Il 2022 è un anno speciale per l’Archeologia, segnato da importanti anniversari: decifrazione geroglifici (200 anni), scoperta della tomba di Tutankhamon (100), della necropoli di Spina (100), dei Bronzi di Riace (50)

Per l’archeologia il 2022 è un anno di grandi anniversari. A cominciare l’Antico Egitto (vedi il video promo (3) Facebook): 100 anni della scoperta della tomba di Tutankhamon e 200 della decifrazione della stele di Rosetta e della scoperta dell’antica lingua egizia che segna la nascita ufficiale dell’Egittologia. Ma anche l’Italia ha un calendario di tutto rispetto, dai 100 anni della scoperta della necropoli di Spina ai 50 anni dal rinvenimento dei Bronzi di Riace.


La famosa maschera di Tutankhamon e il pugnale in ferro trovato avvolto tra le bende della mummia del faraone bambino
4 novembre 1922: è la data ufficiale della scoperta della Tomba di Tutankhamon nella valle dei Re, a Tebe Ovest, quindi sulla sponda occidentale del Nilo. Ma l’evento che avrebbe avuto una risposta mediatica eccezionale portando per la prima volta in prima pagina l’Archeologia. Il racconto di quei giorni è noto, a cominciare dal famosissimo dialogo tra l’archeologo Howard Carter e il suo finanziatore Lord Carnarvon del 24 novembre 1922: “Era venuto il momento decisivo. Con mani tremanti praticammo una piccola apertura nell’angolo superiore sinistro…”. “Potete vedere qualche cosa?”. “Sì, cose meravigliose”. In realtà la scoperta della sepoltura del re bambino era avvenuta all’inizio del mese di novembre 1922. Il 1° novembre 1922, Carter fece spostare il campo di scavo proprio dinanzi all’ingresso della tomba KV9 di Ramses VI, faraone della XX dinastia, in un settore di forma triangolare dove aveva già lavorato parecchi anni prima, ma che aveva incomprensibilmente abbandonato. Qui erano precedentemente stati rinvenuti i resti (ritenuti archeologicamente privi di importanza) di alcune capanne costruite dagli operai che avevano lavorato alla tomba KV9 e proprio in quel punto, tre giorni dopo, il 4 novembre 1922, fu scoperto il primo gradino di una scala di accesso a un ipogeo: la tomba intatta di Tutankhamon, nota come KV62, giovanissimo sovrano della XVIII dinastia che salì al trono a 9 anni e morì a 18, poco prima di compierne 19, divenuta famosa per la ricchezza del suo corredo e dei sarcofagi che proteggevano la mummia reale, che costrinse le autorità egiziane dell’epoca a rivedere l’organizzazione degli spazi del museo Egizio del Cairo, riservando un’intera ala al faraone bambino (vedi 4 novembre 1922 – 4 novembre 2020: nel 98.mo anniversario della scoperta del secolo, ingresso scontato nella tomba di Tutankhamon. Il ministro El-Anani: “L’anno prossimo tutto il tesoro del faraone bambino esposto al Grand Egyptian Museum” | archeologiavocidalpassato).


Jean François Champollion ritratto da Leon Cogniet nel 1831
27 settembre 1822, Jean François Champollion detto Champollion il Giovane annuncia la decifrazione dei geroglifici: nasce l’Egittologia. Secondo quanto raccontato dal nipote, Aimé Champollion-Figeac, Champollion il 14 settembre 1822 aveva notato che un cartiglio di Abu Simbel conteneva quattro segni geroglifici. Intuì che il primo segno circolare rappresentasse il sole che in copto si dice “ri”. Mentre il segno che appariva due volte alla fine del cartiglio era la “s” nel cartiglio di Tolomeo. Ciò gli fece concludere che se il nome nel cartiglio inizia con Re e termina con “ss”, potrebbe quindi corrispondere a “Ramesse”, suggerendo che il segno al centro rappresentasse “m”. Un altro cartiglio conteneva tre segni, due uguali a quelli del cartiglio Ramesse: un ibis, simbolo del dio Toth. Seguendo il ragionamento fatto per Ramesse giunse a indicare che il nome nel secondo cartiglio sarebbe Thothmes, cioè il faraone Thutmosis. Il passo successivo su sulla Stele di Rosetta: Champollion conosceva le parole copte che avrebbero tradotto il testo greco e poteva dire che segni fonetici come “p” e “t”, che erano già stati identificati nel nome di Tolomeo, si sarebbero adattati a queste parole. Da lì poteva indovinare i significati fonetici di molti altri segni. L’annuncio ufficiale delle sue proposte di letture dei cartigli greco-romani nella Lettre à M. Dacier (titolo completo: Lettre à M. Dacier relative à l’alphabet des hiéroglyphes phonétiques “Lettera a M. Dacier riguardante l’alfabeto dei geroglifici fonetici”) che completò il 22 settembre 1822. Questa comunicazione scientifica, sotto forma di una lettera, inviata a Bon-Joseph Dacier, segretario francese dell’Académie des Inscriptios et Belles-Lettres, è considerata il documento fondante dell’Egittologia, ma rappresentava solo un inizio. Champollion non dice nulla della scoperta sui cartigli di Ramesse e Thutmose, non dice ancora nulla (forse per prudenza) di quanto già sa o intuisce, e si limita a suggerire che segni fonetici avrebbero potuto essere usati nel lontano passato dell’Egitto. Ma la strada è aperta.


Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina (foto http://www.rivadelpo.it)
23 aprile 1922: scoperta della necropoli della città greco-etrusca di Spina, nelle Valli di Comacchio. La scoperta del sito è legata alle opere di bonifica del primo dopoguerra, come ricostruisce Nereo Alfieri in “Spina. Storia di una città tra Greci ed etruschi” (catalogo mostra, 1994). La prima comunicazione, infatti, è dell’ing. Aldo Mattei, direttore della sezione staccata del Genio civile a Comacchio, con una lettera alla soprintendenza agli Scavi e Monumenti archeologici di Bologna: “Nella valle Trebba (Valli settentrionali di Comacchio), in cui è stata compiuta la bonifica idraulica a cura dello Stato e dove si stanno facendo da Comuni interessati opere di bonifica agraria, è stato scoperto casualmente da un operaio un sepolcreto probabilmente dell’epoca etrusca: così almeno ritengo vai vasi istoriati scoperti”. Questa sobria segnalazione – scrive ancora Alfieri – dette l’avvio a un’impresa archeologica tra le più notevoli dell’Italia settentrionale. La ricerca dell’antica Spina tra le paludi nel delta del Po era stata fino ad allora un vero giallo archeologico che aveva appassionato eruditi e studiosi illustri fin dal Medioevo. Il primo che ipotizzò il sito di Spina a Valle Trebba fu il medico bolognese Gian Francesco Bonaveri (fine del XVII secolo) attratto dalla singolarità di quell’ambiente lagunare da cui emergevano di tanto in tanto manufatti antichi, ma del celebre e florido emporio marittimo descritto dagli autori greci e romani sembrava essersi persa ogni traccia. E la sua intuizione trovò conferma solo due secoli dopo. Alla scoperta casuale del 1922 seguirono le indagini scientifiche dirette dalla soprintendenza alle Antichità dell’Emilia e della Romagna, istituita il 19 settembre 1924. Le campagne di scavo, condotte fino al 1935 dal neo soprintendente Salvatore Aurigemma nell’area di Valle Trebba portarono alla luce la zona settentrionale della necropoli di Spina con più di 1200 sepolture i cui materiali sono oggi esposti al museo Archeologico nazionale di Ferrara. Ma la ricerca continua. L’obiettivo è scoprire il nucleo abitato dell’antica Spina (vedi Ritrovare l’antica città etrusca di Spina (le vaste necropoli sono state una delle scoperte più importanti del Novecento): è l’obiettivo del progetto Eos (Etruscans on the Sea) dell’università di Bologna all’interno del progetto interreg Value. A Comacchio la presentazione in streaming della prima campagna di scavo e le attività future. Intanto a Stazione Foce sta nascendo la ricostruzione dell’abitato di Spina | archeologiavocidalpassato).


Agosto 1972: il ritrovamento dei Bronzi di Riace da parte del sub Stefano Mariottini
16 agosto 1972: rinvenimento dei Bronzi di Riace. Era il 16 agosto 1972 quando un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, si immerse nel mar Ionio a 230 metri dalle coste di Riace Marina. Quando, a 8 metri di profondità, fu attratto da un qualcosa che emergeva dalla sabbia del fondo marino: sembrava un braccio. Non si sbagliava. Era il braccio sinistro di quella che poi sarebbe stata denominata statua A: aveva scoperto le statue di due guerrieri considerati tra i capolavori scultorei più significativi dell’arte greca, e tra le testimonianze dirette dei grandi maestri scultori dell’età classica. Stefano Mariottini aveva scoperto i Bronzi di Riace. Da quel momento è iniziato un delicato, lungo processo di restauro. Prima all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e poi direttamente a Reggio Calabria, man mano che si riscontravano nuove problematiche sui fragili bronzi. L’ultimo spettacolare intervento di restauro conservativo, dal 2009 al 2013, in una sala appositamente predisposta a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, da dove a un certo punto era sembrato non dovessero più tornare a casa. Ciò avvenne grazie a un blitz notturno dell’allora ministro ai Beni culturali Massimo Bray con la soprintendente Simonetta Bonomi: il guerriero A e B furono rimessi in piedi e trasportati in assoluta sicurezza a Palazzo Piacentini, sede del museo Archeologico nazionale della Magna Grecia, alloggiati in una speciale sala dotata di uno specifico sistema di filtraggio, e di un percorso di depurazione, attraverso il quale transitano i visitatori, per mantenere sempre costante il clima in cui sono conservati i Bronzi. Inoltre è stata attivata una protezione antisismica (vedi 16 agosto 1972, il sub Mariottini scoprì nel mar Ionio i Bronzi di Riace. L’anno prossimo saranno passati 50 anni. Al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria si lavora per #BronzidiRiace2022: incontro strategico tra il direttore e l’assessore alla Cultura. In attesa di promuovere i Bronzi di Riace nel mondo, il MArRC promuove in classe la storia e il patrimonio archeologico della Calabria antica | archeologiavocidalpassato).
Taranto. Per i “Mercoledì del MArTA”, secondo appuntamento con il progetto FISH. & C.H.I.P.S: presentazione live al museo Archeologico nazionale di Taranto del documentario “Ionio. A Dialogue between two seas” di Lorenzo Scaraggi con Nicolò Carnimeo


Il video documentario “Ionio. A dialogue between two seas” di Lorenzo Scaraggi (foto MArTa)
Una breve ma intensa narrazione tra solchi delle mani e banchine dei porti, imbarcazioni, lingue e suoni, rimandi storici e memorie dei luoghi. È presentato così il documentario “Ionio. A Dialogue between two seas”, realizzato dallo sceneggiatore e regista Lorenzo Scaraggi e con la cura dello sceneggiatore e protagonista, il prof. Nicolò Carnimeo, nell’ambito della rassegna FISH. & C.H.I.P.S. finanziato dal Programma di Cooperazione Transfontraliera Interreg V-A Grecia-Italia 2014-2020. Il video documentario sarà presentato ufficialmente all’interno del museo Archeologico nazionale di Taranto, il 16 giugno 2021, in una diretta live alle 18 sulle pagine Facebook e YouTube del MArTA. Il docufilm sarà presentato dalla direttrice del MArTA, Eva Degl’Innocenti, dall’assessore alla Cultura, Tutela e sviluppo delle imprese culturali, Turismo, Sviluppo e Impresa turistica della Regione Puglia Massimo Bray, dall’assessore a Cultura e Sport del Comune di Taranto Fabiano Marti; dal coordinatore del progetto FISH. & C.H.I.P.S. e docente dell’università di Foggia prof. Danilo Leone, dal coordinatore del segretariato congiunto Programma Interreg V-Greece-Italy Gianfranco Gadaleta; dalla prof.ssa Maria Turchiano (università di Foggia), dal prof. Kostas Sbonias (Ionian University) e da Diamanto Rigakou (Ephorate Corfù). “Il docufilm”, spiegano dalla produzione, “nasce con l’obiettivo di far dialogare due mari, due città: Taranto e Corfù. Due punti di attracco che per secoli hanno visto partire e approdare marinai, mercanti, guerrieri, filosofi, artisti e sognatori”. E la direttrice del MArTA Eva Degl’Innocenti: “È un racconto visivo fatto di narrazioni diverse, in lingue diverse che parlano, però, lo stesso linguaggio: quello del mare e della storia”.
Pompei: entro fine mese aprono la Casa di Championnet e la Casa del Marinaio. L’annuncio del direttore generale Osanna alla VII Commissione del Senato in sopralluogo agli scavi per un bilancio dei lavori. Il direttore del Grande Progetto Pompei: “Dopo i restauri al via il piano strategico per lo sviluppo socio-economico con il coinvolgimento dei nove Comuni del parco archeologico di Pompei”
Pompei regala al pubblico altre due domus: la Casa di Championnet e la Casa del Marinaio saranno aperte alle visite entro la fine del mese. Lo ha annunciato il direttore generale Massimo Osanna nel fare il punto della situazione alla VII Commissione del Senato in sopralluogo agli scavi giovedì 7 settembre 2017: “Dei 76 interventi finanziati dal Grande Progetto Pompei”, ha spiegato Osanna, “64 sono ad oggi conclusi, mentre sono 9 in corso (e tra questi entro fine mese si apriranno al pubblico la Casa di Championnet e la Casa del Marinaio) e solo 3 in attesa di avvio”. La Casa di Championnet, ricordano le cronache, era stata scavata ancora dai Borboni nel 1799, nel 1812 e nel 1828. Conserva l’atrio con l’impluvio in marmo, e i mosaici pavimentali a schemi geometrici e a tessere colorate. Anche la Casa del Marinaio, così chiamata per il mosaico con sei prue di navi posto nell’ingresso, fu portata alla luce dai Borboni a partire dal 1871. “La domus”, spiegano gli archeologi della soprintendenza, “racchiude in sé aspetti tipici di una elegante e tradizionale casa di città con l’utilizzo di magazzini a carattere commerciale e produttivo, rappresentando per questo aspetto un unicum nel panorama pompeiano. L’edificio fu costruito alla fine del II sec. a.C. in un’area vicina al Foro che si alza verso nord-est. Per questo la casa è articolata su due livelli: a sud poggia su un alto terrazzamento riempito e livellato, mentre a nord si estende su alcuni ambienti voltati semi-ipogei con accesso dal vicolo dei locali soprastanti. I due piani sono raccordati da un giardino incassato, situato nell’angolo nord-ovest della domus. I principali ambienti dell’abitazione si aprono su un imponente atrio tuscanico decorato da apparati decorativi di Terzo stile con numerosi ed interessanti mosaici in bianco e nero. Nel corso del I sec. a.C. l’edificio venne ampliato verso oriente – concludono gli archeologi – con l’acquisizione di un’ala destinata ad ospitare un piccolo complesso termale, mentre nel I sec. d.C. tutti gli spazi del livello inferiore vennero riconvertiti a laboratorio di un panificio e messi in collegamento con i magazzini già esistenti, mentre venne ricavato, ad ovest, un secondo atrio per il settore servile”.
L’incontro con la VII Commissione (Istruzione pubblica, Beni culturali) del Senato, in visita al sito archeologico, per un aggiornamento sullo stato dei lavori del Grande Progetto Pompei (GPP) si è tenuto all’auditorium degli scavi di Pompei. Il tavolo di lavoro è stato presieduto dal presidente della VII Commissione, senatore Andrea Marcucci; dal direttore generale del Parco archeologico di Pompei, Massimo Osanna; dal direttore generale del Grande Progetto Pompei, generale Luigi Curatoli; e dal sottosegretario per i Beni e le attività culturali e per il turismo, on. Antimo Cesaro. Dopo il punto della situazione, la delegazione guidata da Osanna ha visitato l’Antiquarium degli scavi, il tempio di Venere, il Foro, il cantiere del complesso di Championnet, con la casa dei Mosaici geometrici, la casa di Sirico e dell’Orso Ferito di recente apertura.
La Casa dei Mosaici geometrici, una delle più grandi domus di Pompei, situata nella Regio VIII, così denominata per la ricca decorazione pavimentale con mosaici a tessere bianche e nere su motivi a labirinto e a scacchiera, è stata infatti riaperta al pubblico nel novembre 2016 al termine di importanti interventi di restauro (vedi: https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2016/11/15/pompei-dopo-i-restauri-apre-al-pubblico-una-nuova-domus-la-casa-dei-mosaici-geometrici-una-delle-piu-grandi-della-citta-romana-una-superficie-di-3000-metri-quadrati-e-60-stanze-disposte-a-terrazze/): oltre sessanta stanze, frutto dell’unione di due abitazioni entrambe del III-I sec. a.C., rimodernata dopo il terremoto del 62 d.C.; copre una superficie di 3000 metri quadrati in una scenografica disposizione a terrazze panoramiche. Bisogna invece arrivare al marzo 2017 per la sistemazione e messa in sicurezza della viabilità principale della Regio VII, quella posta al centro dell’area archeologica, tra il Foro e la via Stabiana. Qui sono state aperte al pubblico la Casa dell’Orso ferito e la Casa di Sirico. Due esempi di domus riccamente decorate, con pavimenti a mosaico, fontane, affreschi e aree verdi.
“Anni fa i dubbi sul futuro di Pompei erano tanti. Oggi è stata fatta tanta strada per la sua salvaguardia e la Commissione, che ha in tutti questi anni manifestato una costante e grande attenzione al sito, è stata qui per osservare direttamente i risultati raggiunti”, ha dichiarato il presidente Marcucci. “Il rilancio di Pompei, grazie all’impulso prima del Ministro Bray e poi dell’attuale Ministro per i beni, le attività culturali e il turismo Franceschini, è una partita che è vinta dall’Italia tutta, non è una vittoria di una sola parte politica”. E il sottosegretario Cesaro: “Prima Pompei era vista come un problema e non una opportunità per il Paese. Oggi si può guardare al sito come vanto, non solo in termini quantitativi per il crescente incremento di visitatori, ma anche qualitativi per l’ampia e valida offerta di visita al pubblico. Il ruolo della Commissione e del suo interessamento per il sito, vuole essere una presa d’atto di quanto finora realizzato, ma anche delle eventuali criticità ancora da risolvere e di come affrontarle in termini concreti, affinché Pompei possa essere volano di sviluppo di tutto il territorio, anche in termini di indotto e di occupazione. Si tratta di una sfida non più derogabile che la classe politica locale e nazionale è chiamata ad affrontare e vincere, per dare una speranza concreta alle tante giovani professionalità della Campania e di tutto il Mezzogiorno”. “Con il Grande Progetto Pompei ci si è finora dedicati al restauro degli apparati architettonici e decorativi degli edifici dell’area archeologica di Pompei”, ha chiarito il direttore generale del Grande Progetto Pompei, generale Luigi Curatoli. “Ora siamo partiti anche sul fronte del piano strategico per lo sviluppo socio-economico della buffer zone, che include 9 Comuni a ridosso dell’area archeologica vesuviana. I contenuti del piano saranno condivisi con i sindaci dei Comuni, il sindaco della città metropolitana, la Regione e gli altri enti locali coinvolti e presentati al Comitato di gestione presieduto dal ministro Franceschini. Questa sfida, come quella sul restauro archeologico, vede tutti coinvolti, politici, cittadini, funzionari di stato e avrà alla luce dei risultati finali e degli sforzi profusi, tutti vincitori o tutti vinti”. “Pompei – ha concluso Osanna – è ormai un laboratorio di restauro e conoscenza, cresciuto nell’ambito dei capillari interventi di messa in sicurezza e restauro anche del Grande Progetto Pompei, che hanno restituito al pubblico la fruizione di interi quartieri della città. Le mostre, gli eventi diurni e notturni di questi anni, hanno tra l’altro completato l’offerta culturale del sito archeologico. L’ impegno del ministero e dell’Unione Europea che hanno creduto nel Grande Progetto Pompei e nel lavoro di squadra di tanti professionisti è stato premiato dall’aumento costante e significativo in termini di visitatori”.
Catacombe di Santa Sofia a Canosa di Puglia: a due anni dall’annuncio diventa operativo il passaggio dallo Stato Italiano allo Stato Pontificio dell’importante complesso sepolcrale cristiano del III-VIII secolo, unico in Puglia, premessa per il suo restauro e l’apertura al pubblico
L’annuncio dell’allora ministro per i Beni culturali Massimo Bray era stato bene augurante: le Catacombe di Santa Sofia a Canosa di Puglia riapriranno al pubblico grazie all’accordo firmato tra lo Stato Italiano (con il ministro Bray) e lo Stato del Vaticano (con Fabrizio Bisconti, membro della Pontificia commissione e soprintendente archeologico alle Catacombe). Era il gennaio 2014 (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2014/01/12/a-canosa-di-puglia-saranno-visitabili-le-catacombe-di-s-sofia-accordo-tra-il-vaticano-e-litalia/). Da allora sono passati più di due anni. Le catacombe di Santa Sofia (III – VIII sec. d.C.), rinvenute negli anni ’50 del Novecento sulla statale 93 Canosa-Barletta, le uniche cristiane ritrovate in Puglia, tra le poche cristiane presenti in Italia meridionale insieme a quelle di Siracusa e Napoli, sono ancora chiuse, con l’accesso interdetto per ragioni di sicurezza. Ma stavolta forse ci siamo perché a Roma, nella sede della Pontifica commissione di Archeologia sacra, come annuncia il Comune di Canosa di Puglia, è stato firmato un passaggio tecnico decisivo per giungere al recupero e alla completa fruizione da parte del pubblico del sito paleocristiano: la consegna delle chiavi di accesso da parte del sindaco di Canosa di Puglia, Ernesto La Salvia, al soprintendente archeologico delle Catacombe, Fabrizio Bisconti.

Catacombe di santa Sofia: la consegna delle chiavi di accesso da parte del sindaco di Canosa di Puglia, Ernesto La Salvia, al soprintendente archeologico delle Catacombe, Fabrizio Bisconti
“Siamo riusciti a sbloccare una situazione ferma ormai dal lontano 2003, fatta anche di confronti tecnici e archeologici (culminati in un tavolo tecnico tenutosi a Bari nel 2013) e che soltanto adesso vedrà finalmente la luce”, riassume il sindaco La Salvia. “Era ora, oltre che assolutamente legittimo, che lo Stato pontificio entrasse nella piena disponibilità delle catacombe come da prescrizione concordataria. Ora partiranno gli studi per la manutenzione e ristrutturazione del manufatto da parte della Pontificia commissione di archeologia sacra. Siamo convinti che gli interventi che la soprintendenza archeologica delle Catacombe potrà ora mettere in atto produrranno ricadute positive sulla nostra città, ma anche sulla Puglia e su tutto il territorio nazionale, sotto l’aspetto culturale, turistico ed economico. Accoglieremo con grande favore le attività che si vorranno realizzare per la salvaguardia e la promozione di questo bene così importante”. Al sindaco fa eco mons. Felice Bacco, parroco della cattedrale San Sabino di Canosa: “Sono veramente moltissime le sorprese che le catacombe di Santa Sofia potranno riservarci, in termini di conoscenza della comunità cristiana che le ha realizzate, considerando la loro estensione. Credo sia superfluo anche sottolineare quanto la fruizione di queste catacombe, la loro valorizzazione, possano determinare in termini di sviluppo turistico e, quindi, economico: rappresenterebbero una grande opportunità per tutto il territorio. Per questo motivo non possiamo che guardare con grande favore il clima di collaborazione che si è venuta a determinare in questi ultimi tempi tra il Comune di Canosa e la Santa Sede, con il favorevole consenso del nostro vescovo mons. Luigi Mansi”.
Delle duecento catacombe cristiane che gestisce la Santa Sede, nel meridione sono solo presenti a Napoli, a Canosa, a Palermo e a Siracusa. “Questa è una ulteriore conferma”, continua mons. Bacco, “dell’importanza storica della Diocesi Primaziale di Canosa, che già nel 342 può vantare la presenza di un vescovo, Stercorio, il quale partecipa al Sinodo di Sardica (Sofia, Bulgaria). Questo significa che subito dopo l’Editto di Costantino (313), a Canosa c’è già una comunità ecclesiale organizzata, strutturata e con la presenza di un vescovo autorevole, che quindi partecipa a uno dei primi eventi ufficiali ecclesiali. Dopo Stercorio avremo Lorenzo, quindi Probo, Rufino, Memore, Sabino: sono poche le Diocesi che possono vantare una cronotassi di vescovi storicamente documentati nei primi secoli di Cristianesimo. Molte altre informazioni sulla vita ecclesiale della comunità cristiana dei primissimi secoli potrebbero essere ricavate dallo scavo archeologico sistematico delle catacombe, sicuramente dopo il consolidamento dell’intera area”.
I Bronzi di Riace non sono più soli. Dopo dieci anni di lavori, aperto il nuovo museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria (MarRC): 4 piani, 200 vetrine con tesori dal paleolitico all’età romana. Viaggio nell’affascinante storia dell’archeologia calabrese

Il taglio del nastro del nuovo museo archeologico nazionale di Reggio Calabria alla presenza del premier Matteo Renzi
I Bronzi di Riace non sono più soli. A due anni e mezzo dal loro ritorno a Palazzo Piacentini (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2013/12/21/oggi-riapre-a-reggio-calabria-il-museo-archeologico-della-magna-grecia-la-casa-dei-bronzi-di-riace/), il 30 aprile 2016 è stato finalmente inaugurato il nuovo museo archeologico nazionale di Reggio Calabria, il MarRC (secondo la nuova moda di chiamare con una sigla le nostre eccellenze culturali), già noto come museo archeologico nazionale della Magna Grecia. Il progetto di ristrutturazione del museo nazionale e di restauro della sede reggina, un edificio progettato, fra i primi in Italia, ai soli fini dell’esposizione museale, sulla centrale piazza De Nava, opera di Marcello Piacentini, uno dei massimi architetti del periodo fascista, che lo concepì in chiave moderna dopo aver visitato i principali musei di Europa, era stato avviato dieci anni fa dall’allora ministro ai Beni culturali Francesco Rutelli nel secondo governo Prodi. Non è dunque fuori luogo che la data del 30 aprile 2016 sia da considerarsi storica, come hanno sottolineato con la loro presenza il premier Matteo Renzi e il ministro ai Beni culturali Dario Franceschini. “Un giorno di festa”, ribadisce Nicola Irto, presidente del consiglio regionale della Calabria. “Il più importante museo della nostra regione viene restituito alla piena fruizione del pubblico. Nel lungo periodo in cui è rimasto aperto solo in minima parte, il Marc è riuscito a diventare il primo del Mezzogiorno d’Italia per numero di visitatori, attratti dalla straordinaria bellezza dei Bronzi di Riace e da altre testimonianze di inestimabile valore dell’arte magnogreca”. E aggiunge: “Il fatto di averlo atteso così a lungo, probabilmente, ha fatto comprendere a tutti noi quanto sia prezioso per Reggio Palazzo Piacentini, i cui lavori di ristrutturazione rientravano nell’ambito delle opere programmate per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Adesso il museo, sotto la guida del direttore Carmelo Malacrino, può tornare a essere l’elemento qualificante dell’offerta turistica e culturale della Città metropolitana e di tutta la regione”.

Palazzo Piacentini sede del MarRC, realizzato negli anni Trenta de Novecento dall’architetto Piacentini per ospitare le ricche collezioni magnogreche
“Il museo nazionale di Reggio Calabria è il più grande attrattore culturale calabrese, uno dei principali musei italiani, la cui valenza è stata sancita anche dalla recente riforma ministeriale”, gli fa eco il presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio. “La sua riapertura, con il rinnovato allestimento dell’intero percorso espositivo, rende fruibile una raccolta di reperti di inestimabile valore, che costituisce la testimonianza più completa del retaggio della Magna Grecia. Un museo che custodisce i Bronzi di Riace, simbolo della Calabria e dell’arte antica a livello planetario ma che non sono gli unici protagonisti dell’immenso repertorio visitabile. Migliaia di manufatti, provenienti da tutta la regione, a volte di dimensioni monumentali, compongono un patrimonio archeologico unico, che il mondo ci invidia. Per tutti i calabresi è un motivo di vanto. Per questo abbiamo fortemente sostenuto la tanto attesa riapertura dell’intero museo, possibile anche grazie all’allestimento finanziato dalla Regione Calabria, che riporta questa prestigiosa collezione al centro dell’attenzione internazionale. Abbiamo programmato ingenti risorse sulla tutela e la valorizzazione dei beni culturali – continua-, anche per offrire opportunità di lavoro nella salvaguardia dei siti e degli istituti di cultura calabresi. Stiamo completando la definizione delle aree di rilevanza strategica culturale per spendere oculatamente i fondi delle risorse comunitarie della nuova programmazione 2014-2020, appena partita con i primi bandi. Nel Pon Cultura abbiamo puntato, assieme al ministero sul circuito archeologico della Magna Grecia, per valorizzare al meglio siti di grande rilevanza, in un’ottica finalmente di sistema. Le possibilità tracciate anche nei contenuti del Patto della Calabria rappresentano una occasione imperdibile per sostenere il tessuto economico e sociale calabrese, anche in ottica di promozione turistica. Per tutto questo, il 30 di aprile costituisce, certamente, per la Calabria una data molto importante”.
“Nel progetto di restauro del nuovo museo archeologico di Reggio Calabria siamo riusciti fondere insieme l’archeologia, il paesaggio, la tecnologia più avanzata. Una ricchezza di temi e una complessità di programmi che rende davvero unico questo progetto”, interviene Paolo Desideri, architetto e fondatore dello studio ABDR (Arlotti, Beccu, Desideri, Raimondo),che ha curato il restauro del MarRC. “Un concentrato di primati e di sorprese che ha caratterizzato ogni scelta di noi progettisti. Dal nuovo allestimento museale che accompagna la narrazione espositiva, alla nuova lobby che funziona come grande polmone bioclimatico dell’edificio, alla sorprendente tensegrity che supporta la copertura vetrata del cortile interno, alla nuova caffetteria che apre alla spettacolare vista dello stretto, al sofisticato impianto di filtrazione dell’aria della sala bronzi, il museo è oggi in grado di riprendersi la scena che gli compete nel circuito dei grandi musei internazionali, e addirittura di primeggiare grazie ai suoi tesori”.
Il museo di Reggio Calabria si presenta con 4 livelli di esposizione permanente (il piano terra era stato inaugurato dall’ex ministro Bray, con il trasferimento dei Bronzi di Riace dalla sede del Consiglio Regionale della Calabria, al museo nel 2013) e circa 200 vetrine, i cui reperti spaziano dal Paleolitico alla tarda età romana. Il direttore, Carmelo Malacrino, che ha assunto le funzioni dal primo ottobre 2015, ha deciso di arricchire l’offerta anche con un grande mosaico con scena di palestra, del II-III secolo a.C., ritrovato sotto Palazzo Guarna, sul lungomare di Reggio Calabria, e rimasto fino ad oggi nei depositi del museo. I costi dell’ingresso sono di 8 euro per l’intero, 5 euro il ridotto. Ogni mercoledì, invece, in promo, i biglietti costeranno di meno, 6 euro l’intero e 4 euro il ridotto. Rete ferroviaria italiana ha poi dedicato un nuovo look alla stazione Lido di Reggio Calabria, arricchita da una cartellonistica efficace per indirizzare i visitatori a Palazzo Piacentini. “È una nuova immagine del museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria”, spiega il direttore Carmelo Malacrino, “quella che offriamo dal 30 aprile. Un museo che si apre all’area dello Stretto, nel cuore del Mediterraneo, storico crocevia di culture e tradizioni. Al MArRC l’archeologia si traduce in curiosità e suggestioni, accompagnando i visitatori nell’affascinante storia dell’antichità calabrese. Con uno sguardo al futuro e ad eventi e mostre di livello internazionale. Un luogo vitale e inclusivo, in cui tutti i calabresi possano ritrovare le loro radici identitarie. L’auspicio è di dare inizio a una nuova avventura da vivere insieme per conoscere, raccontare e trasmettere una grande storia”.
Venticinque anni di cinema archeologico. Il direttore Dario Diblasi anticipa contenuti temi e obiettivi della 25. Rassegna internazionale del Cinema archeologico di Rovereto
Venticinque anni, e non li dimostra. Anzi, la 25. Rassegna internazionale del cinema archeologico, in programma a Rovereto dal 7 all’11 ottobre, non solo mostra tutta la vivacità e l’entusiasmo del giovane ma anche la qualità e la maturità di una manifestazione adulta che negli anni ha intrecciato rapporti culturali con musei, università, soprintendenze di mezzo mondo, ha dialogato con enti pubblici e privati, si è guadagnata la stima di registi e centri di produzione di molti Paesi, ha permesso di realizzare al museo civico di Rovereto una delle più prestigiose cineteche a soggetto archeologico nel mondo, promuovendo a sua volta la cultura della divulgazione scientifica attraverso il linguaggio cinematografico con il premio internazionale biennale “Paolo Orsi”. E i numeri anche quest’anno sono lì a dimostrarlo: oltre centoventi film in cartellone in rappresentanza di più di venti Paesi (tutto il programma dettagliato al link http://www.museocivico.rovereto.tn.it/UploadDocs/6121_libretto_2014.pdf). Anima e artefice indiscusso della Rassegna roveretana è il direttore Dario Diblasi che ci ha rilasciato qualche riflessione.
Dottor Diblasi, di festival sul cinema archeologico ne vengono organizzati diversi, perché la Rassegna di Rovereto è così importante?
“Esistono più di una decina di festival cinematografici al mondo, la maggior parte in Europa, i quali mettono in competizione opere cinematografiche che si occupano di archeologia, della storia dell’uomo, del patrimonio culturale. La particolarità della Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto e nello specifico della sua XXV edizione è la ricchezza e la complessità del suo programma che presenta filmati e testimonianze provenienti da tutto il mondo; anche dalle aree ora soggette a terribili conflitti”.
Dunque l’offerta cinematografica non teme confronti?
“Non vi è paragone con nessun altro catalogo di titoli cinematografici e presenze di protagonisti della ricerca archeologica. Il ruolo di diffondere conoscenza e cultura viene ormai universalmente riconosciuto alla Rassegna di Rovereto tant’è che in questa edizione saranno presenti il Museo del Louvre e alcune importanti Istituzioni cinematografiche e di ricerca internazionali accanto a una delle maggiori società di produzione cinematografica dedicata alla scienza, Gedeon Programmes. E Rovereto, con la sua Fondazione Museo Civico ha il piacere e la fortuna di ospitare da 25 anni questa manifestazione. I luoghi per le proiezioni sono prestigiosi: l’auditorium del Polo culturale e museale della città, il Mart, il Muse e lo stesso museo Civico. Inoltre da oltre vent’anni si affianca alla Rassegna con la sua stretta collaborazione la rivista Archeologia Viva di Firenze”.
Direttore, ci vuole dare qualche dettaglio del programma?
“Il programma è talmente ricco che riesce difficile evidenziarne tutte le peculiarità. Mi permetto di evidenziarne solo alcune per stuzzicare molteplici curiosità. Un approccio musicale è possibile attraverso le prove di musica etrusca, risultato di una lunga ricerca dell’archeologa Simona Rafanelli e del sassofonista e musicista jazz Stefano “Cocco” Cantini di scena nella serata di sabato 11 ottobre ma anche in diversi film: Suoni della preistoria, il Suono perduto, Homo sapiens, l’artista, infine La danza del dio del mais arricchito della leggerezza della danza. L’avventura è assicurata nella ricerca di un favoloso tesoro nei pressi di uno scoglio perduto nell’oceano indiano in Il segreto del tesoro a Bassas de India e nei meandri della gigantesca città di Angkor invasa dalla foresta tropicale, ne La riscoperta di Angkor, oppure ancora ne Il viaggio alla miniera di smeraldi di Cleopatra”.
E cosa ci dice della sezione “archeologia e arte”?
“Un intero percorso per proiezioni dedicate all’archeologia e all’arte è in programma nella sala convegni del Mart con nuovissimi film e opere di repertorio dell’archivio cinematografico della Rassegna. Alcuni titoli preziosi: Il genio magdaleniano, L’ultimo sguardo, Lo scriba che dipinge, Il tappeto di Cracovia, La ceramica medievale invetriata di Cipro e ancora La danza del dio del mais”.
Quanto scienza e tecnologia diventano protagonisti nella divulgazione archeologica?
“La ricerca archeologica si avvale sempre più intensamente di competenze scientifiche e delle tecniche più diverse, come pure indaga sulle conoscenze scientifiche del Mondo Antico. C’è solo difficoltà di scelta in un intero percorso dedicato alla scienza e all’archeologia al Muse di Trento e al museo Civico di Rovereto ed una presenza più che numerosa di opere che raccontano ricostruzioni tridimensionali di oggetti, ambienti, intere città, La città invisibile-frammenti di Trieste romana, Siracusa 3D reborn, Pavlopetri un tuffo nel passato, L’imbarcazione fenicia Mazaron 2, La casa del Delfino, La macchina del tempo, Una follia di Nerone, Il tempio dei giganti, Costruzione del carro dei faraoni. Un’intera serie presenta competenze antiche: Homo sapiens: l’artista, All’epoca dei Franchi: il contadino, Al tempo dei Galli: i fabbri, Il popolo dei laghi. Le palafitte del Garda, Una piroga medioevale in Piccardia, Il computer antico di 2000 anni, Il vino delle terre Lionesi”.
Naturalmente dal cartellone della Rassegna non può mancare l’Antico Egitto…
“Sono sempre esistiti gli appassionati dell’antico Egitto tanto che si è arrivati anche a coniare il termine di egittomania. Anche in quest’occasione non verranno delusi con il film già citato Costruzione del carro dei Faraoni, con il racconto di Corinna Rossi sulla missione di scavo di Umm al- Dabadib, con il film L’Ultimo sguardo dedicato ai ritratti del Fayum, Lo scriba che dipinge, Khemet, Il viaggio alla miniera di smeraldi di Cleopatra dei fratelli Castiglioni”.
Secondo lei, con la qualità dei film è cresciuta anche la formazione degli spettatori?
“Anni e anni di documentari a carattere naturalistico ed etnografico proposti dalle reti televisive nazionali e internazionali hanno formato milioni di spettatori che non sopportano più il banale e futile di tanti programmi del cosiddetto intrattenimento. Anche in questo potranno trovare soddisfazione con numerosi film tra i quali Stori Tumbuna, L’agave è vita, Acqua sotto la terra, l’Isola delle torri in cui vedremo la Sardegna con altri occhi, Guam, l’Oasi dell’oceano, Mastodonte, l’enigma dei Titani dell’era glaciale, Nuovi orizzonti-Myanmar e in molti altri ancora”.
Scorrendo il programma si nota che c’è spazio anche per il mondo ebraico.
“Abbiamo cercato d’indirizzare la curiosità anche verso la storia del popolo ebraico, principalmente attraverso la ricerca archeologica con un film di repertorio, che non molti hanno avuto la fortuna di vedere, quale L’esilio degli ebrei-tra mito e storia e con l’incontro conversazione di giovedì 9 ottobre con Paul Salmona, direttore del Museo d’arte e storia del giudaismo di Parigi. Abbiamo lasciato spazio inoltre ad un’idea piuttosto ideologica che ci propone il film L’invenzione dell’occidente – la Bibbia di Alessandria”.
E poi c’è la Cina, un mondo tutto da esplorare anche archeologicamente…
“Non si tratta di una telenovela ma dalla storia più antica della Cina in tre film: La dinastia scomparsa, Grandezza e decadenza degli Shang, Il primo imperatore. Gedeon programmes ci propone infatti, come sempre, di esplorare mondi e culture a cui abbiamo dedicato fino ad ora poca attenzione o che ci sono in parte sfuggite. I misteri veri o presunti, in qualche caso semplicemente evocati per attirare desiderio di sapere, nella cinematografia archeologica non mancano. Non si tratta della pessima suggestione creata da alcune discutibili trasmissioni televisive ma di semplici strumenti per attirare l’attenzione così come si può vedere nei titoli e nelle descrizioni di ottimi film quali La verità sui templari, Tredici meraviglie della Macedonia, I dominatori delle gelide steppe, La città degli dei sommersi, Il Perù millenario: una storia inesplorata e ancora La riscoperta di Angkor”.
Il mondo antico non è solo arte, ma anche persone e personaggi (come ricorda il nostro blog). Nella Rassegna 2014 si parla di qualcuno in particolare?
“Non occorre affollare le poltrone di qualche sala cinematografica dei film della finzione per conoscere la vita e le avventure di qualche grande personaggio storico: vi proponiamo Alessandro il Grande, il macedone che arriva direttamente dalla videoteca del Museo del Louvre. Vi offriamo altresì alcune piccole gemme preziose come Lapis specularis, la luminosa trasparenza del gesso, “Genesi” la dea di Morgantina, nonché Storie della sabbia. La Libia di Antonino di Vita (pochi minuti dedicati ad uno dei più grandi archeologi italiani) o Una follia di Nerone ed in prima assoluta un paio di video di una serie di nove dedicati al Museo di Villa Giulia, Santuari e Da non perdere, infine un film su uno dei più grandi templi oggi esistenti, Il tempio dei giganti, l’Olympieion di Akragas”.
Direttore, ma cosa c’entra la Rassegna del cinema archeologico con la Grande Guerra?
“Sono passati 100 anni da quando l’Italia si è tuffata nel turbine mostruoso della Prima guerra mondiale, e ancora quelle drammatiche testimonianze emergono da uno dei più estesi ghiacciai d’Europa, il ghiacciaio dei Forni nel gruppo Ortles –Cevedale. Qui vengono documentate dal film Punta Linke-La Memoria nel pomeriggio del giorno di sabato 11 ottobre. La Grande guerra tuttavia non ha sconvolto il mondo solo dal 1914 al 1918; ha indotto bensì grandi sconvolgimenti con la caduta degli imperi centrali quali quello ottomano e ha prodotto altre guerre che hanno reso drammatica la vita di altri uomini come viene documentato nel film che probabilmente riusciremo a proiettare in palazzo Alberti in concomitanza con mostre ed eventi che ricordano il periodo della Grande Guerra: Letters never received –Lettere mai ricevute”.
E allora, visto che ha introdotto il tema-problema della caduta degli imperi e degli sconvolgimenti politico-geografici, si parlerà di archeologia e Paesi in guerra e delle drammatiche conseguenze non solo per le popolazioni ma anche per il patrimonio culturale?

La ricerca archeologica e la salvaguardia del patrimonio culturale deve fare i conti con le guerre: qui siamo in Siria
“Ancora adesso le artificiali divisioni geografiche in Medio Oriente rinfocolano terribili conflitti nell’area dove si sono evolute le prime e più grandi civiltà come quella sumera, assira e babilonese. Abbiamo coinvolto un’intera famiglia di archeologi dell’Università di Los Angeles e di Francoforte sul Meno che da molti anni scavano in Siria e Medio Oriente per farci raccontare con un titolo sintomatico il dramma della ricerca in quei luoghi: L’archeologia nell’occhio del ciclone. Alla riscoperta di valori antichi nel mezzo di un conflitto moderno, martedì 7 ottobre alle 17.45, nel primo giorno della Rassegna, con i professori Giorgio Buccellati, Marylin Kelly –Buccellati e Federico Buccellati”.
Purtroppo in Italia in questi tempi da “spending review” anche l’archeologia deve fare i conti con tagli ai già pochi finanziamenti pubblici. Cosa ne pensa?
“Noi pensiamo, lo abbiamo sempre pensato e più volte scritto, che l’Italia investe e ha investito pochissime risorse nel patrimonio culturale, archeologico e ambientale, tanto più in ragione del suo essere immensa ricchezza peculiare del nostro paese. In Rassegna, nel giorno finale di sabato ne vogliamo parlare con chi è stato recentemente ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, e con l’archeologo e già presidente del Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici, Giuliano Volpe. Tema dell’incontro: Archeologia, paesaggi, società: le sfide dell’innovazione. Patrimoni archeologici tra conservazione e innovazione. Il nostro continuo viaggio nel mondo dell’archeologia non ci fa comunque preoccupare solo del patrimonio italiano ma anche di quello di tutto il nostro pianeta e in particolare di quello sempre a rischio per estremismi e guerre e vorremmo coinvolgere, se ci riusciamo, Massimo Vidale per raccontare il Pakistan attraverso la ricerca archeologica”.
Qual è il ruolo del Louvre alla Rassegna?
“Come in parte già detto, il Museo del Louvre e altri prestigiosi enti culturali come l’Istituto per l’archeologia preventiva (INRAP) hanno cosparso tutto il programma di proiezioni con i propri più recenti film e saranno presenti con propri rappresentanti e responsabili nei giorni conclusivi della manifestazione. Inoltre, la Rassegna vuole anche mostrare nel pomeriggio della domenica 12 ottobre nella sala convegni della Fondazione Museo Civico di Rovereto alcuni film del proprio archivio che in precedenti edizioni hanno vinto prestigiosi premi attribuiti da giurie internazionali o dal voto del pubblico. Questi film ora si trovano nella videoteca del Louvre alla voce Civilisation et Archéologie: Gli uomini dimenticati della Valle dei Re, Gli ultimi giorni di Zeugma, C’era una volta la Mesopotamia”.
Direttore Di Blasi, siamo riusciti a dire tutto?
“Penso di essere riuscito a fornire solo alcuni spunti del nutrito e complesso programma della 25. edizione della Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto. Non sono comunque sufficienti, sarà utile sfogliare di persona il programma utilizzando le sinossi dei filmati e i titoli assegnati alle conversazioni-intervista dei protagonisti dell’avventura dell’archeologia. Il programma viene distribuito in questi giorni come libretto tascabile, quartino editoriale all’interno della rivista Archeologia Viva di settembre/ottobre, nel sito della Fondazione Museo Civico www.fondazionemcr.it e in molte altre pubblicazioni. Per chi inoltre voglia vedere anticipatamente alcuni ritagli cinematografici dei film in programma suggerisco la nostra web tv dedicata all’archeologia www.archeologiaviva.tv all’interno del palinsesto più generale di www.sperimentarea.tv”.
A questo punto non ci resta che andare a Rovereto e goderci la 25. Rassegna internazionale del cinema archeologica. Buona visione a tutti.
L’Italia torna protagonista in Iran: restaureremo la cittadella di Bam e la tomba di Ciro a Pasargade
L’Italia delle eccellenze culturali torna protagonista in Iran: a Bam, la cittadella di mattoni crudi e fango sulla Via della Seta, e a Pasargade la capitale achemenide sotto Ciro il Grande. È il risultato più eclatante della quattro giorni nella Repubblica Islamica dell’Iran del ministro dei Beni culturali Massimo Bray, durante i quali sono state affrontate strategie comuni anche nel settore turistico. Il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT), attraverso l’Istituto Superiore per la Conservazione e il restauro, torna così alla cooperazione archeologica in due siti dove mancava ormai da alcuni anni. L’intesa riguarda il “contributo” italiano alle missioni di archeologia, ha detto il ministro a Teheran. In Iran ci sono già “sei missioni che lavorano bene” ma è stato “deciso di provare a definire quelli che saranno gli accordi per far ripartire il nostro contributo su Bam”, ha aggiunto il ministro. Il riferimento, implicito, è alla cittadella sulla Via della Seta che prima del terremoto da oltre 26mila morti del dicembre 2003 era la più grande costruzione in mattoni al mondo. “Da una parte”, ha detto Bray, “attueremo iniziative per poter valutare quello che è il rischio sismico in alcune zone che sono state molto danneggiate” e in altre in cui, pur essendo state “oggetto di restauro, è bene controllare continuamente” la situazione.
Arg-e Bam, ai limiti meridionali del grande deserto del Kavir-e Lut. Nella cittadella di Bam la cooperazione italiana arrivò praticamente già all’indomani del terribile terremoto del 26 dicembre 2003, di grado 6,5 (Scala Richter) che devastò una grande area della provincia di Kerman con gravissime perdite di vite umane. L’epicentro fu localizzato a circa 10 km a S-O di Bam, lungo la faglia omonima che taglia in direzione E-O tutta la Regione. Metà della popolazione di Bam scomparve, la città nuova fu completamente distrutta e Arg-e Bam (la città antica) ridotta in macerie. “La comunità internazionale”, ricordano al nostro ministero, “rispose prontamente in soccorso di questa pesante tragedia umana e per il recupero e la salvaguardia dell’eccezionale patrimonio culturale di Arg-e Bam. Infatti la cittadella oltre a essere sempre stata un’importante metà turistica, risorsa vitale per la Regione, costituiva testimonianza storica e vanto dell’identità culturale dell’intero Paese come simbolo di un glorioso passato”. Il fascino della cittadella merlata non era sfuggito neppure al grande schermo: Bam ha fatto da sfondo per il film “Il deserto dei Tartari” tratto dall’omonimo romanzo di Dino Buzzati e ad alcune scene del “Fiore delle Mille e una notte” di Pier Paolo Pasolini. Organizzazioni come Unesco, Icomos e Iccrom pianificarono, insieme con l’Ichto (Organizzazione iraniana del patrimonio culturale) il programma di recupero del patrimonio culturale duramente colpito dal sisma. Nel 2004 Bam e la sua Regione sono entrati a far parte del Patrimonio dell’Umanità (Unesco). “Il Governo Italiano è stato coinvolto nel Progetto di Recupero sin dall’inizio”, continuano al Mibac. “In seguito a numerose ricognizioni il ministero per i Beni e le Attività Culturali aveva optato per il restauro e messa in sicurezza della torre n°1 sulla cinta muraria sud-occidentale”.
La città carovaniera di Arg-e Bam – ricordiamolo – nasce e si sviluppa lungo l’antichissima via che collega l’Iran centrale con le province orientali e con l’Afghanistan e il Pakistan. La fortuna di questa splendida cittadella fortificata si deve proprio alla sua posizione strategica e alle sue preziose risorse idriche, sapientemente governate con ingegnosi sistemi di canali sotterranei (qanat) che danno vita alla straordinaria oasi. Gli inizi dell’insediamento risalgono molto indietro nel tempo (proprio gli scavi archeologici post terremoto hanno riportato alla luce tracce del primo insediamento achemenide), ma la città visse il suo periodo d’oro nel medioevo (fino al XIII secolo). Allora ospitava una numerosa e ricca comunità che doveva la sua fortuna proprio al commercio carovaniero e alla importante produzione e lavorazione della seta, del cotone e della lana. La manifattura tessile di Bam era famosa in tutto il mondo islamico. La crisi politica, economica e sociale, conseguente le invasioni di nuove etnie, i turchi oghuz, mongoli e timuridi, segnarono la crisi e una lenta, irreversibile, decadenza economica e sociale dell’intera Regione. La cittadella di Bam, grazie alla sua posizione strategica, divenne però la fortificazione più poderosa dell’Iran orientale e continuò ad avere un rilevante interesse militare di confine specialmente durante le persistenti guerre tra le popolazioni iraniane, afgane e beluche. Nel XVIII secolo la cittadella antica (Arg-e Bam) fu abbandonata per la realizzazione della nuova Bam nelle immediate vicinanze.
“Le strutture e le fortificazioni di Arg-e Bam”, spiegano Michael Jung, Vincenzo Torrieri, Narges Ahmadi che hanno seguito il primo progetto italiano di consolidamento e restauro del torrione n° 1 delle mura di Bam, “sono costruite con la tradizionale tecnica della terra cruda e in genere con mattoni quadrati, di grandezza variabile, essiccati al sole (adobe), con strati di terra pestata (chineh) e coperture protettive realizzate con un impasto di paglia e terra (khagel). Il Patrimonio Culturale di Bam rappresenta uno degli esempi più importanti di città islamica antica con un ensemble pressoché completo di tutti quegli elementi urbani generatori e caratteristici come palazzi, case, moschee, caravanserragli, hammam, bazar, officine e fortificazioni. Inoltre costituisce un magnifico esempio di città interamente costruita in terra cruda con una stratificazione, ancora perfettamente leggibile, che documenta la sua storia millenaria”.
La torre n°1 della cinta muraria più esterna, nel corso della ricerca – spiegano i nostri archeologi -, si è rivelata come un organismo pluri-stratificato con corpi murari aggiunti in appoggio dall’esterno (la cosiddetta “crescita a cipolla”). La configurazione attuale risulta infatti come la sommatoria di diverse fasi costruttive e ricostruttive (cinque le maggiori) nonché di rifacimenti, restauri ed interventi di manutenzione ordinaria che progressivamente hanno accresciuto il nucleo della linea difensiva originaria.
La croce nestoiana. Gli accertamenti archeologici hanno riportato alla luce, tra l’altro, un silos a pianta oblunga realizzato contro terra con rivestimento in mattoni crudi. Potrebbe trattarsi di un ripostiglio, scavato nel pavimento, per la conservazione di derrate alimentari. I reperti rivenuti nel all’interno (per lo più frammenti ceramici) vengono studiati nel centro operativo di Bam. Ma tra i ritrovamenti più sorprendenti e importanti va sicuramente annoverato il motivo della croce impressa sull’intonaco esterno della Mura occidentali, non lontano dalla torre. “Si tratta di una croce greca, probabilmente nestoriana, con quattro bracci di eguale lunghezza (24 cm), realizzata attraverso impressione di una matrice in legno (meno probabile di metallo) sull’intonaco ancora fresco”, continuano Michael Jung, Vincenzo Torrieri, Narges Ahmadi. “La porzione dell’intonaco interessato è stata distaccata per ragioni di salvaguardia e collocata nei laboratori di restauro del centro operativo in attesa di essere esposta nel futuro museo di Bam. Il simbolo della croce nestoriana è stato identificato anche su due frammenti ceramici rinvenuti nelle prossimità della cittadella e rappresenta, allo stato attuale delle conoscenze, la prima testimonianza archeologica della presenza cristiana a Bam, come nell’intera Regione”.
Tra i reperti rinvenuti durante le ricerche si segnalano punte di freccia di ferro, frammenti di ceramica acroma, invetriata e non, collocabili in un ampio contesto cronologico a partire (molto probabilmente) dal tardo periodo achemenide fino ai giorni nostri. Tra i materiali antropici si segnalano ossa animali (avanzi di pasto e non), lacerti di tessuti e frammenti di vetro colorato. Sono stati rinvenuti vinaccioli di “vitis vinifera” domestica, tralci di vite, melograno, palma, cocco. “I risultati della ricerca e delle analisi dei materiali”, concludono gli archeologi, “saranno essenziali per la definizione di una cronologia assoluta di riferimento sul diagramma della successione stratigrafica accertata. I risultati potranno fornire un primo inquadramento cronologico, delle diverse fasi costruttive documentate, di ausilio alla storia di questa straordinaria e monumentale fortificazione, ai limiti del grande deserto del Kavir-e Lut”.
Con queste premesse si torna a Bam. Come si diceva Italia e Iran hanno firmato a Teheran un accordo per la collaborazione alla conservazione e al restauro dei siti di Bam e di Pasargade. A firmare il “memorandum of understanding” tra il ministero italiano dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e l’Iranian Cultural Heritage, Handcrafts and Tourism Organization sono stati il ministro Massimo Bray e il delegato del governo per questo patrimonio, Mehdi Hojjat. Nello specifico i due governi si sono impegnati a cooperare nella conservazione e restauro della tomba di Ciro a Pasargade e nel Bastione ovest delle mura di Bam. I risultati delle ricerche saranno pubblicati sia in Italia che in Iran. Ma non è tutto. C’è anche una novità, proprio su Bam. In particolare, ha annunciato il ministro riferendosi evidentemente ad attività di restauro, “faremo un progetto di fattibilità sul Caravanserraglio, che è una delle architetture molto danneggiate della cittadella ma di grandissimo valore, e proveremo quindi a definire quelli che sono gli accordi puntuali per la definizione di queste attività”. Fornendo indicazioni su un organismo annunciato durante la quattro giorni iraniana, Bray ha riferito che “si è deciso di dar vita a un gruppo di lavoro misto” per “monitorare” sia “l’avanzamento di questi lavori” sia “altre iniziative che non rientrano negli accordi” che sono stati “definiti finora dai due governi o che si vogliono rinnovare”.
La tomba di Ciro. Nel 2010, dopo la conclusione della prima parte dei progetti di restauro e conservazione nella Cittadella di Bam, nei colloqui Iran-Italia si era cominciato a discutere dei nuovi cantieri da affidare ai tecnici italiani. “L’opera dei restauratori italiani – ricordano le cronache dell’epoca – che ha portato al recupero della torre n. 1 Sud Ovest, la prima che si incontra provenendo dalla città nuova, e di parte della cinta muraria, è stata particolarmente apprezzata”. Così le autorità iraniane avevano approvato un secondo progetto che avrebbe coinvolto i tecnici italiani: il restauro del Caravanserraglio, edificio all’interno dell’antica cittadella anch’esso gravemente danneggiato. Progetto che è tornato in discussione durante la visita ufficiale di Bray. E sempre nel 2010 prese il via il restauro da parte italiana della Tomba di Ciro il Grande a Pasargade, il più importante monumento dell’Iran e simbolo stesso dell’identità nazionale. E ora l’Italia torna a Pasargade, sito archeologico inserito nel 2004 nell’elenco dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco.
Le sue rovine si trovano a quasi 90 chilometri a nordest di Persepoli, nell’Iran meridionale, e il suo monumento più famoso è la tomba attribuita all’imperatore persiano Ciro il Grande, costruita su sei alti gradini che conducono alla sepoltura vera e propria, che ha un’entrata bassa e stretta. “Benché non ci siano prove certe per l’identificazione della tomba con quella di Ciro”, spiegano gli archeologi, “gli antichi storici greci riportarono che questa era la convinzione di Alessandro Magno, il quale rese omaggio al mausoleo dopo il saccheggio e la distruzione di Persepoli”. Durante la conquista araba della Persia, quando l’esercito arabo si trovò di fronte alla tomba decise di distruggerla, poiché essa era considerata in contrasto con i principi dell’Islam. L’edificio si salvò grazie a uno stratagemma usato spesso dai persiani in molte aree del Paese: i guardiani del monumento riuscirono a convincere il comandante dell’esercito che la tomba non era stata costruita in onore di Ciro il Grande, bensì della madre del re Salomone. E infatti ancora oggi è molto diffuso l’uso di chiamare la tomba di Ciro come Qabr-e Madar-e Sulaiman”, cioè la tomba della madre di Salomone.
Aperta a Taranto una nuova ala del museo archeologico. Tra ambiziosi progetti e molte polemiche
L’obiettivo – molto ambizioso – del ministro per i Beni culturali Massimo Bray è il rilancio del Mezzogiorno attraverso alcune eccellenze che diventino volano per il turismo e l’economia del Sud d’Italia, un triangolo con ai vertici tre grandi musei archeologici nazionali: quello di Palazzo Reale a Napoli (il più noto e già attivo); quello della Magna Grecia con i Bronzi di Riace a Palazzo Piacentini a Reggio Calabria (appena riaperto, e che sarà completamente operativo dalla prossima primavera); e infine c’è il MarTa di Taranto (del quale nei giorni scorsi è stata inaugurata la nuova ala, non senza polemiche). Proprio quest’ultimo tassello della grandiosa visione di Bray sembra essere l’anello più debole del progetto di rilancio di una città prima ancora di un territorio: Taranto sta vivendo con comprensibile preoccupazione il “caso Ilva”, un dramma (disastro?) ambientale che lega a filo doppio la salute dei cittadini e la sopravvivenza del loro posto di lavoro; ma è anche una città dove degrado ed emarginazione sembrano farla da padrone.
Così l’apertura della nuova ala del museo archeologico nazionale di Taranto (MarTa) era stata vissuta come un segnale positivo, una luce nel grigiore dei fumi dell’Ilva. Il lavori di ristrutturazione del museo – non dimentichiamolo – erano iniziati ancora nel 1998, con una parziale riapertura solo nel 2007. Ma proprio l’assenza del ministro alla cerimonia di inaugurazione (cioè proprio del principale attore di questo annunciato e sperato rilancio), la cui presenza era stata più volte annunciata ed era molto attesa, ha fatto precipitare ogni speranza nell’animo dei tarantini, convinti di aver assistito all’ennesimo spot del politico di turno. Nonostante le scuse ufficiali del ministro Bray, che ha assicurato quanto prima una sua visita al museo e alla città, i tarantini hanno creduto di rivivere un film già visto: “Passata la festa, sulla città e il museo tornerà l’oblio”. Era già successo negli anni ’80, dopo l’esposizione degli straordinari Ori di Taranto, a un primo boom era seguito un progressivo calo di interesse e visitatori che, come nel caso dei Bronzi di Riace a Reggio Calabria, sembravano aver perso la strada, attratti da altre mete.
“Non c’è niente da festeggiare se la città vecchia continua a crollare”: è uno degli striscioni esposti a Taranto dal comitato Cittadini liberi e pensanti davanti al Museo nazionale archeologico riaperto con l’inaugurazione di nuove sezioni. Su un altro striscione campeggiava la scritta “Presenti per un nastro da tagliare, assenti per una città da salvare”. Il gruppo di cittadini, che ha atteso invano l’arrivo del ministro Bray hanno chiesto attenzione non solo nei confronti del Museo ma anche del borgo antico dopo i recenti crolli di diversi edifici. “In stato di abbandono – sottolineano in una nota – non è solo la nostra isola, ma anche il borgo umbertino che vede i suoi stabili storici dimenticati e svuotati come il Palazzo degli Uffizi, sede del Liceo Archita, il museo Talassografico, il liceo Ferraris e le aree dismesse recentemente dalla Marina Militare. Luoghi che invece dovrebbero essere considerati nuovi spazi utili per farne centri per l’aggregazione, la promozione dello sviluppo di nuove creatività giovanili”. Quei pochi giovani, aggiungono, che “non sono costretti a scappare da qui e che rappresentano linfa vitale per ogni città ma che a Taranto non hanno prospettiva alcuna se non quella dell’emigrazione, dell’invio del curriculum alle fabbriche che inquinano, del lavoro nero e sottopagato, della carriera in Marina: lo stesso destino dei loro padri o dei loro nonni e che ci hanno portato agli insostenibili risultati attuali”. La cultura, concludono, “può e deve rappresentare per Taranto una alternativa d’eccellenza. Ma le istituzioni, sia a livello locale che nazionale, sembrano spesso ignorare la possibilità di puntare realmente su una nuova Taranto”.
Ma con l’apertura delle nuove sezioni espositive il Museo nazionale archeologico di Taranto è una realtà su cui contare. Ora si possono visitare i padiglioni del primo piano con le sale dedicate alla necropoli ellenistica, alla città romana e alla città tra il tardoantico e l’età bizantina. Quando i lavori saranno completati l’esposizione del MarTa risulterà quasi triplicata. Intanto si possono ammirare numerosi gioielli (corone, orecchini, collane, anelli) in pasta vitrea e pietre colorate, terrecotte figurate policrome prodotte da artigiani locali nel solco della tradizione artigianale greca. Ma sono documentati anche manufatti in osso, avori e vetri colorati di importazione che caratterizzano i corredi delle sepolture ad incinerazione di età imperiale.
E ora si aspetta la visita del ministro. “Sono molto dispiaciuto di non aver partecipato all’inaugurazione dei nuovi spazi del museo archeologico nazionale MarTa di Taranto”, si è scusato il ministro Bray. “Sono stato bloccato da un problema tecnico al volo che avrei dovuto prendere, ma ci tengo ad assicurare la mia presenza a Taranto, che sto già riorganizzando. Vorrei avere il tempo di visitare anche la città vecchia, come molti amici mi hanno chiesto, per vedere con i miei occhi quello che c’è da fare per restituire vita ai beni culturali e per una comunità che si è appellata al mio ministero con così tanta speranza”.
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