Il regista Lucio Rosa regala un messaggio di speranza al 2019 con il nuovo film “Il ragazzo con la Nikon”, realizzato assemblando migliaia di foto di antichi villaggi, antiche dimore, antichi magazzini berberi: omaggio d’amore alla Libia che oggi per lui è “irraggiungibile”
Dietro il grande obiettivo della sua Nikon fa capolino “un giovane” che lancia un messaggio di speranza in questo inizio di 2019: il suo occhio è vivace, curioso, ma anche pieno di amore per quella terra che ha nel cuore, l’Africa. Ma ormai da un lustro Paesi come la Libia sono irraggiungibili. Quel giovane, alla faccia dell’anagrafe, è il regista veneziano Lucio Rosa che non vuole arrendersi all’idea che gli antichi villaggi, le antiche dimore, gli antichi magazzini berberi, memoria degli Imazighen berberi di Libia, stiano lentamente dissolvendosi nel nulla, stretto d’assedio dalla sabbia e dall’oblio. E allora potendo contare su migliaia di fotografie realizzate nelle sue moltissime missioni in Libia, da Est a Ovest, da Nord a Sud, si è chiesto: “Perché non dare vita alle fotografie, farle “parlare” e raccontare una storia antica quella dei Berberi Imazighen e di quello che hanno lasciato in Libia di tangibile, come le sublimi architetture?”. Nasce così l’ultima produzione di Lucio Rosa, “Il ragazzo con la Nikon”, un film di 30 minuti, rigorosamente in bianco e nero, senza riprese ma montato con le fotografie da lui realizzate in Libia nel corso degli anni. “Ultima nell’aprile 2013… poi il buio per questo splendido Paese”, ricorda amaro lasciandosi andare a un’ennesima dichiarazione d’amore e di speranza: “Ma verrà la luce e ritornerò da te, cara Libia”. Era infatti il 23 aprile 2013 quando il regista veneziano era a Tripoli al ministero del Turismo e cultura per firmare il contratto di un film su Ghadames, la grande oasi ai margini occidentali del Sahara libico nel punto dove si incontrato i confini di Libia, Algeria e Tunisia. “Ma un attentato all’ambasciata francese ha bloccato Tripoli… fuggi fuggi… imbarco sul primo aereo per riornare in Patria, e film con la sceneggiatura e storyboard approvati, è finito nel cassetto. In attesa… Ad oggi è ancora lì, ricoperto dalla polvere del tempo… ma ancora vivo nelle mie intenzioni e speranza… ma verrà il giorno…”, la voce rotta dalla commozione.
Con il film “Il “ragazzo” con la Nikon”, le antiche architetture berbere, gli antichi villaggi, le antiche dimore, gli antichi magazzini fortezza sembrano tornare a nuova vita, esaltate dal bianco e nero delle riprese, mentre la colonna sonora, solenne e dal ritmo lento come il passa di un viaggiatore, rende la gravità del momento ben descritto dal testo dello stesso Lucio Rosa, speakerato da Mimmo Strati, che descrive i luoghi, i monumenti e ne ricostruisce la storia con il susseguirsi dei popoli che li hanno frequentati. Unica nota di colore è rappresentata bandiera tricolore degli Imazighen, dove il blu evoca il mare, il verde la terra coltivata, il giallo la sabbia del deserto. Al centro la lettera yaz dell’alfabeto tifinag, l’antica lingua dei berberi, simbolo della resistenza e della vita.
L’occhio del “giovane” Rosa scivola sulle pareti candide delle architetture, entra nelle antiche dimore, ne incontra gli abitanti, si inerpica sulle torri, sempre con delicatezza e rispetto: ogni scatto sembra più un’amorevole carezza. Ecco Ghadames, la romana Cydamus, crocevia del commercio sahariano, luogo privilegiato d’incontri di culture diverse che seppe mescolare senza timori, partorendo quella civiltà berbero-araba di cui ancora oggi se ne assapora lo spirito. Le prime notizie storiche della città risalgono all’epoca romana, al Regno di Augusto. Era l’anno 19 a.C. quando Ghadames fu occupata dalle legioni di Lucio Cornelio Balbo e divenne uno stabile avamposto fortificato contro i nomadi Getuli e i Garamanti, rappresentando l’estremo punto meridionale dell’impero romano. Nel VI secolo i bizantini sconfissero i vandali e si estesero nel Nord Africa. Anche Ghadames si sottomise alla dominazione bizantina convertendosi al cristianesimo. Era imperatore d’oriente Giustiniano I. Per quasi due secoli, cioè sino all’arrivo degli arabi, i bizantini esercitarono il loro dominio. E Ghadames stessa divenne anche sede di un vescovado. Nel VII secolo, con la disgregazione degli ultimi presidi libici di Giustiniano, anche Ghadames, dopo strenua resistenza, fu presa dagli arabi.
“L’oasi di Ghadames”, racconta Rosa, “è sopravvissuta alle insidie del tempo e della storia, mantenuta viva dall’amore della sua gente e dalla saggezza dei suoi vecchi. Qui è stato conservato l’intricato labirinto di vicoli coperti che offrono intatta l’antica atmosfera di una città berbera, disordinata ma armonica al tempo stesso, plasmata col fango e dalla luce donata da una sapiente architettura. Si cammina al buio, quasi in mistica penombra, in quello che pare un gigantesco termitaio; si prova quasi imbarazzo a profanare questo luogo che invita a rimanere in silenzio e a camminare in punta dei piedi”. L’oasi di Ghadames era divisa in sette quartieri racchiusi dalle antiche mura. Ognuno autonomo con propri pozzi, piazze, mercati, moschee e madrasse. Il tutto raccordato dal quel labirinto caotico delle stradine che è la caratteristica di Ghadames. Le abitazioni sono generalmente a tre piani, ognuno con funzioni diverse. Il piano terreno è destinato a magazzino, a deposito degli attrezzi. “Il primo piano – continua il regista – è dedicato alla vita familiare, una ampia stanza soggiorno colma di nicchie e armadi a muro… un alternarsi confuso di ingannevoli finestre che non si aprono al sole ma nascondono mensole e ripostigli. È la sala soggiorno, tamanhat, il fulcro della casa, dove si consumano i pasti, si riunisce la famiglia e si accolgono gli ospiti. Vetri colorati, oggetti in ottone, specchi disposti sulle pareti avevano la funzione di moltiplicare la debole luce che veniva fornita dalle lampade a olio. Sulle pareti, bianche di calce, sono tracciati disegni geometrici. Immagini stilizzate cariche di antichi simbolismi. Segni e decorazioni di lontane superstizioni, simboli esoterici, disegni caratteristici dell’arte berbera del nord Africa. Una scala conduce ai piani superiori: il secondo è destinato alla vita intima della padrona di casa. Sotto la volta del cielo, le terrazze, il regno delle donne”.
Il viaggio continua. Il villaggio di Fursta, è ignorato, dai percorsi “turistici”, e solo qualche viaggiatore desideroso non solo di vedere ma spronato dal voler scoprire, conoscere, approfondire, dove, cosa, chi, arriva fin quassù. Si sale lungo stretti viottoli da cui si accedeva alle abitazioni. Ora sono solo case diroccate, ormai abbandonate da decenni. Le porte sono spalancate. Non c’è più nulla da conservare e da proteggere. Ma pure nella desolazione si conserva ancora qualche traccia del modello di vita degli Imazighen che qui abitavano. Tra le macerie, un frantoio, quasi un sussulto di vita, ma non è che una illusione, a Fursta tutto è morto. “Bianca, candida, isolata, la moschea di Fursta si stacca dal brullo Jabel Nafusah. Una architettura semplice, sobria, in perfetta armonia con l’austerità e lo spirito ascetico, caratteristiche dell’Islàm sahariano delle origini. All’interno, un susseguirsi armonioso di colonne sostengono la volta dell’oratorio. L’ambiente tutto, immerso in una luce soffusa, raccoglieva il dialogo tra i fedeli e il dio clemente e misericordioso”.
Del villaggio Imazighen di Gsar al-Haj sono rimaste poche testimonianze di quelle che furono, un tempo, le loro abitazioni. Colpisce, invece, una costruzione che probabilmente è la più sorprendente di tutta l’antica architettura berbera in Libia. È nota come “castello berbero”. Fu eretta nel XIII secolo da Abdallah Abu Jatla, ma non è una fortezza, come si potrebbe pensare guardando il complesso dall’esterno, ma una struttura di stoccaggio creata per proteggere il raccolto della popolazione che viveva nel villaggio adiacente. “Si presenta come un anello circolare, un piccolo Colosseo”, descrive Rosa. “Nelle alte mura che circondano il cortile sono ricavate 114 cellette con funzione di magazzino, simili a grotte e disposte su più livelli. Le cavità dei livelli superiori, che si potevano raggiungere a mezzo di scale e passaggi aerei, servivano principalmente per conservare e proteggere i prodotti della terra. Il livello più basso, che si trova parzialmente interrato, veniva utilizzato per conservare il bene più prezioso, l’olio, che era anche una importante moneta di scambio”.
Anche dell’antico villaggio, della bella e ricca vecchia oasi berbera di Derdj, non rimangono che poche rovine. Mura crollate, passaggi ostruiti dalle macerie e la sabbia che si riprende la città, lentamente ma inesorabilmente. Silenziosa, dimenticata, Derdj ha vissuto, come altre oasi del Jabel Nafusha, l’esodo dei suoi abitanti. Un labirinto di viottoli si insinua tra case diroccate, ma pure nella distruzione quasi totale qualche cosa emerge dalle rovine. Si possono scorgere le tracce di quelle che furono sontuose dimore, veri palazzi, un segno di prosperità e di ricchezza che antichi mercanti donarono a questa città oasiana. Una imponente fortezza, arroccata sul bordo della falesia, sovrasta il vecchio villaggio. Posta a guardia della frontiera sia meridionale che occidentale, testimonia l’importanza di questo insediamento che permetteva la vigilanza sul territorio e la gestione del traffico delle merci tra l’Africa nera e le coste del Mediterraneo.
Il Gsar Nalut, posto a 600 metri d’altezza nel Jebel Nafusah, è forse il più interessante tra gli insediamenti berberi della Libia. In epoca romana si chiamava Taburmati ed era sede di un presidio a difesa del Limes tripolitanis. Abbarbicato sulla scarpata, l’antico villaggio berbero, ormai in rovina, appare come una fortezza. “Ancora ben conservato è, invece, lo stupefacente granaio, dove gli abitanti di Nalut depositavano i propri raccolti, gli approvvigionamenti di ogni famiglia mettendoli al sicuro. Il formidabile granaio è come “un palazzo” che gli Imazighen fortificarono negli anni più duri della repressione turca, di quattro secoli fa. Gli abitanti di Nalut vi conservavano ogni cosa, ma soprattutto le granaglie e l’olio, che rappresentavano tutta la ricchezza in natura della famiglia berbera”.
Il viaggio di Lucio Rosa termina a Gsar Gharyan “il castello delle grotte” nella lingua dei berberi, a 600 metri di quota, che rispecchia uno degli usi più comuni delle tribù berbere che abitavano nell’altopiano di Nafusah. “Sappiamo che erano una popolazione troglodita che abitava in case scavate interamente nel terreno alla profondità dagli 8 ai 10 metri”, spiega Rosa. “All’interno delle case sotterranee si beneficia di una temperatura confortevole durante tutto l’anno, protetti dal caldo feroce dell’estate e dal freddo pungente dell’inverno. L’abitazione vera e propria si presenta con una serie di stanze idonee per vivere una vita confortevole. Naturalmente, pure nella semplicità delle case, non mancavano locali adibiti a magazzini”. Queste abitazioni oggi non vengono più usate per viverci, ma volentieri vi si accolgono gli amici e si aprono a qualche viaggiatore curioso di conoscere e desideroso di cogliere, con animo affascinato, nuove esperienze, nuove amicizie. “Questo mondo sta lentamente dissolvendosi nel nulla, stretto d’assedio dalla sabbia ed dall’oblio. Rimane la speranza, un desiderio, forse inconscio, che tutto ciò possa un giorno risvegliarsi, la sabbia svanire, l’uomo ritornare”. Rimane l’attesa di un ospite, un “viaggiatore” giunto da terre lontane richiamato dal misterioso fascino di queste antiche vestigia, create, un tempo, dagli Imazighen, “uomini liberi”. Queste terre berbere attendono il ritorno del “Ragazzo con la Nikon”.
L’VIII rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea apre con l’annuncio del gemellaggio di collaborazione con il festival internazionale del film di archeologia di Spalato. E inaugura la mostra fotografica di Lucio Rosa “Libia. Antiche architetture berbere”

L’apertura dell’VIII rassegna del documentario e della comunicazione archeologica con Giacomo Caruso, presidente Archeoclub di Licodia, tra i direttori artistici Alessandra Cilio e Lorenzo Daniele (foto Graziano Tavan)
L’augurio di buon lavoro e di una collaborazione sempre più proficua è arrivato a Licodia Eubea durante la cerimonia di apertura dell’VIII rassegna del documentario e della comunicazione archeologica con un video messaggio direttamente dalla Croazia. E non è un caso. Perché tra le tante novità della rassegna siciliana c’è anche il gemellaggio con il Festival internazionale di film d’archeologia di Spalato, a cadenza biennale giunto alla quinta edizione. Lo hanno annunciato i direttori artistici della rassegna di Licodia Eubea, Alessandra Cilio e Lorenzo Daniele, che dunque si apre al mondo con una collaborazione internazionale. “Un progetto che nasce da lontano”, spiegano. Era il 2011 quando Cilio e Daniele incontrarono la direttrice del festival spalatino, Lada Laura, alla rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto, da sempre punto di incontro e di confronto di idee e progetti da tutto il mondo. Ora quell’incontro informale si è concretizzato in un gemellaggio di collaborazione sottoscritto con un protocollo ufficiale che prevede non solo lo scambio di produzioni cinematografiche (non è un caso che l’VIII edizione si sia aperta proprio con un film croato; e un film di FineArt sarà prsentato a Spalato) ma anche la reciproca promozione dei propri beni culturali. Come si diceva, l’VIII rassegna di Licodia Eubea si è aperta con un film croato: “Az, Branko pridivkom Fučić / Nome Branko, cognome Fučić Nazione” di Bernardin Modrić, narra la storia poetica e contemplativa di uno dei maggiori ricercatori croati di iscrizioni e affreschi glagolitici, il cui lavoro ha segnato la storia dell’arte dell’Europa sud–orientale della seconda metà del XX secolo. Fučić è stato uno studioso capace di rendere civiltà ed eventi del passato più vicini a noi, in modo semplice e coinvolgente.
Momento clou della prima giornata, l’inaugurazione al museo Etnografico della mostra fotografica del regista e fotografo Lucio Rosa dal titolo “Libia. Antiche architetture berbere”, mostra già presentata a Bolzano (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/02/14/antiche-architetture-berbere-ecco-la-libia-nelle-foto-del-regista-lucio-rosa-in-mostra-a-bolzano-e-un-mondo-che-sta-lentamente-scomparendo-non-essendoci-piu-grande-interes/) e che è già stata prenotata al museo Pigorini di Roma, e poi a Torino e addirittura in Oregon negli States. Il regista veneziano, sfruttando il materiale raccolto in tanti anni di frequentazione dell’Africa in generale e della Libia in particolare, con questa mostra non solo ha voluto far conoscere degli aspetti culturali della Libia ai più sconosciuti, ma tenere viva l’attenzione su un Paese martoriato dalla guerra che rischia di cancellare una storia millenaria.

Il regista Lucio Rosa accanto alle foto della sua mostra allestita all’interno del museo Etnografico di Licodia Eubea (foto Graziano Tavan)
“Durante le varie missioni svolte in Libia”, spiega Lucio Rosa, “sia per realizzare film e ricerche varie, purtroppo solo fino al 2014, perché poi la Libia è diventata impraticabile, mi sono interessato all’architettura berbera di diverse oasi”. E continua, tradendo l’emozione. “Queste oasi sono abitate e vissute dai berberi Imazighen fino ai primi anni ’80, fino a quando Gheddafi, volendo che la sua gente vivesse con i confort occidentali, ha costruito le nuove città in prossimità dei vecchi villaggi. Le vecchie oasi, quasi tutte abbandonate, sono cadute nel degrado. Ma ci sono delle eccezioni”. E queste “eccezioni” sono state “salvate” dalle immagini di Lucio Rosa. La mostra “Libia. Antiche architetture berbere” presenta una cinquantina di foto che riguardano sette di queste location. “È un mondo che sta lentamente scomparendo non essendoci più grande interesse per il recupero e per la conservazione della memoria e della storia”, commenta amaro il regista. Le foto sono raggruppate in sequenze, ognuna presentata da una nota esplicativa. E da queste foto sta nascendo un film, in uscita nella primavera 2019: “Sarà la Libia vista con l’occhio di un giovane fotografo”. E strizza l’occhio. Perché quel giovane fotografo è ovviamente lui, Lucio Rosa.
Al via a Licodia Eubea (Ct) l’VIII Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica: 24 film; incontri con archeologi, divulgatori, registi; due mostre; un seminario-workshop sulla comunicazione archeologica. La memoria è il leitmotiv dell’edizione 2018

La locandina dell’VIII rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea (Ct)
L’attesa è finita. Licodia Eubea (Ct) è pronta ad aprire al “cinema dell’Antico” con l’VIII edizione della Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica, organizzata dal 18 al 21 ottobre 2018 dall’associazione culturale ArcheoVisiva in collaborazione con Archeoclub d’Italia di Licodia Eubea “Mario Di Benedetto”. Ben 24 film in programma, di cui 20 in concorso: lavori di recente produzione, di respiro internazionale: Italia, Francia, Portogallo, Polonia, Spagna, Croazia, Turchia, Libia, Nuova Zelanda, Canada. “È un pezzo di mondo, quello che viene raccontato attraverso i documentari”, sintetizzano i direttori artistici, Alessandra Cilio e Lorenzo Daniele: “ciascuno racconta, con rigore scientifico e grande personalità, il modo in cui l’uomo decide di ricordare o dimenticare il suo passato e le rovine che lo rappresentano, ma anche gli uomini e le donne che hanno contribuito a rivelarlo, a volte celebrati come Sir Arthur Evans, scopritore del mitico palazzo di Minosse a Knosso, altre volte precipitati in un pesante oblio, come l’archeologa preistorica trentina Pia Laviosa Zambotti, morta suicida negli anni Sessanta”.
La memoria è il leitmotiv dell’VIII edizione della Rassegna: “Un tema complesso e attuale”, spiegano Cilio e Daniele, “a caratterizzare tanto le opere in concorso quanto gli incontri, le mostre e tutti gli eventi collaterali in programma. Memoria dell’Antico, ma anche memoria di chi l’Antico lo ha indagato e che, per ragioni storiche o sociali, è stato a lungo dimenticato. Memoria di luoghi, fatti e tradizioni: memoria come identità di una comunità. Ma anche negazione di memoria, laddove il patrimonio culturale venga violato, infranto, distrutto. E responsabili non sono solo coloro che alimentano i grandi conflitti mondiali, ma anche quanti semplicemente dimenticano, in un’epoca proiettata al domani, che fagocita e non assimila. Seguendo questo filo rosso, abbiamo selezionato 24 documentari italiani e stranieri: ciascuno affronta, con grande personalità e altrettanto rigore scientifico, questa vasta tematica. Ancora una volta il cinema si rivela specchio del nostro tempo e mezzo privilegiato per leggere i temi, le speranze, le tensioni che animano la nostra società. Le opere abbracciano epoche comprese tra la Preistoria e l’età contemporanea; narrano un caleidoscopio di storie ambientate in diverse parti del mondo, dalla Murgia al Veneto, dalla Polonia al Portogallo, dalla Turchia al Kurdistan, dall’Africa subsahariana alla Nuova Zelanda”.
Anche quest’anno il pubblico ha la possibilità di confrontarsi direttamente con i protagonisti della ricerca archeologica, i divulgatori, i registi e gli sceneggiatori che si spendono nel campo della comunicazione del mondo antico. E quest’anno, i nomi degli ospiti sono di tutto rispetto. A conversare con il pubblico del festival, nel pomeriggio di venerdì 19 ottobre, ci sarà l’archeologa Serena Raffiotta, con un intervento dal titolo: “Heritage: Patrimonio è Eredità. Tutelare il patrimonio culturale per salvare un’identità”. Il pomeriggio di sabato 20 ottobre, invece, sarà dedicato a uno dei giornalisti più impegnati a livello internazionale nella lotta al saccheggio del patrimonio storico-artistico, Fabio Isman, che presenterà (per la prima volta in Sicilia) il recente volume “L’Italia dell’arte venduta. Collezioni disperse, capolavori fuggiti”.
Ma le novità di questa nuova edizione del festival non finiscono qui. Oltre al consueto appuntamento dedicato alla didattica e ai cartoon per giovanissimi all’interno della sessione “Ragazzi e Archeologia” e alla “Finestra sul documentario siciliano”, la manifestazione si arricchisce di un workshop dedicato alla comunicazione del patrimonio culturale attraverso i media di ultima generazione. Il workshop “Scava, scarriola, comunica! Quando l’archeologia (si) racconta”, tenuto dall’archeo-blogger Antonia Falcone e dal giornalista Graziano Tavan, in programma la mattina del 20 ottobre, punta ad essere una “palestra formativa” aperta a studenti universitari, giornalisti e operatori museali, per i quali la padronanza di strumenti e strategie comunicative nell’ambito dei beni culturali rappresenta oggi un requisito fondamentale. Il workshop è gratuito e aperto a tutti; registrarsi è possibile, attraverso la piattaforma Eventbrite.it.
A far da cornice al festival, ben due mostre fotografiche: la prima, “Libia. Antiche Architetture Berbere” del fotografo e regista veneziano Lucio Rosa, dedicata ad un frammento d’Africa sempre più fragile e sgretolato; la seconda, “1915-1918. Licodia Eubea e i suoi figli nella Grande Guerra”, organizzata e allestita dall’infaticabile sezione locale dell’Archeoclub d’Italia. Durante i giorni del Festival, la mostra di Lucio Rosa sarà visitabile dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20, con la proiezione, a ciclo continuo, dei film “Il segno sulla pietra”, “Libia is near”, “Fabrizio Mori, un ricordo”. “Libia. Antiche Architetture Berbere”. E poi, a far da intermezzo tra il pomeriggio e la sera, gli aperitivi con visita guidata alle sale espositive del museo archeologico “Antonino Di Vita” e di quello etnografico “P. Angelo Matteo Coniglione”, a base di prodotti tipici della tradizione enogastronomica licodiana. E le escursioni alla scoperta del centro storico e dell’hinterland di Licodia Eubea, location di questo festival ma, al tempo stesso, scrigno ricco di autentici gioielli architettonici e storico-artistici.
A chiudere l’edizione 2018 della Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica sarà la premiazione del film più votato dal pubblico (Premio “Archeoclub d’Italia”) e del film ritenuto migliore da una giuria internazionale di qualità (Premio “ArcheoVisiva”: una delle novità di quest’anno), assieme al Premio “Antonino Di Vita”, conferito a chi abbia speso la propria carriera nella promozione della conoscenza del patrimonio culturale. “Ancora una volta, dunque, aggiungiamo tessere al mosaico, per incrementare la qualità dell’offerta culturale di questa manifestazione – conclude la Cilio –. Lo facciamo perché continuiamo a credere nel progetto, il cui obiettivo non è solo svelare la bellezza del cinema archeologico, ma anche di fare sistema, coinvolgendo autori, produttori, festival, pubblico e istituzioni. E, un anno dopo, siamo felici di constatare che a crederci siamo sempre di più”.

Il film “Mésopotamie, une civilisation oubliée / Mesopotamia, una civiltà dimenticata” di Yann Coquart
Il programma. Giovedì 18 ottobre 2018. L’apertura del festival alle 17, all’interno della suggestiva chiesa sconsacrata di S. Benedetto e S. Chiara, presso piazza Stefania Noce, in pieno centro storico, con gli interventi di Giacomo Caruso, presidente Archeoclub d’Italia di Licodia Eubea; Alessandra Cilio e Lorenzo Daniele, direttori artistici del Festival; Giovanni Verga, sindaco di Licodia Eubea; Rosalba Panvini, soprintendente BB.CC.AA. di Catania. Alle 17.30, per “Cinema e archeologia” i film “Az, Branko pridivkom Fučić / Nome Branko, cognome Fučić” di Bernardin Modrić (Croazia, 2016, 36’); “L’antico teatro di Herculaneum” di Raffaele Gentiluomo (Italia, 2014, 8’); “Mésopotamie, une civilisation oubliée / Mesopotamia. Una civiltà dimenticata” di Yann Coquart, Luis Miranda (Francia, 2017, 52’); “Le mythe du Labyrinth / Il mito del Labirinto” di Mikael Lefrançois, Agnès Molia (Francia, 2018, 26’). Alle 19.30, per “Incontri di archeologia”, inaugurazione della mostra fotografica “Libia. Antiche Architetture Berbere”. Interviene: Lucio Rosa, regista e fotografo. Alle 19.45, per “Aperitivo al museo”, visita guidata all’interno del museo etnoantropologico “P. Angelo Matteo Coniglione”, con degustazione di prodotti enogastronomici. Alle 21, per “Cinema ed etnoantropologia”, il film “C’era una volta la terra” di Ilaria Jovine e Roberto Mariotti (Italia, 2018, 73’).
Venerdì 19 ottobre 2018. Si comincia al mattino, alle 10.30, con “Ragazzi e archeologia”, sezione dedicata a film d’animazione, docufiction e attività didattiche pensate per il pubblico più giovane, condotte dall’archeologa Elena Piccolo. Alle 17.30, apre la sezione “Cinema e archeologia” con i film “Fortificaciones, poblados y pizarras. La Raya en los inicios del Medievo / Fortificazioni, palizzate e ardesia. La Raya all’inizio del Medioevo” di Pablo Moreno Hernández (Spagna, 2018, 11’); “Bajo la duna / Sotto la sabbia” di Domingo Mancheño Sagrario (Spagna, 2016, 50’). Alle 18.30, per “Incontri di archeologia”, interviene l’archeologa Serena Raffiotta su “Heritage: Patrimonio è Eredità. Tutelare il patrimonio culturale per salvaguardare un‘identità”. Segue il film “Pia Laviosa Zambotti. Storia di un’archeologa ritrovata” di Elena Negriolli (Italia, 2017, 42’). Alle 19.45, per “Aperitivo al museo”, visita guidata all’interno del museo etnoantropologico “P. Angelo Matteo Coniglione”, con degustazione di prodotti enogastronomici. Alle 21, per “Cinema ed etnoantropologia” i film “Di cu semu. Reportage su rituali e sopravvivenze popolari” di Salvatore Russo, Giuppy Uccello (Italia, 2018, 24’); “Maria vola via” di Michele Sammarco (Italia, 2017, 16’).
Sabato 20 ottobre 2018. Si comincia al mattino alle 11. Per “Archeologia e comunicazione” il seminario e workshop “Scava, scarriola, comunica! Quando l’archeologia (si) racconta” sulla comunicazione dell’Antico attraverso media tradizionali e di ultima generazione. Intervengono: Antonia Falcone, archeologa e blogger, e Graziano Tavan, giornalista e blogger. Alle 17, per “Cinema e archeologia” i film “W poszukiwaniu średniowiecza / Alla ricerca dei secoli bui” di Jakub Stępnik (Polonia, 2017, 8’); “Shepherds in the cave / Pastori nella grotta” di Anthony Grieco (Canada-Italia, 2016, 84’). Alle 18.30, per “Incontri di archeologia”, interviene il giornalista e scrittore Fabio Isman su “L‘Italia dell‘Arte venduta”. Segue il film “Artquake” di Andrea Calderone (Italia, 2017, 60’). Alle 20, per “Aperitivo al museo” visita guidata all’interno del museo Civico “Antonino Di Vita” con degustazione di prodotti enogastronomici. Alle 21.30, per “Cinema e archeologia” i film “Living Amid the Ruins / Vivere tra le rovine” di Işılay Gürsu (Turchia, 2017, 13’); “Peau d’Ame / Pelle d’anima” di Pierre-Oscar Lévy (Francia, 2017, 100’).

La consegna del premio “Antonino Di Vita” 2017: da sinistra, i direttori artistici Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio, e Francesca Spatafora con Maria Antonietta Rizzo
Domenica 21 ottobre 2018. Si inizia alle 17, per “Cinema e archeologia” i film “Il viaggiatore del Nord” di Alessandro Stevanon (Italia, 2016, 8’); “Meet Peter / Incontriamo Peter” di Gemma Duncan (Zuona Zelanda, 2017, 14’); “Bobadela Romana. Splendidissima Civitas” di Rui Pedro Lamy (Portogallo, 2017, 20’); fuori concorso “Babinga, piccoli uomini della foresta” di Lucio Rosa (Italia, 1987, 26’). Alle 18.30, per “Finestra sul documentario siciliano” interviene il critico di Filmstudio Renato Scatà su “Quattro strani casi di cinema in Sicilia” con il film fuori concorso “La voce del corpo” di Luca Vullo (Italia, 2012, 30’). Alle 20, cerimonia di premiazione. Concetta Caruso, presidente Archeoclub d’Italia di Palazzolo Acreide, consegna il premio Archeoclub d’Italia al film più votato dal pubblico; Jay Cavallaro, documentarista e fotografo, a nome della giuria di qualità consegna il premio ArcheoVisiva al miglior film selezionato; Maria Antonietta Rizzo Di Vita, docente di Etruscologia e antichità italiche all’università di Macerata, consegna il premio Antonino Di Vita -un’opera dell’artista Santo Paolo Guccione, a chi spende la propria professione nella promozione della conoscenza del patrimonio storico-artistico e archeologico.
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