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“ADRIA. La scrittura nella città di frontiera”: è il tema sviluppato nell’ultima tappa del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con le iscrizioni etrusche su reperti del museo Archeologico nazionale di Adria

Dopo Bologna, Marzabotto e Spina, ultima tappa è Adria: “La scrittura nella città di frontiera” è il tema sviluppato dagli studenti del laboratorio di Epigrafia etrusca dell’università Alma Mater di Bologna studiando i reperti conservati al museo Archeologico nazionale di Adria con iscrizioni etrusche nel percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” nell’ambito del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con la direzione del professor Andrea Gaucci. I cinque approfondimenti proposti sono articolati con grafiche e scritti disponibili anche in podcast audio. Autori: Giovanni Adami, Elena Antoniazzi, Alfonso Di Giacomo, Alessia Di Rauso (podcast https://anchor.fm/andrea-gaucci/episodes/Adria–tra-tradizionalismo-culturale-e-dinamismo-sociale-egv54t).

Sulla copertina dello studio “Adria. Un centro etrusco di frontiera” nell’ambito del progetto Zich, la coppa in ceramica con l’iscrizione “mi larisal uselnas” (foto unibo)

Adria tra tradizionalismo culturale e dinamismo sociale. Per quanto le origini di Adria siano tuttora poco note, sappiamo che queste non vanno cercate oltre gli inizi del VI secolo a.C. quando, secondo una delle diverse teorie in merito, venne fondata come emporio commerciale tramite un’iniziativa congiunta di Greci ed Etruschi. Da piccolo centro di frontiera si trasformò, verso la fine dello stesso secolo, in una città ricca e cosmopolita formata da edifici in legno collegati tra loro da canali ortogonali. Nei secoli seguenti, sebbene talvolta le testimonianze si riducano fortemente, queste continuano ad evidenziare il benessere economico della sua popolazione, anche quando agli inizi del IV secolo a.C. l’Italia venne invasa dai Celti provenienti da Oltralpe. E così, quasi imperturbata, Adria continuò la sua vita fino, ed anche oltre, all’inglobamento nello stato romano nel I secolo a.C. Adria, dalla sua nascita fino all’assunzione del latino come lingua principale intorno al 100 a.C., fu una città in cui si scriveva principalmente in etrusco. La documentazione epigrafica in merito, estremamente numerosa tra la fine del IV ed il II secolo a.C., si trova per la maggior parte graffita su vasi provenienti da contesti funerari. Due sono le sue caratteristiche principali: la prima, affermatasi nel corso del V secolo a.C., fu l’assunzione della norma scrittoria tipica dell’Etruria settentrionale e padana; la seconda è l’adozione nel IV secolo a.C. di uno stile scrittorio, noto come “corsivizzante”, originatosi a Chiusi nel secolo precedente. Quest’ultimo elemento è di estremo interesse dal momento che nei secoli seguenti in Etruria nacquero e si diffusero nuovi stili scrittori che tuttavia non furono recepiti ad Adria. Questo fatto è interpretabile come un conservatorismo culturale che contrasta con la dinamicità sociale della città.

Copertina dello studio “Laris Uselna. un orvietano nell’Adria tardo-arcaica” (foto unibo)
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Coppa di ceramica locale (inizio V sec. a.C.) proveniente dall’abitato antico di Adria con l’iscrizione “mi larisal uselnas” (foto archeologico Adria)

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La grafica dell’iscrizione “mi larisal uselna” (foto unibo)

Un orvietano nell’Adria tardo arcaica. Nel tardo Arcaismo un radicale cambiamento trasformò Adria in una polis ben strutturata, diventando un polo di attrazione unico nel panorama dell’Adriatico settentrionale. Secondo gli studiosi, fra i protagonisti di tale evoluzione vi furono gli Etruschi di Orvieto, come risulta evidente dalla documentazione archeologica ed epigrafica. A questo proposito, appare illuminante l’iscrizione che tradisce, nel gentilizio, cioè il nome di famiglia, e nella norma scrittoria utilizzata, l’appartenenza dell’individuo menzionato ad un contesto culturale e identitario differente da quello adriese. L’iscrizione, graffita sul piede di una coppa di ceramica etrusco-padana proveniente dall’abitato, si data ai primi decenni del V sec. a. C. Per quanto riguarda il contenuto, questa ci presenta un classico testo di possesso composto da pronome personale, onomastica flessa al genitivo e dal verbo essere sottointeso. La traduzione pertanto risulta essere “io (sono) di Laris Uselna”. Il gentilizio Uselna ha la sua origine ad Orvieto, dove compare in diverse attestazioni, ed è composto dalla radice Usel-, che potrebbe richiamare il nome del dio Usils, e dal suffisso -na, frequente nei nomi di famiglia dal momento che indica derivazione. In conclusione questo personaggio fu probabilmente parte di uno dei più consistenti gruppi esterni che giunsero ad Adria poco dopo il 500 a.C. e che le permisero di compiere la metamorfosi da piccolo porto commerciale a città.

La copertina dello studio “Uinia. Una donna celtica del 500 a.C.” (foto unibo)
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La coppa in ceramica grigia (500 a.C.) proveniente dall’abitato antico di Adria con l’iscrizione “mi uinias antes” (foto archeologico Adria)

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La grafica dell’iscrizione “mi uinias antes” (foto unibo)

Una donna celta del 500 a.C. L’iscrizione, graffita su una coppa in ceramica grigia di provenienza sconosciuta, è databile attorno al 500 a.C. Si tratta di una formula di possesso costituita dal pronome personale mi seguito da altri due elementi onomastici, di cui il primo completo al genitivo ed il secondo con una lacuna nella parte finale: “Io (sono) di Uiniaś Anteṩ”, dove il verbo è sottinteso. Per Uinia, pare verosimile l’etruschizzazione di un nome celtico femminile, come suggerisce la terminazione -ia, che, nella fattispecie, determina la funzione di nome individuale, funzionale anche in etrusco. Anche per il secondo elemento della formula, Anteṩ, nonostante la lacuna non permetta una analisi più approfondita, si propone una derivazione celtica. Al di là dell’onomastica si osserva invece come questa iscrizione venga redatta secondo la norma scrittoria, giunta dall’Etruria settentrionale, che da alcuni decenni si è imposta all’interno della città. Nel complesso quindi la proprietaria di questa coppa sembra essere di origine celtica, con tutti gli interrogativi del caso dovuti alla mancanza del contesto di rinvenimento: infatti mentre è chiaro come lei o i suoi antenati fossero stati dei casi di mobilità individuale precedenti all’invasione del IV secolo a.C., nulla possiamo dire su come si fossero inseriti all’interno della comunità urbana, se non che si adattarono a scrivere in etrusco.

La copertina dello studio “Laris Tetialus. Un etrusco della pianura padana del 300 a.C.” (foto unibo)
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La kylix verniciata di nero (300 a.C.), proveniente da una sepoltura di una delle aree cimiteriali dell’Adria antica, con l’iscrizione “lairs tetialus” (foto archeologico Adria)

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Grafica dell’iscrizione “mi laris tetialus” (foto unibo)

Un etrusco nella pianura padana nel 300 a.C. La kylix, o coppa biansata, a vernice nera qui presentata viene datata subito dopo il 300 a.C. e fa parte del corredo di una sepoltura rinvenuta all’interno di una delle aree cimiteriali relative all’abitato di Adria. Su di essa è incisa un’iscrizione che, secondo un’usanza diffusa principalmente tra VII e V secolo a.C., identifica il recipiente con il suo proprietario, forse da ritenere il defunto stesso o qualcuno che gliene fece dono. La sua traduzione letterale pertanto è “io (sono) laris tetialuś”, con il verbo sottinteso. Mentre il nome di questo personaggio, Laris, è uno dei più comuni fra gli uomini etruschi, il gentilizio, Tetialuś, risulta essere di estremo interesse per comprendere la sua origine. Infatti questo è composto da Tetie, nome presente nell’onomastica etrusca, e dalla particella -alu, caratteristica dell’area padana, mentre la sibilante finale non designa in questo caso possesso o derivazione, come ci aspetteremmo, ed è dunque priva di funzione sintattica, come nel cognome italiano Di Simone, esprimendo piuttosto il rango sociale dell’individuo. Infine l’aspetto delle lettere e la norma scrittoria sono quelle tipiche dell’Adria di periodo ellenistico. Tutti gli elementi finora elencati ci portano a concludere che questo personaggio fosse probabilmente originario della stessa Adria o al più di un altro dei centri dell’Etruria padana sfuggiti all’invasione celtica.

La copertina dello studio “Larza Mura Pili. Il vulcente del 200-150 a.C.” (foto unibo)
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Il frammento (200-150 a.C.) che proviene dalla tomba 334 dell’area funeraria di Canal Bianco con l’iscrizione “mura larza pili” (foto archeologico Adria)

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Grafica dell’iscrizione “mura larza pili” (foto unibo)

Una famiglia originaria di Vulci nella tarda Adria. L’iscrizione “Muṛạ Larza Pili” proviene dalla tomba 334 dell’area funeraria di Canal Bianco, datata tra il 200 e il 150 a.C. Il testo è esclusivamente composto dalla formula onomastica del proprietario, articolata a sua volta in nome proprio, o prenome, gentilizio e cognome. Il nome proprio, Larza, presenta il suffisso diminutivo -za che si ritrova attestato in altri nomi maschili, come Arzae Venza, provenienti sia da Adria che dalla vicina Spina. Sebbene non si escluda che in antico fosse usato con la valenza diminutiva, sembra che in questo orizzonte cronologico abbia perso questo significato. Il gentilizio, Muṛạ, risulta essere un fattore chiave che va ad arricchire il già complesso quadro sociale dell’abitato di Adria. Risulta infatti ben documentato nell’Etruria meridionale ed in particolare a Vulci. A conferma di questa osservazione risulta essere l’inversione del nome di famiglia e di quello proprio nel testo, tratto tipico delle epigrafi delle zone di Tarquinia e Vulci, alla quale è evidente che Larza si sentiva ancora legato. Significativo è infine l’uso del cognome, Pili, elemento che tra gli etruschi veniva impiegato per distinguere individui con lo stesso nome oppure rami diversi della stessa famiglia.

Copertina dello studio “Verkantu. Il guerriero celta del 250 a.C.” (foto unibo)
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Vasi a vernice nera (250 a.C.): un piatto da pesce, due coppette di produzione locale da una tomba maschile ad inumazione, tutti con la stessa iscrizione “mi verkantus” (foto archeologico Adria) e una kylix importata da Volterra

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Grafica dell’iscrizione “mi verkantus” (foto unibo)

Un guerriero celta sepolto attorno al 250 a.C. L’iscrizione in alfabeto etrusco mi verkantuś si trova graffita in maniera identica su 4 vasi a vernice nera: un piatto da pesce, due coppette di produzione locale e una kylix importata da Volterra. Il vaso, che si esprime in prima persona come dimostra il pronome personale mi, dichiara di essere proprietà di Verkantu, il cui nome è flesso al caso genitivo. Il verbo essere – come da prassi – è sottinteso. La nostra traduzione sarà quindi: “io (sono) di Verkantu”. Il nome, di sicura origine celtica, risulta essere composto dal prefisso ver-, con il significato di “sopra”, presente anche nel nome del celebre capo degli Arverni Vercingetorige sconfitto da Cesare, e da -canto-. L’assenza del gentilizio potrebbe suggerire una particolare condizione sociale di questo individuo: non si trattava probabilmente di uno schiavo, ma nemmeno di un cittadino di pieni diritti. Il contesto in cui si trovano questi oggetti iscritti è quello di una tomba maschile ad inumazione datata attorno al 250 a.C. Questa si distingue da tutte le altre centinaia rinvenute in particolare perché contiene una cuspide di lancia in ferro. Tale oggetto costituisce una deroga alla norma del rituale funerario etrusco: si tratta, infatti, dell’unico esempio finora attestato ad Adria di un’arma all’interno di una sepoltura. Da questo possiamo dedurre che Verkantu, nonostante vivesse in una città di cultura etrusca, si identificasse ancora come un guerriero al momento della sua sepoltura.

“SPINA. La scrittura nel porto adriatico”: è il tema sviluppato dal progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con le iscrizioni etrusche su reperti del museo Archeologico nazionale di Ferrara

“SPINA. La scrittura nel porto adriatico” è il tema sviluppato dagli studenti del laboratorio di Epigrafia etrusca dell’università Alma Mater di Bologna studiando i reperti conservati al museo Archeologico nazionale di Ferrara con iscrizioni etrusche nel percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” nell’ambito del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con la direzione del professor Andrea Gaucci. I cinque approfondimenti proposti sono articolati con grafiche e scritti disponibili anche in podcast audio. Autori: Jacopo Bellezza, Francesca Bonsanto, Jessica Ghini, Michela Martino, Lucia Scandellari (podcast https://anchor.fm/andrea-gaucci/episodes/Spina-sullAdriatico–Un-porto–molte-genti-egv51p).

Sulla copertina dello studio “Spina sull’Adriatico. Un porto, molte genti” nell’ambito del progetto Zich, il ciotolo con l’inscrizione “mi tular” (foto unibo)

Spina sull’Adriatico. Un porto, molte genti. Spina, città di fondazione etrusca degli ultimi decenni del VI secolo a.C., sviluppò sin dalla nascita una fisionomia che la distingue da tutte le altre città etrusche. La sua collocazione presso la foce del Po, a pochi chilometri dal mar Adriatico, ne favorì la funzione di scalo marittimo e lo sviluppo di una intensa attività commerciale tra il mondo greco, in particolare Atene, e quello etrusco dell’entroterra padano che aveva come fulcro Felsina. Dopo la metà del IV sec. a.C., la città diventò un polo di attrazione per gli etruschi in fuga dagli altri centri padani a seguito dell’occupazione gallica. Per far fronte alla crisi economica diventò protagonista di una nuova rete commerciale tra i porti dell’Adriatico, intraprendendo anche azioni di pirateria. Il corpus epigrafico di Spina, conosciuto come il più ampio dell’Etruria Padana, registra molte centinaia d’iscrizioni, di cui la maggior parte databile all’ultima fase di vita della città. La scrittura segue le tendenze evolutive comuni a tutta l’Etruria. Le iscrizioni sono tutte graffite su vasi e riportano perlopiù nomi di persona, ad eccezione di una realizzata su un ciottolo di pietra, recante il testo “mi tular” (cioè “io sono il confine”). Questo documento viene considerato di notevole importanza poiché documenta il rituale di fondazione etrusco della città e l’organizzazione dello spazio urbano. Nella fase antica, un significativo numero di iscrizioni attesta la presenza di Greci, attirati a Spina dalle prospettive di commercio con gli Etruschi della pianura padana. La definizione di polis hellenis data dagli scrittori antichi a questa città e anche altre evidenze archeologiche sono riprova di questa radicata presenza. Se nella fase più antica la maggior parte delle iscrizioni etrusche provengono dall’abitato, dopo il IV sec. a.C. aumentano considerevolmente le iscrizioni da necropoli, segno di pratiche rituali che coinvolgevano maggiormente la scrittura. I testi mostrano la diffusa etruschizzazione di nomi italici e greci, a dimostrazione della natura di porto della città ancora nei decenni anteriori alla sua fine, databile prima del 200 a.C.

Ciotola a vernice nera con iscrizione dalla Tomba 1057 della necropoli di Valle Trebba di Spina conservata nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto archeofe)
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Grafica dell’iscrizione sulla ciotola dalla Tomba 1057 della necropoli Valle Trebba di Spina (foto unibo)

Una famiglia molto antica. Il testo esprime solo un nome maschile, nel quale il suffisso –nalo denota chiaramente come un gentilizio. Questo appartiene all’importante famiglia dei Per(e)kena/Perkna, nota dal VII sec a. C. fino all’età romana. Originaria della zona della Valdelsa (la più antica attestazione risale al VII sec a.C.), e da lì diffusasi verso Chiusi e Cortona, arrivò ad insediarsi a Marzabotto, nella prima metà del V sec a.C., e poi a Spina, dove è documentata nel IV e III sec. a.C. A dimostrazione del profondo radicamento della famiglia nel territorio, abbiamo numerose attestazioni del termine Perkna dalle iscrizioni rinvenute nelle aree funerarie di Valle Trebba e di Valle Pega a Spina, in gruppi di tombe che dimostrano la scelta di un medesimo spazio sepolcrale da parte degli stessi membri, cioè veri e propri recinti. I ricchi corredi sembrano appartenere ad individui di una élite sociale coesa, che si autorappresenta attraverso rituali comunitari di consumo del vino, testimoniati dal numeroso vasellame deposto assieme al defunto. È assai probabile quindi che si trattasse di un’influente famiglia all’interno del panorama socio-politico della città, in quanto la frequenza di rinvenimento di iscrizioni che fanno riferimento a questo gentilizio rimarca l’appartenenza a questa gens del defunto o di chi offriva il dono funebre.

Piattello a vernice nera con iscrizione dalla Tomba 623 della necropoli di Valle Trebba di Spina, conservato nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto archeofe)
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Grafica dell’iscrizione sul piattello dalla Tomba 623 della necropoli Valle Trebba di Spina (foto unibo)

Un etrusco dalle radici greche. L’iscrizione è stata rinvenuta nel corredo della Tomba 623 nella Necropoli di Valle Trebba sul piede di un piatto in argilla databile attorno al 300 a.C. Si tratta di una formula di possesso, che permetteva al proprietario di rimarcare la proprietà dell’oggetto. È possibile tradurre come “io (sono) di Venu Platunalu”, dove al pronome personale mi, tradotto “io”, segue il prenome maschile Venu e infine il gentilizio Platunalu. Venu, il nome proprio dell’uomo, è attestato in Etruria settentrionale, a Bologna già dal periodo orientalizzante, e poi ad Adria e nella stessa Spina diffuso in periodo ellenistico. Il gentilizio Platunalu non ha altre attestazioni ed è formato con il suffisso di ambito padano –alu. In esso si riconosce una formazione dal nome greco Πλάτων, che registra la storia di un Greco, immigrato in Etruria padana e integrato in una delle comunità etrusche con un atto formale che prevedeva l’assegnazione di un gentilizio. Il nome di famiglia è estraneo al sistema onomastico greco, che perciò in questi casi veniva costruito ex novo. È incerto se la cittadinanza fosse stata acquisita proprio da Venu Platunaluo da un suo antenato, ma si può dire che il personaggio fosse pienamente integrato nella compagine civica di Spina. Questa iscrizione è un’ulteriore prova del traffico di genti e di prodotti caratteristico della città, tanto che, a volte, c’era chi, per ragioni commerciali, politiche o sociali, rimaneva a vivere fino ad essere pienamente integrato.

Piatto in argilla grigia con iscrizione da contesto domestico di Spina distrutto da un incendio conservato nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto archeofe)
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Grafica dell’iscrizione sul piatto da contesto domestico di Spina (foto unibo)

Una donna etrusca dalle radici greche. Un caso unico nel contesto dell’abitato di Spina è quello di un gruppo di iscrizioni apposte su un intero servizio di vasi di tipo diverso (sei piatti e dodici ciotole), rinvenute all’interno di una casa distrutta da un incendio avvenuto nel IV sec a.C. Le iscrizioni contengono la medesima formula onomastica, formata da un prenome e un gentilizio con desinenza –i  che identifica Tata Kephlei come una donna. La struttura onomastica è chiaramente etrusca, anche se il nome di famiglia, a tutt’oggi privo di riscontri, tradisce un’origine greca. Anche il nome proprio Tata è attestato fino ad ora solo a Spina. Nei corredi rinvenuti all’interno delle tombe delle aree funerarie della città questo si caratterizza per identificarsi in alcuni casi come femminile in altri come maschile. Questa eccezionale condizione e la distribuzione dei gentilizi derivati da esso, come l’orvietano Tatana, ha portato ad ipotizzare che Tata sia stato acquisito da un ambiente linguistico non etrusco. Non a caso, le attestazioni dei gentilizi si contano fin dal periodo arcaico ad Orvieto, a Perugia e in Campania, città e luoghi con fortissime interazioni tra popolazioni e lingue diverse. Le iscrizioni di Tata Kephlei dunque, ci ricordano una cittadina di Spina di origine greca, che marcò con il suo nome un intero set da mensa.

Askòs con duplice iscrizione dalla Tomba 1026 della necropoli di Valle Trebba di Spina, conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto archeofe)
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Grafica delle due iscrizioni sull’askos dalla Tomba 1026 della necropoli Valle Trebba di Spina (foto unibo)

Scrivere in etrusco o scrivere in greco? Il nome Herine è usato come gentilizio a Chiusi e in altre città dell’Etruria settentrionale. È probabile che questo trovi la sua origine nel mondo italico, diffondendosi poi in Etruria. Riguardo a Spina, si hanno due testimonianze di questo nome, entrambe su un askos all’interno della Tomba 1026 della Necropoli di Valle Trebba di IV sec a.C. La prima iscrizione, “mi herineś”, è stata rinvenuta sul corpo del vaso, al di sotto dell’ansa, mentre la seconda, “herines”, sul piede. Nel primo caso il possesso è indicato attraverso l’espediente dell’oggetto parlante: il pronome “mi” ha funzione di soggetto (“io”), ed è proprio il vaso stesso che si definisce come proprietà di “Herine”, il cui nome è declinato al genitivo. Nella seconda iscrizione invece abbiamo il solo genitivo che può essere tradotto come “di Herine”. È interessante notare che, sebbene le due iscrizioni riportino lo stesso nome, la prima è scritta le caratteristiche scrittorie tipiche di Spina, mentre la seconda sembra presentare alcune lettere di aspetto greco come in particolare il sigma finale a quattro tratti , suggerendo la competenza di più scritture e forse lingue di chi l’ha realizzato. Sempre nella seconda iscrizione, l’ acca a cerchiello tagliato esplicita la ricezione di una riforma grafica elaborata a Spina e influenzata dalla città greca di Taranto, a dimostrazione dello stretto legame culturale tra questi mondi nella fase tarda della città.

“Kainua-Marzabotto: la scrittura e la dimensione civica del sacro”: è il tema sviluppato dal progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con le iscrizioni etrusche su reperti del museo nazionale Etrusco “Pompeo Aria” di Marzabotto

La copertina dello studio dedicato a Marzabotto nel percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” nell’ambito del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna”

“La scrittura e la dimensione civica del sacro” è il tema sviluppato dagli studenti del laboratorio di Epigrafia etrusca dell’università Alma Mater di Bologna studiando i reperti conservati al museo nazionale Etrusco “Pompeo Aria” di Marzabotto con iscrizioni etrusche nel percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” nell’ambito del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con la direzione del professor Andrea Gaucci. I quattro approfondimenti proposti sono articolati con grafiche e scritti disponibili anche in podcast audio. Autori: Martina Borsani, Martina Castoldi, Chiara Chiodarelli, Gianmaria Feola (podcast https://anchor.fm/andrea-gaucci/episodes/Kainua-Marzabotto-la-scrittura-e-il-sacro-egv1lg).

La planimetria di Kainua-Marzabotto con i frammenti con iscrizioni etrusche dai templi urbani (foto unibo)
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Ricostruzione grafica del tempio di Tinia di Kainua-Marzabotto (foto unibo)

Kainua-Marzabotto: la scrittura e il sacro. Attorno al 500 a.C., nel corso di una riorganizzazione dell’intero territorio etrusco, venne fondata in chiave urbanistica Kainua, su un insediamento arcaico presso la moderna città di Marzabotto. Essendo il primo esteso pianoro per chi giungeva dall’Etruria tirrenica attraversando gli Appennini, la sua posizione risultava strategica per gli intesi traffici commerciali, nei quali rivestiva anche un importante ruolo come centro artigianale. La città si trovava ai piedi di una piccola collina che fungeva da acropoli e si sviluppava secondo assi stradali ortogonali, risultato di un preciso rituale basato su osservazioni astronomiche. Gli edifici sacri dell’Acropoli si collegavano, tramite uno degli assi viari principali, al settore nord-est della città, che era riservato ai templi urbani di Tinia e Uni. Questi edifici sono indice dell’importanza che assumeva la dimensione del sacro all’interno della comunità di Kainua. È proprio dai contesti sacri urbani che giungono le testimonianze epigrafiche più importanti della città. Le iscrizioni rivelano che l’alfabeto traeva origine da quelli dell’Etruria settentrionale e forti erano le influenze di Chiusi nella fase più antica. Nelle iscrizioni santuariali sono attestati il nome dell’antica città e quelli delle principali divinità, che hanno permesso di sapere a chi fossero dedicati i due templi urbani. I supporti privilegiati per la scrittura erano le ceramiche di produzione locale, tra cui in particolare il bucchero. Un caso eccezionale è la lamina di bronzo proveniente dal Tempio di Tinia, sia per il tipo di supporto che per la lunghezza del testo iscritto.

Piedi di una coppa in bucchero con il termine Kainua in un’iscrizione del 475-450 a.C. (foto museo Marzabotto)
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Grafica della trascrizione del termine kainuathi (foto unibo)

Kainua la nuova. Durante gli scavi del tempio urbano di Tinia è stata ritrovata un’epigrafe che restituisce il nome antico della città, cioè Kainua. L’iscrizione è stata graffita sul fondo esterno dopo la cottura del vaso, una coppa in bucchero di produzione locale. In ambito sacro, la coppa è il supporto maggiormente utilizzato per le iscrizioni, mentre il bucchero, caratteristico del mondo etrusco, evoca con il suo colore scuro il più pregiato metallo. In base allo stile della scrittura e al contesto di ritrovamento, è stato possibile datare l’epigrafe tra il 500 e il 450 a.C. Il testo, purtroppo mutilo in quanto si conservano soltanto alcuni frammenti del vaso, riporta il termine kainuathi. La terminazione -thi in etrusco indicava lo stato in luogo, mentre è stato proposto di vedere nel termine Kainua l’etruschizzazione dell’aggettivo greco καινόν (kainon, “nuovo”), quindi “la (città) nuova”. Il nome sarebbe dunque stato scelto come chiaro riferimento alla fondazione della città, avvenuta con un piano urbanistico regolare attorno al 500 a.C. su un precedente insediamento di cui conosciamo ancora poco. In passato è stato proposto di vedere un’origine greca della planimetria, ma in seguito è stata appurata una fondazione secondo le norme stabilite dall’Etrusca disciplina, a immagine del templum celeste. Concrete testimonianze rinvenute negli scavi, come il ciottolo con croce incisa posto al centro della città, permettono di ricostruire le fasi di questo complesso atto sacro.

Frammento di una piccola olpe con il termine Tins in un’iscrizione del 500-450 a.C. (foto museo Marzabotto)
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Grafica con trascrizione del termine Tins (foto unibo)

Abitare vicino agli dei. Nel corso della fondazione della città di Kainua sono state osservate le norme dell’Etrusca disciplina per la pianificazione urbanistica. I due templi urbani furono dedicati a Tinia e Uni, riconducibili a Zeus ed Era, e si collocano nel quadrante nord-est della città, in corrispondenza con la loro sede nel templum celeste. Il tempio di Uni è il più antico, risale alla fine del VI secolo a.C. ed è tuscanico, tipologia architettonica nata e sviluppatasi nel mondo etrusco. Il ritrovamento su un frammento in bucchero dell’iscrizione unialthi, che significa “in quello di Uni”, sottintendendo il santuario, ha permesso di attribuire il tempio alla dea. L’area sacra era circondata da un muro, al cui interno è stato portato alla luce un frammento ceramico riferito alla dea Vei, paragonabile a Demetra. Il coccio è legato al rifacimento del recinto sacro del santuario, sacralizzato da un atto rituale che comportò anche la deposizione di un infante. Il tempio di Tinia, più a Ovest, presenta una planimetria greca con alcuni adattamenti etruschi ed è più recente di qualche decennio. Tre iscrizioni testimoniano la pertinenza del tempio a Tinia. Interessante è il frammento di un piccolo vaso in bucchero che riporta il termine Tins. L’epigrafe è collocata sul fondo esterno suggerendo che l’oggetto appartenesse agli strumenti per il culto del dio. L’importanza di queste iscrizioni è ancora più evidente se si considera il quadro scarno di attestazioni epigrafiche cultuali in tutta l’Etruria Padana.

Frammenti dal collo e dall’orlo della stessa anfora con iscrizione (foto museo Marzabotto)

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Grafica con trascrizione del termine spural (foto unibo)


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Grafica con trascrizione del termine Kainu (foto unibo)

Il rito della comunità. Durante gli scavi del Tempio urbano di Uni, all’interno di uno dei muri di fondazione, sono stati ritrovati due frammenti ceramici riconducibili al collo e all’orlo di un’unica anfora in bucchero. I due frammenti riportano una parola ciascuno. Sulla base dei dati archeologici e del tipo di scrittura, è possibile datare le epigrafi attorno al 500 a.C. Una delle due parole è spural, cioè “della comunità”, e si riferisce al concetto di città intesa come collettività organizzata dal punto di vista sociale e istituzionale, ricalcando il concetto latino di civitas. Questo si contrappone a un altro termine etrusco “per città”, methlum, che ne denota l’aspetto edilizio e infrastrutturale, corrispondente alla urbs latina. Data la cronologia del documento, questa di Marzabotto è una delle più antiche testimonianze del termine “spura”. L’altra parola è kainu, terza attestazione incompleta del poleonimo Kainua. L’ipotesi più accreditata prevede che del testo, forse in origine più esteso, siano state scelte queste due parole nel corso di un rituale, durante la fondazione del tempio. Protagonista era l’intera comunità di Kainua, il suo spura. Secondo un’altra ipotesi, invece, le iscrizioni sui due frammenti sarebbero state graffite dopo la rottura del vaso durante la cerimonia. Pregnante la scelta dell’anfora come supporto scrittorio, in quanto legata al consumo collettivo del vino a scopo rituale. L’atto, compiuto dall’intera Kainua, evidenzia la forte dimensione civica del sacro nella città.

La lamina in bronzo di Marzabotto con iscrizione del 470 a.C. (foto museo Marzabotto)
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Grafica con trascrizione delle cinque righe di iscrizione (foto unibo)

La celebrazione del tempio. Nell’area sacra del tempio di Tinia, sono venuti alla luce alcuni frammenti di una lamina di bronzo iscritta. Il supporto, piccolo e sottile, insieme al ritrovamento di due chiodi rivestiti d’oro, lascia supporre che fosse affisso ad una struttura lignea. Grazie alla grafia, la lamina è stata datata ai primi decenni del V secolo a.C. Conserva 13 parole disposte su 5 righe, rappresentando così una delle iscrizioni più estese dell’Etruria Padana. Sono citati quattro personaggi, forse magistrati, che sembrano coinvolti in due azioni differenti di carattere rituale. I primi due avrebbero compiuto dei riti presso il muntie di pertinenza dello spura, il corpo civico della città. Il termine muntie potrebbe rimandare al mundus latino, cioè il pozzo sacro a una divinità infera scavato nel momento della fondazione di una nuova città. Gli altri due personaggi, invece, sarebbero legati alla costruzione del tempio di Tinia, come si deduce dalla presenza del verbo hecce, in etrusco “costruire”. Il contenuto e le caratteristiche della lamina possono suggerire dei confronti con altri esempi di documenti commemorativi esposti al pubblico. Uno dei più noti sono le Lamine auree affisse sulla porta di un tempio nel santuario di Pyrgi, vicino a Cerveteri. Grazie al confronto con il mondo greco, è stato inoltre ipotizzato che, a differenza delle Lamine di Pyrgi, la lamina di Marzabotto fosse posta su un’intelaiatura lignea collocata nell’area del tempio, quindi visibile dall’intera comunità.

“L’élite della metropoli a Felsina-Bologna”: è il tema sviluppato dal progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con le iscrizioni etrusche su reperti del museo civico Archeologico di Bologna

La Stele Ducati 10 dal sepolcreto dei Giardini Margherita a Bologna, con iscrizione etrusca, è conservata al museo civico Archeologico di Bologna (foto Bologna Musei)
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La copertina dello studio dedicato a Bologna nel percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” nell’ambito del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna”

“L’élite della metropoli a Felsina-Bologna” è il tema sviluppato dagli studenti del laboratorio di Epigrafia etrusca dell’università Alma Mater di Bologna studiando i reperti conservati al museo civico Archeologico di Bologna con iscrizioni etrusche nel percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” nell’ambito del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con la direzione del professor Andrea Gaucci. I cinque approfondimenti proposti sono articolati con grafiche e scritti disponibili anche in podcast audio. Autori: Alice Bassu, Maria Luisa Conforti, Giulia Lucia De Grazia, Ilaria Lonegro (podcast https://anchor.fm/andrea-gaucci/episodes/La-scrittura-nella-metropoli-padana-egv4l4).

La mappa del territorio di Bologna con i luoghi dei ritrovamenti con iscrizioni etrusche (foto Unibo)

La scrittura nella metropoli. Bologna, la Felsina etrusca, si sviluppa già a partire dal IX secolo a.C. in un’area pianeggiante ai piedi dell’Appennino, in una posizione strategica tra le vie di comunicazione verso l’Etruria propria da un lato, la Pianura Padana e il mondo transalpino dall’altro. Allo scorcio dell’VIII secolo a.C., si assiste all’emergere di un ristretto gruppo aristocratico, i principes, e il processo formativo della città è ultimato. È proprio in questa temperie culturale che si data la precoce acquisizione della scrittura, parallelamente a quanto si verifica in Etruria propria. Questa si manifesta dapprima sotto forma di elementare conoscenza dei segni alfabetici – largamente utilizzati per siglare manufatti di bronzo, ceramica e lingotti di metallo – e poi con la scrittura vera e propria che raggiunge rapidamente livelli di complessità notevoli, divenendo presto lo strumento di affermazione del potere da parte delle élite locali, come testimoniato dalla pratica del dono. Se per il VI secolo a.C. le testimonianze epigrafiche sono quasi nulle, poco rappresentato è anche l’arco cronologico compreso tra il V e gli inizi del IV secolo a.C. Nonostante le migliaia di tombe individuate infatti, solo alcune iscrizioni sono note dai corredi. Mentre rispetto alle quasi 200 unità totali, solo una ventina sono le stele funerarie – denominate Stele Felsinee – che presentano un’iscrizione. Tuttavia, proprio tali Stele offrono uno strumento d’eccellenza per la conoscenza della società di Felsina di V secolo a.C. Questi segnacoli funerari possono infatti esibire, oltre alla decorazione, anche il nome personale del defunto – il prenome –, quello della famiglia aristocratica a cui apparteneva – il gentilizio – e, talora, la carica politica che aveva ricoperto in vita, a conferma del fatto che i segnacoli con epigrafe funeraria sono prerogativa esclusiva dell’élite cittadina.

L’iscrizione etrusca sull’anforetta Melenzani proveniente dall’omonimo sepolcreto e conservata al museo civico Archeologico di Bologna (foto Unibo)

L’orgoglio dei principi. L’anforetta Melenzani, proveniente dall’omonimo sepolcreto ed è databile attorno al 600 a.C. Si caratterizza per la presenza di una lunga iscrizione di dono incisa a crudo, cioè prima della cottura del vaso, e redatta secondo le norme ortografiche dell’Etruria Settentrionale. Le circa 30 parole, talora intervallate dalla cosiddetta interpunzione verbale, ne fanno l’iscrizione più lunga di tutta l’Etruria padana. Nell’iscrizione, che procede da destra verso sinistra e presenta un andamento a spirale, sono ben identificabili il nome del vaso – zavenuza, cioè anforetta – il nome del destinatario del dono – Venu, indicato come possessore – e quello di una figura femminile, presumibilmente la moglie, che è associata nella donazione al marito. Seguono una serie di nomi lacunosi legati al verbo turuke, cioè donare, qui in una delle sue più antiche attestazioni. Il testo si chiude con la firma dell’artigiano che ha redatto l’iscrizione e plasmato il vaso: si tratta del primo di area padana di cui si conosca il nome, cioè Ana. L’anforetta Melenzani, di produzione tipicamente locale, con la sua iscrizione, costituisce uno straordinario documento dell’alto livello culturale raggiunto da Felsina allo scorcio del VII secolo a.C. Significativo è il contenuto stesso dell’iscrizione, nel quale si avverte chiaramente l’orgoglio dell’appartenenza ad una ristretta élite di principi, che doveva essere fortemente imperniata sul sistema maritale e indubbiamente l’unica in grado di commissionare un testo così lungo.

Frammento metallico con iscrizione etrusca dal ripostiglio di San Francesco a Bologna (foto Unibo)

L’ombra di un artigiano. Il ritrovamento di un deposito di metalli presso la chiesa di San Francesco, avvenuto da parte di Antonio Zannoni nel 1877, testimonia la conoscenza dell’alfabeto etrusco in area padana in un periodo coevo a quello dell’Etruria propria. Infatti la chiusura del deposito è datata agli inizi del VII secolo a.C. Il materiale del ripostiglio testimonia la vastità delle rotte commerciali utilizzate, che comprendono la Sardegna, l’Europa continentale e l’Etruria. Erano presenti 14838 frammenti di bronzo e 3 di ferro, deposti all’interno di un massiccio dolio, probabilmente per essere fusi. La cronologia dei reperti è molto varia, i più antichi, infatti, risalgono all’Età del Bronzo, i più recenti al VII secolo a.C. Su oltre 150 pezzi sono stati individuati dei segni graffiti e alcune epigrafi evocano o esercizi di scrittura o l’alfabeto stesso, reso attraverso la prima e l’ultima lettera della sequenza, alpha e chi. Queste, forse, erano funzionali alle fasi di lavorazione e al conteggio dei lotti di materiale. Solo due colpiscono per dei testi del tutto unici. Il più lungo conserva la parola aie, riconducibile a un nome divino latino, Aius Locutius, che potrebbe designare un individuo di origine italica. L’uomo, appartenente a un rango sociale elevato, fungerebbe da garante per il peso o per la qualità dell’oggetto. Ma potrebbe riferirsi, anche, al nome italico del bronzo, ajos, da cui deriverebbe il latino aes. L’altro testo è composto dalle lettere ai, interpretate come l’abbreviazione di aie, e significherebbe “bronzo monetato” oppure “bronzo di una determinata qualità”.

La Stele Ducati 12, o di Rakvi Satlnei, con iscrizione etrusca, ritrovata nella necropoli dei Giardini Margherita e conservata al museo civico Archeologico di Bologna (foto Unibo)

Una donna dalla stirpe eroica. La stele Ducati 12, o di Rakvi Satlnei, è stata ritrovata presso la necropoli dei Giardini Margherita, collocata a ovest della città antica, ed è datata attorno al 400 a.C. Un lato della stele mostra la tipica rappresentazione della donna nobile sposata che solleva una mano verso una foglia di edera, la quale esce dalla cornice decorata con triangoli alterni. Questa è una pianta legata al culto del dio Dioniso, l’etrusco Fufluns. Si sottolinea così lo status sociale della defunta e la sua adesione ai culti dionisiaci. Le metope del tamburo illustrano figure del mito, come la maga Circe e Dedalo, riconducibili al mondo della trasformazione e del passaggio, quale allusione al transito della defunta nell’Aldilà. Anche l’altro lato è occupato dal tema del passaggio di status, cioè la morte, resa attraverso l’espediente del viaggio su carro della defunta. Sotto è raffigurato un personaggio maschile nudo che si getta su una spada, riconosciuto come l’eroe omerico Aiace Telamonio. Sulla stele è presente un’iscrizione che, in alcuni punti, è di difficile lettura. Si riesce a distinguere il prenome, Rakvi, e il gentilizio, Satlnei, della donna. È importante sottolineare che si tratterebbe dell’unico caso attestato in tutta Bologna. La seconda parte è molto dibattuta dalla critica ma sembra collegarsi alla raffigurazione di Aiace Telamonio. Infatti, le lettere leggibili sembrano comporre le parole aivas telmuns. Attraverso le informazioni grammaticali in nostro possesso, si è pensato che venga evocato un rapporto genealogico della defunta con l’eroe.

La Stele Ducati 10, o “stele della nave”, con iscrizione etrusca, trovata nella necropoli Giardini Margherita e conservata al museo civico Archeologico di Bologna (foto Unibo)

Una nave verso l’aldilà. La stele Ducati 10 del sepolcreto dei Giardini Margherita, collocato a ovest della città antica, è nota anche come “stele della nave” ed è datata agli ultimi decenni del V secolo a.C. Sul lato principale, la decorazione è disposta su quattro registri. Si notano il viaggio verso l’aldilà del defunto su una quadriga trainata da cavalli alati e scene di giochi atletici. Sull’altra faccia, invece, campeggia una grande imbarcazione in mare. Il parallelismo tra le due parti rafforza il concetto del tragitto verso un mondo altro, svolto sia per mare che per terra. L’iscrizione [mi] suthi veluś [k]aiknaś, riportata a rilievo, è tradotta come “io sono la tomba di Vel Kaikna”, il verbo è sottinteso. Si trattava di una delle più importanti famiglie di Felsina. Studi recenti fanno pensare che fosse originaria di Volterra, i Kaikna o Ceicna, sono i Cæcinadi epoca romana. Questa stele era associata a un ulteriore segnacolo, che si data attorno al 400 a.C., su cui è riportata l’epigrafe veluś kaiknaś arnthrusla, ovvero “di Vel Kaikna, quello di Arnth” dove il nome del padre lo distingue dall’omonimo seppellito nelle immediate vicinanze. Si è supposta così l’esistenza di un recinto funerario familiare.

Il Laboratorio di Epigrafia etrusca dell’università di Bologna realizza il percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” attraverso alcune opere dei musei etruschi di Bologna, Marzabotto, Spina e Adria

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Andrea Gaucci dell’università di Bologna

Si chiama “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” il percorso multimediale, un vero e proprio museo virtuale, realizzato dagli studenti del laboratorio di Epigrafia etrusca dell’università Alma Mater di Bologna nell’ambito del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con la direzione del professor Andrea Gaucci. Il percorso multimediale propone una panoramica della scrittura etrusca nelle principali città dell’Etruria padana: Felsina-Bologna, Kainua-Marzabotto, Spina, Adria. Tema privilegiato che guiderà chi esplora questo percorso sarà la società etrusca e come questa si manifesta attraverso la scrittura. La variegata natura delle città interpreterà una diversa faccia di questa società: l’élite della metropoli a Felsina-Bologna, il rapporto con il sacro a Kainua-Marzabotto, la varietà multietnica nel porto di Spina, la mobilità delle persone nella più settentrionale città di Adria. Il percorso è stato realizzato dagli studenti del laboratorio di Epigrafia etrusca nel 2020 durante il lockdown, a contrasto della pandemia Covid-19. L’obiettivo è quello di rendere partecipi i visitatori del patrimonio storico dei Musei dell’Etruria padana attraverso oggetti iscritti, molto importanti per il loro valore documentario ma spesso difficilmente apprezzabili senza gli opportuni strumenti.

Il museo nazionale Etrusco di Marzabotto inserito nel percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana”

Il percorso è concepito come una rete che unisce i principali musei dell’Etruria padana: il museo civico Archeologico di Bologna, il museo nazionale Etrusco “P. Aria” di Marzabotto, i musei Archeologici nazionali di Ferrara e di Adria,  importanti istituzioni che hanno supportato questa iniziativa e hanno concesso l’uso delle immagini. Tutti gli oggetti iscritti che si incontreranno, sono esposti nei rispettivi musei. L’invito è ad apprezzarli dal vivo, dopo averne approfondito la conoscenza con il percorso multimediale. Intanto nei prossimi giorni presenteremo le ricerche realizzate all’interno dei quattro musei etruschi, articolate in testi e grafiche, e i racconti audio.