamavano l’importanza di questa città. Diomede, ritenuto il fondatore di Spina in alcune fonti, è all’inizio di questa citazione: “Diomede avea di delfic’oro e argivo onor vestita d’Adria reina Spina pelasga. Ahi nome vano or suona. Sparì, del vespro visione, in faccia alla sorgente con in man la croce ferrea Ferrara”. In questo parallelepipedo il taglio della poesia racchiude quella che è concettualmente la volontà di Ferrara di sentirsi erede di Spina. Questo ha spinto gli archeologi e gli uomini politici del tempo a individuare in questo luogo la sede più adatta del regio museo di Spina, in uno dei palazzi rinascimentali più importanti della nostra penisola e di questa città. Opera mirabile, anche se incompiuta, di Biagio Rossetti. Palazzo Costabili, detto di Ludovico il Moro, dalla tradizione che collegava Costabili a Ludovico il Moro, in quanto suo ambasciatore. Siamo nella Ferrara estense nel suo momento di massima floridezza. E questo palazzo, appena acquisito al Demanio dello Stato, fu oggetto di un complesso lavoro di restauro per trasformarlo in un museo archeologico. E fu certamente audace la volontà di arricchire con affreschi moderni, lo ricordo, degli anni ’30 del Novecento, quanto rimaneva di pareti spoglie delle originali decorazioni. Un modo per rendere idealmente questa sala, un tempo destinata a balli e feste, quella che oggi definiremmo una sala didattica ante litteram. È straordinario tutto questo. Dà l’idea della percezione dell’importanza di ciò che era stati scoperto in un’Italia che era l’Italia fascista e che a Ferrara aveva in un gerarca come Italo Balbo uno dei più entusiasti promotori di questo progetto con la Cassa di Risparmio e il Comune, ricordati in quelle lapidi dipinte alle mie spalle. Insomma un’opera collettiva che per una volta non celebrava la grandezza dell’impero, al quale il fascismo di ispirava, ma la grandezza di quel passato etrusco che aveva a sua volta reso grande Roma.

In azzurro l’area della necropoli di Valle Trebba dipinta nella Sala delle Carte geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)
“Per me è emozionante raccontare tutto questo tenendo in mano un testimone di queste imprese, uno dei giornali di scavo redatti dall’assistente Francesco Proni, con una cura, un’attenzione per i dettagli, una capacità di disegno davvero straordinarie. È incredibile per l’epoca la cura nella registrazione di dettagli minutissimi riguardanti la disposizione degli oggetti di corredo rispetto al cadavere, oggi indispensabile per l’interpretazione ideologica del significato di quegli oggetti, e per la ricostruzione della storia di quelle persone che li possedevano e che i loro familiari avevano voluto che li accompagnassero nell’ultima sepoltura. Francesco Proni era un modesto assistente di scavo diretto all’inizio dall’archeologo Nigrioli e poi dal soprintendente Salvatore Aurigemma. Ma ci ha lasciato davvero qualcosa di unico di cui oggi siamo tutti quanti debitori. Il 3 aprile 1922 l’ingegnere Mattei compie un gesto importante: segnalare la scoperta di una città che avrebbe restituito migliaia di tombe, in totale 4000, e poi, decenni dopo, avrebbe portato anche alla scoperta dell’abitato. Lì forse – conclude Nizzo – matura una nuova consapevolezza rispetto anche al metodo di scavo e al modo in cui le informazioni recuperate sul campo possono trasformarsi nella grande storia di città come Spina e nella piccola ma altrettanto importante storia di quegli uomini che hanno fatto grande quella città”.
Bologna. Manca giusto un mese alla grande mostra “I pittori di Pompei” al museo civico Archeologico di Bologna con oltre 100 capolavori provenienti da quella che è considerata la più grande pinacoteca dell’antichità al mondo, il museo Archeologico nazionale di Napoli. Ecco le prime anticipazioni

Locandina della mostra “I pittori di Pompei” al museo Archeologico nazionale di Bologna dal 23 settembre 2022 al 19 marzo 2023
Un mese. Ancora un mese di attesa per la grande mostra “I pittori di Pompei” al museo civico Archeologico di Bologna dal 23 settembre 2022 al 19 marzo 2023 che si annuncia tra le più importanti nell’offerta culturale dell’autunno in Italia: oltre 100 capolavori provenienti da quella che è considerata la più grande pinacoteca dell’antichità al mondo, il museo Archeologico nazionale di Napoli. La mostra, curata da Mario Grimaldi e prodotta da MondoMostre, è stata resa possibile grazie a un accordo di collaborazione culturale e scientifica tra Comune di Bologna | museo civico Archeologico e museo Archeologico nazionale di Napoli. Alcuni degli splendidi affreschi che arricchivano le antiche domus romane di Pompei e delle altre città dell’area vesuviana saranno esposti a Bologna permettendo un excursus sulla società del I secolo d.C. a partire dalla figura dei pictores, sul cui ruolo aleggia una nuvola di mistero ancora oggi non del tutto svelato.

Filosofo con Macedonia e Persia, affresco dalla parete Ovest dell’oecus della villa di Fannio Sinistore a Boscoreale (I sec. a.C., II stile), conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto mann)
Se nel mondo della Grecia classica i pittori erano considerati “proprietà dell’universo” – come ricorda Plinio il Vecchio a sottolinearne l’importanza ed il ruolo – al tempo dei romani, i pictores erano visti come abili artigiani, e solo alcuni di loro conquistarono, per la qualità e la raffinatezza delle loro creazioni, il ruolo di artisti. E la loro arte, da mestiere riservato alle classi sociali marginali – schiavi, liberti – diventa arte che qualifica chi la pratica. Scrive infatti Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (XXXV, 118): “In verità però non c’è gloria se non per coloro che dipinsero quadri; e a questo proposito tanto più ammirevole appare la saggezza degli antichi. Essi infatti non abbellivano le pareti soltanto per i signori e i padroni, né decoravano case che sarebbero rimaste sempre in quel luogo e sottoposte quindi alla distruzione per gli incendi … Non ancora era di moda dipinger tutta la superficie delle pareti; l’attività artistica di quei pittori era rivolta verso gli edifici cittadini e il pittore era considerato proprietà dell’universo”. Quindi, sottolinea il curatore Mario Grimaldi: “Per Plinio la differenza non risiede tanto nel concetto che è alla base dell’arte di dipingere, la ricerca di quell’inganno splendido che crea un rapporto tra l’opera e l’osservatore, ma nel diverso concetto di artista, tra quello che dipinge quadri e decora lo spazio pubblico (uomo o donna che fosse) considerato e da considerare proprietà dell’Universo, e quello ad egli contemporaneo, che semplicemente abbelliva le pareti delle case creando un’arte senza maestri conosciuti”.

Ercole e Onfale, affresco dalla parete Est del triclinio della casa di Marco Lucrezio a Pompei (I sec. d.C., IV stile), conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto mann)
Il progetto espositivo pone al centro le figure dei pictores, ovvero gli artisti e gli artigiani che realizzarono gli apparati decorativi nelle case di Pompei, Ercolano e dell’area vesuviana, per contestualizzarne il ruolo e la condizione economica nella società del tempo, oltre a mettere in luce le tecniche, gli strumenti, i colori e i modelli. L’importantissimo patrimonio di immagini che questi autori ci hanno lasciato – splendidi affreschi dai colori ancora vivaci, spesso di grandi dimensioni – restituisce infatti il riflesso dei gusti e i valori di una committenza variegata e ci consente di comprendere meglio i meccanismi sottesi al sistema di produzione delle botteghe. Sono pochissime le informazioni giunte a noi sugli autori di queste straordinarie opere e quasi nessun nome ci è noto. Grazie alle numerose testimonianze pittoriche conservate dopo l’eruzione avvenuta nel 79 d.C. e portate alla luce dalle grandi campagne di scavi borbonici nel Settecento, le cittadine vesuviane costituiscono un osservatorio privilegiato per comprendere meglio l’organizzazione interna e l’operato delle officine pittoriche.

Parete in IV stile con Nature Morte (xenia) dalla parete Sud del tablino dei Praedia di Iulia Felix a Pompei (I sec. d.C.), conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto mann)
“Il caso delle città seppellite dall’eruzione vesuviana del 79 d.C. – Ercolano, Pompei e Stabia –“, scrive ancora Grimaldi nell’introduzione alla mostra, “appare uno dei più completi per l’eccezionale contestualizzazione degli apparati decorativi che, conservati perfettamente in situ, permettono così di ricomporre quei rapporti spazio-funzionali del contesto decorativo dandoci la possibilità di tener fede metodologicamente al concetto di rapporto tra spazio e decorazione e soprattutto di contesto. Infatti sempre più si è integrato all’analisi tipologica degli “stili” l’interesse verso i rapporti esistenti tra la decorazione degli ambienti e la loro funzione. In questo contesto la figura del pictor appare essere fondamentale per tradurre in immagini il rapporto esistente e necessario per il committente tra spazio, la sua casa, e decorazione. L’esperienza che si propone con questa mostra è dunque quella di rileggere, all’interno di questa prospettiva metodologica, alcuni grandi esempi decorativi facenti parte della Collezione degli Affreschi del museo Archeologico nazionale di Napoli provenienti da quelle città che, seppellite dalla grande eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., ci offrono ancora oggi la possibilità di indagare e far parte di quell’inganno splendido attraverso la personalità dei pictores che operarono in modo anonimo in quelle case”.

Figura femminile, affresco dalla parete Est del tablino della Casa del Meleagro a Pompei (I sec. d.C., IV stile), conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli (foto mann)
A Bologna, per la prima volta, verrà dunque esposto un corpus di straordinari esempi di pittura romana provenienti da quelle domus celebri proprio per la bellezza delle loro decorazioni parietali, dalle quali spesso assumono anche il nome con cui sono conosciute. Capolavori – solo per citarne alcuni – dalle domus del Poeta Tragico, dell’Amore punito, e dalle Ville di Fannio Sinistore a Boscoreale, e dei Papiri a Ercolano. Il visitatore potrà ammirare un’ampia selezione degli schemi compositivi più in voga nei diversi periodi dell’arte romana, osservando come alcuni artisti sapessero conferire una visione originale di modelli decorativi continuamente variati e aggiornati sulla base di mode e stili locali. Rivivere scene di accoglienza dell’ospite, raffinate immagini di paesaggi e giardini, architetture, ma anche ammirare gli strumenti tecnici di progettazione ed esecuzione del lavoro: colori, squadre, compassi, fili a piombo, disegni preparatori, reperti originali ritrovati nel corso degli scavi pompeiani, comprese coppe ancora ripiene di colori risalenti a duemila anni fa. E, ancora, triclini, lucerne, brocche, vasi, riaffiorati negli scavi e raffigurati proprio negli affreschi in mostra, con i quali dialogavano nello spazio. La mostra proporrà infine la ricostruzione di interi ambienti pompeiani come quelli della Casa di Giasone e, ancora di più della straordinaria domus di Meleagro con i suoi grandi affreschi con rilievi a stucco, per raccontare il rapporto tra spazio e decorazione, frutto della condivisione di scelte, e di messaggi da trasmettere, tra i pictores e i loro committenti.
#buonconsiglioadomicilio. Annapaola Mosca dei Servizi Educativi del museo del Buonconsiglio ci racconta l’antico sarcofago di piazza Mostra a Trento, con monete, balsamari e ampulla vitrea

Nuovo appuntamento con i video buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Annapaola Mosca dei Servizi educativi ci racconta la storia di alcuni balsamari romani in vetro trovati sul finire dell’Ottocento in un antico sarcofago che oggi si trova in piazza della Mostra di fronte al castello del Buonconsiglio.
In una sala di Castelvecchio, nucleo medievale del castello del Buonconsiglio, è conservato un balsamario di vetro verde-azzurro. “Il balsamario realizzato in vetro soffiato con il corpo tronco-conico arrotondato e l’alto collo cilindrico”, spiega Mosca, “è stato ritrovato, come ci informano i dati di archivio, in piazza della Mostra il 12 maggio 1860. Lo storico Michelangelo Mariani ci informa che piazza della Mostra, sottostante il Castello, nel XVII secolo era uno spazio multifunzionale adibito a giostre o tornei. Ma in età romana, l’area ora occupata da piazza della Mostra vicina all’anfiteatro, a giudicare dai dati archeologici, poteva essere un luogo destinato a necropoli. Due manufatti di età romana si trovano attualmente di fronte alla porta detta di San Vigilio del Castello del Buonconsiglio. Sono un’ara in pietra rossa e un sarcofago. Mentre dell’ara non abbiamo al momento delle notizie precise circa la sua provenienza, dai dati di archivio e da uno scritto del 1861 sappiamo che il sarcofago era stato scoperto in piazza della Mostra e scoperchiato il 12 maggio 1860. Un disegno del sarcofago in piazza della Mostra è riportato nel testo dello storico Lodovico Oberziner sui resti del 1883. Il nostro esemplare ha il coperchio conformato a tetto a doppio spiovente con quattro tegole piane ricoperte da coppi e con quattro acroteri agli angoli. Il sarcofago rientra in una classe di manufatti diffusi tra il II e il III sec. d.C. La decorazione è infatti caratterizzata da una tabella centrale affiancata da due arcate laterali delimitate da una semplice modanatura. Il sarcofago ricordava vagamente un tempio o un’abitazione in quanto veniva a essere la casa del defunto. Considerati i costi del materiale, il sarcofago era un oggetto destinato a personaggi che avevano ricoperto un ruolo importante quando erano in vita”.

Da questo sarcofago sono state estratte delle monete molto corrose e quattro recipienti vitrei che sono stati inseriti nelle raccolte municipali. “Questi recipienti”, continua Mosca, “venivano a costituire il corredo funerario e avevano valore rituale in quanto probabilmente erano stati impiegati nel rito della deposizione. Sono recipienti molto delicati e preziosi in vetro soffiato e sono giunti intatti perché protetti dalla cassa del sarcofago. Tre di questi, qualificati come balsamari o lacrimatoi, sono sostanzialmente simili e trovano una particolare diffusione in età imperiale romana. Erano destinati a contenere balsami o unguenti potenziati spesso con essenze naturali e olii. Potevano essere aggiunti sale, resina, gomma per limitare l’evaporazione, come ci racconta Plinio nella Naturalis Historia. Il quarto recipiente vitreo estratto dal sarcofago è l’ampulla in vetro verde-azzurro dal lungo collo cilindrico realizzata appositamente per limitare l’evaporazione del contenuto. Generalmente sarcofagi di queta tipologia erano corredati da un’epigrafe: un’eventuale iscrizione potrebbe essere stata abrasa intenzionalmente per poter riservare il sarcofago alla deposizione di ulteriori defunti”.
Domus Aurea, in attesa della grande mostra “Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche”, gli archeologi del PArCo presentano la splendida decorazione della reggia di Nerone realizzata dal leggendario pittore Fabullus
La grande mostra “Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche”, prevista da marzo 2020, quindi in pieno lockdown, dovrebbe aprire presto. Lo annunciano gli organizzatori del parco archeologico del Colosseo, che per prepararci meglio alla mostra, ci stanno offrendo un viaggio alla (ri)scoperta della Domus Aurea. Oggi parliamo della decorazione pittorica della Domus Aurea di Nerone che fu realizzata, secondo quanto ci racconta Plinio, dal pittore Fabullus. Secondo lo storico, il pittore passò talmente tanto tempo lavorando alla Domus Aurea di Nerone che si trasformò “nel suo carcere”. Ecco le sue parole nella “Naturalis Historia”, XXXV, 120: “Anche Fabullus visse poco: grave e severo e al tempo stesso pittore florido e rigoglioso per i colori vivi. Di lui c’era una Minerva che guardava sempre lo spettatore da qualsiasi direzione costui la osservasse. Dipingeva poche ore al giorno e con grande solennità sempre vestito in toga, anche sulle impalcature. La Domus Aurea fu come la prigione dell’arte sua: fuor di là non esiste gran che di lui”.

La sala di Achille a Sciro nella Domus Aurea decorata dal pittore Fabullus: al centro il riquadro con Achille rifugiatosi a Sciro tra le figlie del re Licomede (foto PArCo)
Ma torniamo a seguire le parole di Svetonio che nella “Vita di Nerone”, XXXI, scrive: “Nel resto della costruzione [Domus Aurea], ogni cosa era ricoperta d’oro e abbellita con gemme e madreperla. Il soffitto dei saloni per banchetti era a tasselli di avorio mobili”. Nella stupenda decorazione superstite della volta della sala di Achille a Sciro, il leggendario pittore Fabullus (citato da Plinio) realizzò una decorazione ispirata al ciclo troiano: nel riquadro centrale è infatti immortalato il momento in cui Achille, rifugiatosi a Siro tra le figlie del Re Licomede, svelò la sua vera identità, cadendo nel tranello di Ulisse. “Questi capolavori pittorici”, spiegano gli archeologi del PArCo, “che hanno influenzato gli artisti di ogni epoca storica, saranno parte integrante del percorso espositivo della mostra “Raffaello e la Domus Aurea”, che aprirà le sue porte al pubblico molto presto!”.
Lapis specularis, il “vetro dei poveri”, molto diffuso nel mondo romano: nel Bolognese le più importanti cave del mondo antico. E proprio Brisighella ospiterà in settembre il III convegno internazionale sul prezioso gesso, dal titolo “Il lapis specularis nei rinvenimenti archeologici”
Duro come il marmo, candido e trasparente come il vetro: così nel I sec. d.C. lo scrittore naturalista romano Plinio il Vecchio nella sua opera più famosa, la Naturalis Historia definiva il lapis specularis: in realtà si tratta di un gesso secondario, facilmente lavorabile a lastre piane. I romani ne facevano ampio uso come valida e più economica alternativa al vetro; un importante distretto minerario si trovava anche “in Bononiensis Italiae parte breves”, poco lontano da Bologna. Nell’ultimo decennio sono state individuate vicino a Brisighella diverse cave in cui si è praticata in età romana l’estrazione del gesso speculare: quelle nella Vena del Gesso Romagnola sono le prime mai scoperte in Italia. Non è un caso, quindi, che proprio a Brisighella (Bologna) dal 27 al 29 settembre 2017 ospiti al convento dell’Osservanza il convegno internazionale, a ingresso libero e gratuito, “Il lapis specularis nei rinvenimenti archeologici”, il terzo dedicato all’argomento, che riunisce archeologi, speleologi, storici e geologi, avvalendosi della partecipazione degli archeologi dell’Asociation Cultural Lapis Specularis de Madrid che illustreranno l’esperienza maturata nelle diverse cave di lapis presenti in Spagna. Il lapis specularis deve il suo nome al fatto che, a partire dall’età romana, sia stato utilizzato come elemento trasparente per le finestre. Per queste sue caratteristiche il gesso speculare è stato oggetto di intensa attività estrattiva e di una commercializzazione ad amplissimo raggio, in modo particolare nei primi secoli dell’Impero.
“La ricerca sistematica di cave di lapis specularis in Italia è iniziata solamente da pochi anni”, spiega Chiara Guarnieri della soprintendenza Archeologia dell’Emilia Romagna, “limitata, al momento, alle regioni Sicilia ed Emilia-Romagna. Attualmente la Vena del Gesso romagnola è la sola area dell’Italia peninsulare che ospita cave di lapis specularis”. La Vena del Gesso è caratterizzata dalla presenza di gesso macrocristallino, da ambienti spesso dirupati e da vene di lapis specularis di dimensioni relativamente ridotte. “È chiaro che, a suo tempo”, continua Guarnieri, “queste vene non sono state individuate a causa delle notevoli difficoltà di accesso. Al momento, la sola cavità di chiara origine carsica che presenta importanti tracce di escavazione del lapis specularis resta la Grotta della Lucerna”. La scoperta e l’esplorazione di cave di lapis specularis nella Vena del Gesso si sono dimostrate piuttosto impegnative. La presenza di rupi, spesso verticali ed instabili, rende infatti problematica l’individuazione e l’accesso alle cave. Un altro motivo che rende difficoltoso l’accesso è dovuto alla presenza di riempimenti naturali, costituiti per lo più da terriccio e da blocchi di gesso, che spesso ostruiscono l’entrata. “La frane sono poi frequenti nella Vena del Gesso e si può quindi presumere che, nel corso dei secoli, anche la morfologia degli ambienti circostanti le cave di lapis specularis sia notevolmente mutata. Gli ambienti interni presentano poi difficoltà di esplorazione in quanto tamponati da materiale di riporto di origine antropica. Da ciò consegue che è assai probabile che gran parte delle cave di lapis specularis, un tempo presenti nella Vena del Gesso romagnola, sia oggi ostruita oppure sia andata completamente distrutta. Nonostante le condizioni ambientali non siano dunque ottimali, la scoperta di una quindicina di cave di lapis specularis, avvenuta nel corso di pochi anni, fa ritenere che questa attività fosse, a suo tempo, piuttosto diffusa nel territorio”.
Ricco il programma del convegno promosso da soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini; soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara; asociation cultural Lapis Specularis – Madrid; parco della Vena dei Gessi Romagnoli; speleo GAM Mezzano; Comune di Brisighella; federazione Speleologica Regionale dell’Emilia-Romagna. Si apre alle 15 di mercoledì 27 settembre 2017 con i saluti istituzionali di Giorgio Cozzolino (soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini), Luigi Malnati (soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara), Davide Missiroli (sindaco di Brisighella), Massimo Ercolani (federazione Speleologica Regionale dell’Emilia-Romagna), Massimiliano Costa (parco regionale della Vena del Gesso Romagnola). Alle 15.30, inaugurazione della mostra “Le grotte emiliano romagnole frequentate dall’uomo: le immagini” con foto di Francesco Grazioli. Quindi iniziano i lavori.
Sezione I. “Il lapis specularis come occasione di conoscenza del territorio”: ore 15.50, Massimiliano Costa, “I progetti per la conservazione e la divulgazione delle testimonianze dell’attività estrattiva del lapis specularis nella Vena del Gesso romagnola”; 16.10, Massimo Ercolani, Piero Lucci, Baldo Sansavini, “Il ruolo degli speleologi per la scoperta e tutela delle cave di lapis specularis nel Parco della Vena del Gesso Romagnola”; 16.30, Paolo Forti, “La candidatura a World Heritage dell’UNESCO delle principali aree carsiche nelle Evaporiti dell’Emilia-Romagna”; 16.50, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, “El lapis specularis como recurso cultural: actuaciones en las minas romanas de lapis specularis de difusión social y de dinamización turística”; 17.10, Emanuela Rontini (consigliere regionale, presidente commissione Ambiente), conclusione dei lavori. Alle 18, in sala espositiva, in via Baldi, inaugurazione della mostra “Usi impropri? La fruizione delle cavità nell’inconografia antica e moderna”, a cura di Maria Luisa Garberi e della biblioteca Franco Anelli (centro italiano di documentazione speleologica – Bologna).

Segobriga, l’importante sito spagnolo famoso durante l’impero romano per la produzione di lapis specularis
Giovedì 28 settembre 2017. Sezione II. “Nuovi rinvenimenti di manufatti in lapis specularis nel bacino del Mediterraneo”. Alle 9.30, Chiara Guarnieri, “I rinvenimenti di manufatti in lapis specularis nel bacino del Mediterraneo: status quaestionis”; 9.50, Thomas Staub, “Lapis specularis from Pompeii, V 1,30”; 10.10, Maria Stella Pisapia, Vega Ingravallo, “Lanterne con lapis specularis da Pompei: una proposta di ricostruzione”; 10.30, Maria Concetta Parello, “Il butto tardo antico nell’area dell’ agorà di Agrigentum, ritrovamenti in deposizione secondaria: il lapis specularis”; 10.50, Claudia Tempesta, “Inafferrabili trasparenze: i rinvenimenti di lapis specularis a Roma e nel Lazio”; 11.10-11.30, pausa caffè; 11.30, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, “Hallazgos de lapis specularis y su contexto arqueológico en Hispania. Estado de la cuestión”; 11.50, Guido Rosada, Maria Teresa Lachin, Stefania Mazzocchin, “Frammenti di lapis specularis dalle Terme Romane di Tyana (Kemerhisar, Cappadocia-Turchia)”; 12.10, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, Rubén Montoya, “Lapis Specularis en Chipre y su interpretación”; 12.30, Alfredo Buonopane, “Specularii e speculariarii nella documentazione epigrafica: un problema interpretativo”; 12.50, Simona Pannuzi, “L’utilizzo del lapis specularis nelle transenne di finestra delle basiliche romane: il caso della basilica di S. Sabina sull’Aventino”; 13.10-13.30, discussione.
Sezione III. “Le cave. Aggiornamenti e nuove scoperte”: 15.30, Giovanni Belvederi, Massimo Ercolani, Chiara Guarnieri, Marina Lo Conte, Piero Lucci, Katia Poletti, Baldo Sansavini, “Non solo lapis specularis: la cava a blocchi di selenite presso Ca’ Castellina a Monte Mauro”; 15.50, Domenica Gullì, Stefano Lugli, Rosario Ruggieri, “Nicchie per lucerne e tunnel di scavo: nuove scoperte in Sicilia”; 16.10, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, Alejandro Navares, Fernando Villaverde, “El complejo minero romano de lapis specularis de Huete-Palomares del Campo (H.PC) en Cuenca (Castilla-La Mancha)”; 16.30-16.50, pausa caffè; 16.50, Maria Josè Bernárdez, Juan Carlos Guisado, Alejandro Navares, Fernando Villaverde, “Las minas romanas de lapis specularis de Arboleas (Almería – Andalucía). Adecuación turística y puesta en valor”. Sezione IV. “Analisi”: 17.10, Stefano Lugli, “Analisi isotopiche per identificare la provenienza dei cristalli di lapis specularis”; 17.30, discussione; 17.45, proiezione del filmato “Lapis specularis, la luminosa trasparenza del gesso”, realizzato dal gruppo speleologico bolognese-unione speleologica bolognese e speleo Gam Mezzano, da un’idea di Danilo De Maria, Elisa Pinti e Francesco Grazioli con il supporto della federazione speleologica regionale dell’Emilia-Romagna. Venerdì 29 settembre 2017, ultimo giorno del convegno, sarà dedicato alle visite guidate alle cave di lapis specularis di Ca’ Toresina e Ca’ Castellina.
“Storia del profumo, profumo della storia”: all’Archeologico di Fratta Polesine un’affascinante mostra racconta tremila anni di profumi dall’età greco-romana alla grande profumeria di oggi. Da reperti unici ai manifesti liberty. Prevista anche un’esperienza olfattiva
Tremila anni di profumi, attraverso i loro contenitori: da quelli preziosissimi in alabastro, pasta vitrea o ceramica decorata dell’età greca e romana, come aryballoi, alabastra e lekythoi, a quelli più recenti, dove cominciano a “pesare” i marchi della grande profumeria planetaria di oggi. Insieme a oggetti, libri, antichi formulari e farmacopee, strumenti multimediali ed esperienze sensoriali. Ecco l’originale mostra “Storia del Profumo, profumo della storia” che il Comune di Fratta Polesine, l’università di Ferrara e il Polo museale veneto con la fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo propongono al museo Archeologico nazionale nelle barchesse di Villa Badoer a Fratta Polesine (Rovigo) dal 17 settembre 2016 al 26 marzo 2017. Si scopre così che la storia, quella con la S maiuscola, non è fatta solo di battaglie, incoronazioni e altri grandi eventi. È fatta anche di profumi. Chissà, ad esempio, se la Storia sarebbe stata la stessa nel caso in cui Cleopatra non avesse usato i suoi mitici unguenti profumati! La mostra, curata da Federica Gonzato con Chiara Beatrice Vicentini, Silvia Vertuani e Stefano Manfredini, affronta diversissime storie, tutte incentrate sul profumo e sull’arte profumiera. L’esposizione è arricchita da prestiti concessi dai musei Archeologici nazionali di Venezia, Adria, Portogruaro e dal museo Correr. La mostra è resa possibile grazie alla collaborazione nel progetto scientifico e come prestatori di accademia italiana di Storia della Farmacia, Sistema museale di ateneo e CosMast dell’università di Ferrara, biblioteca comunale Ariostea di Ferrara, centro studi etnografici “Vittorino Vicentini”, fondazione Musei civici di Venezia-Museo del Profumo e del Costume di Palazzo Mocenigo. La parte interattiva della mostra è stata realizzata con il contributo economico e tecnico di: AmbrosiaLab, Cura Marketing GmbH Innsbruck, ViaVai, Mavive, The Merchant of Venice.

I quattro curatori della mostra “Storia del profumo”: Federica Gonzato, Chiara Beatrice Vicentini, Silvia Vertuani e Stefano Manfredini
Quattro i campi d’indagine in cui si articola la mostra, come spiegano i quattro curatori. Si parte dalla ricerca archeologica, l’analisi delle fonti storiche e delle testimonianze iconografiche lungo i secoli, fino ai messaggi pubblicitari e alla studio della produzione odierna di aromi e profumi (tradizione e innovazione), approfondendo il tema grazie all’apporto scientifico e didattico fornito dalla collaborazione con laboratori specialistici, corsi di specializzazione post laurea specialistici e dipartimenti universitari. “Punto di partenza”, scrive Gonzato, “è il patrimonio archeologico del Mediterraneo orientale e la ricostruzione delle tecniche utilizzate a cavallo fra antico e medio Bronzo (II millennio a.C.) per la produzione di essenze, fra cui gli aromi da resina di pino, rosmarino, alloro, mirto, anice e bergamotto, piante tipiche di Cipro e del Mediterraneo, ricostruendo la storia delle tecniche e del gusto olfattivo attraverso i secoli fino ad oggi”. In questo compito – continuano gli archeologi – “ci guidano i reperti archeologici e le fonti storiche e linguistiche, a partire dalle tavolette in Lineare B, che ricordano la produzione di olii profumati ad suo cultuale offerti a divinità, e a seguire altre fonti classiche, quali il Trattato degli odori di Teofrasto, testo base della profumeria antica, le testimonianze di Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia o quelle conservate in Dioscuride in De materia medica”.
Obiettivo dei curatori è “presentare il tema in riferimento alle varie epoche storiche, lungo il medioevo fino all’età odierna, ricostruendo il percorso di questo fondamentale aspetto della vita sociale attraverso i codici e le conoscenze relative a erbe aromatiche (ma anche curative) lungo i secoli. I profumi di oggi, infatti, provengono da una lunghissima tradizione che, nonostante i cambiamenti di tecniche di produzione o di modalità di conservazione ed uso, non hanno dimenticato le loro origini e determinate profumazioni, come ad esempio il bergamotto, sopravvivono e continuano ad essere utilizzate senza perdere la loro freschezza, manifestando così l’esistenza di un patrimonio culturale comune che dall’antichità giunge fino a noi”. Nell’antichità come oggi, i profumi erano commerciati in lussuosi e costosi contenitori, che, oltre a sottolineare la preziosità del contenuto, rappresentavano anche un espediente per attrarre l’acquirente. “Per questo abbiamo ritenuto opportuno inserire una sezione dedicata ai manifesti pubblicitari della Belle Epoque. I legami, chiaramente visibili, fra l’industria profumiera di oggi e la produzione di olii essenziali nel Mediterraneo antico conferma la persistenza di un gusto olfattivo comune che dal Mediterraneo centro-orientale si diffuse a partire dal II millennio a.C. e ancor oggi costituisce la base di alcune fragranze particolarmente apprezzate ed utilizzate in Europa. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il profumo è uno strumento di comunicazione sociale: attraverso il profumo è possibile comunicare una particolare immagine di sé e, allo stesso modo il profumo altrui può costituire una specifica informazione nelle relazioni sociali, utilizzando un codice ben conosciuto all’interno della stessa cultura”. Lo studio dei profumi, e quindi degli odori – concludono Gonzato, Vicentini, Vertuani e Manfredini, “è uno studio di storia della cultura e del comportamento, della medicina, dell’igiene, del culto e dell’immaginario erotico. Tramite i reperti esposti in mostra si propone una lettura attraverso i secoli di un prodotto che ha fortemente influenzato la nostra cultura, i commerci, la letteratura e la ricerca medica”.
Nella sezione base la “Storia del profumo”, in collaborazione con Mavive, Museo del Profumo e del Costume, Palazzo Mocenigo Venezia, si va dalla preistoria all’età romana, percorrendo l’antropologia dell’olfatto e il rapporto tra profumo e società. Si arriva alla cultura bizantina e ai profumi d’Oriente e Occidente. Una sezione è dedicata a Venezia e alle sue fragranze. Sezioni dedicate ai segreti dell’arte profumatoria, alla cosmetica nel Rinascimento, all’Acqua di Colonia. Dai profumi raccontati dalle fonti archeologiche e dai reperti si passa al mondo dei profumi nella pubblicità con tanto materiale del Liberty che comprendono 13 quadri Manifesto pubblicitario, da quelli della ditta Migone 1898 fino ai saponi profumati 1895 ai calendarietti profumati Bertelli, dal 1904 al 1939.
La mostra non offre solo reperti e documenti rari, ma garantisce anche esperienze coinvolgenti. Come cimentarsi in “nasi”, alla scoperta delle diverse essenze, immaginando le loro composizioni. Si potranno annusare essenze diverse, tutte d’origine vegetale. Compresa quella della mitica Rosa Centifolia, varietà che coltivata a Grasse, in Provenza, offre la fragranza che rende unico Chanel n.5. La maison parigina ha l’opzione sull’intera produzione della famiglia Muol, miglior produttore di Centifolia, per i prossimi 100 anni. Per ottenere 1,5 kg di essenza vengono sacrificate centinaia di migliaia di rose, per l’esattezza una tonnellata di petali, per un controvalore economico a molti zeri. L’olio essenziale della rosa di Taif è il più costoso al mondo e se ne producono solamente 16 kg all’anno al costo di oltre 50mila euro al kg. La produzione è destinata in gran parte al re della Arabia Saudita. Nulla di nuovo in questo: i profumi e l’arte profumiera hanno sempre affascinato le famiglie reali. Questa passione contagiò tra le tante Caterina Sforza e Caterina dé Medici, ma soprattutto Isabella d’Este marchesa di Mantova, che nella città lombarda frequentava il suo rinomato laboratorio di profumeria, componendo lei stessa le preziose essenze. Venezia era una capitale dei profumi. Qui venivano fatte arrivare le essenze più rare, provenienti da paesi lontani. Qui operavano celebri essenzieri: qui, non a caso, venne edito I Notandissimi Secreti de l’Arte Profumatoria. Correva l’anno 1555 ed era per l’Occidente il primo ricettario ufficiale dell’arte cosmetica.



























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