Pyrgi. Al via vasto progetto della soprintendenza dell’Etruria meridionale per la valorizzazione, la fruizione e la conservazione del patrimonio culturale, paesaggistico e naturalistico della zona del Santuario integrata con la Riserva Naturale di Macchiatonda e il Castello di Santa Severa

“Nell’area di Pyrgi è in atto un vasto programma di progettualità di tutela e valorizzazione, sia attraverso lo strumento vincolistico, sia con il recupero della zona del Santuario”, spiega l’archeologa Rossella Zaccagnini della soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio della provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale, annunciando un progetto, basato su una azione studiata ad hoc sulle sue specificità.


Una veduta aerea dell’area sacra di Pyrgi a un passo dal mare
“Quello di Pyrgi, ricordano gli archeologi della Sabap Viterbo, fu uno dei santuari più importanti del Mediterraneo, frequentato anche da Fenici e Greci; con due aree sacre di circa 12mila mq, che accoglievano riti diversi. Fu il grande porto della metropoli etrusca di Caere-Cerveteri con la quale era collegata da un’arteria lunga ben 13 chilometri, da cui partiva il controllo delle rotte del mar Tirreno. Proprio in quanto porto, Pyrgi è stato crocevia di popolazioni, dal carattere multietnico, frequentato da Etruschi, Greci e Fenici. Noto anche grazie a preziose attestazioni letterarie, il sito era ricordato per la sua vocazione “marinara”, il suo santuario, la ricchezza dei suoi tesori e per le pratiche religiose che vi si svolgevano”.


Ipotesi di ricostruzione dell’area santuariale di Pyrgi con i templi A e B (foto sabap vt)
Le tre lamine d’oro con iscrizione bilingue in etrusco e fenicio sono ad oggi probabilmente il più famoso ritrovamento effettuato a Pyrgi: “Documento eccezionale – sottolinea Zaccagnini – sui rapporti tra Etruschi e Cartaginesi, sull’egemonia di Caere nel Mediterraneo e su Pyrgi quale avamposto strategico”. Trovate nel 1964 durante una delle prime campagne di scavo della “Sapienza” Università di Roma, il loro rinvenimento ha portato lo scavo di Pyrgi ad essere annoverato tra i “Grandi Scavi” del prestigioso ateneo romano, consentendo di riconsegnare alla storia l’area santuariale con i due templi monumentali (noti come A e B, dedicati a Leucothea e ad Uni), il santuario meridionale, con i suoi altari e sacelli dedicati a culti misterici di tipo greco, ed il quartiere pubblico-cerimoniale, che con i suoi edifici ci offre uno spaccato di vita quotidiana. Gli scavi si susseguono ininterrottamente dal 1957, con intere generazioni di archeologi che hanno qui operato negli anni, ma il sito è talmente ricco che la sua conoscenza non è stata ancora esaurita.

L’obiettivo della Soprintendenza per il futuro è non solo quello di preservare un bene archeologico di indubbio valore, ma anche quello di integrare tale conoscenza con il contesto ambientale, paesaggistico e monumentale circostante, mantenutosi miracolosamente quasi intatto con la Riserva Naturale di Macchiatonda e il Castello di Santa Severa, tanto da essere stato dichiarato nel 2017 Monumento Naturale dalla Regione Lazio. Vasto 60 ettari, è ancora conservato: un ecosistema ricco di biodiversità da salvaguardare, habitat ideale per molte specie. “Un mix di naturalità, antropizzazione, monumentalità, paesaggio. Con scelte condivise occorre non solo studiarne meglio la morfologia, ma preservare, con il drenaggio delle acque in eccesso, l’assetto sia archeologico delle evidenze, che naturale, animale e vegetale”.

La grande azione di tutela e valorizzazione avviata a Pyrgi dalla soprintendenza prevede l’imposizione di vincoli, per evitarne la cementificazione, e un moderno progetto di fruizione della zona del Santuario, che vede in campo professionisti esperti di ingegneria naturalistica che progettino modalità concrete di conservazione, fruizione e accessibilità. “Sono in studio percorsi di visita”, continua l’archeologa Rossella Zaccagnini, “che si integrino in un ambiente tanto delicato a partire da un centro visite dotato delle più moderne tecnologie, una nuova esposizione dei reperti all’interno della Manica Lunga del Castello di Santa Severa e la rifunzionalizzazione dei depositi del materiale archeologico, che comprendono una attrezzata sala studio e il laboratorio di restauro. L’intento – conclude Zaccagnini – è rendere Pyrgi un luogo simbolo di rinascita e fulcro e architrave di civiltà, incentivandone la valorizzazione, la fruizione e la conservazione del patrimonio culturale, paesaggistico e naturalistico”.
Bolzano. “Libia, …uno sguardo verso il mare”, mostra fotografica di Lucio Rosa. Viaggio in 90 fotografie nel tempo e nella storia, dalla Cirenaica alla Tripolitania, con gli occhi di un innamorato di quel Paese

Dalla Cirenaica alla Tripolitania, da est a ovest, seguendo il viaggio del sole e la costa bagnata dal Mediterraneo alla scoperta della Libia con gli occhi di un viaggiatore innamorato di quel Paese, che per anni ha visto e amato arrivando dal mare, e che stavolta immagina dal punto di vista di un antico abitante della Libia, terra strategica, crocevia fra l’Africa nera e il Mediterraneo, terra che nei millenni ha visto approdare sulle sue coste Fenici, Greci, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Turchi, Italiani… È questo l’obiettivo della mostra fotografica “Libia, …uno sguardo verso il mare” fino al 20 ottobre 2020 alla galleria Espace La Stanza in Bolzano, ultima fatica di Lucio Rosa, veneziano di nascita ma bolzanino d’adozione, da oltre 45 anni impegnato nella realizzazione di film documentari, reportage anche fotografici, programmi televisivi, per televisioni nazionali ed estere. Lucio Rosa sa di non poter tornare per ora in quei luoghi, bloccato in questi anni per le problematiche politiche che hanno interessato molti Paesi arabi, e ora fermato anche dall’emergenza sanitaria per pandemia. Ma questo non è un motivo sufficiente per stare “lontano” da quelle terre che tanto ama, lui il regista con “l’Africa nel cuore”. E così la Libia… l’ha portata a casa sua, a Bolzano, raccontandola con 90 fotografie a colori accompagnate da note in una sequenza fotografica suddivisa in 7 location: Al-Athrun, Apollonia, Qasr Libia, Cirene, Leptis Magna, Tripoli, Sabratha.

È un viaggio nel tempo e nella storia quello proposto da Lucio Rosa che inizia da est, da dove sorge il sole… “La storia non ha fine”, dice, “perché noi siamo gli eredi del passato e la portiamo dentro di noi. Luoghi come Tokra o Tolmeta, sono solo delle gocce, dei riflessi. Testimonianze di questo ricco insieme di culture sono oggi ancora visibili, si possono penetrare, riscoprire, anche se hanno subito il “torto” e lo “sfregio” del tempo e della storia. Il “respiro” degli uomini che un tempo calpestavano il suolo libico può ancora essere “udito” tra le mura delle città che hanno costruito ed è testimone della loro immortalità”.


Il sito di Al-Athrun (Libia) in un panorama mozzafiato (foto Lucio Rosa)
AL-ATHRUN Erano sicuramente dotati di buon gusto i sacerdoti bizantini che seppero scegliere, per le loro chiese solitarie, luoghi incantati. Tra l’intenso blu del Mediterraneo e la brulla costa della Cirenaica, nella località di Latrun, l’antica Erythron che fu un’importante sede vescovile, su una terrazza naturale spuntano le tracce di quelle che furono due basiliche bizantine datate V sec. d.C. Le due chiese furono costruite durante il regno dell’imperatore Giustiniano I (527-565). La basilica occidentale è la meglio conservata. Colpisce il susseguirsi di candidi marmi, come i plutei, su cui sono scolpiti a rilievo i simboli della cristianità. Una sinfonia di colonne, con ricchi capitelli, sorreggeva la volta delle tre navate oggi non più riconoscibili. L’ingiuria del tempo ha lasciato solo rovine del piano originale di quella che era stata la basilica orientale. L’imperatore Giustiniano negli anni 538-539, a protezione del confine meridionale, fortificò diversi porti anche in Cirenaica. Le basiliche, qui costruite, assicuravano che a marinai e soldati non sarebbe mai mancato l’aiuto divino.


Le terme romane ad Apollonia in Libia (foto Lucio Rosa)
APOLLONIA All’estremità orientale del sito si trova il teatro scavato in una pendenza naturale e rivolto verso il Mediterraneo. La prima costruzione risale al II secolo a.C. e la cavea, che aveva solo 13 file, fu ingrandita sotto Adriano. Il teatro, ricostruito poi dall’imperatore Domiziano, ci conduce a parlare di Apollonia, fondata nel VII secolo a.C. da coloni di stirpe ellenica. Apollonia è stata il porto di Cirene. Nel 331 a.C. Apollonia fu conquistata da Alessandro Magno restando, alla sua morte, nella sfera di influenza ellenistica del regno tolemaico. Nel I secolo Apollonia fu presa da Roma. Risalgono all’epoca romana le terme, volute dall’imperatore Adriano. Un terremoto nel 365 si abbatté su tutta la Cirenaica e distrusse la città che fu in gran parte inghiottita dal mare. Di epoca bizantina sono le tre basiliche (V secolo). Della stessa epoca, il palazzo del governatore, Dux, di cui è rimasto solo il piano inferiore. Il peristilio è circondato da portici ad archi. La conquista araba, del VII secolo, determinò lo spopolamento e il declino della città. Solo nel corso del XIX secolo la nuova Apollonia si ripopolò di musulmani, provenienti dall’isola di Creta, che le diedero il nome dell’attuale città araba Marsa Susa.

QASR LIBIA Qasr Libia, a 50 km da Cirene, è identificabile con l’antica città di Olbia, sede vescovile nel periodo bizantino (V secolo). Del complesso religioso che qui esisteva sono rimaste le rovine di due basiliche paleocristiane. La meglio conservata è la basilica occidentale, la più recente, del VII secolo, rettangolare e a croce greca. La basilica orientale del V secolo è più piccola ed era arricchita da una straordinaria decorazione a mosaico suddivisa in 50 riquadri, in origine posta sul pavimento della navata.

QASR LIBIA I mosaici Straordinaria la decorazione musiva che in origine era posta sul pavimento della navata centrale della basilica orientale. Un magistrale esempio di iconografia simbolica cristiana del VI secolo. I mosaici sono stati realizzati fra il 539 ed il 540 per volere dei vescovi Macario e Teodoro, come indica un’epigrafe. Ora sono esposti nel vicino museo. Raffigurano il mondo intero con i quattro fiumi che, come è citato nella Genesi, nascono nel Paradiso terrestre: Fison, Gheon, Eufrates e Tigris.

QASR LIBIA Il faro di Alessandria Un unicum è il faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo antico. Una delle realizzazioni più avanzate della tecnologia ellenistica. Era stato costruito sull’isola di Pharos, di fronte al porto di Alessandria d’Egitto, negli anni tra il 300 e il 280 a.C. Vi si può scorgere l’imponente statua di Helios e il meccanismo a specchi che serviva per guidare le navi in porto. Da una imbarcazione, due naviganti sembrano guardare con una certa trepidazione verso il faro che segnala loro la giusta rotta. Il faro rimase in funzione per sedici secoli, ma nulla poté contro la forza ostile della natura. Nel 1303 e poi nel 1323, due terremoti lo danneggiarono irreparabilmente, distruggendolo.

CIRENE Atene d’Africa Secondo Erodoto fu fondata nel VII secolo a.C. da coloni di Thera, l’odierna Santorini. Fu il responso dell’oracolo di Delfi a spingere duecento giovani, uno per famiglia, guidati da Batto, figlio di Aristotele, a lasciare Thera e partire alla ricerca di nuove terre per sfuggire a una terribile siccità che stava colpendo, da 7 anni, la loro patria. Esplorarono le coste della Cirenaica e i giovani coloni trovarono, come aveva predetto l’oracolo, una zona fertile all’interno, una fonte perenne e, nelle sue vicinanze, Batto fondò la città di Cirene. Era l’anno 631 a.C. la città legò il suo nome alla ninfa Cirene che fu rapita da Apollo e portata in Libia, proprio qui, dove sarebbe sorta la città a lei sacra. Nel 331 a.C. Cirene si sottomise spontaneamente ad Alessandro il Macedone. Nel 74 a.C. Cirene e tutta la Cirenaica furono elevate a provincia romana.

CIRENE Il santuario di Apollo In prossimità di una fonte d’acqua pura, consacrata a una ninfa e divenuta pertanto sacra, sorge il santuario di Apollo. La ninfa era Kyra o Chirene, amata da Apollo che la rapì e la portò su una collina di mirti. E fu qui, tra i boschetti di mirto, che i coloni esuli di Thera, decisero di fondare il loro primo villaggio. Era l’anno 640 a.C. La fonte e il villaggio, furono dedicati alla ninfa Kyra, che sarà regina della colonia greca di Cirene e della Cirenaica. Il re Batto, consigliato dai suoi sacerdoti, fece erigere davanti alla sorgente un tempio dedicato al dio Apollo, protettore della colonia. Era una costruzione semplice ma solenne allo stesso tempo. Rimaneggiata nel corso dei secoli, la si può vedere ancora oggi, inglobata nel grande santuario.

CIRENE Tempio di Zeus Nel quartiere dell’Agorà, il tempio di Zeus, uno dei primi monumenti a essere eretto dai coloni greci, è il più grande dei templi che i Greci costruirono nel Nord Africa. Eretto nel V secolo a.C., come il Partenone di Atene, è più grande del tempio dell’Acropoli. Il Tempio di Zeus è stato oggetto di numerosi restauri nel corso della sua storia. Il materiale utilizzato è il calcare giallo, marnoso, che è tipico della regione. Nessuna malta legava i blocchi di pietra. I più grandi erano tenuti insieme da barre di ferro saldate con piombo fuso. Questo tempio dorico si sviluppava con 8 colonne sul fronte e 17 sui lati lunghi, che sono state tutte abbattute durante la rivolta giudaica dell’anno 117. L’opera di restauro degli archeologi italiani ha restituito l’originaria solennità al tempio di Giove.

CIRENE Il Ginnasio Colpisce per la sua imponenza, il Ginnasio, classico impianto ellenistico destinato agli esercizi sportivi e militari dei giovani di Cirene. Era denominato Ptolemaion dal nome Tolomeo VII, il sovrano ellenistico che lo aveva fatto costruire nella metà del II secolo a.C. Consiste in un vasto spazio di 94 metri per 84, circondato da un colonnato dorico. Negli anni della Cirene romana, il Ginnasio mutò destinazione e divenne il Foro della Città, il Caesareum. Si deve agli archeologi italiani se tra il 1934 e il 1942 il Foro, che era stato occupato da un quartiere di abitazioni, fu ricostruito e riportato a nuova luce come era in origine.

CIRENE Santuario di Demetra e Kore Sontuoso, ricco, splendido il santuario circolare di Demetra e Kore. Le due divinità rappresentano la forza produttiva della terra. Di epoca Tolemaica (III secolo a.C.), è il tempio votivo dove si invocava la fertilità della terra e la fecondità della donna per concepire nuovi figli per Cirene. Le due divinità sono raffigurate in due copie di statue sedute che si fronteggiano e sono di epoca ellenistica. Le altre due, in posizione eretta, sono state aggiunte in epoca romana. Le fortune di Cirene erano legate al ritmo delle stagioni, quindi all’agricoltura, ai ricchi raccolti: era una necessità collettiva, un dovere pubblico, invocare le divinità per ottenere un ricco raccolto.

CIRENE Monumento alla Vittoria Navale Posto sul lato orientale dell’Agorà, il monumento alla Vittoria Navale, è uno dei più bei complessi ornamentali pubblici di Cirene. Si tratta di una statua votiva che si eleva sulla prora di una trireme che sembra “navigare” sostenuta da una coppia di delfini. Il monumento è stato eretto nella metà del III secolo a.C. per celebrare la vittoria della flotta egiziana di Tolomeo VIII nella guerra contro la Siria.

CIRENE I bagni ellenistici (bagni di Paride) Acqua copiosa irrorava Cirene, un prezioso dono degli dei. Nel periodo ellenistico la città godeva di imponenti bagni pubblici. Sono i cosiddetti Bagni di Paride, dal nome del proprietario, risalenti al V secolo a.C. Privi di decorazioni, sono locali sotterranei scavati direttamente nella roccia. Un susseguirsi di vasche, canali per il drenaggio, nicchie la cui funzione era quella di custodire le vesti dei frequentatori e le lucerne per dare luce al complesso.

CIRENE Terme di Traiano Marmi, gioco di colonne, piscine lastricate nelle terme costruite nel 98 d.C. dall’imperatore Traiano. Ma la loro vita fu assai breve, furono infatti distrutte nel 115 durante la rivolta ebraica. L’imperatore Adriano, amante del bello e della cultura greca, le ricostruì facendone uno splendido complesso. Era l’anno 119.

LEPTIS MAGNA Un vero trionfo, questa città adagiata sulle sponde del Mediterraneo. Fu prima punica e poi, conquistata dai Romani, fu un’orgogliosa e una splendida città, una nuova Roma, sontuosa e ricca, opulenta, città di mercanti, che visse una epopea grandiosa, “un trionfo”. Leptis fu davvero “Magna”. Siamo dinnanzi al prezioso teatro. Ascoltiamo in silenzio, parole solo velate dal respiro del mare, pare ancora oggi udire declamare testi antichi ed essere coinvolti nelle recite che qui si svolgevano, per Leptis, la città Regina. Sono “riflessi” di canti di tragedie greche, le storie narrate sulla scena. Alla fine del II secolo un uomo che veniva dall’Africa e che parlava male il latino, esprimendosi preferibilmente in neo-punico, arrivò a Roma per salire sul trono. Era Settimio Severo che aveva sconfitto i Persiani e fu Imperatore. L’11 settembre dell’anno 203, Settimio, ritornato nella sua città natale, avrebbe attraversato l’arco trionfale eretto per rendere omaggio alla sua gloria eterna e alla sua famiglia. Ma, che questo sia realmente avvenuto, molti archeologi e storici hanno seri dubbi. Comunque l’arco è lì, in tutta la sua maestosità e bellezza.

LEPTIS MAGNA Il mercato Le urla dei mercanti. “Hodie offerre nova pisces et agnus” voci concitate uscivano dai chioschi del mercato, offrendo alla gente la merce più svariata, pesce fresco, carne d’agnello, granaglie e naturalmente anche diverse varietà di vino. Emoziona camminare accanto a queste “botteghe” e pensare alla vitalità di questo luogo una volta quando, 2000 anni fa, centinaia di persone, ogni giorno, qui affluivano per le loro necessità quotidiane. Ma siamo a Leptis Magna, la più grandiosa città romana in Africa.

LEPTIS MAGNA Il Foro dei Severi Posare gli occhi su questa ampia piazza di 100 metri per 60, Il foro dei Severi, dà una emozione indescrivibile. Per terra sono disseminate rovine, frammenti di colonne conseguenza di una fatale serie di terremoti che nel IV secolo aveva colpito Leptis, distruggendola. Attirano gli sguardi “inquietanti” delle teste delle meduse e delle nereidi, sopravvissute allo scempio del tempo, che ornavano gli archi del doppio porticato, ora privato delle colonne, che non hanno resistito alla “ribellione” della natura. Due passi tra le rovine… non si può non essere colpiti dalla solennità che fu di Leptis Magna. Il Foro dei Severi è la più importante costruzione pubblica di Leptis.

LEPTIS MAGNA Le terme di Adriano Adriano, l’imperatore amante del bello, l’imperatore più raffinato della storia di Roma, fece costruire qui, tra il 126 e il 127, queste terme, la sua gloria. Poi vennero Commodo e Settimio Severo che l’arricchirono ancora di più. La grande piscina, la natatio, è all’aperto. Un portico di colonne di marmo rosa la circonda. Mosaici, seppure erosi dal tempo, brillano del colore lapislazzuli e del colore verde acquamarina che richiamano le tinte e le sfumature del mare.

TRIPOLI (OEA) Avvolte dalla luce del crepuscolo, languono le mura del castello di Tripoli. Il Castello Rosso “Assaj El Hamra”. Ma solo per poco. All’alba del giorno dopo ecco il castello risplendere luminoso come “luminosi” sono, per la storia che raccontano, i preziosi reperti qui custoditi. Il Museo è il simbolo della città. Al suo interno, un “viaggio nel tempo” ci conduce ad informarci sulla preistoria del Sahara libico, sulla storia, dai Fenici ai secoli greci, dal periodo romano all’arrivo degli Arabi, alla dominazione turca della dinastia dei Karamanly… all’impresa coloniale italiana… Cinque secoli prima di Cristo i Fenici, che navigavano lungo la costa meridionale del Mediterraneo, fondarono il villaggio di Uiat. Nel 107 a.C. i Romani entrarono nella regione e Uiat divenne una colonia romana, e fu Oea. Nel 163 d.C. la città era all’apice del suo fulgore. Risale a quest’epoca l’arco di Marco Aurelio, conservato nella Medina. Un ricordo della Roma dei Cesari.

TRIPOLI (OEA) La storia La storia di Oea sarà travagliata, teatro di scorribande e dominazioni straniere nel corso dei secoli. Ecco arrivare i Vandali, i Bizantini, gli Arabi e la città divenne Tarabulus, come tutta la regione. E poi ancora: sette islamiche come Abbassidi, Ibaditi, Aghladiti, Obeiditi, Ziriti, e poi Berberi, Normanni, Almohaidi, Genovesi, Spagnoli, Maltesi, Turchi di Sinan Pashà, e siamo nel 1510. Trascorrono gli anni e nel 1911, arrivano gli Italiani.

TRIPOLI Città di mare La città bianca, con le belle candide abitazioni dell’epoca coloniale italiana, si fonde in un violento contrasto con i colori dei Souk, con la vita dei Souk, le moschee e le caotiche strade della città vecchia.

SABRATHA Sabratha deve la sua fortuna al mare; era già stata un rifugio sicuro per le navi dei Fenici che navigavano nel Mediterraneo occidentale. I mercanti fenici, a poco a poco, si insediarono e fondarono un emporio e un primo villaggio, che sarebbe, poi, diventato città. Forse siamo nel VII secolo a.C., ma non vi sono testimonianze sicure che possano confermare la presenza di questo insediamento in epoca così antica. Sabratha è stata il punto di arrivo delle vie carovaniere che mettevano in comunicazione il Mediterraneo con le regioni interne dell’Africa, l’Africa nera. E ciò ha determinato la sua grandezza. Poi giungeranno i Cartaginesi, ma sarà l’arrivo dei Romani, 200 anni prima di Cristo, a scompigliare la storia in questa regione. Distrutta Cartagine nel 146 a.C. Sabratha entra di prepotenza nella romanità in Africa. La potenza di Sabratha durò per più di tre secoli, ma la decadenza di Roma causerà anche un lento ma inesorabile declino di quella che era stata una grande città. Ecco quindi Bisanzio e poi gli Arabi che trasferirono le attività mercantili da Sabratha a Oea/Tripoli. Nata da e con i commerci, Sabratha scomparirà dalla geografia e dalla storia.

SABRATHA Il teatro Opera impressionante per la sua maestosità, per le grandiose proporzioni e la raffinatezza delle forme: il teatro. Eretto alla fine del II secolo, presenta tre piani di colonnati sovrapposti, con colonne di marmi vari e trabeazioni in marmo bianco. Sono 108 le colonne che modellano una quinta alta 23 metri. Il teatro poteva accogliere 5000 spettatori. Rilievi con figure di divinità, scene storiche e scene di teatro, ornano il fronte del proscenio. Il teatro fu distrutto dal terremoto che colpì, nel 365, la costa libica. Frammenti di pietre e marmi furono usati come materiale di reimpiego in epoca bizantina (VI secolo). Il teatro che possiamo ammirare oggi si deve alla precisa ricostruzione iniziata nel 1927 dagli archeologi italiani. Nel 1937 il prestigioso teatro si riaprì al mondo.

SABRATHA Basilica di Apuleio Chi non ricorda l’Asino d’oro di Lucius Apuleio, che racconta le sue incredibili fantasiose peripezie, di uomo trasformato in asino? Apuleio, scrittore e filosofo, era nato a Madaura (nell’attuale Algeria) ma raggiunse Roma dopo gli studi compiuti a Cartagine e ad Atene. Apuleio è divenuto famoso grazie alle sue doti di oratore. Nell’anno 157, qui dove giacciono le rovine di una basilica cristiana, sorgeva un palazzo, sede del tribunale che vide Lucius processato per un presunto grave crimine. La storia racconta di un giallo. Apuleio fu imputato di aver sedotto Pudentilla, la moglie del suo amico Ponziano, nel frattempo defunto, avvalendosi delle arti magiche per plagiarla e indurla a sposarlo al fine di impossessarsi della sua ricca dote. Per questo crimine, nel 158, a Sabratha, venne sottoposto a processo. L’abile scrittore, nonché avvocato, grazie alla sua arte oratoria, riuscì a scagionarsi da ogni accusa e venne assolto. La sua autodifesa venne trascritta nei codices col nome di De magia, più nota come Apologia. Ma Apuleio era davvero un mago?

SABRATHA Tempio di Iside Sospeso tra il cielo e il mare, il Tempio di Iside è uno dei luoghi sacri di Sabratha. Probabilmente il primo tempio fu eretto nel I secolo. Fu poi ingrandito sotto Vespasiano tra gli anni 69 e 79. Il visitatore viene rapito in un’atmosfera che fa sognare. I colori dominano la scena: tra il blu del mare e il celeste cobalto del cielo si innalzano le alte colonne rosate del tempio. La scena toglie il respiro. Genti di Sabratha affluivano in massa. Si possono solo immaginare le lunghe processioni lungo la sponda del mare per arrivare fin quaggiù. Lo stesso Apuleio, racconta di questo culto assai diffuso in Libia, ne “L’asino d’Oro”.
Dentro il teatro dello scontro navale. A Vetulonia nella mostra-evento “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia” il visitatore rivive la battaglia tra Greci, Etruschi e Cartaginesi nel mare Sardonio, con reperti preziosi, molti inediti

Il teatro della battaglia di Alalìa, ricreato a Vetulonia nel suggestivo allestimento di Luigi Rafanelli (foto Graziano Tavan)
La battaglia infuria. Lo scontro navale tra Greci, Etruschi e Cartaginesi è cruento. E non sono echi lontani. Siamo proprio in mezzo al teatro della battaglia ricreata nella “sala delle vele” del museo civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia per la mostra-evento “Alalìa, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” aperta fino al 3 novembre 2019 (catalogo Ara edizioni). Così dopo aver conosciuto motivazioni e obiettivi della mostra-evento 2019 di Vetulonia, ed esserci immersi fisicamente nel Mediterraneo di 2500 anni fa, navigando lungo le sue coste, incrociando sulle frequentate rotte marittime navi commerciali e militari per avere un’idea precisa della situazione geopolitica ed economico-sociale nel VI sec. a.C., prima e dopo la battaglia di Alalìa, con la seconda sala della mostra entriamo nel vivo della battaglia (vedi https://archeologiavocidalpassato.com/2019/10/17/al-museo-archeologico-di-vetulonia-centocinquanta-reperti-da-corsica-sardegna-toscana-museo-etrusco-di-villa-giulia-e-dal-nucleo-tutela-della-guardia-di-finanza-raccontano-la-storica-battaglia-del/ e https://archeologiavocidalpassato.com/2019/10/29/il-mediterraneo-nel-vi-sec-a-c-traffici-mercantili-ricerca-di-minerali-spostamenti-di-popolazioni-la-mostra-evento-di-vetulonia-illustra-la-situazione-geopolitica-prima-e-dopo-alalia/).

Una panoramica a 360° della sala delle Vele del museo di Vetulonia: è come essere in mezzo al Tirreno con uno sguardo sulle coste della Sardegna, della Corsica e dell’Etruria (foto Graziano Tavan)
Stando al centro della sala, è come fossimo su una delle pentareme impegnate nello scontro. Ci guardiamo attorno, circondati dal mare Tirreno che ribolle sotto i colpi cadenzati dei rematori, e scorgiamo a Nord-Ovest le coste della Corsica con il porto di Alalìa/Aleria; a Nord-Est si profila all’orizzonte la costa etrusca con la città di Populonia, e più giù, a Est, si staglia l’isola dell’Elba, e a Sud-Est l’altura di Vetulonia; e a Sud-Ovest si vede bene l’isola di Tavolara, davanti ad Olbia, in Sardegna. All’altezza delle Bocche di Bonifacio è ambientato lo scontro ricostruito dal genio immaginifico dell’architetto Luigi Rafanelli.

Una nave cartaginese, una greca e una etrusca impegnate nella battaglia di Alalìa, ricostruite per la mostra “Alalìa, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” (foto Graziano Tavan)
“La scena è rappresentata da tre navi in legno (una etrusca, una cartaginese e una greca)”, spiega l’architetto, “ricostruite filologicamente nella dimensione all’incirca di metà del vero, in conflitto armato tra di loro, che fuoriescono improvvisamente da un sipario dove è raffigurato il mare aperto e irrompono sul palcoscenico”. La nave etrusca affonda il rostro nella nave greca, affiancata da una cartaginese. “Alle navi, dalla parte opposta, vengono incontro schierate a flottiglia altre sei imbarcazioni, cui alludono le vetrine alle quali è stata conferita una siffatta parvenza mediante il rivestimento della base in fasciame di legno, per l’assalto finale”. Ora, prima di osservare i preziosi reperti tra le vetrine, un consiglio: andate nella sala video, dietro il “teatro della battaglia”, e soffermatevi a guardare il video sulla battaglia di Alalìa. Se non l’avete fatto quando avete visitato il museo di Vetulonia, o non avete la possibilità di andare all’Archeologico “Isidoro Falchi”, ve lo proponiamo qui di seguito.
Sei vetrine come sei navi immaginarie con la stiva piena dei reperti provenienti dalle sponde del Tirreno prodotte dai popoli, che si sono scontrati nel mare Sardonio, nei secoli precedenti e successivi la battaglia navale del 540 a.C. Nelle prime tre sono esposti testimonianze dei popoli che si affacciavano sul mar Tirreno databili ai secoli precedenti la battaglia di Alalìa, cioè dalla prima Età del Ferro (IX sec. a.C.) alla metà del VI sec. a.C. Nelle altre tre vetrine possiamo conoscere i corredi dalla necropoli di Casabianda di Aleria, indagata negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, che ha restituito sepolture preromane con ricchi corredi posteriori alla battaglia di Alalìa.

Nella prima vetrina la presenza degli Etruschi in Sardegna nella prima Età del Ferro (foto Graziano Tavan)
Nel primo “bastimento” ecco la presenza degli Etruschi in Sardegna nella prima Età del Ferro: vediamo ossuari biconici, ben attestati nei centri protostorici dell’Etruria, recuperati dalla Guardia di Finanza. E poi materiali sardi ed etruschi tra l’età villanoviana e il periodo arcaico (IX-V sec. a.C.) provenienti da Tharros e il suo territorio, e conservati all’antiquarium Arbonense di Oristano: spilloni, brocchette, kantharos, oinochoe, pintadere, aryballoi. Accanto testimonianze etrusche in Corsica prima e dopo Alalìa: pendenti, collane, fibule, coppe (talora etrusche e corse affiancate) alcune delle quali conservate al museo Archeologico nazionale di Firenze.
Nel secondo “naviglio” il carico ci porta a riconoscere la presenza dei Fenici in Sardegna con reperti conservati sempre nell’antiquarium di Oristano: esempi di ceramica fenicia (600-540 a.C.) sono brocche, piatti ombelicati, oil bottle (per contenere profumi e unguenti), vasi a chardon (a forma di fiori di cardo), un askos a forma di cavalluccio con cavaliere da esibire sulla tavola durante il banchetto, e ancora punte e puntali di lance (purtroppo l’asta in legno non si è conservata).
A Olbia è dedicata la terza vetrina. “Proprio il territorio di Olbia”, spiega Rubens D’Oriano, del comitato scientifico della mostra, “si è dimostrato particolarmente adatto all’insediamento umano: un porto naturale tra i più riparati dell’intero Mediterraneo, affacciato sulle principali rotte tirreniche e con bassi fondali adatti alla cattura e allevamento del pesce e alla raccolta del sale; un rilievo modesto, ininterrottamente occupato dall’area urbana, con una falda perenne di acqua dolce; una piana circostante ricca di acque e orlata di colline che la proteggono dai venti”. Gli scavi archeologici hanno confermato l’insediamento più antico, fenicio, anche se grazie a ritrovamenti di ceramiche fenicie in contesti più tardi; e poi la Olbia greca tra il 630 e il 510 a.C.: ecco un’hydria, un’oinochoe, una testina fittile, una coppa da vino corinzia, tutte di produzione greca, prestate dalla soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio per le Province di Sassari e Nuoro.

Nella quarta vetrina alcuni corredi dalle sepolture della necropoli di Casabianda di Aleria e conservati nel musée d’Archéologie d’Aléria (foto Graziano Tavan)
Con la quarta vetrina cominciamo a conoscere alcuni corredi dalle sepolture della necropoli di Casabianda di Aleria e conservati nel musée d’Archéologie d’Aléria. Innanzitutto due oggetti eccezionali dalla Tomba 98 con due deposizioni databili tra il 475 e il 425 a.C.: sono il cratere attico a colonnette a figure rosse attribuito al Pittore di Pan e la kylix attica a figure rosse del Pittore di Pentesilea. Accanto due oggetti, meno appariscenti, dalla Tomba 155A, con deposizione femminile databile al 440 a.C., una brocca etrusca in bronzo a becco, e a un balsamario punico in pasta vitrea dalla Tomba 175 associato a sepolture del 430-405 a.C.

Nelal quinta vetrina reperti databili tra il V e IV sec. a.C. provenienti dal museo di Aleria (foto Graziano Tavan)
Nella quinta vetrina si esamina un’epoca un po’ più recente: reperti databili tra il V e IV sec. a.C. Ancora dalla Tomba 155A un colino in bronzo, coppe in ceramica di età ellenistica, mentre dalla Tomba 155B, con sepoltura maschile databile al 420 a.C., una serie di kyathos (specie di bicchieri-mestolo) rocchetto in bronzo e una lekythos attica a figure rosse. Dalla Tomba 155C, maschile, databile al 325 a.C., ceramica indigena corsa. E da tombe diverse, oggetti per il simposio come bacili, simpolum (mestoli), infundibulum. Dalla Tomba 85 un glaux (coppetta) di tipo attico prodotta in Etruria. E dalla grande Tomba 129B a camera (325 a.C.) il cratere a campana etrusco a figure rosse.
Con la sesta e ultima vetrina, vediamo affacciarsi in Corsica la presenza romana. Si comincia con un’oinochoe con bocca a cartoccio a figure rosse del gruppo Torcop e Pittore di Populonia, proveniente dalla Tomba 129C (300 a.C.). Quindi dalla Tomba 31 uno skyphos etrusco a vernice nera sovradipinta; in ceramica fine ecco un’olpetta (T 45), un’oinochoe (T 83), un’anfora (T 118B). Nella Tomba 46 troviamo invece ceramica fine da mensa di tipo campano, un boccalino corso in impasto, un’olletta di produzione indigena. Infine dalla Tomba 53, a camera, a inumazioni multiple, oinochoe e piatto in ceramica di Gnathia, skyphoi ceretani, piattelli Genucillia, ceramica di produzione etrusca e protocampana: materiali databili tra il 340 e il 280 a.C. I romani sono ormai alle porte: nel 259, durante la prima guerra punica, conquistano Alalia che viene chiamata Aleria, nome che conserva ancora oggi.
(3 – fine; gli altri post sono usciti il 17 e il 29 ottobre 2019)
Al museo Archeologico di Vetulonia centocinquanta reperti da Corsica, Sardegna, Toscana, museo Etrusco di Villa Giulia e dal nucleo tutela della Guardia di Finanza raccontano la storica battaglia del mare Sardonio nella mostra-evento “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.”: un percorso emozionale, immersivo nel rigore della ricerca archeologica
Gli echi della battaglia risuonano nell’aria. Sono grida di ordini, ma anche urla, gemiti, lamenti di soldati feriti. E poi il ritmo cadenzato dei colpi dei remi che accarezzano le onde facendo volare le potenti navi da guerra. Ecco il colpo sordo del rostro che affonda nel ventre dei gusci nemici. Ecco l’esultanza dei vincitori, ecco il sangue che colora le spume del mare. Sono passati quasi 2500 anni da quello scontro navale al largo delle acque di Alalia, nello spazio tirrenico compreso fra la Corsica, l’Elba e il litorale toscano, ma quella che è passata alla storia come la battaglia del mare Sardonio (era il 540 a.C.), che ridefinì gli ambiti di influenza delle tre grandi potenze dell’epoca, Greci, Etruschi e Cartaginesi, rivive al museo civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia nella mostra-evento 2019 “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” (fino al 3 novembre 2019, catalogo Ara edizioni), elaborata nel quadro del Programma Collettivo di Ricerca su “Aleria e i suoi territori”. Una mostra non solo storico-archeologica, rigorosa, che fa scientificamente il punto sulle ricerche archeologiche (soprattutto in Corsica, isola che sta vivendo una riscoperta-rinascita culturale), ma anche emozionale, immersiva, che fa del visitatore un protagonista attivo della memorabile battaglia navale. “È la prima mostra internazionale Italia-Francia per valorizzare la Corsica”, sottolinea Simona Rafanelli, direttore del museo di Vetulonia, che non nasconde la propria soddisfazione, perché la tappa italiana del progetto “è rappresentata da Vetulonia”. La mostra poi si trasferirà nel 2020 ad Aleria, in Corsica, per concludersi nel 2021 a Cartagine, Tunisia (vedi https://archeologiavocidalpassato.com/2019/07/20/alalia-la-battaglia-che-ha-cambiato-la-storia-greci-etruschi-e-cartaginesi-nel-mediterraneo-del-vi-secolo-a-c-mostra-evento-al-museo-isidoro-falchi-di-vetuloni/).

Una panoplia dal museo di Aleria in Corsica in mostra a Vetulonia: la machaira (grande spada a lama ricurva) italica all’elmo Negau di tipo etrusco (foto Graziano Tavan)
“La mostra”, spiega Simona Rafanelli, “intende rappresentare una tappa importante nel percorso di studio sulle civiltà affacciate sul bacino del Mediterraneo, gettando le basi per instaurare una riflessione più profonda sull’identità corsa forgiata nell’antichità in un ambiente marittimo aperto e interculturale, ove la partecipazione della Corsica e dei Corsi in seno alla civiltà e allo spazio etrusco rappresenta un fatto fondamentale e, negli ultimi anni, largamente riconosciuto. Un rapporto assai stretto, quello tra Etruschi e Corsi, ancora purtroppo scarsamente documentato nei secoli che precedono la battaglia di Alalia, ma ravvisabile con immediatezza, per l’epoca posteriore all’evento bellico, nella fisionomia dei corredi che, recuperati dai coniugi Jehasse nella necropoli di Casabianda negli anni Sessanta del Novecento, formano oggi il patrimonio esposto nel museo di Aleria. Panoplie di armati, che associano la machaira (grande spada a lama ricurva) italica all’elmo Negau di tipo etrusco, testimoniano la presenza di una forza militare che, reclutata dagli Etruschi primariamente tra indigeni e cartaginesi, risponde all’esigenza di mantenere il controllo etrusco su Alalia e sull’intero versante litoraneo orientale dell’isola e che, permeata, al pari degli Etruschi stessi, di cultura ellenica, arreda i propri sepolcri di straordinari set da simposio e da banchetto, ove prestigiose ed eleganti ceramiche greche figurate affiancano pregiati utensili in bronzo di manifattura etrusca, che trovano identità di confronto con quelli usciti dalle botteghe di Vetulonia e Populonia”.

Il manifesto della mostra “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” al museo di Vetulonia dal 9 giugno al 3 novembre 2019
Centocinquanta reperti di straordinario valore scientifico e artistico, richiesti in prestito primariamente al museo di Aleria (partner del progetto e della mostra), quindi all’Antiquarium Arborense di Oristano e della soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio di Sassari e Nuoro, sul suolo sardo, al museo Archeologico nazionale di Firenze, per quanto concerne la Toscana e, infine, al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, cui si affianca una selezione di reperti sequestrati dal Nucleo Tutela del Patrimonio Archeologico della Guardia di Finanza di Roma (partner esclusivo dal 2013 delle mostre vetuloniesi), sono i protagonisti di un racconto che si snoda dietro le quinte di uno scenario che rappresenta il Mediterraneo in epoca arcaica, nel tempo che precede e segue lo scontro navale che, secondo lo storico greco Erodoto terminerà senza vincitori né vinti, ma che assai concretamente sancirà la spartizione delle isole del Tirreno tra le potenze marittime che dominavano i traffici e le rotte commerciali in questo ben definito angolo di mare, assegnando la Corsica agli Etruschi, la Sardegna ai Fenici di Cartagine e la Sicilia insieme al Sud Italia ai Greci.

Una delle tre pentecontere dipinte sul dinos di Exekìas conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma
“È proprio il Tirreno o, più latamente, il Mediterraneo nella sua ansa occidentale”, riprende Simona Rafanelli, “a rivestire il ruolo di autentico protagonista dell’intera vicenda che sconvolse e riassestò gli equilibri commerciali e politici delle potenze marinare che si affrontarono al largo delle acque di Alalia. È il Mare ad aver disegnato le quinte dello scenario ove l’intero fatto storico rappresentato ha trovato origine e compimento. Ed è quindi al Mare che i curatori della mostra-evento hanno voluto dedicare la scelta di un oggetto-simbolo, coevo alla battaglia, destinato ad assurgere a logo tangibile della mostra e rappresentato dal celeberrimo deinos (dinos, grande vaso sferoidale) a firma di Exechias, il “padre” della ceramografia attica a figure nere, esposto al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, cui sarebbe affidato il compito di veicolare il significato, e con esso le finalità, dell’intero progetto scientifico ed espositivo. In esso, lungo la fascia interna dell’orlo circolare del vaso, trova infatti piena espressione figurata l’incedere, sulla superficie ondulata del mare, di quelle pentecontère ove sono riposti speranze e destino delle maggiori potenze navali del Mediterraneo”.

La prima sala della mostra “Alalia” nel museo di Vetulonia, nell’allestimento dell’arch. Luigi Rafanelli (foto Graziano Tavan)

“Exechias mi fece”: la firma sul dinos conservato al museo di Villa Giulia ed esposto a Vetulonia (foto Graziano Tavan)
Citando il deinos di Exechias siamo entrati nel vivo della mostra, che occupa due stanze del museo di Vetulonia (la sala G e la sala “delle vele”), più il locale a fianco della sala “delle vele”, che funge nell’occasione da saletta cinematografica, dove viene proiettato un cortometraggio ad hoc su “Aleria e i suoi territori”. “La mostra è intesa non come un semplice contenitore di una antologia di pezzi archeologici”, spiega l’architetto Luigi Rafanelli, che ha curato l’allestimento, “ma come rievocazione del luogo dove l’evento è andato in scena, del theatre de bataille. È un allestimento che coniuga il rigore scientifico con la spettacolarità, in cui la battaglia fa da scenario alle preziose testimonianze archeologiche appartenenti ai tre popoli protagonisti e collocate nelle vetrine, ma ricrea anche il contesto ambientale, naturalistico e culturale, in cui aleggia ancora il pathos dello scontro. Il colore predominante dell’allestimento è l’azzurro del cielo e, soprattutto, del mare. Un secondo livello di lettura della mostra è infatti la storia vista attraverso il mare, il luogo dove si intrecciano i rapporti tra cultura e civiltà, tra scambi commerciali e scontri di guerra, tra terraferma e isole, tra uomo e mare. Un mare, il mare Mediterraneo, che è stato la culla delle più grandi civiltà del mondo antico e che, negli auspici, torni ad essere, anche attraverso queste iniziative culturali transfrontaliere, elemento di unione e non di divisione tra i popoli”.
(1 – continua)
“Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.”: mostra-evento al museo “Isidoro Falchi” di Vetulonia con 150 reperti da Corsica, Sardegna, Toscana e museo di Villa Giulia raccontano lo scontro che portò alla spartizione delle isole tirreniche tra le superpotenze dell’epoca

Carta del Mediterraneo occidentale, con le aree di influenza della cultura etrusca, greca e cartaginese. Eaborazione: Jean Castela, Grafica: Alessandro Bartoletti
“Quando [i Focei] giunsero a Cirno (la Corsica, ndr), per cinque anni abitarono insieme a quelli che erano arrivati prima di loro e costruirono dei templi. Ma poiché depredavano e derubavano tutti i popoli confinanti, Tirreni (Etruschi, ndr) e Cartaginesi di comune accordo mossero contro di loro, entrambi con una flotta di sessanta navi. I Focei armarono anch’essi le loro navi, in numero di sessanta, e affrontarono il nemico nel mare chiamato di Sardegna. Attaccata battaglia, i Focei riportarono una vittoria cadmea: delle loro navi, quaranta furono distrutte e le venti superstiti erano inutilizzabili, avendo i rostri rivolti all’indietro. Approdati ad Alalia, presero a bordo i figli, le donne e tutti gli altri beni che le navi potevano trasportare e, abbandonata Cirno, fecero vela alla volta di Reggio (Calabria, ndr). Quanto agli uomini delle navi distrutte, la maggior parte di essi li presero i Cartaginesi e i Tirreni e, dopo averli condotti fuori dalla città, li lapidarono”. Così Erodoto (Storie, I, 166-167). Ma anche se lo storico greco parla di “vittoria cadmea”, noi diremmo “vittoria di Pirro”, “la Màχe (battaglia) del mare detto Sardonio, tra i Focei di Alalìe in Corsica e forse di Massalìe (Marsiglia), da una parte e i Cartaginesi e gli Etruschi, dall’altra, fu l’evento capitale del Mediterraneo centro occidentale del VI secolo a.C., che decise le sorti delle due isole tirreniche di Kyrnos (Corsica) e Sardò (Sardegna).

Il manifesto della mostra “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” al museo di Vetulonia dal 9 giugno al 3 novembre 2019
Alla battaglia del mare Sardonio, che ebbe luogo intorno al 540 a.C. al largo delle acque di Alalia, nello spazio tirrenico compreso fra la Corsica, l’Elba e il litorale toscano, il museo civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia dedica la mostra-evento 2019 “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” (fino al 3 novembre 2019), elaborata nel quadro del Programma Collettivo di Ricerca su “Aleria e i suoi territori”. “È la prima mostra internazionale Italia-Francia per valorizzare la Corsica”, sottolinea Simona Rafanelli, direttore del museo di Vetulonia, che non nasconde la propria soddisfazione, perché la tappa italiana del progetto “è rappresentata da Vetulonia”. La mostra poi si trasferirà nel 2020 ad Aleria, in Corsica, per concludersi nel 2021 a Cartagine, Tunisia.

Il suggestivo allestimento della mostra “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.” al museo di Vetulonia
Dedicata alla prima grande battaglia navale tramandata dalla Storia, destinata a dettare i nuovi equilibri geo-politici nel Mediterraneo Occidentale, la mostra vuole instaurare una riflessione più profonda sull’identità corsa forgiata nell’antichità in un ambiente mediterraneo aperto e interculturale, ove la partecipazione della Corsica e dei Corsi in seno alla civiltà e allo spazio etrusco rappresenta un fatto fondamentale. Idealmente centrato sulla battaglia d’Alalìa, le sue cause e le sue conseguenze nei secoli che immediatamente precedono e seguono lo scontro navale, il tema dell’esposizione è quello più generale dei contatti fra le Civiltà antiche presenti in questa parte del bacino del Mediterraneo, che hanno determinato la scelta del sottotitolo “Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.”.

La direttrice Simona Rafanelli all’inaugurazione della mostra “Alalia, la battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.”
Centocinquanta reperti di straordinario valore scientifico e artistico, prestati primariamente dal museo di Aleria (Corsica), partner dell’esposizione, quindi dall’antiquarium Arborense di Oristano e dalla soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Sassari e Nuoro, per quanto riguarda la Sardegna; dal museo Archeologico nazionale di Firenze, per quanto concerne la Toscana e, infine, dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma, cui verrà ad affiancarsi una selezione di reperti sequestrati dal Nucleo Tutela del Patrimonio Archeologico della GdF di Roma: questi reperti sono i protagonisti di un racconto che si snoda dietro le quinte di uno scenario che rappresenta il Mediterraneo in epoca arcaica, nel tempo che precede e segue lo scontro navale che – come abbiamo visto – secondo lo storico greco Erodoto terminerà senza vincitori né vinti, ma che assai concretamente sancirà la spartizione delle isole del Tirreno fra le potenze marittime che dominavano le rotte e i traffici commerciali in questo ben definito angolo di mare, assegnando la Corsica agli Etruschi, la Sardegna ai Fenici di Cartagine e la Sicilia insieme al Sud Italia ai Greci.

Una delle tre pentecontere dipinte sul dinos di Exekìas conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma
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La firma del pittore Exekìas autore del dinos conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a oma
eperto simbolo della mostra è un pezzo unico, straordinario, rappresentato dal vaso greco (un dinos) decorato a figure nere, che esibisce la firma di Exekìas, il padre della ceramografia attica, del quale si contano poco più di dieci firme ad oggi conosciute in tutto il mondo! A questo vaso, concesso in prestito in via eccezionale dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, esposto per la prima volta a Vetulonia completo del suo supporto, viene affidato il compito di veicolare il significato, e con esso le finalità, dell’intero progetto scientifico ed espositivo. Lungo la fascia interna dell’orlo circolare del vaso, trova infatti piena espressione figurata l’incedere, sulla superficie ondulata del mare, di quelle pentecontère (navi da guerra con 50 rematori) ove sono riposti speranze e destino delle maggiori potenze navali del Mediterraneo antico.
Antico Egitto a Vittorio Veneto. Naldoni slitta di una settimana, al suo posto il Dvd di Benassai su “Origine e significato delle costellazioni” a margine della mostra “Rispetto, Conoscenza e valore. 1989-2018, Paolo Renier per Abydos-Egitto”

Molto partecipati a Vittorio Veneto gli incontri di approfondimento a margine della mostra “Rispetto, Conoscenza e valore. 1989-2018, Paolo Renier per Abydos-Egitto”

Alessandro Benassai, presidente Archeosofica (foto Paolo Renier)
Franco Naldoni lascia e raddoppia. Al di là del gioco di parole, il ricercatore dell’associazione Archeosofica di Firenze, esperto di Egittologia, che avrebbe dovuto tenere a Vittorio Veneto la conferenza “Egitto immagine del cielo, il linguaggio degli astri. Astronomia egiziana”, sabato 9 giugno 2018 alle 18 non potrà essere presente per intervenuti motivi personali, ma non lascerà a bocca asciutta l’attento pubblico che segue gli incontri molto partecipati promossi da Paolo Renier nell’aula magna della Rotonda di villa Papadopoli a Vittorio Veneto (Tv), messa a disposizione dall’associazione storico culturale Zheneda, a margine della mostra “Rispetto, Conoscenza e valore. 1989-2018, Paolo Renier per Abydos-Egitto”. Naldoni proporrà la sua conferenza il sabato successivo, 16 giugno 2018, facendo slittare quella in programma di Paolo Renier a sabato 23 giugno 2018. E per sabato 9 giugno 2018 ha fatto pervenire agli organizzatori il DVD “Origine e significato delle costellazioni” curato da Alessandro Benassai, presidente dell’associazione Archeosofica. Quindi un incontro per immagini che si annuncia particolarmente coinvolgente.
“Le Costellazioni sono creazioni mentali dei Filosofi ispirati dalla Sapienza Eterna”, anticipa Benassai, “idee proiettate e fissate nel cielo della Mente Universale, simboli alchemici della Grande Opera. I nomi delle Costellazioni e il loro significato simbolico possono variare secondo i tempi e le Nazioni, mantenendo però il contenuto esoterico in ragione dell’unicità della Rivelazione. Esse rivelano e testimoniano il grado di conoscenza arcaica posseduta dai Centri Iniziatici di civiltà ormai scomparse. Testimonianze archeologiche, scritti e tradizioni, dimostrano una conoscenza dell’astrologia-astronomia, medicina, arte, e di altre scienze, da parte dei Caldei, Egiziani, Greci, Cinesi, Aztechi, Incas e altri popoli antichi. Queste conoscenze non avevano un carattere generalizzato ma si riferivano ai Centri di cultura esoterica, dove si fondevano scienza e religione”. E continua: “La Sapienza arcaica, ignorata dalla massa, era segretamente custodita nei Templi d’Iniziazione ed era patrimonio degli Iniziati. L’applicazione dei principi fondamentali consentiva agli Iniziati di realizzare un’ascesi psico-somatica, una evoluzione spirituale fatta di Gradi o fasi alchemiche, definita la “Grande Opera’’. A ogni Grado dell’Iniziazione corrispondeva una fase evolutiva della creazione del Mondo e tutto un insegnamento sinteticamente espresso dal simbolismo dei Misteri che venivano celebrati a beneficio dell’Iniziato o dell’Iniziando”.
“L’Iniziato rinunciava alla sua natura terrena e mortale per aderire a quella dell’Ordine (Corpo Iniziatico), che rispecchiava quella del Fondatore, per arrivare, con l’avanzare nei Gradi, a congiungersi al suo Archetipo o Idea, risolvendosi nella natura solare e immortale del Nume. Nella prassi misterica antica l’aspirante alla deificazione, all’unione totale con il Nume, doveva passare per numerose prove ed esperienze per vincere se stesso onde ricevere alla fine il battesimo, provare la morte e la risurrezione, discendere all’Inferno e trasfigurarsi nel Sole. L’Iniziato capiva che l’evoluzione cosmica e l’evoluzione umana sono parallele, comprendeva che lo sviluppo dell’uomo ripete le differenti fasi dell’evoluzione di tutto l’universo. L’Iniziato sapeva che il Microcosmo è simile al Macrocosmo, e il ciclo dell’Iniziazione riproduceva nelle dimensioni umane la grande serie di cambiamenti cosmici ai quali l’Astrologia iniziatica fa riferimento. Così alla fine del ciclo dell’Iniziazione chi è decaduto e redento dalla Provvidenza e dal suo sforzo personale, riguadagna lo stato primordiale di purezza e conoscenza divine”. I riti teurgici (il termine teurgia significa “agire come un Dio”, nel senso di aiutare gli uomini a trasformare il loro status in senso divino con l’aiuto dell’unione mistica) venivano celebrati alle feste tradizionali, che commemoravano le gesta del Nume solare, Patrono dei Misteri. Le feste corrispondevano al transito apparente del Sole e degli altri Interpreti (la Luna e i Pianeti) in quei gradi, Segni e Costellazioni dello Zodiaco e della sua proiezione, la sfera celeste, che segnavano l’inizio e le fasi di sviluppo dell’anno, il ciclo della manifestazione della luce e della vita del Sole.
Il calendario e l’orologio teurgico segnavano così le ore, i giorni e gli anni durante i quali entravano in azione le Influenze evolutive per la vita dell’uomo e della Natura. “I pianeti, che sembrano orbitare a velocità diverse intorno alla Terra, centro o punto di osservazione e di ricezione delle influenze, formano tra loro, rispetto ad essa, degli angoli d’incidenza, che secondo la loro ampiezza possono far entrare in risonanza o in dissonanza, in fase o in controfase, la loro emissione energetica o vibrazione musicale, dando così origine a delle configurazioni armoniche o dissonanti, che nel loro insieme, formano nel tempo la successione dei vari aspetti o volti del Cielo, favorevoli o sfavorevoli alla nascita e sviluppo della vita sulla terra. Calcolando le posizioni degli astri, gli Iniziati potevano stabilire con largo anticipo quando le configurazioni armoniche delle sfere planetarie avrebbero permesso alle influenze benefiche di operare favorevolmente per lo sviluppo della vita del corpo e dell’anima”.
Miti sfatati. Il Cavallo di Troia? Era una nave: l’hippos fenicio. L’archeologo navale Tiboni rilegge Omero e i relitti antichi e smaschera l’equivoco millenario dovuto al traduttore antico all’oscuro dell’esistenza dell’imbarcazione dei Fenici

“La passeggiata del cavallo i Troia” affrescata da Giandomenico Tiepolo nella seconda metà del XVIII secolo nella villa di famigli a Zianigo nella terraferma veneziana
Anche il grande Giandomenico Tiepolo, quando nella seconda metà del Settecento decise di affrescare la villa di famiglia a Zianigo nella terraferma veneziana, non esitò a inserire nei vari soggetti anche un mito universale: il Cavallo di Troia. Eppure quel mito che fa parte dell’immaginario collettivo da millenni potrebbe essere sfatato dai recenti studi di Francesco Tiboni, 39 anni, archeologo subacqueo nato e cresciuto a Vobarno, provincia di Brescia, da tre anni ricercatore all’università di Aix en Provence. Ne parla in un ampio servizio l’ultimo numero della rivista “Archeologia Viva” (Giunti editore). “Il Cavallo di Troia non era un cavallo di legno, bensì una speciale nave da guerra”, assicura Tiboni. L’archeologia navale arriva ora in soccorso dell’interpretazione del celebre episodio narrato da Omero: non il mitico (e improbabile) quadrupede i Troiani avrebbero introdotto dentro le mura della città – in parte abbattendole per farcelo entrare – ma l’Hippos, una nave di tipo fenicio con la polena a testa di cavallo. Un equivoco millenario di una traduzione di un termine ha impedito di conoscere in realtà il marchingegno che fu utilizzato per abbattere le mura di Troia, sostiene l’archeologo italiano che insegna in Francia. Tiboni spiega che l’inganno ideato da Ulisse e allestito dagli Achei fu messo in atto per mezzo di “una nave, piuttosto che di un cavallo”, perchè l’Hippos va identificato con un vascello e non con un quadrupede.
“Le navi usate dai commercianti nel mondo antico erano piuttosto larghe e di forma fortemente arrotondate, adatte a trasportare merci di ogni genere”, spiega Lionel Casson, “esperto di navi e navigazione antiche. “Lo scafo di legno veniva costruito senza usare chiodi metallici, le parti venivano tenute insieme da perni anche questi di legno, e per l‘impermeabilizzazione e il riempimento di intersizi si usava stoppa (corda) e pece. I greci chiamavano queste imbarcazioni gaulos (plurale gauloi) e hippos (plurale hippoi), il primo termine significava ‘vasca’ e si riferiva alla forma arrotondata, ma il termine poteva anche derivare dalla parola fenicia golah, il secondo termine faceva riferimento alla forma di testa di cavallo della prua. La stabilità della nave sull’acqua si otteneva con pesi sul fondo, pietre o sabbia se si trasportavano le anfore, le navi erano prive di chiglia o carena. Oltre ai fenici anche i greci, gli italici e forse anche i sardi usavano imbarcazioni simili”. Tiboni non entra nel merito della questione omerica o della giungla delle verità o meno degli episodi narrati da Omero, si sofferma sul cavallo. Fa analisi del testo, intreccia le parole omeriche e di Virgilio con quelle di tecnologia navale. La pancia del cavalo diventa una stiva, le ruote e le lunghe funi con i quali il cavallo fu trasportato sotto le mura di Troia assomigliano al modo in cui, secondo le più recenti ricerche, le navi mercantili venivano tirate con forza. Il cavallo prende forma, si deforma, e si trasforma in nave, in un Hippos. «Una nave che cadde in disuso nei secoli successivi – spiega Tiboni – e chi tradusse in seguito non ne era proprio a conoscenza dell’esistenza. Ma Omero, nei suoi versi, è invece preciso nel suo linguaggio marinaresco». Il lavoro di Tiboni inizia a girare per mesi tra alcuni addetti ai lavori. C’è incredulità, talvolta scetticismo, alla fine convincimento. «Ho trovato più diffidenza tra i giovani ricercatori – osserva -, mentre ho raccolto più attenzione e sostegno tra gli studiosi della vecchia scuola».
Ma come e quando la nave è diventata un cavallo? Intorno al VII secolo a. C. è nato l’equivoco, poi ingenerato successivamente anche da Virgilio che ne fu inconsapevole trasmettitore rispetto all’originale di Omero. “Dal punto di vista lessicale, appare evidente che l’apparizione del cavallo risulta legata a un errore di traduzione, un’imprecisione nella scelta del termine corrispondente che, modificando di fatto il contenuto della parola originaria, ha portato alla distorsione di un’intera vicenda”, scrive Tiboni. “Se, infatti, esaminiamo i testi omerici, reintroducendo il significato originale di nave – certamente noto ai contemporanei – non solo non si modifica in alcun modo il significato della vicenda, ma l’inganno tende ad acquisire una dimensione meno surreale. È di certo più verosimile che un’imbarcazione di grandi dimensioni possa celare al proprio interno dei soldati, e che loro possano uscire calandosi rapidamente da portelli chiaramente visibili sullo scafo e per nulla sospetti agli occhi di chi osserva”. E appare più plausibile anche ipotizzare che una grande nave, di un tipo noto per essere solitamente utilizzato per pagare tributi, possa essere non solo interpretata come un dono e un segno di resa, ma anche come un eventuale voto divino. È possibile che, nel corso dei secoli, essendo caduto in disuso il termine navale, l’identificazione dell’Hippos con uno scafo “non fosse più automatica”, sottolinea l’archeologo.

Il grande cavallo di legno innalzato per i turisti all’ingresso del sito archeologico di Troia in Turchia
“Se consideriamo l’iconografia, notiamo che tra le pochissime figurazioni del cavallo (venticinque in tutta la storia dell’arte antica), le prime si datano al VII secolo a.C., periodo cui risalgono le opere post-omeriche prese a riferimento da Virgilio. Dunque, è più che possibile che l’equivoco millenario della traduzione dell’Hippos omerico si possa collocare in questo momento”, spiega sempre Francesco Tiboni. “E che Virgilio, cui si deve la vera grande diffusione del tema nella cultura occidentale, abbia codificato tale passaggio utilizzando il termine latino ‘equus’ (che significa ‘cavallo’), forse a causa della tradizione post-omerica, come farà anche il filosofo bizantino Proclo (412-485 d.C.) nella Crestomazia, riportando testi di Lesche di Mitilene (VIII-VII sec. a.C.) e di Arctino di Mileto (VIII sec. a.C.). La sottovalutazione incolpevole – e ante litteram – dell’archeologia navale, intesa come capacità di analisi delle diverse fonti a disposizione degli studiosi finalizzata al riconoscimento e studio dei modelli di imbarcazione antichi, potrebbe quindi aver determinato questo equivoco plurisecolare, che, oggi, proprio l’archeologia navale può finalmente sanare», conclude Tiboni deciso a tradurre tutta la vicenda in un libro.
L’Auriga di Mozia e la Phiale di Caltavuturo tornano in Sicilia con altri 63 capolavori: “Mai più fuori dall’isola”. Politica di rilancio dei musei siciliani valorizzando le opere “blindate”
La vacanza-assenza da casa è finita. Tornano in Sicilia l’Auriga di Mozia e la Phiale aurea di Caltavuturo, e con questi due capolavori assoluti dell’arte antica un’altra sessantina di tesori archeologici, dopo aver fatto il giro tra i più importanti musei del mondo, rientrano nelle loro sedi originarie: e da lì non si muoveranno mai più. Sono beni di valore inestimabile che la Regione Sicilia ha deciso di blindare per creare un circuito isolano di eccellenze da ammirare solo se si viene in Sicilia. “Dopo aver fatto bella mostra di sé al Paul Getty Museum di Los Angeles e al Cleveland Museum of Art nel 2013”, annuncia l’assessore regionale ai Beni Culturali Maria Rita Sgarlata, “ed essere state in giro con la mostra ‘Sicily: Art and Invention between Greece and Rome’ (oltre mille visitatori al giorno) tornano i ‘gioielli di famiglia’ per essere opportunamente valorizzati nella loro terra di appartenenza”. E se l’Auriga di Mozia e la Phiale aurea di Caltavuturo custodita nel parco di Himera sono i pezzi più famosi, il tesoro che rientra in Sicilia è ricchissimo: da un cratere attico a maschere teatrali (Vaso del Pittore di Boston) ai rilievi votivi con Demetra e Kore. E ancora medaglioni a rilievo, arule, coppe con emblema, statuette fittili, pissidi e antefisse, brocchette e bronzi.
I reperti, infatti, torneranno nei vari siti museali di provenienza: il museo archeologico di Agrigento, di Aidone, di Cefalù, il parco archeologico di Himera, il museo archeologico di Gela, Lipari, Palermo, Siracusa, Trapani e Catania. “Perchè è là che questi reperti devono stare”, stigmatizza l’assessore Sgarlata, “e non nei ‘mostrifici’ sganciati da contesti di effettiva qualità in giro per il mondo. Questo non vuole dire chiusura nei confronti degli scambi culturali, piuttosto è una sorta di “fermo biologico” in previsione di riequilibrio del rapporto con i musei stranieri”.A giovarsi degli scambi culturali e di beni d’arte “non devono essere solo gli altri”, aggiunge, “ma anche e soprattutto la Sicilia che troppe volte ha avuto come tornaconto solo un ritorno di immagine. Non si tratta di una pratica oscurantista o protezionista ma di buon senso il cui fine è solo quello di valorizzare, come meritano, i nostri beni. Questi sono i principi della nuova stagione di reciprocità”. Il che vuol dire ora sono i grandi musei del mondo a prestare alla Sicilia i loro capolavori.
IL RITORNO A MOZIA L’Auriga di Mozia ritorna in Sicilia dopo un lungo periodo di assenza, iniziato con la prima tappa a Londra in occasione delle Olimpiadi 2012. Il peregrinare del famoso giovinetto ha portato la statua marmorea anche oltre oceano prima per una mostra al Paul Getty Museum di Los Angeles poi al Cleveland Museum of Art. L’esposizione al Getty ha perlomeno consentito la realizzazione di una sofisticata base antisismica, la cui costruzione è stata inserita nell’accordo siglato nel 2010, destinata ovviamente a preservare la statua nel luogo in cui tornerà ad essere esposta, il museo Whitaker a Mozia. Il lungo viaggio di ritorno dell’Auriga con il resto del tesoro siciliano dagli Stati Uniti all’Italia è stato coperto per nave fino al porto di Genova. Dopo una sosta in un caveau a Milano, il carico col “tesoro” è arrivato nei giorni scorsi a Palermo dove è stato custodito in un magazzino di sicurezza. E quindi smistato nelle singole destinazioni. Il pezzo più pregiato, l’Auriga, con una chiatta è arrivato finalmente a Mozia dove sarà sistemato nel delizioso museo della fondazione Whitaker.
DALLA SCOPERTA AL MUSEO Il Giovinetto di Mozia, una statua in marmo del V sec. a.C., èsenza dubbio la principale attrazione dell’isola nello Stagnone di Marsala. La statua fu rinvenuta, quasi per caso, il 26 ottobre 1979, nella zona “K” accanto al santuario di Cappiddazzu, proprio durante l’ultimo giorno di quella campagna di scavi, quando il piccone di un operaio colpì qualcosa di diverso. Gli scavi furono così prolungati di una decina di giorni, il tempo di riportare alla luce questo splendido capolavoro dell’arte greca. La statua raffigura una figura maschile panneggiata, forse un auriga, e fu probabilmente portata nell’isola di Mozia dai Cartaginesi dopo che ebbero saccheggiato Selinunte nel 409 a.C. Molti studiosi pensano potesse raffigurare un giovane alla guida di un cocchio, un auriga, cioè un atleta vincitore nella corsa con il carro, o comunque un atleta vittorioso. Altre ipotesi comunque sono state avanzate: la particolare veste secondo alcuni ricondurrebbe ad un sufeta, magistrato punico, per altri sarebbe invece il dio punico Melqart, corrispondente all’Eracle dei Greci. L’Auriga è stata definita come la statua dei misteri, perché è un reperto greco rinvenuto in una provincia punica (spiegabile, abbiamo visto, come bottino del sacco di Selinunte) e poi perché la sua origine, la sua rappresentazione simbolica, lo stile artistico e il secolo in cui si possa collocare sono avvolti dal mistero. E di ogni ipotesi formulata non c’è stato un riscontro certo anche perché la statua è unica nel suo genere. La provenienza è di certo orientale, ipotesi avvalorata dall’analisi geochimica del materiale che ha rilevato che il marmo contiene dello stronzio, elemento presente esclusivamente nelle cave di Efeso e della Tessaglia, richiesto in gran quantità dalla Magna Grecia che non disponeva di marmo. Secondo la maggior parte degli studiosi, la statua risale al V sec. a.C., più precisamente al periodo compreso tra il 475 e il 450 a.C., ed è realistico ritenere che questo capolavoro fu realizzato in una città greca della Sicilia, Selinunte o Agrigento.
INCIDENTE DIPLOMATICO Il Giovinetto di Mozia ha rischiato di diventare il vessillo di una guerra di campanile. Da una parte, Marsala e il museo Baglio Anselmi dove sono custoditi i resti di una preziosa nave punica. Dall’altra, la Fondazione Whitaker composta da quanti preservano l’eredità del colto collezionista, amante dell’archeologia, al quale si devono tante magnifiche strutture, da Villa Malfitano alla sede della prefettura di Palermo. A Marsala che dista appena cinque chilometri dall’isola avevano tutto pronto per l’esposizione, con soddisfazione di Antonella Milazzo, la deputata regionale del Pd pronta a ringraziare con comunicati ufficiali la scorsa settimana l’assessore Sgarlata per il via libera. Entrambe ignare del putiferio scatenato da Renato Albiero e Fabio Virdi, un cardiochirurgo e un avvocato che, in sintonia con la segretaria generale della Fondazione, Enza Carollo, hanno convocato un minaccioso consiglio di amministrazione. Quanto è bastato per determinare la retromarcia, spiegata dall’assessore Sgarlata: “Non se ne farà niente. Il giovinetto torna a Mozia. Ma non sarebbe stato un dramma se fosse rimasto per qualche settimana, in periodo invernale, in un museo sulla terra ferma…”. Ma a Mozia lo avrebbero considerato un ulteriore “scippo”, come ripetono Albiero e Virdi davanti ai conteggi di Enza Carollo: “Abbiamo perduto 200mila euro all’anno. Chi arriva davanti alle barche per venire a vedere il giovinetto, si informa e non parte per l’isola. La Regione pensava di mandare in giro per il mondo questo gioiello per accendere interesse e fare approdare turisti da Londra o dagli Stati Uniti. La verità è che non ne è arrivato nemmeno uno”. Un dato che ha già portato il governatore Rosario Crocetta a decidere che le opere d’arte dal territorio regionale non dovranno più spostarsi: “Debbono diventare elemento di attrazione perché i turisti vengano ad ammirarle in Sicilia. Meglio fermare tante inutili costose e non produttive trasferte”.
AL WHITAKER NUOVO ALLESTIMENTO Basteranno due mesi per allestire al museo Whitaker un nuovo spazio espositivo, finanziato con un contributo della Banca Nuova e fondamentale per valorizzare uno dei pezzi più importanti rinvenuti in Sicilia. È Jerry Podany, Senior Conservator of Antiquities del J. Paul Getty Museum, a illustrare anche il progetto per la nuova base antisismica dell’Auriga di Mozia. “L’attuale configurazione di supporto della scultura – spiega – non è sufficiente a proteggerla dai danni in caso di terremoto di medio livello. Il supporto attuale collegato alla testa non impedirebbe, infatti, il movimento della scultura verso l’alto né sarebbe sufficiente a frenare lo spostamento in direzione laterale”. Per Podany “il fissaggio della scultura ad un piedistallo espositivo sarebbe una soluzione più fattibile e più sicura. Il supporto attuale della base (composto da numerosi pezzi) dovrebbe essere sostituito con un unico blocco di supporto in acciaio”. Alla complessa opera di montaggio della base si assoceranno interventi del Servizio Museografico del Dipartimento Beni Culturali mirati ad assicurare all’Auriga il migliore stato di conservazione, in rapporto al microclima dell’isola. «Accoglieremo l’Auriga più degnamente”, ribadisce dice l’assessore ai Beni culturali Mariarita Sgarlata, “e lo restituiremo alla fruizione dei visitatori a breve in un cornice più adatta e consona al suo immenso valore”.
OPERA BLINDATA, ACCORDI CULTURALI Ma oltre alla nuova veste espositiva c’è anche la volontà di farla restare in Sicilia nei prossimi anni. Dopo il “gran rifiuto” alla richiesta di prestito da parte del British Museum di Londra, l’Auriga sarà blindata. “L’opera è da troppo tempo fuori e la prima tappa fu proprio Londra in occasione delle Olimpiadi del 2012, quindi per adesso stop ai prestiti”. Anche perché rientra nella black list delle 23 beni culturali più preziose. “Le nuove trattative hanno consentito di ottenere due mostre di assoluto rilievo per la nostra isola, totalmente a carico del museo di Cleveland e Mart di Rovereto, che hanno chiesto i prestiti: una su Caravaggio e i caravaggeschi; l’altra su Antonello da Messina”, ribadisce l’assessore ai Beni culturali.
LA PHIALE DI CALTAVUTURO “È considerata un capolavoro dell’oreficeria antica , tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., pregevole per i motivi decorativi e per la tecnica di lavorazione a sbalzo che utilizza la punzonatura, la cesellatura e l’ incisione”, spiegano Alessandra Merra e Valeria Sola, che hanno curato le schede regionali. “La forma della phiale mesomphalos (dal greco antico “coppa, patera umbilicata”) era molto frequente sia nella ceramica che nella oreficeria della Grecia antica. Destinata per lo più alle libagioni e alle offerte per le divinità durante i riti religiosi, talvolta se realizzata in metallo prezioso, confluiva nei tesori dei santuari”. La storia del recupero della phiale è complessa ed affascinante ed emblematica, risultato di laboriose indagini della Magistratura italiana e del Nucleo dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Artistico. La prima segnalazione della coppa aurea nel 1989 in casa di un collezionista siciliano. Cinque anni dopo fu avviata dalla Procura di Termini Imerese un’indagine su alcune opere d’arte trafugate dal museo della stessa città. “Si appurò che nel 1980 in seguito ad alcuni lavori per la messa in opera di un pilone della rete elettrica era stata rinvenuta una phiale, che clandestinamente fu venduta prima ad un collezionista di Catania e successivamente ad un collezionista di Enna”. Nel 1991 la phiale viene esportata clandestinamente in Svizzera e qui venduta da un antiquario al miliardario statunitense Michel Steinhardt per 1 milione 200mila dollari, che la trasferì a New York. Nel 1995 la procura di Termini Imerese avanzò una richiesta di rogatoria internazionale alla competente autorità giudiziaria di New York, chiedendo la restituzione dell’opera. Venne accertata l’autenticità della phiale sulla base di una perizia archeologica e di analisi di laboratorio. Nel 1999 la coppa fu sequestrata dall’autorità giudiziaria americana e riconsegnata allo Stato italiano.
NUOVA POLITICA CULTURALE: RILANCIO DEI MUSEI Esaurita la stagione dei viaggi all’ estero dei gioielli di famiglia, l’ assessorato ai Beni culturali inaugura una nuova era che prevede la fine dei prestiti delle opere d’ arte e il rilancio dei musei. È questo l’ indotto su cui la Regione punta: creare attorno a una lista di 26 opere “inamovibili” – tra cui le più importanti sono il Giovinetto di Mozia appena riconquistato, la Metope di Selinunte, l’ Ariete in bronzo del Salinas di Palermo, l’ Annunziata di Antonello da Messina, la Phiale aurea di Caltavuturo, la Dea di Morgantina di Aidone, il Satiro Danzante di Mazara del Vallo e il Trionfo della morte di palazzo Abatellis – un circuito museale superqualificato. Il progetto è ambizioso e può contare su un finanziamento di 55 milioni di euro, col programma operativo interregionale 2007-2013. I lavori per rimettere in sesto gli spazi espositivi prevedono illuminazione giorno e notte, percorsi pedonali e sentieri, segnaletica adeguata, aree per la sosta, diffusione sonora, climatizzazione, sistemi di allarme. Insomma, servizi che funzionino a puntino, per attrarre visitatori da un capo all’ altro dell’ Isola i musei all’ altezza. L’accordo è stato firmato nel giugno scorso a Roma dal presidente Rosario Crocetta e il ministro per la Coesione territoriale Carlo Trigilia. E l’assessorato ai Beni culturali, sotto la regia dell’ assessore Mariarita Sglarlata, ha redatto il programma di interventi, finalizzati al lancio dei nuovi “Poli Museali di Eccellenza” (a Palermo, Siracusa, Ragusa e Trapani) e dei siti di maggiore attrazione culturale (musei e aree archeologiche). A Palermo, ad esempio, il polo museale che nascerà mette in rete Palazzo Abatellis, Oratorio dei Bianchi, Museo di Palazzo Riso, palazzo Mirto e palazzo Steri. E ci sono anche 658mila euro per gli itinerari subacquei. Il sogno della Regione è che per l’ Expo 2015 i musei siciliani funzionino da calamita. E che nell’ Isola dove si contano più custodi di musei che visitatori, con una spesa di circa 600 milioni a fronte di incassi che superano di poco i 100 milioni, si possa invertire la tendenza. Il primo piano di interventi conta 18 opere per un valore di 21 milioni. I lavori sono tutti in fase di aggiudicazione e si concluderanno entro il 2015. La seconda fase, che utilizzerà le risorse del Pac (piano di azione e coesione) si concentra sui poli museali di Siracusa, Ragusa e Trapani e prevede 11 interventi per un valore di 33 milioni, con fine dei lavori entro il 2017. Tra i maggiori interventi: l’ area archeologica della Neapolis (9 milioni di euro), Segesta (1 milioni e 600 mila euro), Cava d’ Ispica e Parco della Forza (8 milioni di euro) oltre a interventi nei musei Paolo Orsi e Galleria di Palazzo Bellomo di Siracusa, museo Agostino Pepoli e Baglio Anselmi a Trapani. Ma c’ è, infine, un piano che punta sui piccoli musei per incrementare offerta e incassi. L’assessorato lavora al circuito dei siti minori, da affidare in gestione, attraverso i Comuni, ad associazioni no profit: “Dai Comuni abbiamo ricevuto moltissime richieste. Ci apriremo al volontariato. Abbiamo siglato già le prime convenzioni. Vogliamo riportare alla luce siti del tutto chiusi, come la penisola di Thapsos a Siracusa, o finora aperti in modo discontinuo”.
I Veneti snobbarono la ceramica con rappresentati i miti dei Greci, estranei ai propri valori e cultura
I Veneti antichi sapevano bene chi erano i Greci dei quali ebbero modo di apprezzare la produzione artistica. Ma dei Greci snobbarono, se non addirittura rifiutarono, la mitologia, lontana ed estranea alle culture dei popoli delle terre che si affacciavano sull’Alto Adriatico. A queste conclusioni giungono Lorenzo Braccesi, professore emerito già ordinario di Storia antica all’Università di Padova, e Francesca Veronesi , una dei curatori della mostra “Venetkens” (chiude domenica 17 novembre con un successo di pubblico inaspettati: quasi 90mila spettatori), in un saggio scritto proprio per il catalogo dell’esposizione patavina.
Che i Greci conoscessero e fossero in contatto con le terre bagnate dall’Alto Adriatico lo aveva già scritto nel V sec. a.C. il greco Erodoto nelle sue “Storie”, sostenendo che erano stati i Focei a indicare agli altri Greci le particolarità dell’Adriatico, descritto con il termine Adrias, cioè proprio la parte alta dell’Adriatico. Ma quell’attestazione da sempre aveva fatto discutere e dubitare gli studiosi. Infatti, diversamente delle coste meridionali della penisola, lungo le coste delle terre dei Veneti antichi non c’è traccia di colonie greche, quasi che tra Micenei ed età classica, vale a dire tra il X e il VI sec. a.C., ci sia stata una cesura tra due periodi di frequentazioni ampiamente attestate. Invece i rinvenimenti archeologici più recenti sembrano dissipare ogni dubbio: l’Adriatico sarebbe stato abitualmente solcato da traffici commerciali ad ampio raggio senza soluzione di continuità. E i Veneti antichi ebbero modo di conoscere e apprezzare le merci greco-asiatiche . La ceramica greca la troviamo praticamente ovunque: nei centri abitati, nelle necropoli, nei santuari. Ma i Veneti antichi mostrano anche di valutare – prima di scegliere – nella ricca produzione non solo la tipologia, in base all’utilizzo cui quegli oggetti erano destinati, ma anche i soggetti decorativi. Alle rappresentazioni del mito greco si preferiscono le scene di guerra e le decorazioni a motivi vegetali e floreali. “Si può ipotizzare un preciso rifiuto da parte dei Veneti antichi nei confronti del patrimonio mitologico greco”, afferma Francesca Veronese, “forse sentito come troppo interferente con i propri valori. Ciò comunque non porta al rifiuto di altri aspetti culturali: ne è un esempio la pratica del simposio, che viene accettato e assimilato dai Veneti nella sue duplice valenza quotidiana e funeraria. Non a caso le forme di ceramica attica attestate in Veneto sono principalmente kylikes, skyphoi, kantharoi e crateri” .
Ma come e dove i Veneti antichi venivano in contatto con le merci greche ed egeo-orientali? A meridione delle lagune venete sorgevano gli empori di Adria, città etrusco-venetica a nord del delta del Po, meta di traffici greci già in epoca arcaica, e di Spina, città etrusca a sud del delta del Po, terminal di traffici attici per tutta l’età classica. Al centro delle lagune c’era l’emporio di Altino preromana. “A settentrione – precisa Braccesi – non conosciamo per ora l’esistenza di empori, ma è presumibile ce ne fosse uno al Caput Adriae, vicino alle risorgive del Timavo”. Questi empori erano raggiungibili attraverso una navigazione interna protetta o endolagunare: una via scavata dall’uomo in età preromana che consentiva, con tagli e canali trasversali (fossae), il collegamento del delta con le lagune venete. “I Romani – ricorda Braccesi – non fecero per buona parte che consolidare e ampliare una rete di tagli artificiali preesistenti”. Così seguendo le descrizioni fatte dagli storici romani, da Plinio a Livio, abbiamo un’idea di cosa fosse stato realizzato prima di loro. “In età augustea scavano la fossa Augusta, per collegare Ravenna a Spina, ma in realtà riattano la fossa Messanica. Nella prima età imperiale, la fossa Flavia per unire il Po di Spina ad Adria, lavorando su un canale etrusco. E poi la fossa Clodia, per immettere il Po di Adria nell’Adige e da Chioggia in laguna, canale che semplicemente amplia la fossa Philistina”. Quindi, sono gli idronimi a confermarlo, non furono solo gli Etruschi a realizzare le canalizzazioni preromane, ma anche i Siracusani, che ricolonizzarono Adria con il tiranno Dionigi: fossa Philistina omaggia il politico e storico siracusano Filisto, la Messanica la sicelota città di Messina.
Secondo Plinio il “sistema delle fossae” conferisce nella laguna veneta dove defluisce in mare il Medoaco (Meduacus Maior, il fiume di Padova) , formando con la sua foce la bocca di porto di Malamocco: qui infatti esisteva un “grande porto” che traeva nome dal fiume e che era invisibile dal mare perché a fronte della laguna, come assicura lo storico greco Strabone. “Dal grande porto – continua Braccesi – le navi antiche potevano raggiungere per via interna gli empori a nord e a sud, costituendo quindi uno svincolo decisivo per le rotte endolagunari che in età preromana attraversavano la laguna di Venezia”.
Non è un caso che proprio da qui parta in epoca storica il generale spartano Cleonimo alla volta di Padova. Percorso seguito anche nella leggenda dell’eroe troiano Antenore che risalendo il fiume andò a fondare Padova. Entrambi vengono dal mare, ricorda Braccesi, entrambi risalgono la via del Medoaco, entrambi sono personaggi immortalati dal medesimo autore antico, quel Tito Livio che ben conosceva la natura dei luoghi per essere nativo di Padova. Ma nell’immaginario locale, si chiede lo studioso, dove approda l’eroe della leggenda, dove sbarca Antenore? “Probabilmente nello stesso luogo dove Livio fa sbarcare Cleonimo. Cioè, spalle al mare, sul fronte simmetricamente opposto al litorale, dove sorgeva il grande porto del Medoaco. E quel luogo a un certo punto è stato chiamato Troia!”. Al sito lagunare dove era sbarcato Antenore probabilmente quel toponimo fu dato in epoca storica sull’onda della veicolazione attica (Sofocle, Strabone) della saga troiana. La leggenda antenorea, col tempo, diviene patrimonio delle stesso mondo veneto. Ma perché allora è assente nel repertorio figurativo della ceramica attica qui destinata all’esportazione? “Perché – conclude Braccesi – le immagini del mito, così diffuso nella ceramica attica, tra i Veneti antichi non paiono proprio trovare udienza”.
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