Israele. Scoperto l’anello di Pilato. A 50 anni dal rinvenimento di un antico anello in bronzo nell’Herodion, la fortezza di Erode il Grande vicina a Betlemme, decifrato il suo sigillo-iscrizione con il nome del governatore romano che condannò Gesù
L’antico anello in bronzo, con migliaia di altri reperti, era stato trovato giusto mezzo secolo fa dall’archeologo Gideon Forster negli scavi condotti tra il 1968 e il 1969 in una sezione della tomba di Erode e nell’omonimo palazzo, dove sorgeva l’Herodion, la fortezza costruita a una decina di chilometri da Betlemme da Erode il Grande e poi utilizzata dai romani. Ma la vera scoperta è stata fatta mezzo secolo dopo, come ha annunciato il giornale israeliano Haaretz. E protagonista è ancora quell’antico anello in bronzo, anzi più precisamente l’iscrizione riportata su di esso: su quell’anello – spiega il professor Danny Schwartz che l’ha decifrata, c’è il nome di Pilato. E subito quel nome è stato legato a quello del governatore romano che secondo il Vangelo guidò il processo a Gesù e ne ordinò la crocefissione: “Quel nome”, ha detto Schwartz ad Haaretz, “era raro nell’Israele di quei tempi. Non conosco nessun altro Pilato di quel periodo e l’anello mostra che era una persona di rango e benestante”. Dopo un’opportuna pulizia, le immagini fotografiche, realizzate con una speciale macchina messa a disposizione dei laboratori delle Antichità israeliane, hanno rilevato l’effigie di un vaso di vino sovrastata da una scritta in greco, che è stata appunto tradotta con il nome Pilato. L’oggetto, quasi sicuramente un sigillo, è di fattura semplice e ciò induce a pensare che il funzionario romano lo portasse tutti i giorni e non soltanto in eventi speciali.

L’anello di Ponzio PIlato trovato nell’Herodion: l’originale in bronzo, dopo la pulizia, e la versione grafica
L’importanza della scoperta è dovuta al fatto che si tratta della seconda attestazione archeologica del nome del rappresentante imperiale, di cui scrivono i Vangeli e lo storico Flavio Giuseppe, dopo la scoperta nel 1961 della celebre iscrizione di Cesarea Marittima, in cui per la prima volta è comparso il nome di Ponzio Pilato, abbinato al titolo di Praefectus Iudaeae. Come pubblicato sul volume 68/2 della rivista scientifica Israel Exploration Journal a cura della storica Israel Exploration Society, non potendo datare con precisione l’anello (le prove a cui è stato sottoposto lo fissano tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.) per gli archeologi è diventato fondamentale il luogo in cui è stato trovato. Infatti la costruzione non è sicuramente posteriore al 70 d.C. e si sa che Pilato usava l’Herodion come quartier generale amministrativo, quindi era un luogo abituale per il governatore romano.
Scoperta in Israele una statuetta in terracotta di 3800 anni fa che precorre il “Pensatore” di Rodin

Il ritrovamento a Yehud (Israele) di una statuetta in terracotta di 3800 anni fa (media Età del Bronzo)
È una piccola statua in terracotta di 3800 anni fa quella trovata dagli archeologi israeliani a Yehud, nel centro di Israele, in perfetto stato di conservazione, realizzata sopra un vaso di ceramica appunto della media Età del Bronzo. Ma l’eccezionalità della scoperta non è il livello di conservazione ma la sua fattura-composizione: sembra essere la perfetta antenata del “Pensatore”, opera che lo scultore Auguste Rodin scolpì nel 1902. Secondo Gilad Itach, l’archeologo che ha diretto lo scavo, la fattura dell’opera ha visto prima la preparazione del vaso, caratteristico di quell’epoca, e in una seconda fase il posizionamento della statuetta, “un unicum” finora tra quanto restituito dalle ricerche archeologiche. “Il livello di precisione e di attenzione al dettaglio nel creare questa scultura di circa 4000 anni fa è impressionante. Il collo della brocca è servito come base per formare la parte superiore della figura. Dopo questa sono stati aggiunti le braccia, le gambe e la faccia. Ma quello che colpisce, esaltato dal fatto che la faccia appoggia su una mano, è l’espressione riflessiva del viso”.
Israele. Un vaso ricomposto da centinaia di cocci, trovato nel 2012 nella valle di Elah, restituisce una rara iscrizione cananea di tremila anni fa con il nome del proprietario di un’azienda agricola che ricorda quello di un eroe biblico

L’archeologo israeliano Saar Ganor indica la posizione dell’iscrizione cananea sul vaso ritrovano in centinaia di cocci nel 2012
Una rara iscrizione del tempo di re David (XI-X sec. a.C.) con il nome di Eshbaal Ben Badà è stata trovata nella valle di Elah in Israele. Ma per giungere a questa importante scoperta ci sono voluti anni di paziente lavoro per ricostruire i cocci di un vaso di argilla vecchio di tremila anni. Il vaso in argilla fu infatti portato alla luce a Khirbet Qeiyafa (la antica Shearaim) nella valle di Elah (fra Gerusalemme e Ashqelon), in numerosi frammenti, ancora nel 2012 durante gli scavi effettuati dal prof. Yosef Garfinkel dell’istituto di Archeologia dell’università Ebraica e Saar Ganor della Israel Antiquities Authority.
Fu in quell’occasione che la presenza di alcune lettere scritte su alcuni frammenti, in antica scrittura cananea, scatenò la curiosità dei ricercatori. Il restauro, condotto nei laboratori dell’Israel Antiquities Authority, durante il quale sono stati incollati insieme centinaia di frammenti di ceramica fino a ricomporre l’antico vaso, ha alla fine risolto l’enigma. Sul vaso fu fatto incidere il nome Eshbaal Ben Badà, decifrato dall’equipe diretta da Mitka Golub e Haggai Misgav. Secondo Garfinkel e Ganor “questa è la prima volta che il nome Eshbaal appare su un’antica iscrizione in Israele”. Finora il nome Eshbaal compariva solo sulla Bibbia, mentre ora c’è anche un riscontro nella documentazione archeologica, durante il regno di re Davide, nella prima metà del X secolo a.C. Questo nome non è stato utilizzato in seguito nel periodo del Primo Tempio. La correlazione tra la tradizione biblica e i reperti archeologici indica che questo era un nome comune solo in quel periodo, mentre il nome Beda è unico e non si hanno riscontri in antiche iscrizioni o nella tradizione biblica”.
L’iscrizione con il nome Eshbaal Ben Badà non è la prima che restituisce il sito di Khirbet Qeiyafa. Durante le stagioni di scavo dirette dal Garfinkel e Ganor, in questa città fortificata, due porte, un palazzo e magazzini, abitazioni e locali di culto, sono stati scoperti manufatti unici. Ad esempio, nel 2008 è stata trovata l’iscrizione ebraica più antica del mondo. E ora questa nuova iscrizione. “Fino a cinque anni fa non si conoscevano iscrizioni del periodo del Regno di Giuda (X sec. a.C.). Ora ne sono state pubblicate ben quattro: due da Khirbet Qeiyafa, una da Gerusalemme, e una da Bet Shemesh. Questa cambia completamente le nostre conoscenze sulla distribuzione della scrittura sotto il Regno di Giuda e ormai è chiaro che la scrittura era molto più diffusa di quanto si pensasse in precedenza, collegata anche all’organizzazione del regno che necessitava di impiegati e scribi”.
Ma chi c’era dietro questo nome? Ora si parla del nome di un eroe biblico: Eshbaal Ben Badà, il comandante di una unità di élite composta da 30 coraggiosi, fedelissimi al re Davide nelle sue lotte con i filistei. Ma secondo i ricercatori, il fatto che il nome Eshbaal sia stato inciso su un vaso suggerisce che si trattava di una persona importante, quasi sicuramente il proprietario di una grande azienda agricola la cui produzione veniva raccolta e trasportata in contenitori – vasi – che portavano il suo nome. Questa è la prova evidente della stratificazione sociale e della creazione di una classe economica consolidata che si è verificata al momento della formazione del Regno di Giuda”.
Trovata, nel nord di Israele, l’impronta lasciata duemila anni fa dai calzari di un legionario romano
Quante volte, in un sito archeologico, ci è capitato di dire: stiamo camminando sulle orme di quel popolo antico o di quel personaggio. Ad un gruppo di archeologi israeliani è successo “letteralmente” di camminare sule orme del popolo ce stavano studiando. È successo in Israele: recenti scavi condotti da un team dell’università di Haifa nelle rovine di Hippos, una città ellenistica sulle alture del Golan, hanno portato alla luce delle impronte di calzari dei soldati romani risalenti a duemila anni fa. Le impronte di suole chiodate vennero impresse nella malta ancora umida delle fortificazioni erette a Hippos, che sorge a est del mare di Galilea (Lago di Tiberiade), come riferisce su “Popular Archaeology” il professor Michael Eisenberg. Hippos era una delle dieci città ellenistiche sparse fra quelli che sono oggi Israele, Siria e Giordania, conosciute nell’antichità come la Decapoli. Gli archeologi dell’università di Haifa vi hanno condotto campagne di scavi ogni anno a partire dal 2000. Le rovine sono particolarmente notevoli per lo stato si conservazione della basilica, del foro e del teatro, il tutto ricavato dal basalto nero delle alture del Golan e arroccato sulle rocce che sovrastano il mare di Galilea. È qui che la squadra di ricercatori israeliani ha trovato una singola impronta completa di una caliga romana, insieme a diverse impronte incomplete, facilmente identificabili per i segni lasciati dai chiodi di ferro delle suole.
“L’orma completa”, spiega Eisenberg nell’articolo, “è lunga 24,50 centimetri e ha lasciato 29 piccole impronte circolari. Si trattava di una caliga del piede sinistro, equivalente approssimativamente a una scarpa numero 40! Tali calzature erano la dotazione standard dei soldati di truppa romani. “Il bastione e le impronte sollevano la possibilità che coorti romane o ausiliarie di stanza in Siria avessero anche il compito di costruire la fortificazione”, scrive Eisenberg. “Si tratta di un caso piuttosto eccezionale e probabilmente si è verificato in un momento di emergenza: un’emergenza che potrebbe essere collegata alla Grande Rivolta in Galilea degli anni 66-67 d.C., pochi anni prima che i romani marciassero su Gerusalemme e bruciassero il Secondo Tempio”.
Sulle tracce di Maria e Giuseppe da Nazareth a Betlemme: nuovo ambizioso progetto tra archeologia biblica e storia del regista veneziano Alberto Castellani per un film in due puntate

Maria e Giuseppe in viaggio verso Betlemme: il regista Alberto Castellani ne seguirà le orme per un nuovo film “Storia di Myriam e Yoseph: in cammino nella terra dei Padri”
Scrive l’evangelista Luca: “Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide , chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa , che era incinta”. Tutto è iniziato da queste poche parole, spiega Alberto Castellani, il regista veneziano in partenza l’8 luglio per Israele e la Palestina, con un nuovo ambizioso progetto: seguire il viaggio di Maria e Giuseppe da Nazaret a Betlemme. “In questa laconicità di informazione sta proprio il fascino della mia ricerca che ho voluto sviluppare in fase di sceneggiatura e che intendo ora sperimentare direttamente sul territorio”. Due settimane di riprese, un gruppo di lavoro collaudato, il sostegno della Cei (Conferenza episcopale italiana) e dell’ambasciata di Palestina a Roma, la consulenza di professori di grande valenza, come Pietro Kaswalder, SBF Jerusalem (scomparso recentemente) e Danilo Mazzoleni , PIAC Pontificio Istituto di Archeologia, e il contributo di esperti del calibro del biblista il card. Gianfranco Ravasi, di Alberto Bobbio di Famiglia Cristiana e dell’egittologo Alberto Elli: ecco in sintesi il progetto del film “Storia di Myriam e Yoseph: in cammino nella terra dei Padri”, programma che, nelle intenzioni di Castellani, dovrebbe essere suddiviso in due puntate da mandare in onda sul canale 28-TV 2000 e su un gruppo di emittenti europee e statunitensi. “Sarà un’indagine sul campo per cercare di dar voce al misterioso silenzio evangelico”.
Dopo aver seguito le orme dello svizzero Johann Ludwig Burckhardt che duecento anni fa scoprì Petra, la capitale dei Nabatei, in Giordania, da cui è scaturito il fortunato film “Sulla via di Petra” (https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2013/11/28/a-bologna-petra-inedita-nel-film-di-castellani/), ora il regista veneziano che da più di vent’anni rivolge la sua attenzione all’archeologia del Medio Oriente, cerca di indagare su quello che può ragionevolmente essere accaduto duemila anni fa in terra di Palestina quando una coppia di sposi , destinati ad entrare ben presto nella storia, si accinsero a compiere un viaggio che da Nazareth si sarebbe concluso a Betlemme. Ponendosi subito una domanda: quale via può aver percorso dalla Galilea verso Betlemme di Giuda, Giuseppe, della casa di Davide e la sua giovanissima sposa prossima al parto, allorché l’editto di Augusto ordinò il censimento delle genti di Palestina? A venire in “soccorso” di Castellani è stato Pietro Kaswalder, eminente studioso di geografia biblica, recentemente scomparso, che ha tracciato una ipotesi di lavoro: “Più che la Valle del Giordano, che si estendeva lungo la parte orientale della Palestina alla sinistra del fiume, o della romana Via Maris, tra la piana dello Sharon e la costa del Mediterraneo, plausibile è apparso il percorso della cosiddetta Via Centrale o della Montagna che nella tradizione dei primi pellegrini cristiani , ma non solo, era chiamata Strada della Fede o anche Via dei Patriarchi”. E su tale itinerario che Castellani e la sua troupe hanno deciso di orientare i loro passi programmando più di due settimane di presenza in Israele. Punto di partenza non poteva essere, ovviamente, che il villaggio di Nazareth.
È lo stesso Castellani a raccontarci come si muoverà sulle orme di Maria e Giuseppe. “Dopo una indagine accurata sui locali reperti archeologici custoditi nella Basilica della Annunciazione, sugli scavi della cosiddetta Casa di Giuseppe fino alla più recente scoperta archeologica sulla presunta Casa di Gesù, ci sposteremo lungo la valle di Esdrelon, percorrendola in gran parte. Qui toccheremo il villaggio di Taanich, che conserva il ricordo della biblica Deborah, giungendo successivamente a Jenin, l’antica Betulia nota per l’episodio di Giuditta ed Oloferne. Da qui a Dotan, località non lontana da Jenin, per rivivere sul crinale di un piccolo tell apparentemente anonimo il racconto dell’Antico Testamento di Giuseppe venduto dai fratelli”.
Sarà quindi la volta di Samaria/Sebaste in cui missioni archeologiche italiane, francesi ed israeliane stanno cercando di portare alla luce il passato di questa città attraverso una attività scavo e conservazione dei reperti fino ad ora rinvenuti . E poi la mitica Nablus , l’antica Neapolis della famiglia Flavia, e il rinnovarsi del ricordo di Giuseppe figura legata a tante storie della Bibbia e del Corano. “Mi auguro di poter documentare anche la sua tomba venerata in cui ancor oggi converge la popolazione locale per richieste di buon raccolto, di fertilità e di amore: questo soprattutto da parte delle donne”. A Nablus non mancherà una indagine sul sito di Tel Balata uno dei più importanti della Cisgiordania tra i biblici monti Ebal e Garizin e, se possibile , un contatto con la antichissima comunità Samaritana. “La vicina Shiloh, la città di Giosué e dell’Arca dell’Alleanza – continua -, ci propone uno dei luoghi più emozionanti del mondo ebraico e della sua fede millenaria, già attivo, prima della costruzione del Santuario di Gerusalemme”. Tappa obbligata l’altopiano sassoso di Bethel dove, secondo tradizione, Abramo piantò le sue tende ed eresse un altare e Giacobbe uno dei tre padri del popolo ebraico, ebbe il misterioso sogno su una discendenza destinata a diffondersi “ come polvere della terra” ( Gn 28,14). Pochi chilometri ed ecco la attuale capitale dello stato palestinese, la moderna Ramallah e la vicina Tell en Nasbeh con il ricordo del profeta Samuele e la testimonianza dei risultati delle missioni archeologiche statunitensi che hanno portato alla luce una imponente raccolta di documenti dal calcolitico all’età del ferro fino alle indagini accurate operate verso la metà del secolo scorso dal francescano padre Bagatti. “Infine ecco una Gerusalemme insolita, quasi nascosta: la valle della Geenna, le mitiche piscine di Salomone, l’ eccezionale testimonianza delle preziose lamine di Ketef Hinom, oggi conservate all’Israel Museum. Una certificazione incisa con caratteri paleo ebraici e scritta attorno al 600 prima di Cristo, conferma della fondatezza e della esistenza del testo biblico quattrocento anni prima della scoperta dei rotoli nelle grotte di Qumram nel Mar Morto”.
Con il sito di Kathisma, sul crinale dell’ultima collina alla periferia di Gerusalemme, che fa riferimento ad una sosta richiesta da Maria ormai prossima al parto e la documentazione di ciò che resta, a detta degli archeologici israeliani, di una chiesa che doveva essere addirittura più bella e maestosa di quella del Santo Sepolcro costruita al tempo di Costantino , l’itinerario si conclude nell’ormai vicina Betlemme. “E anche qui sarà l’archeologia ad aiutarci per dare spessore storico ad un evento ed a una sua localizzazione tuttora dibattuta. Dietro solitarie pietre di vallate deserte, dietro eventi ancestrali che soltanto la toponomastica di villaggi sperduti o addirittura scomparsi è ancora in grado di richiamare – conclude Castellani -, cercherò di offrire lo spaccato di un mondo che di lì a poco si sarebbe aperto al cristianesimo prima che secoli di storia, di sovrapposizioni o di leggende nascondessero in parte l’ immagine autentica di una terra che i piedi di Gesù, di lì a poco avrebbero cominciato a percorrere. Per rivivere idealmente quel lontano cammino che mi condurrà verso quella debole luce che appena rischiara una grotta dove ogni giorno sostano in preghiera migliaia di fedeli”.
A Gerusalemme al Museo dei Rotoli esposta la più antica copia dei Dieci Comandamenti e la Nano Bibbia, la più piccola in ebraico al mondo

Il minuscolo manoscritto dai Rotoli di Qumran con la più antica copia dei 10 Comandamenti in mostra a Gerusalemme
Il più antico e completo documento con una versione integrale dei Dieci comandamenti è eccezionalmente esposto a Gerusalemme nell’ambito della mostra “Una breve storia dell’umanità” che si tiene da maggio 2015 a gennaio 2016 nel museo d’Israele di Gerusalemme per festeggiare insieme con altre mostre il cinquantenario del Museo. Durante l’esposizione, il minuscolo manoscritto di 45,7×7,6 centimetri, che ha oltre duemila anni ed è la più antica copia che sia mai stata ritrovata, scritta in ebraico, del Decalogo contenuto nel libro biblico del Deuteronomio, parte dei famosi Rotoli del Mar Morto (scoperti casualmente, in fasi successive, tra il 1947 ed 1956, vicino alle rovine dell’antico insediamento di Qumran), viene protetto da una teca climatizzata: normalmente il documento è custodito presso le strutture dell’Antiquities Authority israeliana, in condizioni di conservazione particolarmente attente. E qui tornerà entro giugno: la miniatura, dopo neppure un mese di esposizione, verrà infatti sostituita da “un originale su copia” realizzato dalle stesse autorità israeliane che l’hanno in custodia. “Sono più di 20 anni”, spiega Tania Coen Uzielli curatrice dell’evento, “che la copia non viene mostrata in pubblico a causa della sua delicatezza. Ma è conservata benissimo ed è perfettamente leggibile. Direi in maniera stupefacente: come se dovesse giungere per forza fino a noi. In quel manoscritto sono contenute le regole della nostra civiltà, non solo religiose ma morali”.
Della mostra “Breve storia dell’umanita”, ispirata al bestseller di Yuval Noah Harari, fanno parte tutta una serie di oggetti (15) che rappresentano altrettante tappe storiche della civiltà: dai primi segni dell’uso del fuoco circa 800mila anni fa ai primi utensili fatti dall’uomo (tra questi alcuni per la caccia all’elefante), passando attraverso i vari progressi in agricoltura, l’invenzione della scrittura (con tavolette mesopotamiche risalenti a 5mila anni fa), le prime monete fino ai manoscritti di Einstein sulla Relatività.

La Nano Bibbia, che sta sulla punta di un dito, è esposta alla mostra “Breve storia dell’umanità” a Gerusalemme
In concomitanza con le celebrazioni per i 50 anni del Museo – che prevede altre mostre oltre a “Breve storia dell’umanità” – vi sono due speciali esposizioni nello “Shrine of the Book” dove sono appunto conservati i Rotoli del Mar Morto, aperto al pubblico nel mese di aprile 1965, come preludio all’inaugurazione dell’intero campus del Museo. In mostra è un display dedicato che esamina la storia del Santuario stesso. Come contrappunto contemporaneo alla storia antica dei Rotoli del Mar Morto sarà esposto per la prima volta il più piccolo esempio al mondo di Bibbia ebraica, la Nano Bibbia creata dal Russell Berrie Nanotechnology Institute dell’Istituto Technion-Israel of Technology.
In una grotta del Negev (Israele) trovato un tesoro dei faraoni di 3500 anni fa (età del Bronzo): centinaia di oggetti con sigilli a scarabeo, figurine e amuleti
Quella grotta sotterranea del Negev, a una decina di chilometri a nord-est di Beersheva, nel sud di Israele, si è rivelata un vero e proprio scrigno di tesori antichi: “Gli archeologi hanno trovato un’impressionante quantità di reperti, per lo più databili a 3mila anni fa, tra cui un tesoro dei faraoni”, ha annunciato l’Israel Antiquities Authority. Gli ispettori dell’unità israeliana per la prevenzione dei furti di antichità sono giunti alla grotta nella zona di Tel Halif, vicino al kibbutz Lahav, quando i ladri erano già riusciti a penetrarvi e avevano iniziato a saccheggiare il vasellame della tarda età del bronzo (circa 1500 a.C.) e dell’età del ferro (1000 a.C.), causando danni al sito e ai manufatti sepolti all’interno. Per salvare i reperti archeologici, gli ispettori hanno effettuato degli scavi di recupero durante i quali hanno scoperto oltre 300 vasi di terracotta di vario tipo, alcuni dei quali ancora intatti. Inoltre hanno trovato decine di pezzi di gioielleria in bronzo, conchiglia e maiolica, vasi unici in alabastro beige-giallastro, sigilli, timbri per sigilli e vasi per cosmetici. Gli archeologi ritengono che gli oggetti siano stati accumulati nella grotta nel corso di decenni.

In una grotta di tell Halif sono stati trovati oltre 300 vasi di terracotta dell’età del Bronzo (3500 anni fa)
”Tra i numerosi reperti che sono stati scoperti, per la maggior parte caratteristici della cultura giudaica (della tribù di Giuda) nel sud del paese”, spiega Amir Ganor, direttore dell’Unità per la prevenzione dei furti di antichità, “abbiamo trovato decine di sigilli di pietra, alcuni dei quali sono sagomati a forma di scarabeo e portano incisi immagini e simboli tipici della cultura egizia diffusa nel paese nella tarda età del bronzo. Alcuni dei sigilli sono forgiati su pietre semi-preziose provenienti dall’Egitto e dalla penisola del Sinai”. Secondo Daphna Ben-Tor, curatrice dell’archeologia egizia al Museo Israel di Gerusalemme, ”la maggior parte dei sigilli a scarabeo trovati nello scavo risalgono ai secoli XV e XIV a.C., un periodo durante il quale la terra di Canaan era governata dall’Egitto. Su alcuni sigilli appaiono i nomi dei re. Tra l’altro, possiamo identificare una sfinge posta di fronte al nome del faraone Thutmose che regnò circa dal 1504 al 1450 a.C. Un altro sigillo a scarabeo porta il nome di Amenhotep che regnò circa dal 1386 al 1349 a.C. Un altro ancora raffigura Ptah, il principale dio della città di Memphis”. Fra gli altri manufatti scoperti, anelli-sigillo in maiolica e una quantità di figurine e amuleti rappresentanti divinità sacre alla cultura egizia. “È vero che gli israeliti abbandonarono l’Egitto – aggiunge Ganor – ma evidentemente gli egizi non abbandonarono gli israeliti e i loro discendenti. Il fatto è attestato dagli scavi archeologici dove abbiamo scoperto prove risalenti a molti anni dopo l’Esodo di una profonda influenza della cultura egizia sugli abitanti giudaidici del paese”.
”Durante la tarda età del Bronzo”, precisa Amir Golani, della Israel Antiquities Authority, “l’Egitto era un impero molto potente che imponeva la sua autorità in tutta la nostra regione. L’autorità egizia non si manifestava solo nel controllo politico e militare, ma anche come una forte influenza culturale che permeava la società. Insieme a un’amministrazione retta da funzionari egizi in Israele, si è evoluta nel paese una élite locale che adottava molte delle usanze egizie e la loro arte”. I manufatti sono stati trasferiti alla Israel Antiquities Authority per un ulteriore trattamento. L’esame della grotta e i suoi risultati sono ancora nelle fasi iniziali. Dopo aver completato il trattamento delle centinaia di oggetti riportati alla luce sarà possibile aggiungere informazioni importanti circa l’influenza dell’Egitto sulla popolazione della Terra d’Israele in periodo biblico.
Sei chili di monete d’oro del Califfato dei Fatimidi (X-XII secolo) scoperte sui fondali di Cesarea, in Israele: la nave che le trasportava naufragò quasi mille anni fa
Sei chili di monete d’oro: mai prima d’ora in Israele se ne sono trovate così tante insieme e in così buono stato di conservazione. Erano sparse sui fondali sabbiosi del porto di Cesarea, uno dei siti archeologici romani più importanti e più visitati di Israele. La scoperta – che testimonia un naufragio di circa mille anni fa – è stata annunciata dalla Israel Antiquities Authority, citata dal quotidiano Jerusalem Post e ripresa dal sito internet Israele.net. La scoperta è stata fatta un paio di settimane fa da quattro sub durante un’immersione. Tzvika Feuer, Kobi Tweena, Avivit Fishler, Yoav Lavi e Yoel Miller, tutti sub del club di Cesarea, hanno segnalato il ritrovamento alla soprintendenza di Archeologia marina israeliana (che ne ha elogiato il senso civico), i cui esperti si sono poi recati insieme ai sub nel luogo del ritrovamento, muniti di un metal detector, e hanno scoperto quasi duemila monete d’oro di epoca fatimide (XI secolo d.C.) di diverso taglio, dimensioni e peso: un dinaro, un quarto di dinaro. Tra queste, la più antica (un quarto di dinaro) è stata coniata a Palermo nella seconda metà del IX secolo. Non si esclude che ci possano essere altri reperti sotto la sabbia oltre a quelli già riportati a galla.
Le monete sono di due tagli: dinaro e quarto di dinaro. Sul conio hanno stampigliate le insegne di vari posti del Califfato dei Fatimidi, grande impero che copriva gran parte del Medio Oriente, dell’Africa del nord e la Sicilia. I Fatimidi, partiti dalla Siria, conquistarono l’Egitto facendo del Cairo la loro capitale: regnarono dal 909 al 1171. La maggior parte delle monete hanno il segno del Califfo Al-Hakim (996-1021) e di suo figlio Al-Zahir (1021-1036) e furono coniate soprattutto in Egitto e nel Nord Africa. L’ultima moneta, rispetto a quella di Palermo, è stata forgiata nel 1036; e questo ha fatto pensare agli studiosi che la nave sia affondata attorno a quella data.
Kobi Sharvit, direttore della Unità di Archeologia Marina della Israel Antiquities Authority, è del parere che vicino al luogo del ritrovamento si trovi probabilmente il relitto di un battello ufficiale della tesoreria fatimide. Diverse le ipotesi: forse faceva rotta verso il governo centrale del Cairo dopo aver riscosso le tasse, oppure le monete erano destinate a pagare i salari del presidio militare fatimide di stanza a Cesarea. O forse le monete appartenevano a qualche grossa nave mercantile che faceva affari lungo le città costiere del Mediterraneo prima di affondare.
Le monete – come si diceva – sono conservate talmente bene da avere impressionato gli studiosi: sono in ottimo stato di conservazione e non necessitano di alcun intervento di pulizia o conservazione nonostante il fatto che siano rimaste in fondo al mare per un migliaio di anni. L’esperto numismatico della Israel Antiquities Authority, Robert Kool, ha detto che “le condizioni delle monete sono eccellenti nonostante siano state insabbiate per mille anni perché l’oro è un metallo nobile sul quale non ha impatto l’acqua o l’aria”. Kool ha anche spiegato che le monete hanno continuato a circolare anche dopo la conquista crociata della Terra Santa alla fine dell’XI secolo, in particolare nelle città di mare dove si concentrava il commercio internazionale. E ha concluso: “Molte delle monete trovate nel tesoro sono state piegate e mostrano i segni di denti e morsi, il che prova che vennero ‘fisicamente’ controllate dai loro proprietari o dai mercanti”.
“Per la redenzione di Sion, anno quattro” della rivolta antiromana: scoperto in Israele, vicino Gerusalemme, un tesoretto di monete coniate dai ribelli ebrei contro Roma poco prima della distruzione del tempio da parte di Tito

I simboli sacri degli ebrei portati nel trionfo di Tito (rilievo sull’omonimo arco sul Palatino a Roma)
La Palestina fu per molto tempo una spina nel fianco per i romani. Gli ebrei opposero una strenua resistenza alle legioni romane anche con atti di eroismo patriottico, come il sacrificio di Masada, col suicidio collettivo nel 73 d.C. dell’ultima comunità di zeloti che preferirono la morte alla sottomissione alle aquile di Roma, ponendo fine alla prima guerra giudaica. Basta leggere le memorabili pagine che ci ha lasciato lo storico romano di origine ebrea Flavio Giuseppe nel “De bello iudaico” (pubblicata nel 75 d.C.) per capire le problematiche affrontate dai romani in terra di Israele fino alla conquista di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte di Tito (allora generale e futuro imperatore) con la distruzione del secondo tempio, e la deportazione a Roma dei due capi della rivolta, Simone e Giovanni, insieme ad altri 700, scelti per statura e prestanza fisica, per essere trascinati in catene nel trionfo insieme ai simboli sacri degli ebrei portati dal generale vittorioso, davanti al padre – l’imperatore Vespasiano – e al fratello Domiziano, come ben descritto nei rilievi dell’arco di Tito, nel frattempo (79 d.C.) divenuto imperatore, innalzato dal Senato alla sua morte (81 d.C.) sulle pendici settentrionali del Palatino nella parte occidentale del Foro di Roma.

L’archeologo Pablo Betzer mostra una delle monete dei ribelli ebrei trovata in un tesoretto all’interno di una giara ad Abu Ghosh vicino Gerusalemme
Ma proprio alla vigilia della presa di Gerusalemme il movimento antiromano era ancora molto attivo tanto da permettersi una propria zecca per finanziare la resistenza bellica. Ne è la prova un piccolo tesoro di monete dei ribelli ebrei contro l’impero romano, coniate pochi mesi prima della caduta di Gerusalemme nel 70 d.C., scoperto durante i lavori per l’ampliamento dell’autostrada che collega Gerusalemme a Tel Aviv. Il team di archeologi della Israel Antiquities Authority, guidati da Pablo Betzer, ha esplorato i resti di un piccolo villaggio ebraico di epoca romana vicino alla moderna città di Abu Ghosh e fra le rovine ha trovato una piccola giara rotta contenente 114 monete di bronzo coperte di verderame. Le monete, scrive Israele.net, sono tutte della stessa grandezza ed età, probabilmente provenienti dalla stessa zecca. Sono tutte contrassegnate con la dicitura “Per la redenzione di Sion” e “Anno quattro”, il che indica che sono state forgiate durante il quarto anno della rivolta contro l’impero romano, ossia tra la primavera del 69 e la primavera del 70 d.C. Sono decorate con le quattro specie bibliche – palma, mirto, cedro e salice – e con un vaso che può simboleggiare i recipienti usati nel Tempio. Le monete saranno ora ripulite e studiate dagli specialisti della Israel Antiquities Authority.
È la prima volta che viene rinvenuta una collezione così grande di monete dei ribelli ebrei, spiega Betzer, sottolineando che la loro identica datazione è assai insolita. “Ci dice che la persona che teneva questo tesoro l’aveva ricevuto in un unico lotto. L’avrà ricevuto dalla dirigenza dei ribelli. Probabilmente lui stesso faceva parte della dirigenza. Forse – ipotizza l’archeologo – erano fondi destinati all’acquisto di armi e provviste per i combattenti ebrei contro le legioni romane. Si tratta di monete coniate pochi mesi prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme”. Infatti alla fine i ribelli non riuscirono a resistere e nell’estate del 70 a.C. i romani schiacciarono la ribellione distruggendo il Tempio di Gerusalemme e massacrando gli abitanti della città. Come molte città e villaggi che non si erano sottomessi all’autorità romana durante e dopo la rivolta, anche il piccolo villaggio di Hirbet Mazruk venne distrutto: il livello della distruzione è riconoscibile nel sito appena sopra quello dove sono state trovate le monete. La Israel Antiquities Authority continuerà a studiare il sito per saperne di più sui villaggi agricoli ebrei al tempo della rivolta antiromana.
Archeologia subacquea, missione in Israele dei robot italiani classe Tifone alla ricerca di tesori sommersi
Se entro il 1. luglio vi capita di navigare o balneare lungo le coste israeliane tra Cesarea e Akko, e per caso notate un’antennina che affiora tra le spume del mare e si muove in modo sospetto, tranquilli: non si tratta di qualche operazione segreta nelle acque territoriali di Israele né vi trovate nel bel mezzo del set di un nuovo film di James Bond mentre sta provando una delle sue nuove diavolerie tecnologiche. No, niente di tutto questo. Ma state assistendo in diretta a una missione archeologica alla ricerca di tesori sommersi e, più prosaicamente, per documentare i siti di interesse per l’Israel Antiquities Authority. Protagonisti della missione sono due robot subacquei autonomi, progettati dal dipartimento di Ingegneria industriale con la collaborazione del Centro “Enrico Piaggio” dell’Università di Pisa e un robot filoguidato, realizzato in collaborazione con il dipartimento di Scienza della Terra. Responsabile del progetto è Benedetto Allotta, ordinario di Meccanica applicata alle macchine, che dal 17 giugno al 1° luglio coordina le indagini in Israele. Nei fondali antistanti le coste israeliane si trovano infatti relitti di tutte le epoche e i resti un villaggio neolitico (Atlit Yam) sommerso in seguito alla fine delle glaciazioni. La missione archeologica israeliano-americana che si occupa delle indagini ha chiesto la collaborazione del team di ricercatori fiorentini, coordinato da Benedetto Allotta, con la sua flotta di veicoli sottomarini. I Tifoni e Nemo aiuteranno gli archeologi nel lavoro di scoperta di nuovi relitti e reperti sommersi, di documentazione dei siti scoperti e pianificazione dei nuovi lavori da effettuare.
I due Tifoni – realizzati nell’ambito del progetto regionale “Thesaurus”, attivo da marzo 2011 ad agosto 2013 – hanno una lunghezza di 3,7 metri, un peso di 170 chilogrammi, e possono superare i 5 nodi di velocità con un’autonomia di 8 ore. TifTu naviga in superficie con l’antenna emersa, è localizzabile grazie al segnale Gps e può localizzare a sua volta TifOne, che naviga in immersione. Il progetto “Thesaurus”, acronimo per “Tecniche per l’Esplorazione Sottomarina Archeologica mediante l’Utilizzo di Robot autonomi in Sciami”, ha per obiettivo rilevare, censire e monitorare a costi contenuti siti archeologici sottomarini, relitti e reperti isolati sommersi, fino a trecento metri di profondità. “Volevamo sviluppare veicoli che dessero la possibilità di effettuare ricognizioni a basso costo (e con minor rischio rispetto all’uso di subacquei professionali)”, spiga Allotta, “su ampi tratti di fondale marino e di ritornare periodicamente su siti precedentemente individuati per verificarne lo stato o riprendere i lavori di ricognizione e classificazione. A livello ingegneristico, l’obiettivo era quello di realizzare veicoli intelligenti che, mutuando tecnologie già sviluppate in campo militare e nel settore della ricerca petrolifera, riuscissero a fornire agli archeologi e agli scienziati interessati all’ambiente marino, come geologi, biologi, etc., strumenti dal costo relativamente contenuto e di facile utilizzo”.
TifOne – il primo dei veicoli che abbiamo realizzato, continua Allotta – e TifTu sono due Autonomous Underwater Vehicle della classe “Tifone”, nome scherzosamente preso a prestito dal libro di Tom Clancy “La grande fuga dell’Ottobre Rosso”. “Li abbiamo realizzati nell’ambito del progetto regionale “Thesaurus”, in collaborazione – oltre che con il Centro Piaggio dell’Università di Pisa – anche con l’Istituto di Scienza e Tecnologie dell’Informazione – CNR di Pisa e la Scuola Normale Superiore. I veicoli della classe Tifone, hanno una lunghezza di 3,7 metri, un peso di 170 chilogrammi, e possono superare i 5 nodi di velocità con un’autonomia di 8 ore. TifTu è identico a TifOne dal punto di vista naval-meccanico, ma è equipaggiato con sensori e apparati diversi in quanto nella diade ognuno dei due robot ha un ruolo specifico”. Della flotta fa parte anche un piccolo robot filoguidato (ROV = Remotely Operated Vehicle) denominato Nemo, realizzato da Dipartimenti di Scienze della Terra e di Ingegneria industriale nell’ambito di una collaborazione di UNIFI con la Protezione Civile per l’emergenza Costa Concordia. Essendo collegato alla superficie con un cavo di comunicazione ad alta velocità, Nemo – che ha dato luogo a due richieste di brevetto internazionale attualmente in fase di valutazione – consente all’archeologo di essere “presente” sulla scena, guidando il robot con un joystick”.

Molti i relitti e i tesori sommersi presenti nelle acque davanti ad Akko, la vecchia San Giovanni d’Acri
Dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso le coste Israeliane tra Caesarea e Akko (la vecchia San Giovanni d’Acri o semplicemente Acri) sono oggetto di indagine archeologica perché vi si trovano relitti di tutte le epoche e i resti un villaggio neolitico (Atlit Yam) sommerso in seguito alla fine delle glaciazioni. Un team israeliano-americano, che comprende archeologi delle Università del Rhode Island e di Luisville, sta lavorando nella zona e ha chiesto la partecipazione dell’Università di Firenze che ha contribuito con 7 ricercatori, con i suoi due Tifoni e con Nemo. “TifTu – ricorda il coordinatore del team fiorentino – naviga in superficie con l’antenna emersa e sarà localizzabile grazie al segnale GPS. TifTu ha a bordo uno strumento acustico denominato USBL che gli permette di localizzare TifOne, che naviga in immersione. I due veicoli possono scambiare informazioni tramite strumenti di comunicazione chiamati modem acustici. TifOne ha a bordo i sensori (payload) che acquisiscono i dati di interesse archeologico, ovvero due telecamere e un sonar a scansione laterale (SSS = Side-Scan Sonar). Ha inoltre un sistema di navigazione accurato che consente di “sbagliare poco” nella propria localizzazione anche se non riemerge da molto tempo e non riceve i dati di localizzazione forniti da TifTu. Le immagini georeferenziate – conclude – serviranno a effettuare una ricostruzione tridimensionale dei siti in cui si potrà navigare virtualmente come in un videogioco”.
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