Firenze. Al via il ciclo “Incontri al Museo” archeologico nazionale: otto appuntamenti in sei mesi. Si inizia con un approfondimento di Luigi Donati sul simposio etrusco e greco

L’invito per l’incontro al Maf con Luigi Donati dell’Accademia Etrusca di Cortona sul simposio tra gli etruschi e i greci
Otto incontri distribuiti in sei mesi, da gennaio a giugno 2020: il nuovo ciclo di “Incontri al Museo”, proposto dal museo Archeologico nazionale di Firenze, che attraverserà un’intera stagione e si concluderà a giugno 2020. Anche quest’anno studiosi e appassionati di archeologia e storia dell’arte condivideranno con il pubblico la comune passione per le antiche civiltà nelle conferenze in programma, come di consueto il giovedì alle 17, al piano terra del museo Archeologico di Firenze, nel mediceo Palazzo della Crocetta. Tutti gli incontri sono a ingresso libero fino a esaurimento posti. Per informazioni: tel. 055.2357717, 2357744, 2357768, 2357704. Si inizia giovedì 16 gennaio 2020, alle 17, con la conferenza “Nunc est bibendum! Simposi etruschi e greci: analogie e differenze nell’uso del vino” di Luigi Donati dell’Accademia Etrusca di Cortona. Gli altri appuntamenti in calendario: giovedì 13 febbraio 2020, Stefania Berutti (archeologa) su “Un “addio al nubilato” su una hydria del Museo Archeologico di Firenze”; giovedì 12 marzo 2020, Anna Revedin (Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria) su “Legno, farina… tracce inaspettate del più antico popolamento della Toscana”; Giovedì 2 aprile 2020, Paolo Persano (Scuola Normale Superiore, Pisa) su “Antiope perde la testa! Nuove ricerche sulle sculture frontonali del tempio di Apollo Daphnephoros a Eretria”; Giovedì 30 aprile 2020, Graziella Becatti (Université Catholique de Louvain, Belgio) su “Hypnos-Somnus: il dio del sonno, un demone custode”; Giovedì 14 maggio 2020, Alessandro Diana (Scuola Normale Superiore, Pisa) su “Atene e Firenze fra Medioevo e Rinascimento: il ducato degli Acciaiuoli”; giovedì 28 maggio 2020, Anna Maria D’Onofrio (Università “L’Orientale”, Napoli) su “I kouroi e i canoni della perfezione maschile nella Grecia arcaica”. Il ciclo chiude giovedì 4 giugno 2020 con Vincenzo Baldoni (Università di Bologna) su “Nuove scoperte a Numana e nel Piceno preromano”.
La 29.ma rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto chiude in un crescendo rossiniano. Assegnato al film francese “L’enigma della tomba celtica” il premio “Città di Rovereto” e attribuite tre menzioni speciali

L’eccezionale sepoltura di Lavau protagonista del film “L’Enigme De La Tombe Celte / L’enigma della tomba celtica” di Edmée Millot vincitore del premio “Città di Rovereto” 2018
Con il film “L’Enigme De La Tombe Celte / L’enigma della tomba celtica” la Francia si aggiudica il premio “Città di Rovereto” della 29.ma rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto (2-6 ottobre 2018), assegnato dal pubblico alla fine di cinque giorni di proiezioni, che si sono susseguite nella splendida cornice del teatro Zandonai in un vero e proprio “crescendo rossiniano” come quello proposto al pubblico in chiusura della serata delle premiazioni dal Milano Saxophone Quartet (Stefano Papa, sax soprano; Massimiliano Girardi, sax tenore; Damiano Grandesso, sax contralto; Livia Ferrara, sax baritono) dopo il concerto in cartellone “La sinfonia della Storia. Musica e immagini archeologiche”, con immagini su Roma e Pompei tratte da film conservati nell’archivio della Fondazione Museo Civico che per l’evento ha contato sulla collaborazione del Musica Riva Festival, e del sostegno della fondazione Caritro. Dopo i saluti della direttrice Alessandra Cattoi e del presidente della Fondazione, Giovanni Laezza, si è proceduto all’assegnazione del premio “Città di Rovereto” e alle tre mezioni attribuite da altrettanti giurie specializzate.

Un gioiello dalla sepoltura di Lavau: frame del film “L’Enigme De La Tombe Celte / L’enigma della tomba celtica” di Edmée Millot
Il premio “Città di Rovereto” attribuito dal pubblico al più gradito sui 35 documentari in concorso nelle cinque giornate di proiezioni è andato – come detto – al film “L’Enigme De La Tombe Celte / L’enigma della tomba celtica” di Edmée Millot (Francia, 2017; 88’). La scoperta, nel 2014, di una tomba celtica del V secolo in Francia, a Lavau, rivela un periodo poco documentato della storia dei Celti europei, il periodo di Hallstatt, che durò circa un secolo e scomparve lasciando poche tracce. In quel tempo i Celti commerciavano con il resto d’Europa, costruendo città e porti, senza scrittura e senza l’uso della moneta.

Andreas Steiner, direttore di Archeo, con le consulenti scientifiche del film “La fragilità del segno” Anna Revedin e Silvia Florindi (foto Graziano Tavan)
Menzione speciale della rivista Archeo. La prima menzione è stata attribuita dalla redazione di Archeo, che da quest’anno collabora con la manifestazione roveretana. Sono stati valutati i 15 film in concorso che avevano per tema la valorizzazione e la conservazione del patrimonio italiano. Andreas M. Steiner , direttore di Archeo, ha consegnato il premio al film “La fragilità del segno” di Vincenzo Capalbo e Marilena Bertozzi, prodotto dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (Italia, 2017; 22’), con la seguente motivazione: menzione Archeo a “La fragilità del segno” per la sua sapiente capacità di unire, seguendo un filo rosso coerente e dinamico, fotografie, filmati e suoni d’epoca a ricostruzioni digitali, facendo “rivivere”, nel miglior modo possibile, quel meraviglioso mondo perduto rappresentato dall’arte rupestre sahariana (già definito dal segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan “patrimonio dell’umanità”) quale è emerso dalle straordinarie e avventurose ricerche condotte nella prima metà del Novecento dallo studioso italiano Paolo Graziosi.

Antonia Falcone legge la motivazione della menzione al film “Katman” con i consulenti scientifici Gül Pulhan e Stuart Blaylock (foto Graziano Tavan)
Menzione speciale Archeoblogger. La seconda menzione è stata attribuita da un gruppo dei più noti archeoblogger italiani: Antonia Falcone, Mattia Mancini, Paola Romi, Domenica Pate, Marta Coccoluto, Alessandro Tagliapietra, Astrid D’eredità, Giovanna Baldassarre, Michele Stefanile, Marina Lo Blundo. I 10 blogger hanno visionato online i 14 documentari che hanno come tema il patrimonio europeo. La menzione speciale è stata attribuita parimerito ai film “Le fils de Neandertal / Il figlio del Neandertal” di Jacques Mitsch (Francia, 2017; 52’) e “Katman / Lo strato” di Melek Ulagay Taylan (Turchia, 2017; 65’), con la consulenza scientifica di Gül Pulhan e Stuart Blaylock, che, presenti a Rovereto, hanno presenziato sul palco. Le motivazione degli archeoblogger sono state rispettivamente: “Le fils de Neanderthal” è un film vero e proprio che gioca con la finzione per disvelare piano piano le verità scientifiche sul rapporto Neanderthal Sapiens, uno degli aspetti più affascinanti della nostra storia evolutiva, nonché uno dei più dibattuti. Uno dei punti di forza del film è la capacità di mettere a nudo il problema del sensazionalismo e delle fake news anche in ambito archeologico perché la nostra disciplina si presta da sempre alla proliferazione di fantasiose interpretazioni e ricostruzioni. In questo senso si pone come esperimento rischiosamente provocatorio, riuscendo comunque a costruire una narrazione articolata e scientificamente corretta. E per “Katman”: il film entra nella quotidianità dello scavo archeologico. Non soltanto il momento del rinvenimento o della ricerca, ma quello della condivisione degli spazi, dei tempi, dello scambio con la popolazione locale, della vita degli operai del luogo. Katman veicola anche un forte messaggio relativo al valore identitario e socio culturale dell’archeologia nel quadro di una nazione in veloce trasformazione come l’odierna Turchia. Questo, insieme al richiamo a una maggiore attenzione al consumo del suolo e dei giacimenti archeologici, fa sì che Katman sia una perfetta fotografia, per una volta non patinata, dell’Archeologia di oggi.

Tommaso Bonazza (Cinemamore) legge la motivazione della menzione del film “L’histoire oubliée des Swahilis / La storia dimenticata degli Swahili” di Agnès Molia (foto Graziano Tavan)
Menzione CinemAMoRe. Attribuita da una giuria congiunta dei tre Festival cinematografici del Trentino, cioé il Trento FilmFestival, il Religion Today e la Rassegna, rappresentati da Tommaso Bonazza, Rossana Stedile, Olha Vozna, visionando i 6 film sul patrimonio extraeuropeo, al film “L’histoire oubliée des Swahilis / La storia dimenticata degli Swahili” di Agnès Molia (Francia, 2017; 26’) con questa motivazione: “Con una tecnica documentaristica sobria e anti-sensazionalistica, il lavoro di Agnès Molia e Peter Eeckhout è in grado di illuminare il passato con tinte evocative e al contempo definite. Lo spettatore viene condotto, passo dopo passo, alla scoperta delle città costiere dell’Africa orientale e l’immaginazione viene coadiuvata da efficaci rappresentazioni in 3D. La straordinaria storia degli Swahili, protagonisti di una civiltà aperta al mondo, diviene così un inno ante litteram all’intreccio tra i popoli”.
Preistoria. Alle origini dell’alimentazione: in mostra a Firenze la prima farina dell’uomo del Paleolitico. 30mila anni fa l’Homo Sapiens cacciatore-raccoglitore seguiva una dieta mediterranea, cioè 20mila anni prima della nascita dell’agricoltura nel Vicino Oriente
Una macina e un macinello in pietra stanno rivoluzionando le conoscenze sull’alimentazione dei primi Homo sapiens. Vi ricordate? Ne avevamo già parlato in occasione delle giornate preparatorie a Expo 2015 (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/?s=glutine). In quell’occasione, a Firenze, si era annunciata la scoperta in Toscana da parte di un gruppo di ricerca archeologica guidato da Biancamaria Aranguren della soprintendenza Archeologia della Toscana, in collaborazione con Anna Revedin, dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, della farina più antica del mondo, un fatto che potrebbe rivoluzionare le attuali conoscenze sull’alimentazione e la conoscenza agricolo/tecnologica degli uomini del Paleolitico. Ciò rivelerebbe infatti che l’uomo preistorico era più vegetariano di quanto fino ad ora fosse noto e che già 30.000 anni fa si nutriva di farine ricavate macinando varie piante selvatiche; potremmo dire che già “seguiva” una dieta (quasi) mediterranea! E ora quelle scoperte e quelle conclusioni sono documentate nella mostra “30.000 anni fa la prima farina. Alle origini dell’alimentazione” allestita fino al 3 gennaio allo Spazio Mostre dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze (via Bufalini 6) a cura di Anna Revedin dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Biancamaria Aranguren della soprintendenza Archeologia della Toscana e di Fabio Santaniello dell’Università di Trento. Si tratta della rappresentazione, con un forte taglio divulgativo e anche scenografico, dei primi risultati del progetto di ricerca dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria “Le risorse vegetali nel Paleolitico” condotto da Revedin in collaborazione con la soprintendenza Archeologia della Toscana e con il Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze e reso possibile dal contributo dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.
Tutto è nato dalla scoperta di una macina, usata per produrre la più antica farina della storia, e di un macinello-pestello avvenuta nel 1992, tra le migliaia di manufatti rinvenuti in uno scavo in località Bilancino, nel Mugello, oggi sommerso da un invaso artificiale che fornisce l’acqua a Firenze. Il colpo di genio è stato quello di non lavare questi antichissimi strumenti e di analizzare le pietre e i resti del focolare preistorico al microscopio elettronico e al carbonio 14, è così che è venuto fuori che sulle pietre c’erano tracce di amido risalenti a 30mila anni fa. Le analisi condotte su questi oggetti, e sui sedimenti che ancora erano presenti, hanno infatti rivelato che i nostri progenitori del Paleolitico superiore erano già in grado di trasformare, elaborare e consumare prodotti derivati dalla raccolta dei vegetali selvatici, creando in qualche modo le premesse tecniche per un processo che diventerà parte integrante della “invenzione” dell’agricoltura, circa 10mila anni fa. “Grazie alle analisi condotte fra il 2005 e il 2007 dal Dipartimento di biologia vegetale dell’università di Firenze”, ricordano le ricercatrici, “si è scoperto che gli amidi sugli utensili appartengono a varie piante ma soprattutto alla Typha (Tifa), detta anche stiancia o mazza sorda, pianta palustre molto comune da cui si ricavavano gallette o farinate ad alto valore nutritive. Fino a pochi anni fa dalle foglie della Tifa si ricavavano fibre per l’intreccio di corde, stuoie e “sporte”, mentre i rizomi erano utilizzati a scopo alimentare in molti paesi extra-europei”. Il gruppo archeologico ha anche raccolto i rizomi di tifa, li ha seccati, macinati e, su di un focolare ricostruito come quello scoperto negli scavi di Bilancino, con questa farina, ha cucinato della “gallette” che sono risultate di gusto gradevole. “Le implicazioni di questa scoperta sono sotto molti aspetti rivoluzionarie”, sottolineano Aranguren e Revedin. “Per la prima volta l’uomo aveva a disposizione un prodotto elaborato facilmente conservabile e trasportabile, ad alto contenuto energetico perché ricco di carboidrati complessi, che permetteva maggiore autonomia soprattutto in momenti critici dal punto di vista climatico e ambientale. La scoperta dimostra inoltre che l’abilità tecnica necessaria per la produzione di farina e quindi per preparare un cibo, gallette o una farinata, era già acquisita in Toscana molto prima della nascita dell’agricoltura nel Neolitico, legata ai cereali, che si sviluppò in Medioriente”.
Un’altra importante scoperta, presentata nella mostra fiorentina, e appena pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica “Proceedings of the National Academy of Sciences” (Usa) e legata a questo progetto, aggiunge importanti elementi sulla dieta dei nostri antenati. A Grotta Paglicci, in Puglia, dove Annamaria Ronchitelli dell’Università di Siena conduce le ricerche, su un pestello di 33mila anni fa (quindi più antico della macina del Bilancino) sono state trovate tracce di amidi di varie piante selvatiche. Per la prima volta è testimoniato l’utilizzo di un cereale – l’avena – che sarà coltivato solo migliaia di anni dopo e ancora molto utilizzato in Nord Europa, ad esempio il porridge, e che sta suscitando grande interesse da parte dei nutrizionisti per le sue molteplici proprietà alimentari, compresa l’assenza di glutine e il basso indice glicemico. “La maggior parte dei granuli di amido è stata attribuita a poaceae, cioè graminacee, e molti di essi ad avena, molto probabilmente avena barbata, una pianta che cresce spontanea in Italia”, spiega Annamaria Ronchitelli, direttrice degli scavi a Grotta Paglicci. “Si tratta al momento della prima testimonianza dell’uso di questo cereale. Sono stati rinvenuti anche pochi amidi riconducibili a farina di ghiande di quercia. Dagli studi è stato possibile comprendere che gli antichi cacciatori-raccoglitori di Grotta Paglicci, che sono vissuti in un periodo climatico più freddo dell’attuale, avevano sviluppato tecnologie complesse di lavorazione della pianta prima della macinazione. Per la prima volta, infatti, è stata trovata prova di un pretrattamento termico delle cariossidi – come ancora oggi viene fatto, per migliorarne le proprietà alimentari e organolettiche -, non si sa se attraverso bollitura, tostatura o arrostimento, al fine di rendere più agevole la macinazione, facilitando l’allontanamento del rivestimento esterno dei grani e garantendo una maggiore conservabilità della farina e, nel caso dell’avena, sviluppando il particolare aroma che non è presente nel prodotto fresco”.
Cambia così lo scenario delle conoscenze sull’economia e la vita di 30mila anni fa e molte sono le implicazioni di questa scoperta. Dalla possibilità di conservare e trasportare un alimento altamente energetico, alla elaborazione di «ricette», necessarie per rendere digeribili i carboidrati attraverso vari tipi di cottura, fino a ricostruire una complessa gestione delle risorse del territorio. Queste scoperte mettono anche in evidenza l’importanza della raccolta, attività tradizionalmente svolta dalle donne, e quindi degli alimenti vegetali nella dieta umana fin dal Paleolitico. Si ridimensiona così il ruolo finora attribuito alla caccia dovuto al fatto che gli animali costituivano il soggetto principale dell’arte rupestre paleolitica e che le loro ossa si conservano molto meglio dei resti vegetali. “Questo studio, nell’anno dell’EXPO – conclude la professoressa Ronchitelli – espande le nostre informazioni sulle piante alimentari utilizzate per la produzione di farina in Europa durante il Paleolitico e sulle origini di una tradizione alimentare, cioè l’utilizzo dell’Avena e delle ghiande, che persiste fino ad oggi nel bacino del Mediterraneo”.
Nella dieta dell’Homo Sapiens anche farina senza glutine. Scoperta a Firenze una macina di 30mila anni fa. La ricerca presentata a Expo 2015. A settembre mostra sulla “dieta preistorica” (quasi mediterranea)
La dieta mediterranea non era stata ancora codificata, ma i nostri antenati dell’età della pietra già andavano sperimentando qualcosa di simile, associando i carboidrati alla tradizionale (e scontata) carne. “La dieta dell’uomo paleolitico, vissuto circa 30mila anni fa, era più sana perché più varia di quanto si conoscesse fino ad oggi”, rivela una ricerca internazionale coordinata dall’Istituto italiano di preistoria e protostoria con sede a Firenze, la più prestigiosa istituzione del nostro Paese in questo campo, promossa dall’assessorato alle Politiche agricole della Regione Toscana e dal ministero per i Beni e le attività culturali e del turismo, e sostenuta da un contributo dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. L’Homo Sapiens si nutriva infatti non solo in prevalenza di cacciagione (come ritenuto fino ad oggi) ma anche i vegetali costituivano una parte importante della sua alimentazione, in particolare i carboidrati complessi sotto forma di farina, ma senza glutine. È stato dunque un primo passo verso la “dieta mediterranea”. e sta rivoluzionando le conoscenze sulla dieta dell’Homo sapiens che, fatte le dovute proporzioni, stava sicuramente meglio di quanto stiamo noi oggi. La ricerca è stata presentata a Palazzo Strozzi di Firenze nell’ambito delle giornate di approfondimento e di divulgazione collegate a Expo 2015. Hanno introdotto i lavori Maria Bernabò Brea, presidente dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria; Andrea Pessina, soprintendente Archeologo della Toscana; Pierluigi Rossi Ferrini, vice presidente Ente Cassa di Risparmio di Firenze e sono poi intervenuti Biancamaria Aranguren, della soprintendenza Archeologia della Toscana; Anna Revedin, dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria; Giuseppe Rotilio dell’Università di Roma 2. Ha concluso la giornata l’assessore alle Politiche agricole della Regione Toscana.
La scoperta. “La ricerca”, ha spiegato la sua coordinatrice Anna Revedin, direttore dell’Istituto di preistoria, “è nata dal rinvenimento, durante i lavori per la costruzione della nella zona della diga di Bilancino nel Mugello, di una macina e di un macinello in pietra usati per produrre la più antica farina della storia risalente a 30 mila anni fa, molto prima dell’invenzione dell’agricoltura, utilizzando vegetali selvatici, in particolare i rizomi, cioè le radici, di piante palustri”. Finora si credeva che l’uomo moderno avesse imparato a praticarla 10mila anni fa, ma questa scoperta ha rivelato come proprio i carboidrati complessi sotto forma di farina, ma senza glutine, giocassero un ruolo determinante nella dieta dell’Homo sapiens che già conosceva ed era in grado di trattare le piante più opportune per la sua alimentazione. Essa era infatti a base di carne magra, frutta, verdura, semi (mandorle, noci, nocciole) carboidrati senza glutine e ben si adattava ad una vita fatta di tantissimo movimento.

A settembre una mostra a Firenze sulla dieta preistorica illustrerà i risultati della scoperta di Bilancino
Homo Sapiens ed Expo 2015. Gli studi sulla dieta dell’uomo del Paleolitico, in particolare a partire dalla comparsa dell’uomo con caratteristiche morfologiche attuali (circa 40mila anni fa), hanno una doppia valenza, sia per la ricostruzione della Storia dell’evoluzione umana, sia per avere nuovi elementi di comprensione sulle disfunzioni dell’uomo attuale correlabili al cibo ed agli stili di vita dei paesi industrializzati. Si tratta di un argomento molto dibattuto attualmente nel campo della Preistoria e della Paleoantropologia per le nuove metodologie che permettono di avere nuovi dati – testimonianze dirette sulla dieta dell’uomo paleolitico. Questi stessi temi, ha annunciato il vice presidente dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze Pierluigi Rossi Ferrini, saranno al centro di una mostra proposta dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria che si terrà a settembre nella sede dell’Ente Cassa in via Bufalini e che prende le mosse dal dibattito promosso da Expo Milano 2015 che ha per tema “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. L’esposizione illustrerà gli ultimi risultati scientifici sulla dieta preistorica, utili anche a comprendere le attuali problematiche alimentari, e documenterà la storia dello scavo dell’insediamento Preistorico di Bilancino che è stato diretto, con fondi regionali, da Biancamaria Aranguren della soprintendenza Archeologica della Toscana.
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