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Egitto. Nella valle delle balene (Wadi el Hitan) nel deserto occidentale è stato inaugurato il primo museo al mondo dei Fossili e dei cambiamenti climatici: un viaggio tra i resti fossili dei Basilosauros, i grandi cetacei che 40 milioni di anni fa dominavano gli abissi marini

Wadi el Hitan, la Valle delle Balene, sito Unesco nel deserto occidentale del Medio Egitto

Wadi el Hitan, la Valle delle Balene, sito Unesco nel deserto occidentale del Medio Egitto

La posizione del Museo dei Fossili nel grande deserto occidentale visto dal satellite (Google Map)

La posizione del Museo dei Fossili nel grande deserto occidentale visto dal satellite (Google Map)

Visto dal cielo è un puntino in un mare di sabbia. E non è un caso che anche una volta a terra, avvolti in un silenzio che ti prende e ti rapisce, ti sembra quasi di “nuotare” su un fondale piatto e impressionante, disseminato da quanto meno strani filari di pietre. Ma se torniamo indietro di 40 milioni di anni, alla fine dell’era geologica che gli studiosi chiamano Eocene, ci troveremmo veramente in fondo a un grande mare popolato da “mostri” marini, almeno dalla nostra prospettiva umana. Così scopriremmo che quelle strane pietre altro non sono che i resti fossili di grandi balene che ora vedremmo inarcare i loro possenti corpi: saremmo di fronte a degli Archeoceti, i Signori degli Abissi (una sotto famiglia di balene ora estinta). Questo puntino nel deserto occidentale, nel Medio Egitto, è il Wadi el Hitan, la “valle delle balene”, sito Unesco patrimonio dell’umanità dal 2005. Nessun altro posto al mondo conserva fossili di questo tipo in tale numero, concentrazione e qualità. Il Cairo è a 150 chilometri a nord-est, l’oasi più vicina, quella del Fayyum, a una cinquantina. Qui si possono ancora osservare reperti fra i più rari al mondo (altri ne sono stati trovati in Pakistan ed in poche altre zone). Questi reperti fossili ci raccontano una storia delle più incredibili: la trasformazione dei mammiferi acquatici, il salto evolutivo che li portò, alla fine dell’Eocene, dalla vita terrestre alla vita acquatica, perdendo l’uso degli arti per la deambulazione.

Il museo dei Fossili: la sala centrale è dominata dal grande Basilosauros dell'Eocene

Il museo dei Fossili: la sala centrale è dominata dal grande Basilosauros dell’Eocene

I resti fossili dei grandi cetacei nel percorso all'esterno del museo di Wadi el Hitan

I resti fossili dei grandi cetacei nel percorso all’esterno del museo di Wadi el Hitan

Proprio in questo luogo così scomodo da raggiungere (almeno tre ore di pullman dal Cairo) e apparentemente dimenticato dal mondo, nel sito naturalistico di Wadi el Hitan, nel governatorato egiziano di Fayyum, è stato inaugurato il Museo dei Fossili e del cambiamento climatico, un museo unico al mondo realizzato anche grazie alla Cooperazione italiana. Al centro dello spazio espositivo ci sono le ossa del più grande “Basilosaurus isis” mai rinvenuto completo, un tipo di cetaceo preistorico che poteva arrivare alla lunghezza di 20 metri. Intorno c’è anche un percorso a cielo aperto di 11 “stazioni” con pannelli illustrativi in cui si possono ammirare altri fossili di balena sempre risalenti a oltre 40 milioni di anni fa. “Il museo è il primo di questo tipo nel Vicino Oriente, anzi essendo in mezzo al deserto e affrontando gli effetti dei cambiamenti climatici, il museo è il primo di questo tipo al mondo”, spiegano i promotori del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) che ha curato la realizzazione finanziata dall’Italia con circa 500mila dollari.

La forma arrotondata del Museo dei Fossili e dei cambiamenti climatici di Wadi el Hitan

La forma arrotondata del Museo dei Fossili e dei cambiamenti climatici di Wadi el Hitan

L'insegna del Museo dei Fossili e dei mutamenti climatici

L’insegna del Museo dei Fossili e dei mutamenti climatici

Uno dei pannelli illustrativi del museo

Uno dei pannelli illustrativi del museo

Dall’esterno il museo dei Fossili di Wadi el Hitan col suo profilo circolare si confonde con le dune del deserto occidentale egiziano, in una sorta di basso canyon. All’interno spiccano due scheletri di Basilosauro, un animale che – spiegano gli esperti – poteva arrivare alla lunghezza di 20 metri. Le ossa formano un doppio cerchio, e intorno pannelli e fossili illustrano altre balene e squali preistorici, granchi e mangrovie pietrificate, coralli di milioni di anni fa. Il complesso è arricchito da una serie di strutture per facilitare la ricezione dei visitatori quali un centro informazioni, biglietteria, caffetteria, posto di polizia turistica, parcheggio e servizi igienici realizzate sempre dalla Cooperazione italiana negli anni precedenti. “Abbiamo posto i muri nel sottosuolo e la cupola sopra”, spiega Gabriel Mikhail, l’architetto progettista, “così da imitare l’ambiente circostante e assicurare una migliore temperatura all’interno. Qui si viene portati in un viaggio che inizia dalla creazione della terra e passa attraverso diverse ere: qui, dove oggi c’è il deserto un tempo c’era una foresta tropicale e prima ancora quest’area era sotto il mare”. Il museo vuole educare i visitatori all’importanza del patrimonio naturale. Il suo messaggio è chiaro: “State attenti ai cambiamenti climatici; se non lo fate, vi estinguerete come queste balene preistoriche”.

Egitto. Per l’apertura del Nuovo Canale di Suez una mostra al Cairo e i musei di Suez e Ismailia raccontano la storia militare dell’Antico Egitto nell’area di al-Qantara e del Cammino di Horus. Grande progetto di valorizzazione dei siti archeologici del comprensorio di Suez

Il Nuovo Canale di Suez: per l'inaugurazione il Governo ha promosso mostre sugli scavi archeologici in zona

Il Nuovo Canale di Suez: per l’inaugurazione il Governo ha promosso mostre sugli scavi archeologici in zona

Il tracciato del Cammino di Horus, la strada militare da al-Qantara a Gaza

Il tracciato del Cammino di Horus, la strada militare da al-Qantara a Gaza

La locandina con invito della mostra al museo Egizio del Cairo

La locandina con invito della mostra al museo Egizio del Cairo

I resti di una fortezza sul Cammino di Horus

I resti di una fortezza sul Cammino di Horus

Una mostra al museo Egizio del Cairo e gallerie fotografiche nei musei di Suez e Ismailia, insieme alla valorizzazione della cosiddetta Sorgente di Mosè, nel Sinai, anticipano il faraonico progetto culturale promosso contestualmente all’avvio dell’altrettanto faraonico progetto del Nuovo Canale di Suez: riorganizzare, salvaguardare e promuovere i siti archeologici dell’area di al-Qantara, la porta orientale dell’Antico Egitto verso la Palestina e la Siria, e punto di partenza del cosiddetto Cammino di Horus, “la strada militare più lunga dell’Egitto”, ricorda Mohamed Abdel-Maqsoud, soprintendente dei siti archeologici del Nuovo Canale di Suez, “un collegamento militare e commerciale vitale tra l’Egitto e l’Asia, che ha visto marciare gli eserciti di Thutmosi III e Ramses II, ma anche passare le orde assire, l’esercito persiano di Cambise, i soldati di Alessandro Magno, le legioni romane di Antioco, i conquistatori arabi guidati da Amr Ibn Al-As”. E poi qui sono transitati i pellegrini cristiani diretti ai centri religiosi di Rafah e Pelusium. “Vogliamo valorizzare il Cammino di Horus”, assicura Abdel-Maqsoud, “perché ci permette di illustrare un altro aspetto dell’Antico Egitto: quello militare, attraverso un’area archeologica unica che comprende anche i siti di al-Qantara”. Oggi, grazie agli scavi archeologici, prendono forma le informazioni fornite dai rilievi del tempio di Karnak che descrivono le campagne del faraone Seti I e le mappe del Cammino di Horus dall’Egitto alla Palestina. Si sa che lungo questo tratto di strada sono state costruite undici fortezze, delle quali cinque sono state individuate dagli archeologi: la prima a Qantara Est e l’ultima a Gaza.

Dalle sabbie del comprensorio di Suez sono riemerse testimonianze dell'Antico Egitto

Dalle sabbie del comprensorio di Suez sono riemerse testimonianze dell’Antico Egitto

Il tracciato del Canale di Suez tra mar Rosso e Mediterraneo

Il tracciato del Canale di Suez tra mar Rosso e Mediterraneo

La collaborazione del ministero delle Antichità egizie con l’Autorità del Canale di Suez (SCA) è iniziata nel febbraio 2013, quando il piano del nuovo Canale di Suez era nelle sue fasi iniziali”, sottolinea il ministro Mamdouh Eldamaty. Il ministero aveva fornito alla SCA le mappe con i siti archeologici dell’area per evitare che l’imponente infrastruttura potesse danneggiarli. E fu proprio per questo motivo che lo scavo del Nuovo Canale è stato spostato dieci chilometri a sud di al-Qantara, in un’area dove sicuramente non c’erano monumenti noti o siti archeologici. “Per noi archeologi lo scavo del Nuovo Canale a dieci chilometri da uno dei più importanti siti archeologici dell’Egitto rappresenta e ha rappresentato una grande opportunità per sistemare i siti archeologici vicino al Canale di Suez, soprattutto al-Qantara”. Il piano originale prevedeva di aprire i sette siti archeologici di al-Qantara: tre a est (Tel Abu Seifi, Pelusio e la Fortezza Habwa) e quattro nella parte occidentale (Tel Al-Dafna, Tel Al-Maskhouta, Tel Al-Seyeidi e Ain Sukhna). L’inaugurazione al pubblico doveva essere contestuale all’apertura del Nuovo Canale di Suez, con un percorso per i visitatori, pannelli informativi, sistemi di sicurezza e di illuminazione ad alta tecnologia, un centro visitatori, bookshop e caffetteria. Ma, come succede spesso in Egitto, il tempo a disposizione è stato breve (un anno) per completare tutti i progetti entro l’apertura del Nuovo Canale di Suez, così il ministero ha organizzato una serie di eventi che celebrano la storia di questo territorio.

Particolare della stele di Ramses I davanti al dio Set della città di Avaris esposta al Cairo

Particolare della stele di Ramses I davanti al dio Set della città di Avaris esposta al Cairo

Il rilievo in calcare dipinto raffigurante il faraone Ramses II tra i reperti esposti al Cairo

Il rilievo in calcare dipinto raffigurante il faraone Ramses II tra i reperti esposti al Cairo

Il più importante è la mostra al museo Egizio del Cairo, che rimarrà aperta fino all’inizio di settembre: “Scoperte archeologiche nella porta orientale dell’Egitto e nell’area del Canale di Suez”, con 40 reperti dell’Antico Egitto scoperti nella regione del Canale di Suez. Si tratta di una collezione di reperti rinvenuti in dieci siti archeologici situati sulle sponde occidentali e orientali del Canale tra Pelusium, Tel Habuwa, Tel Abu Seifi, Tel Kedwa e Tel Al-Erede. “In mostra”, spiega ancora Abdel-Maqsoud, “sono presentate alcune delle più importanti scoperte effettuate dalle missioni di scavo straniere ed egiziane, tra cui un rilievo in calcare dipinto raffigurante il faraone Ramses II, un blocco di pietra col faraone Tutmosi II davanti al dio Montu, il signore di Tebe, e una stele del faraone Ramses I davanti al dio Set della città di Avaris”. In mostra anche una collezione di architravi, così come fotografie che mostrano le fortezze militari del Nuovo Regno scoperte in situ, palazzi reali dei regni di Thutmosi III e Ramses II, i resti di un tempio della XXVI dinastia. E poi una cantina di stoccaggio e quella che doveva essere una specie di zona industriale scoperti a Tel Dafna sulla riva occidentale del Canale di Suez e una struttura romana a Pelusium. Abdel-Maqsoud ha annunciato che è esposto per la prima volta dalla sua scoperta anche un rilievo del faraone Apries (XXVI dinastia) scoperto a Tel Dafna di al-Ismailia, lungo il Cammino di Horus, durante la rivoluzione del 2011. Scolpita nella pietra arenaria, la stele mostra una spedizione militare lanciata dal re.

Un sito archeologico emerso nelle ricerche collegate allo scavo del Canale di Suez

Un sito archeologico emerso nelle ricerche collegate allo scavo del Canale di Suez

Il nuovissimo museo archeologico di Suez

Il nuovissimo museo archeologico di Suez

Nel nuovissimo museo nazionale di Suez si può invece visitare la mostra “Il Canale di Suez, una linea tracciata nella Storia”. Inaugurato ufficialmente nel 2012, in quasi 6mila mq disposti su due piani, il museo presenta la storia della città di Suez dalla preistoria ai tempi moderni (compresa la liberazione del Sinai nel 1973) attraverso l’esposizione di 1500 reperti accuratamente selezionati da musei e depositi archeologici in tutto l’Egitto, la maggior parte provenienti da scavi di siti archeologici nella zona di Suez. La mostra presenta una collezione di manufatti rinvenuti nella zona di tell Al-Qalzam. “L’idea di collegare con un grande canale il Mediterraneo al mar Rosso attraverso il Nilo o uno dei suoi rami”, spiega il Capo della sezione Musei del ministero della Cultura, Elham Salah, “affonda nell’antichità, come dimostra la raccolta di fotografie e documenti relativi alla storia della creazione dell’antico Canale Sesostri, il primo canale a mettere in comunicazione il Mediterraneo con il mar Rosso attraverso il fiume Nilo durante il regno del faraone Sesostri III (XII dinastia)”. In mostra si possono anche vedere le immagini dei canali realizzati da Nechao II e Dario, del Canale tolemaico e di quello scavato durante il periodo islamico chiamato Amir al-Mo’menin. Tra gli oggetti esposti si possono ammirare alcuni di quelli rinvenuti nel 1930 e nel 1932 durante gli scavi nella zona di Tel al-Qalzam per proteggere l’ingresso del Canale di Suez. C’è anche una collezione di rare incisioni raffiguranti le credenze religiose della comunità di Al-Qalzam durante l’epoca tolemaica, così come una collezione di gioielli, mobili per la casa e vasi insieme a lampade di epoca tolemaica di diverse tipologie.

Vestigia del teatro antico del sito archeologico di Pelusium

Vestigia del teatro antico del sito archeologico di Pelusium

Un mosaico conservato nel museo regionale di Ismailia

Un mosaico conservato nel museo regionale di Ismailia

Il museo regionale di Ismailia documenta invece i reperti scoperti durante la costruzione del primo canale di Suez dal 1859 al 1869. La Compagnia del Canale di Suez, responsabile della costruzione del canale originale, aveva infatti organizzato una missione archeologica internazionale prima dello sterro del Canale con indagini archeologiche lungo il corso d’acqua progettato da Suez a Port Said, nonché sui bordi occidentali e orientali del percorso del canale. I reperti rinvenuti, tra cui vasi, stele e rilievi, costituirono il primo nucleo del museo di Ismailia, cui si aggiunsero poi quanto scoperto dall’egittologo francese Jean Clédat nella zona intorno al canale di Suez e nel Sinai del Nord sotto la supervisione dell’egittologo francese Gaston Maspero, all’epoca direttore delle antichità autorità dell’Egitto e con il sostegno della Société artistique de l’Isthme di Suez, istituita nel 1861 dall’ ingegnere francese André Guiter per preservare i reperti rinvenuti durante gli scavi. Le ricerche nella zona del canale sono proseguite nei decenni fino all’occupazione israeliana nel 1967, quando iniziarono a scavare nel Sinai gli archeologi israeliani portando alla luce diversi oggetti, restituiti all’Egitto nel quadro del Trattato di Pace 1977. Solo nel 1983, quando l’esercito egiziano lascia il Sinai, il sito di al-Qantara Est viene consegnato allo SCA. L’ultima missione archeologica è del 2014, quando a al-Qantara Est è stato individuato un quartiere logistico antico, con edifici amministrativi, edifici doganali, strutture utilizzate per conservare il grano, stalle e un dormitorio per i soldati. “È in quell’occasione”, ricorda Abdel-Maqsoud, “che è stato trovato un cartiglio di Ramses II con inciso Kemet, come chiamavano l’Egitto gli antichi egizi. E questa è la prima testimonianza del nome Kemet nel Sinai”. La collezione del museo comprende oggi 4mila oggetti dal predinastico al periodo greco-romano. Tra questi, oggetti scoperti nella zona di Tel al-Maskhouta dove era l’antica città di Pitom; una testa di funzionario libico in arenaria rossa risalente alla XXII dinastia, una testa della dea Bastet, e l’immagine di un sacerdote con una parrucca e sopra un grande scarabeo in altorilievo, raro esempio di scultura del Basso Egitto per questo periodo. Un altro pezzo forte del museo”, continua il soprintendente, “è la sfinge ben conservata posta all’ingresso del museo con il cartiglio del faraone Ramses II. Tuttavia, un esame più attento, dimostra che è molto più antica, e sarebbe da collocare nelle cosiddette sfingi con criniera del periodo del faraone Amenemet III della XII dinastia”.

Ayoun Mousa, la Sorgente di Mosè, sulla strada da Suez a Sharm el-Sheikh

Ayoun Mousa, la Sorgente di Mosè, sulla strada da Suez a Sharm el-Sheikh

Infine c’è Ayoun Mousa (la Sorgente di Mosè) tra le destinazioni turistiche da aprire contestualmente all’avvio del Nuovo Canale di Suez. Ayoum Mousa si trova sulla strada che da Suez va a Sharm el-Sheikh, dietro l’omonimo villaggio beduino. Si compone di 12 sorgenti di acqua calda, un po’ dolce e un po’ amara, che formano una piccola oasi fertile. La sua acqua ha la capacità terapeutiche, particolarmente adatta ai pazienti diabetici, rafforza le ossa e contribuisce a regolare la pressione alta. Per facilitare l’arrivo dei turisti, è stato creato un centro visitatori che recupera l’episodio biblico narrato nell’Esodo, quando Mosè, seguendo le indicazioni di Dio, gettò un ramo nell’acqua salmastra, rendendola potabile; e poi un bookshop e una caffetteria.

Egitto. Dalle catacombe di Anubi, nella necropoli di Saqqara, emerge una fossa comune con 8 milioni di cani mummificati in periodo tolemaico

A Saqqara trovata una fossa comune con otto milioni di mummie di cani

A Saqqara trovata una fossa comune con otto milioni di mummie di cani

La piramide a gradoni di Zoser-Djoser a Saqqara

La piramide a gradoni di Zoser-Djoser a Saqqara

Otto milioni di cani mummificati: sacrificati agli dei. Un’immensa fossa comune risalente all’Antico Egitto trovata nelle cosiddette “catacombe di Anubi”, a pochi passi dalla piramide a gradoni di Zoser a Saqqara. è stata interamente riportata alla luce dagli archeologi a Saqqara, 30 chilometri a sud della città moderna del Cairo. Come spiega il sito ‘Discovery News’, le mummie dei cani erano ospitate in un sistema di catacombe, su un’area vasta 173 metri per 140, nei pressi del tempio di Anubi, divinità con la testa di sciacallo, che proteggeva le necropoli e il mondo dei morti. Secondo i ricercatori, i cani mummificati erano probabilmente offerti in dono ad Anubi, come segno di fedeltà o di gratitudine. Ma non è escluso che gli animali fossero oggetto di venerazione. La particolare necropoli di Saqqara, non lontana dalle piramidi di Giza, era stata scoperta nel diciannovesimo secolo, ricordata da Jacques de Morgan nel 1897, ma solo di recente si sono conclusi gli scavi che hanno permesso di riportare alla luce tutte le mummie, in gran parte custodite in contenitori di terracotta e ben conservate, con la pubblicazione dei risultati del primo studio di mappatura del sito durato sei anni e diretto da Paul Nicholson, professore di archeologia all’università di Cardiff.

La galleria dove sonos tate trovate le mummie di cani nella necropoli di Saqqara

La galleria dove sonos tate trovate le mummie di cani nella necropoli di Saqqara

La struttura, composta da almeno 49 gallerie sotterranee che si affacciano su un corridoio di raccordo di 173 metri, era stipata di resti animali che i fedeli hanno dedicato come ex voto agli dèi durante tutto il Periodo Tardo e tolemaico. La squadra di Nicholson ha esplorato ogni possibile angolo della catacomba centrale, le parti confinanti sono state ostruite dalla sabbia. Hanno trovato le mummie di sciacalli, volpi, falchi, gatti e manguste, anche se circa il 92 per cento dei resti appartenevano a cani. Saqqara, infatti, è stato un importante centro cultuale oltre che funerario e, probabilmente, esisteva un sistema di produzione su larga scala di mummie di cani, gatti, ibis, falchi, tori e, a volte, di falsi vendute ai visitatori. In particolare, il grandissimo numero di cuccioli uccisi poco dopo la nascita fa presupporre che ci fosse un allevamento apposito nelle vicinanze.

Le mummie dei cani erano, in gran parte, custodite in contenitori di terracotta e ben conservate

Le mummie dei cani erano, in gran parte, custodite in contenitori di terracotta e ben conservate

“Quella era una zona molto popolata”, ha spiegato a Live Science Paul Nicholson, responsabile dello scavo. “Una comunità permanente di persone viveva qui. I visitatori arrivando a Saqqara visitavano i templi, vedevano commercianti vendere statue di divinità in bronzo, sacerdoti che celebravano cerimonie, persone che interpretavano i sogni e perfino guide turistiche. Poco distante, c’erano allevatori di animali, cani e altri tipi, che in seguito li avrebbero mummificati in onore degli dei”. Le catacombe con i resti dei cani, furono probabilmente costruite nel IV secolo a.C., realizzati con pietre risalenti a circa 48-56 milioni di anni fa. Sul soffitto i ricercatori hanno scoperto un fossile di un grande ‘mostro’, un vertebrato lungo ed estinto. Non è chiaro però se gli antichi egizi fossero a conoscenza del fossile quando hanno realizzato la scavo.

“Lapislazzuli. Magia del blu”: per la prima volta in mostra a Firenze l’uso del “blu oltremare” nelle scienze e nelle arti dalle origini ai giorni nostri

Al museo degli Argenti in palazzo Pitti a Firenze la mostra "Lapislazzuli. Magia del blu"

Al museo degli Argenti in palazzo Pitti a Firenze la mostra “Lapislazzuli. Magia del blu”

Quando quel “magico blu” fece la sua apparizione in Europa eravamo già nel Medioevo. Venne chiamato “ultramarinum”, cioè proveniente da “al di là del mare”, da cui il nome di blu oltremare. Ma all’epoca quella pietra blu che altro non era che il lapislazzuli, in realtà era conosciuta da millenni. Ridotto in polvere ad uso di pigmento, il lapislazzuli fu utilizzato infatti fin dall’antichità e ricercato come preziosa pietra dura fino al XIX secolo. I gioielli in lapislazzuli diventano ora per la prima volta una grande mostra: “Lapislazzuli. Magia del blu”, ospitata fino all’11 ottobre al museo degli Argenti in Palazzo Pitti a Firenze: un viaggio che documenta la passione per questo prezioso materiale e il suo uso nelle scienze e nelle arti dalle origini ai nostri giorni.

Il lapislazzuli è una roccia composta da diversi minerali

Il lapislazzuli è una roccia composta da diversi minerali

“Contrariamente a quello che comunemente si pensa”, spiegano gli organizzatori, “il lapislazzuli non è un minerale ma una roccia composta da diversi minerali. Il suo colore blu è dato dal minerale che ne è dominante, la lazurite. Al mondo esistono pochi giacimenti di lapislazzuli, ma sono tutti legati tra loro da una comune geologia: il metamorfismo. Il giacimento principale, ed anche il più antico, citato da Marco Polo, si trova nelle montagne di Sar e Sang. Sono picchi che culminano a più di 7000 metri di altitudine, situati nell’Hindu Kush, nell’Afghanistan settentrionale ed accessibili solo attraverso passi situati a non meno di 5000 metri. Le lenti di lapislazzuli, spesse qualche metro, sembrano delineare dei drappeggi blu nel candore del marmo. Sono il risultato della circolazione di fluidi idrotermali profondi e ricchi di sodio, zolfo e cloro durante la formazione delle catene montuose. I sollevamenti tettonici hanno portato in seguito queste meraviglie alla superficie. Ed il lapislazzuli si estrae tuttora”.

L'utilizzo del lapislazzuli per la fabbricazione di oggetti ornamentali o di culto è molto antica

L’utilizzo del lapislazzuli per la fabbricazione di oggetti ornamentali o di culto è molto antica

Nel Rinascimento la preziosità del lapislazzuli fu particolarmente apprezzata a Firenze

Nel Rinascimento la preziosità del lapislazzuli fu particolarmente apprezzata a Firenze

L’utilizzo del lapislazzuli per la fabbricazione di oggetti ornamentali o di culto è molto antica. Il percorso della mostra inizia con reperti archeologici provenienti dagli scavi condotti nella valle dell’Indo (Mehrgarth, 7000 a.C.), in Mesopotamia (Sumer, 6000 a.C., Ur, 2500 a.C.) e in Egitto (durante la XVIII dinastia, 1500 a.C. circa). Colore iconografico della Santa Vergine, colore simbolico della dignità reale, colore emblematico dei re di Francia, colore della moda: il blu diventa, verso la fine del Medioevo, il più bello e nobile fra i colori. Importato in Europa in quantità importanti dai mercanti veneziani, il lapislazzuli veniva pagato a peso d’oro e divenne il “blu” per antonomasia, uno dei colori più ricchi e preziosi, che veniva spesso associato alla porpora e all’oro. Una sezione della mostra è dedicata proprio all’utilizzo del lapislazzuli in campo pittorico. Nel Rinascimento la preziosità del materiale fu particolarmente apprezzata a Firenze. Proprio alla corte dei Medici ebbe inizio una delle più spettacolari collezioni di oggetti in lapislazzuli d’Europa: non solo coppe, vasi e anfore, ma anche mobili intarsiati, piani di tavolo e commessi prodotti nelle botteghe fondate da Francesco I nel Casino di San Marco e nei laboratori istituiti da Ferdinando I nel complesso vasariano degli Uffizi, fino al tramonto della dinastia.

Nel Rinascimento la preziosità del lapislazzuli fu particolarmente apprezzata a Firenze

Nel Rinascimento la preziosità del lapislazzuli fu particolarmente apprezzata a Firenze

Verso la fine del XVII secolo e per tutto il XVIII, per la penuria di lazurite, ci fu una forte domanda di pigmento blu. Nel 1814 il chimico francese Tassaert, che lavorava in una fabbrica della società Saint-Gobain che produceva della calce, osservò la formazione spontanea di un pigmento blu molto simile all’oltremare: è la nascita della sintesi dell’oltremare artificiale. Lo sviluppo della chimica nel secolo dei Lumi, permise anche la scoperta di altri pigmenti sintetici. È stato solo nel XX secolo che si è ridato al lapislazzuli il suo ruolo aristocratico: nel 1956 l’artista francese Yves Klein mise a punto un particolare blu, molto profondo, utilizzando un pigmento oltremare sintetico mescolato ad una resina industriale. Questo colore, ricordo quasi perfetto di quel lapislazzuli impiegato per dipingere i manti delle Madonne del Rinascimento, diventerà celebre con il nome di International Klein Blue (Ikn). All’lkn è dedicata l’ultima sezione della mostra con opere degli artisti contemporanei che hanno utilizzato per le loro opere questi nuovi pigmenti.

A Saqqara, in Egitto, scoperte due nuove tombe della VI dinastia: appartenevano a due sacerdoti di 4mila anni fa

La tomba del sacerdote Ankhti, trovata nella necropoli di Saqqara: visse sotto il faraone Pepi II (VI dinastia)

La tomba del sacerdote Ankhti, trovata nella necropoli di Saqqara: visse sotto il faraone Pepi II (VI dinastia)

La tomba del sacerdote Sa Bi, trovata nella necropoli di Saqqara: visse sotto il faraone Pepi II (VI dinastia)

La tomba del sacerdote Sa Bi, trovata nella necropoli di Saqqara: visse sotto il faraone Pepi II (VI dinastia)

Straordinarie incisioni con le immagini delle offerte agli dei, ricche di colori ancora incredibilmente vivaci a più di 4mila anni dalla loro creazione. Ritrovate da una missione archeologica francese nel sud della importante necropoli di Saqqara, riemergono in Egitto due nuove importanti sepolture. Si tratta, annuncia il ministro delle antichità Mamdouh El Damati, di tombe appartenenti a due sacerdoti, Ankh-ti e Sa Bi, della VI dinastia del faraone Pepi II (2240- 2150 a.C.). In entrambe sono stati ritrovati scheletri dei defunti, anche se gettati in terra, cosa che denuncia il passaggio di ladri. Molto ricche risultano però le incisioni a colori, che hanno come soggetto le offerte alle divinità: carne, pollame, verdure, frutta, pane, contenitori di latte e grandi orci con l’olio.

La vasta necropoli di Saqqara dominata dalla piramide di Zoser

La vasta necropoli di Saqqara dominata dalla piramide di Zoser

Saqqara è una vasta necropoli situata in Egitto a 30 km a sud della città moderna del Cairo. Il monumento di maggior rilievo è la piramide a gradoni di Zoser, considerata la più antica tra le piramidi. La necropoli copre un’area di circa 7 × 1,5 km. Mentre Menfi fu la capitale del Regno Antico, Saqqara ne fu la necropoli reale almeno fino alla III dinastia. Sebbene sostituita dalla necropoli reale di Giza e, in seguito, da quella della Valle dei Re presso Tebe, rimase un importante località di seppellimento e culto per più di 3000 anni fino al periodo Tolemaico ed all’occupazione romana. Le più antiche sepolture di nobili risalgono alla I dinastia ma è solo con la II che compaiono sepolture reali tra cui quelle di Hotepsekhemwy e Ninetjer (i reperti di maggior interesse risalgono comunque alla III dinastia e comprendono appunto la piramide di Djoser).

Nella tomba del sacerdote Ankhti sono raffigurate scene con offerte alla divinità

Nella tomba del sacerdote Ankhti sono raffigurate scene con offerte alla divinità

Le due tombe dell’Antico regno, risalenti alla VI dinastia, scoperte nel sito di Tabbet al-Guesh (o Tabit El-Geish), all’estremità meridionale della necropoli di Saqqara, appartengono dunque a sacerdoti dell’epoca di Pepi II (2240-2150 a.C.). Il ritrovamento è stato fatto dalla spedizione archeologica dell’IFAO (Institut Français d’archéologie Orientale), diretta dall’egittologo Vassil Dobrev. In entrambe le tombe vi sono scene e liste di offerte rituali, tra cui i cosiddetti sette oli sacri usati durante la cerimonia di apertura della bocca, un rito funerario che garantiva al defunto la vita eterna.

Intensi i colori anche nelle raffigurazioni della tomba del sacerdote Sa Bi, trovata nella necropoli di Saqqara

Intensi i colori anche nelle raffigurazioni della tomba del sacerdote Sa Bi, trovata nella necropoli di Saqqara

La prima tomba appartiene a un sacerdote chiamato “Ankhti”, dove è stato trovato un pozzo funerario profondo 12 metri, mentre nella seconda tomba, di un altro sacerdote di nome “Sabi”, il pozzo era profondo 6 metri. In entrambe le camere sepolcrali i resti umani sono stati trovati sparsi, segno di saccheggio e devastazione durante la VII o l’VIII dinastia. Sono stati recuperati alcuni vasi di alabastro, oltre ad altre offerte in ceramica. Secondo Dobrev, direttore della missione, la parte superiore delle tombe era stata costruita con mattoni di fango, mentre le camere sepolcrali erano state tagliate nel sostrato roccioso. L’egittologo, grande conoscitore della zona, scava da anni a Tabbet al-Guesh, alla ricerca della piramide perduta del misterioso faraone Userkare.

Restaurata l’ala est del museo Egizio del Cairo che inizia a tornare agli splendori del primo Novecento. Ma alla fine perderà il tesoro di Tut e le mummie

L'ala est della galleria di Tutankhamon al museo Egizio del Cairo dopo i restauri

L’ala est della galleria di Tutankhamon al museo Egizio del Cairo dopo i restauri

Il museo Egizio del Cairo torna lentamente agli antichi splendori del primo Novecento. Questo l’obiettivo dichiarato del progetto “Egyptian Museum Revival”, partito nel 2012 con un cospicuo contributo dell’Unione Europea e, in particolare, del governo tedesco, per il restauro e il ripristino dell’allestimento del 1902. Per il momento le collezioni rimangono al loro posto, e si interviene sulla struttura. Di qui l’eliminazione degli strati di pittura più recenti delle pareti scoprendo quello bianco e rosso originale, e il tappeto di linoleum che ricopriva il pavimento. Lo ha spiegato bene qualche giorno fa il primo ministro Ibrahim Mahlab e il ministro delle Antichità Mamduh Eldamaty, in occasione della cerimonia di inaugurazione di quattro sale (30, 35, 40 e 45) dell’ala est della Galleria di Tutankhamon, rinnovata grazie al contributo dell’Ue e della Germania. “Nulla è cambiato nell’esposizione permanente dei tesori della galleria”, spiega il ministro. “Il restauro ha riguardato il pavimento e le pareti che, deteriorati dal tempo, sono tornati al verde chiaro e al rosso scuro dell’inizio del secolo scorso”. Il rinnovamento del museo comprende anche la sostituzione dei vecchi vetri delle finestre con alcuni capaci di filtrare la luce del sole, l’allestimento di nuovi sistemi antincendio, di sicurezza e di controllo dell’umidità e la demolizione dell’adiacente palazzo del Partito nazionale Democratico, che garantirà nuovi spazi espositivi.

La monumentale facciata del museo Egizio del Cairo inaugurato nel 1902

La monumentale facciata del museo Egizio del Cairo inaugurato nel 1902

Ma c’è anche un contributo italiano, quello di Italcementi, che con una donazione di 40mila euro ha consentito il rinnovo della sala n.30. Italcementi, il primo produttore di cemento in Egitto, “fornì il materiale per la costruzione del Museo” tra il 1898 e il 1902. “E ora abbiamo voluto contribuire al restauro di questo luogo simbolico, un’icona del Cairo e di tutto il Paese, anche per il legame storico che abbiamo con il museo», sottolinea l’ad di SuezCementi, Bruno Carré. “I lavori sono cominciati un anno fa, questo è il primo passo. L’idea è di rinnovare un’ala all’anno»”, aggiunge.

Il cantiere del Grand Egyptian Museum a Giza: i lavori vanno a rilento

Il cantiere del Grand Egyptian Museum a Giza: i lavori vanno a rilento

L’Egitto punta molto al restauro delle sue bellezze archeologiche, culturali e turistiche nel tentativo di attirare sempre più visitatori, dopo lo stop degli ultimi anni dovuto all’instabilità della situazione politica. “La presenza costante di turisti nel museo”, commenta il premier alle tv egiziane, “dimostra che il Paese ora è sicuro”. Il completamento del progetto “Egyptian Museum Revival”, previsto per l’agosto 2015, segnerà un passaggio epocale per il museo Egizio del Cairo che perderà la sua attuale funzione di museo nazionale, per tornare all’allestimento originario precedente la scoperta della tomba di Tutankhamon e dei suoi tesori: migliaia di reperti, compreso il tesoro di Tutankhamon, verranno trasferite al Grand Egyptian Museum di Giza (quando e se riusciranno ad aprirlo), mentre le mummie reali di Nuovo Regno passeranno già quest’anno al museo nazionale della Civiltà egiziana.

A Pilastri di Bondeno, nella campagna ferrarese, si scava una terramara di 3500 anni fa. Ricerche in diretta su Internet e in contemporanea mostra al museo Archeologico di Ferrara. L’ambra e il mito di Fetonte, Eridano e le Eliadi

Il fondo Verri di Pilastri di Bondeno dove si sta scavando una terramara del Bronzo medio e recente

Il fondo Verri di Pilastri di Bondeno dove si sta scavando una terramara del Bronzo medio e recente

Tre anni per dare un volto e una forma alla vita dei nostri antenati che più di tremila anni fa popolavano il Basso Polesine a un passo dal grande fiume in quello che oggi è la campagna ferrarese. È l’impegno assunto dalla soprintendenza ai Beni archeologici dell’Emilia Romagna che ha firmato quest’estate una convenzione con Comune di Bondeno, associazioni locali e una équipe interdisciplinare di archeologi delle Università di Padova e di Ferrara, per l’indagine archeologica del fondo Verri di Pilastri di Bondeno, uno dei più antichi siti noti della provincia di Ferrara, e che nella prima campagna di scavo in corso ha già restituito – tra l’altro – frammenti di ambra che portano immediatamente ai miti di Fetonte, di Eridano e delle sorelle Eliadi, leggende legate indissolubilmente con la pianura Padana e il fiume Po.

Il logo del progetto di ricerca archeologica "Terramara di Pilastri" a Bondeno, nel Ferrarese

Il logo del progetto di ricerca archeologica “Terramara di Pilastri” a Bondeno, nel Ferrarese

A Pilastri ci sono infatti i resti di un insediamento dell’Età del Bronzo medio e recente (3600-3200 anni fa), con caratteristiche affini ai villaggi della “civiltà delle Terramare” documentati nella pianura Padana centro-occidentale. Non è un caso che il progetto scientifico lanciato da questa importante quanto poco percorsa collaborazione tra enti pubblici, università, soprintendenza, associazioni, sponsor privati, e il coinvolgimento diretto della cittadinanza-pubblico perché si “appropri” di un bene identitario della comunità, sia lo studio, la conservazione-salvaguardia e la valorizzazione della “Terramara di Pilastri”, già interessata lo scorso anno e nel 1989 da una serie di indagini che ne hanno messo in luce la natura e l’interesse archeologico.

La ricostruzione di una terramara dell'età del Bronzo in pianura Padana

La ricostruzione di una terramara dell’età del Bronzo in pianura Padana

Le Terramare (il termine deriva da terra marna che in dialetto emiliano significa “terra grassa” con riferimento alla terra, generalmente di colore scuro, tipica dei depositi archeologici pluristratificati) erano antichi villaggi dell’età del bronzo media e recente (1650-1150 a.C.) dell’Emilia e delle zone di bassa pianura Padana. Espressione dell’attività commerciale dell’età del Bronzo, sono insediamenti lungo una via che attraversava le Alpi nella Val Camonica e giungeva alle sponde del Po, dove venivano costruite le terramare che fungevano da depositi e punti di partenza delle merci costituite da ambra del mar Baltico e stagno dai monti Metalliferi, con direzione lungo il Po fino alla foce e all’Adriatico, verso il mar Mediterraneo orientale, l’Egeo, Creta, l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto.

Bambini della scuola primaria di Pilastri in visita al cantiere di scavo

Bambini della scuola primaria di Pilastri in visita allo scavo

“L’indagine”, spiegano i promotori, “inserita nel più ampio progetto denominato “Memoria & Terremoto” perché nato direttamente dall’esperienza post-sisma, ha tuttavia un importante obiettivo sociale oltre che scientifico, già messo in pratica nelle indagini preliminari del 2013, quello di condividere il più possibile l’esperienza di scavo col pubblico, in modo da far sì che il passato rimesso in luce dall’archeologia sia percepito come una realtà attuale e condivisa; come parte integrante di una identità sempre di più collettiva e, al tempo stesso, come nuova potenziale risorsa e prospettiva di sviluppo attraverso la riscoperta delle radici e delle peculiarità del territorio”.

Allo scavo archeologico partecipano ricercatori e studenti delle università di Padova e di Ferrara, e membri dei Gruppi Archeologici di Bondeno e di Ferrara

Allo scavo archeologico partecipano ricercatori e studenti delle università di Padova e di Ferrara, e membri dei Gruppi Archeologici di Bondeno e di Ferrara

Dal 15 settembre e fino al 31 ottobre la Terramara di Pilastri è oggetto della prima campagna di scavo, diretta dalla soprintendenza in collaborazione con la ditta Petra di Padova, cui partecipa un nutrito gruppo di ricercatori e studenti provenienti dalle università di Padova e di Ferrara, con il supporto di alcuni membri dei Gruppi Archeologici di Bondeno e di Ferrara. “L’indagine”, sottolineano in soprintendenza, “si avvale di tecniche d’avanguardia volte non soltanto a raccogliere ulteriori informazioni sulla struttura e l’organizzazione dell’insediamento ma, soprattutto, a indagare e ricostruire le modalità di vita della popolazione e l’ambiente che caratterizzava l’epoca della terramara, riservando particolare attenzione agli aspetti bio-archeologici, al fine di ricomporre nel dettaglio l’alimentazione e le forme di sussistenza dei nostri antenati”. Il progetto, ricorda il sindaco di Bondeno, Alan Fabbri, presente all’avvio delle ricerche, è stato possibile “grazie alla disponibilità dei proprietari e conduttori del terreno – in primis Giuseppe Papi – e al cospicuo contributo messo a disposizione dal comune di Bondeno e da ulteriori sponsor individuati sul territorio cui, si spera, altri se ne vorranno aggiungere nel prosieguo dell’iniziativa”.

Lo scavo archeologico è attento a ogni dettaglio che il terreno restituisce per capire meglio i nostri antenati

Lo scavo archeologico è attento a ogni dettaglio che il terreno restituisce per capire meglio i nostri antenati

Una ricostruzione della vita quotidiana in una terramara di 3500 anni fa

Una ricostruzione della vita quotidiana in una terramara di 3500 anni fa

“Tra gli obiettivi principali dell’indagine”, interviene il direttore dello scavo, Valentino Nizzo della soprintendenza ai Beni archeologici dell’’Emilia Romagna (SBAER), “non vi è solo quello di raccogliere ulteriori informazioni sulla struttura e l’organizzazione dell’insediamento ma, soprattutto, di indagare e ricostruire le modalità di vita della popolazione e l’ambiente che caratterizzava l’epoca della terramara, vale a dire fra i 3600 e i 3200 anni fa”. Non è un caso che l’équipe scientifica mette in campo le più aggiornate tecniche d’indagine bioarcheologica al fine di ricomporre nel dettaglio l’alimentazione e le forme di sussistenza dei nostri antenati. E poi, come già accennato, c’è l’idea, già sperimentata nelle prospezioni del 2013, di condividere il più possibile l’esperienza di scavo col pubblico, in modo da far sì che il passato rimesso in luce dall’archeologia sia percepito come una realtà condivisa, come parte integrante di una identità sempre di più collettiva e, al tempo stesso, come nuova potenziale risorsa e prospettiva di sviluppo attraverso la riscoperta delle radici e delle peculiarità del territorio. “Abbiamo creato un apposito network”, spiegano gli archeologi, “una finestra sul progetto accessibile da tutti gli interessati attraverso il portale terramarapilastri.com, un modo per coinvolgere virtualmente il pubblico non solo locale e invogliare chi vorrà a visitare gratuitamente lo scavo e a partecipare a tutte le iniziative che, fino al 31 ottobre, impegneranno sul sito archeologi e volontari”.

Giù in questa prima campagna di scavo ufficiale sono molti i reperti restituiti dalla terramara di Pilastri

Giù in questa prima campagna di scavo ufficiale sono molti i reperti restituiti dalla terramara di Pilastri

Il manifesto della mostra "Archeologia a Pilastri: ieri e oggi" aperta a Ferrara

Il manifesto della mostra “Archeologia a Pilastri: ieri e oggi” aperta a Ferrara

Ma col 31 ottobre sulla terramara di Pilastri non cala il silenzio, anzi. Un paio di settimane dopo l’avvio della campagna di cavo 2014, e precisamente il 4 ottobre, nella Sala delle Carte Geografiche del museo Archeologico nazionale di Ferrara, alla presenza del sindaco Alan Fabbri e dell’archeologo Valentino Nizzo, responsabile degli scavi, è stata inaugurata la mostra fotografica e archeologica “Archeologia a Pilastri Ieri e Oggi. Con le mani nella terra”, un racconto attraverso foto e reperti archeologici inediti che illustra i vari momenti dello scavo della terramara di Pilastri, dagli esordi nel 1989 fino alla recente ripresa delle indagini del 2013, culminata con la sottoscrizione della convenzione triennale tra Comune e soprintendenza. La mostra, promossa dal Comune di Bondeno e dalla soprintendenza per i Beni archeologici dell’Emilia Romagna, con la collaborazione dei Gruppi Archeologici di Bondeno e di Ferrara e dell’associazione Bondeno Cultura, è stata organizzata e allestita sotto la direzione scientifica di Valentino Nizzo (SBAER), con il contributo e la collaborazione di Giulio Pola, Stefano Tassi (foto e allestimento), Giulia Osti, Margherita Pirani e Lara Dal Fiume (curatela, comunicazione e allestimento). Restauri: Valentina Guerzoni.

La terramara di Pilastri ha restituito frammenti di ambra che rimanda al mito padano di Fetonte, Eridano e le Eliadi

La terramara di Pilastri ha restituito ambra che rimanda al mito padano di Fetonte, Eridano e le Eliadi

Fino al 30 novembre reperti e fotografie racconteranno, in un percorso organico, in cosa consiste il lavoro dell’archeologo e non solo, descrivendo visivamente tutte le attività che a esso sono e devono essere correlate: dalla ricognizione allo scavo passando per la comunicazione e la didattica. Le fotografie sono state realizzate nel corso della campagna del 2013 da Stefano Tassi e Giulio Pola, tra i protagonisti dell’iniziativa sin dal suo avvio, insieme ai volontari dei Gruppi Archeologici di Bondeno e di Ferrara che hanno contribuito alla realizzazione delle ricerche e, soprattutto, alle iniziative didattiche ad esse correlate, nelle quali sono stati finora coinvolti giovani alunni delle scuole elementari e medie del territorio di Bondeno e di quelli limitrofi. Il tutto – come si diceva – mentre a Pilastri, dal 15 settembre, sono riprese le attività didattiche e quelle di scavo. Con tempismo privo quasi di confronti, una parte dei rinvenimenti più significativi effettuati nel villaggio terramaricolo è stata esposta in mostra, pochi giorni dopo essere riemerso da quasi 3500 anni di oblio. Tra di essi spiccano alcuni frammenti di ambra, di probabile provenienza baltica, che riportano d’attualità le antiche leggende relative a Fetonte, all’Eridano (antico nome del Po) e alle lacrime delle Eliadi, sue sorelle. Gli antichi localizzavano proprio lungo il Po le leggende sull’origine dell’ambra, che non sarebbe altro che le lacrime pietrificate delle sorelle di Fetonte, le Eliadi (che a loro volta erano state trasformate in pioppi), che piangevano lo sfortunato figlio del Sole, folgorato da Zeus per impedirne la corsa omicida col carro solare del padre. “L’obiettivo – conclude il sindaco di Bondeno – è di estendere a un pubblico il più ampio possibile la conoscenza di uno dei siti storici e archeologici più importanti della provincia, incoraggiando quanti non lo hanno già fatto a visitarlo mentre gli scavi e le attività che lo accompagnano sono ancora in corso”.

 

25. Rassegna del Cinema Archeologico: alla quarta giornata protagonista l’Antico Egitto con Cleopatra, i faraoni e le rovine di Umm el-Dabadib nell’oasi di Kharga

I fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni, oggi a Rovereto, in una loro missione nel deserto nubiano

I fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni, oggi a Rovereto, in una loro missione nel deserto nubiano

L’Antico Egitto protagonista della quarta giornata della 25. Rassegna internazionale del Cinema archeologico di Rovereto (7-11 ottobre). Sfiorato dalle proiezioni in programma nelle sedi “distaccate” di Mart, Muse e Museo Civico, l’Antico Egitto è presente in maniera marcata venerdì 10 ottobre. Da segnalare il documentario di Alfredo e Angelo Castiglioni Il viaggio alla miniera di smeraldi di Cleopatra e lo statunitense Building Pharaoh’s Chariot, ovvero la Costruzione del carro dei Faraoni. Alle 17.45 al Melotti il consueto appuntamento con le conversazioni della Rassegna: ospite d’eccezione del confronto è in questo caso Corinna Rossi, direttrice della missione archeologica di Umm el-Dabadib.

Le rovine di Umm el-Dabadib nell'oasi di Kharga in Egitto

Le rovine di Umm el-Dabadib nell’oasi di Kharga in Egitto

Le rovine di Umm el-Dabadib sono tra le meglio conservate dell’Oasi di Kharga. Sorgono in una regione remota, sono isolate ai piedi del Gebel, lontane da itinerari battuti in un luogo di sorprendente bellezza tra montagne e dune dorate. Le difficoltà di accesso, le temperature estreme che in estate possono anche superare i 50 gradi, e le frequenti tempeste di sabbia hanno finora scoraggiato gli archeologi a intraprendere scavi regolari, limitandosi a ricognizioni di superficie. L’insediamento romano risale al III-V secolo, anche se il posto era certamente già stato abitato in precedenza, e i resti archeologici ricoprono una superficie di vaste proporzioni (circa 150 kmq). L’agglomerato più importante è costituito da un forte in mattoni crudi con due torri agli angoli del lato sud, dov’è l’ingresso, edificato all’interno di un insediamento fortificato. Ed è proprio questo forte ad essere presentato grazie a una ricostruzione tridimensionale in anteprime alla Rassegna.

La delegazione egiziana a Rovereto con Maurizio Zulian (primo a destra) accanto a Moustafa Amin, segretario generale del Supremo consiglio delle Antichità dell'Egitto

La delegazione egiziana a Rovereto con Maurizio Zulian (primo a destra) accanto a Moustafa Amin, segretario generale del Supremo consiglio delle Antichità dell’Egitto

Negli anni la Fondazione Museo Civico, attraverso Maurizio Zulian, collaboratore del Museo civico di Rovereto e autore dell’archivio fotografico con i tesori egizi inediti o chiusi al pubblico, che si trovano nel Medio Egitto, ha saputo stringere relazioni importanti con il mondo egizio. Il rapporto con la Repubblica Araba d’Egitto risale a molti anni fa. Nel febbraio 2004 fu formalizzato con la firma di un protocollo, grazie al quale il Museo Civico di Rovereto era autorizzato ad allestire, all’interno della propria banca dati, una fototeca con immagini di assoluta novità. Dopo le vicende che hanno interessato il mondo arabo portando alla destituzione della vecchia classe politica, l’istituzione trentina è riuscita a riavviare la collaborazione con la nuova dirigenza. L’anno scorso una delegazione egiziana guidata dal nuovo segretario generale del Supremo consiglio delle antichità della Repubblica araba d’Egitto, Mostafa Amin Mostafa Sayed, è stata ospite della Rassegna (vedi i post del 20, 23 e 26 novembre 2013 su archeologiavocidalpassato) e con il museo Civico ha affrontato la stesura di un nuovo protocollo che oggi è quasi completato e verrà firmato prossimamente da entrambe le parti.

I monumenti dell’antica Alessandria in Egitto rivivono in 3D grazie al progetto CBCMed

Tanto pubblico alla proiezione in 3D dei monumenti antichi di Alessandria d'Egitto su una parete della Biblioteca

Tanto pubblico alla proiezione in 3D dei monumenti antichi di Alessandria d’Egitto su una parete della Grande Biblioteca

Una ricostruzione del Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo antico

Una ricostruzione del Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo antico

Il serapeo e il teatro romano, come il faro o la colonna di Pompeo si materializzano come d’incanto su una parete della nuova Biblioteca di Alessandria in un gioco di luci, colori e musica. Il visitatore-spettatore-turista che in quel momento si trova a passeggiare sul moderno lungomare della prima delle città omonime fondata da Alessandro Magno si trova coinvolto e rapito dallo spettacolo in una full immersion virtuale che lo porta a visitare o, meglio, a essere letteralmente entro il monumento proiettato in 3D. È l’effetto straordinario del progetto  International Augmented Med (IAM), finanziato dal programma europeo di cooperazione transfrontaliera nel Mediterraneo (CBCMed), per promuovere lo sviluppo del turismo e dei siti archeologici. Grazie a uno spettacolo in 3D proiettato su una delle facciate della struttura che ospita la Biblioteca alessandrina, centinaia di curiosi, turisti e non solo hanno potuto ripercorrere nei giorni scorsi la storia della città, dalla sua fondazione fino alla fine del periodo classico, ammirandola in una luce nuova, più moderna e tecnologica, senza però dimenticarne la dimensione storica.

Una veduta aerea della moderna monumentale Biblioteca di Alessandria d'Egitto

Una veduta aerea della moderna monumentale Biblioteca di Alessandria d’Egitto

Il tema della proiezione della durata di quindici minuti, che combina effetti sonori e di luci tramite elementi virtuali, è quello della storia di Alessandria, dalla sua fondazione fino alla fine del periodo classico, con un focus speciale sui principali siti turistici della città e sulle principali tappe storiche. Ogni spettatore sarà in grado di vedere l’anfiteatro romano come se fosse al suo interno, migliaia di anni fa, o scoprire i segreti del grande faro, una delle sette meraviglie del mondo antico.

Una sfinge a "guardia" della cosiddetta colonna di Pompeo ad Alessandria d'Egitto

Una sfinge a “guardia” della cosiddetta colonna di Pompeo ad Alessandria d’Egitto

“Si tratta di un progetto molto importante per Alessandria, una città ricca di storia, punto di incontro tra le due sponde del Mediterraneo”, ha affermato Yasser G. Aref, ricercatore. “La comunicazione è molto importante in questo progetto, ma non va dimenticato anche l’aspetto tecnico. Obiettivo di questa iniziativa è di incentivare il turismo. Si tratta di un progetto pilota e credo sia stato molto interessante, sia per i locali sia per i turisti”, ha aggiunto Mohamed Hafez, che si è occupato della parte amministrativa.

Una suggestiva immagine del quartiere monumentale della biblioteca di Alessandria in notturna

Una suggestiva immagine del quartiere monumentale della biblioteca di Alessandria in notturna

L’evento è stato inserito nel calendario dell’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite. Il progetto IAM, riferisce il sito web di Enpi (www.enpi-info.eu), si concentra sull’applicazione di tecnologie multimediali innovative nella gestione del patrimonio culturale e naturale. I visitatori dei siti pilota del progetto avranno la possibilità di riscoprire varie aree e monumenti, come la chiesa greco-ortodossa di El Khadr a Taybeh (Territori palestinesi) e il museo archeologico di Dar-es-Saraya in Giordania, attraverso le potenzialità di ricostruzione offerte dal 3D, con installazioni o illuminazioni interattive. IAM è coordinato dal comune di Alghero in Italia e riunisce 13 partner da sette Paesi dell’area euro-mediterranea. Sul sito http://www.iam-project.eu è possibile documentarsi anche in vista dei prossimi progetti: i due festival mirati a fare vedere le applicazioni di tecnologie multimediali per la valorizzazione del patrimonio: a Taybeh in Cisgiordania (21-22 settembre) e a Girona in Spagna (1-3 ottobre).

 

“Distruzione e recupero”. Il Cairo mette in mostra 200 tesori rubati dai musei dell’Egitto e recuperati nel mondo: tra questi una statua d’oro di Tutankhamon sottratta nel saccheggio del museo Egizio il 28 gennaio 2011

Vetrine rotte: il museo Egizio del Cairo ha subito un saccheggio il 28 gennaio 2011

Vetrine rotte: il museo Egizio del Cairo ha subito un saccheggio il 28 gennaio 2011

I soldati presidiano il museo Egizio del Cairo dopo il saccheggio subito nei giorni più difficili della rivoluzione

I soldati presidiano il museo del Cairo dopo il saccheggio subito nei giorni più difficili della rivoluzione

La statua in legno dorato di Tutankhamon bambino trasportato sulla testa dalla dea Menkaret

La statua in legno dorato di Tutankhamon bambino trasportato sulla testa dalla dea Menkaret

Vergogna, sbigottimento, smarrimento, disperazione, incredulità, angoscia: furono molti i sentimenti che provò il mondo intero vedendo le immagini del saccheggio del museo Egizio del Cairo trasmesse dai notiziari di ogni continente. Dappertutto vetrine sventrate, frammenti di vetri, segni del passaggio dei vandali, statue abbattute e finite in mille pezzi. Uno spettacolo che nessuno avrebbe mai voluto vedere. “Quel giorno, il 28 gennaio 2011”, raccontano le cronache, “la folla di piazza Tahrir era furibonda, incontrollabile. Da 18 giorni si succedevano dimostrazioni oceaniche e sanguinose; ma il regime di Hosni Mubarak sembrava deciso a resistere. Durante uno degli scontri, una colonna di manifestanti riuscì a scacciare i reparti di polizia che proteggevano la sede del partito di governo, e a darle fuoco. Ebbra di vittoria, la gente si riversò verso l’edificio adiacente: il museo Egizio, lo scrigno che custodisce il patrimonio più prezioso del Paese. Prima di rendersi conto di quel che faceva, di recuperare lucidità, la moltitudine aveva sfasciato 13 vetrine, distruggendo non meno di settanta reperti insostituibili”. A inventario completato, il direttore del museo, Tareq al-Awadi, avrebbe contato 54 opere scomparse. Tra queste due splendide statue di legno dorato di Tutankhamen: Tut mentre pesca con un arpione da una barca, e Tut da bambino trasportato sulla testa dalla dea Menkaret. E poi uno scriba, la regina Nefertiti, una principessa, tutti provenienti da tell el-Amarna, il grande sito archeologico nell’Egitto centrale dove Akhenaton fondò la sua nuova capitale. Dal corredo funebre di Yuya, un potente cortigiano di tremila anni fa, erano spariti uno scarabeo funerario, l’amuleto che veniva posto sul petto delle mummie per scongiurare l’asportazione del cuore, e undici “ushabti”, le statuine incaricate di sostituire il defunto nei lavori manuali richiesti nell’aldilà.

Una mummia danneggiata nel saccheggio del museo egizio  del Cairo nel 2011

Una mummia danneggiata nel saccheggio del museo egizio del Cairo nel 2011

Il Tutankhamon d'oro recuperato dopo il saccheggio del 2011 e ora in mostra al museo del Cairo

Il Tutankhamon d’oro recuperato dopo il saccheggio del 2011 e ora in mostra al museo del Cairo

Sono passati tre anni da quel tragico giorno, per fortuna non invano. E mentre i laboratori del museo facevano il possibile per riparare i danni del saccheggio del 28 gennaio 2011, le autorità egiziane hanno avviato una rete di contatti per fermare l’emorragia di preziosi reperti dall’Egitto, sempre più richiesti dal mercato antiquario illegale. E oggi il Cairo può mostrare con orgoglio i suoi tesori rubati e recuperati nella mostra “Distruzione e recupero” aperta per tre mesi al museo Egizio del Cairo, poi ogni tesoro tornerà nel proprio museo di appartenenza: 200 reperti archeologici rubati negli ultimi tre anni in Egitto e recuperati negli ultimi mesi, tra i quali una statuetta d’oro di Tutankhamon. Il ministro egiziano delle Antichità Mohamed Ibrahim, nel presentare la mostra, ha elogiato il lavoro delle forze dell’ordine e gli ambasciatori di Germania, Regno Unito, Spagna, Australia, Cina e Nuova Zelanda per il loro aiuto nel riuscire a far tornare in Egitto i tesori rubati. “Non tutto il bottino, per fortuna, è andato perduto per sempre”, ha ricordato il ministro. “Qualche ora dopo il saccheggio, in una stazione della metropolitana fu trovata una borsa contenente la statua di Tutankhamon a pesca e altri due pezzi sottratti al museo. Menkaret era in un bidone dei rifiuti, ma senza il faraone bambino. Altre opere furono rinvenute o confiscate nei mesi successivi: 140 oggetti dei 200 in esposizione alla mostra sono stati recuperati da diversi Paesi, mentre gli altri 60 sono stati sequestrati dalla polizia del Turismo e delle Antichità, prima che fossero venduti ai ricettatori”. Notevole il lavoro dei restauratori per ricomporre i tesori rubati. Pochi sono infatti i pezzi recuperati integralmente. Fra questi, il Tutankhamon con l’arpione e altre due statue del grande faraone, e la mummia di un bambino, Amenhotep: i saccheggiatori le avevano tagliato la testa, che è stata riattaccata usando le tecniche originarie. Ma una statua d’avorio del faraone Tuthmosi III è ancora parzialmente mutilata.

Tra gli oggetti salvati e ora in mostra ci sono quaranta statuine di arcieri nubiani

Tra gli oggetti salvati e ora in mostra ci sono quaranta statuine di arcieri nubiani

Purtroppo non tutti i tesori spariti sono stati recuperati: mancano all'appello ancora undici "ushabti"

Purtroppo non tutti i tesori spariti sono stati recuperati: mancano all’appello ancora undici “ushabti”

Il lotto più recente è arrivato poche settimane fa, ha aggiunto il ministro Ibrahim, e comprende dieci oggetti che sono stati rubati dal museo Egizio il 28 gennaio del 2011. Ali Ahmed, capo del dipartimento che si occupa del recupero di oggetti rubati del ministero delle Antichità, ha riferito che i dieci elementi sono gli oggetti più significativi della mostra e tra questi c’è proprio la statuetta d’oro di Tutankhamon. Tra gli altri tesori, anche una statua raffigurante la figlia di Akhenaton e 40 gioielli d’oro trafugati dal museo del Malawi a Minya. Fra gli altri oggetti salvati ci sono quaranta statuine di arcieri nubiani, un vaso di vetro policromo, una piccola statua raffigurante uno scriba, una della dea-gatta Bastet, una del faraone Akhenaton, una del dio-toro Apis. Molti pezzi importanti, tuttavia, sono ancora dispersi: come gli “ushabti”, una cintura di lapislazzuli appartenuta alla principessa Miretteamun, un Apis di bronzo. Con ogni probabiilità queste opera sono già all’estero. Le autorità del Cairo hanno fatto bloccare a Gerusalemme un’asta di 126 antichità egiziane, e al governo britannico è stato chiesto di sospendere la vendita di 800 oggetti presenti su Ebay, per consentire esami e ricerche sulla provenienza. Infine una legge che sta per essere approvata in Germania dovrebbe consentire la confisca e il rimpatrio di diversi pezzi presenti nelle case d’asta tedesche.