Roma. Il gruppo scultoreo “Orfeo e le sirene” ancora per pochi giorni al museo dell’Arte Salvata e poi tornerà a casa: il museo Archeologico nazionale di Taranto

Il gruppo “Orfeo e le sirene” esposto temporaneamente nella sala Ottagona del museo dell’Arte Salvata nel museo nazionale Romano (foto Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi / Mic)
Ancora pochi giorni. E poi “Orfeo e le Sirene”, il gruppo scultoreo in terracotta a grandezza naturale del IV sec. a.C., che negli anni ’70 venne illecitamente trafugato da un sito archeologico tarantino e acquistato poi dal The Paul Getty Museum di Malibu di Los Angeles, tornerà a casa: il museo Archeologico nazionale di Taranto. A grande richiesta il gruppo di Orfeo e le Sirene e tutti i reperti attualmente esposti al museo dell’Arte Salvata, nella sala Ottagona del museo nazionale Romano, resteranno a Roma fino all’8 gennaio 2023. È infatti stata prorogata la prima mostra del museo dell’Arte salvata che comprende, oltre allo straordinario gruppo in terracotta appena rientrato dall’Italia, anche recenti ritrovamenti del Reparto Operativo del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC).

“Orfeo e le Sirene”, il gruppo scultoreo magnogreco del IV sec. a.C. quando era esposto nelle sale del Getty Museum di Los Angeles (foto MArTa)
Il gruppo è rientrato da Los Angeles in Italia il 17 settembre 2022. Il rimpatrio dell’opera è stato possibile grazie alla complessa attività investigativa condotta in Italia e all’estero dell’Arma dei Carabinieri della Sezione Archeologia del Reparto Operativo del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale, coordinata dalla Procura della Repubblica di Taranto, in collaborazione con le autorità americane (vedi Roma. Dal Getty Museum di Los Angeles arriva al museo dell’Arte Salvata il gruppo di Orfeo e le Sirene: il ministero della Cultura e il Comando carabinieri TPC oggi presentano gli aspetti del rientro in Italia | archeologiavocidalpassato). L’inestimabile opera d’arte raffigura il mitico poeta Orfeo, capace di ammaliare con il suo canto tutti gli animali. Lo affiancano due sirene, che nella mitologia greca erano esseri per metà donne e per metà uccelli: anche il loro canto era capace di incantare i marinai, spesso inducendoli al naufragio. Ora, finalmente, con una complicata operazione di trasporto legata alla particolare fragilità delle opere, tornano a casa per incantare gli italiani. In attesa del rientro al museo Archeologico nazionale di Taranto del gruppo scultoreo “Orfeo e le Sirene”, ecco un contributo del direttore generale Musei, Massimo Osanna, in una video-intervista realizzata dall’ufficio stampa del Mic.
“Orfeo e le sirene, un gruppo straordinario proveniente probabilmente dal territorio di Taranto”, esordisce Osanna, “che racconta un mito antico, un mito di confronto tra due mistiche diverse: quella primordiale melodiosa delle sirene che porta la morte, e quella di Orfeo con la lira che porta l’anima alla sopravvivenza post mortem. Orfeo significa un movimento religioso, l’orfismo. Forse queste statue adornavano la tomba di un addetto ai misteri orfici, colui che facendo una vita in purezza e giusta dal punto di vista sociale assicurava poi all’anima una sopravvivenza. E quindi dobbiamo immaginare questa statua di Orfeo con una lira in mano e, di fronte, le sirene che sono già meste perché sanno di aver perso e si suicideranno. La morte delle sirene, che sono degli esseri ibridi, di passaggio tra la vita e la morte, sono ancora una volta, un simbolo funerario che ci rimanda appunto verso rituali del mondo dei morti.

Orfeo canta alle sirene: il gruppo scultoreo nella sala Ottagona del museo dell’Arte salvata nel museo nazionale Romano (foto mic)
“Ci sono poi gli antichi che raccontano di questo mito: negli Argonauti di Apollonio Rodio – ricorda per esempio Osanna – Orfeo canta, canta ai marinai che con la nave Argo incontrano le sirene e stanno per essere ammaliati. Tanto che uno di loro si getta in mare. Orfeo canta e salva i compagni che passeranno indenni da questa nuova avventura. Anche qui un rito di passaggio tra la vita e la morte.

Il gruppo Orfeo e le sirene: figure ibride di donna e di uccello (foto Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi / Mic)
“Le sirene non sono come ce le immaginiamo nel nostro contemporaneo: donne con corpo di pesce – spiega Osanna -. Sono come lo erano in antico, nel mondo greco e romano, figure ibride di donna e di uccello. Questa è l’iconografia più antica delle sirene che durerà per tutto l’evo antico. Le sirene come le conosciamo noi vanno di moda in età medievale. L’aspetto di uccello assicura che siano esseri canori. Le sirene cantano, un canto melodioso che, come sappiamo dall’Odissea, spinge poi i marinai alla perdizione.

Il volto di Orfeo del gruppo Orfeo e le sirene (foto Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi / Mic)
“Un gruppo di terracotta che originariamente era dipinto come dipinta era tutta la scultura del mondo antico, da quella in marmo a quella in terracotta – continua Osanna -. La terracotta è costantemente dipinta. Quindi le dobbiamo immaginare molto colorate. E questo spiega anche delle stranezze. Il volto di Orfeo, per esempio, con questa strana mancanza di capigliatura che ovviamente non doveva essere così in antico. Probabilmente grazie alla pittura, c’erano i capelli. Ci doveva essere un gioco di sguardi. Quindi molto abbiamo perso ma quello che resta comunque è straordinario.

Dettaglio di Orfeo del gruppo scultoreo Orfeo e le sirene (foto Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi / Mic)

Dettaglio di una sirena del gruppo scultoreo Orfeo e le sirene (foto Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi / Mic)
“Sono dei capolavori talmente unici che qualcuno ha pensato a dei falsi. Ma non è così. Anche indagini sull’argilla fatte in America hanno testimoniato che si tratta di opere antiche, forse in qualche parte ritoccata come si usa spesso nei frutti degli scavi clandestini. Questo viene fuori da uno scavo degli anni ’70 fatto da tombaroli che sono riusciti a far emigrare oltreoceano questo gruppo. Raramente un gruppo di terracotta rappresenta una scena mitica come questa. Non abbiamo paralleli in antico. Proprio per questo si è pensato a dei falsi. Invece – conclude Osanna – si tratta veramente di capolavori che ci insegnano anche quanto sia fragile il nostro patrimonio e quanto bisogna lavorare e lottare contro un fenomeno che ahimè esiste ancora anche se non raggiunge quella dimensione che ha avuto negli anni ’70 e ’80 quando il nostro patrimonio è stato sistematicamente saccheggiato da Pompei all’Etruria, dall’Etruria alla Puglia”.
Lipari. Al museo Archeologico “Luigi Bernabò Brea” si presenta il libro di Armin Wolf “Ulisse in Italia. Sicilia e Calabria negli occhi di Omero” che propone la mappa del viaggio di Odisseo basato su conoscenze nautiche e geografiche
L’Odissea di Omero è certamente un libro mondiale essendo noto in ogni angolo della terra. Ha affascinato tutte le generazioni e ha posto quesiti e interpretazioni fin da quando è apparso nella versione che oggi conosciamo. Cercare i luoghi dell’Odissea equivale a cercare Omero e già per i Greci il viaggio del ritorno (nostos) era situato in Occidente. Nel poema vi sono echi delle prime esplorazioni condotte dall’Egeo verso l’Occidente da parte dei Micenei nell’età del Bronzo e dei primi stanziamenti di Greci che si affermano a partire dall’VIII secolo a.C. Il 16 settembre 2022, alle 18, al museo Archeologico “Luigi Bernabò Brea”, nella sala superiore dell’ex chiesa di Santa Caterina, si viaggia sulla nave di Odisseo con la presentazione del libro di Armin Wolf “Ulisse in Italia. Sicilia e Calabria negli occhi di Omero”. Dopo i saluti istituzionali di Rosario Vilardo, direttore del parco archeologico delle isole Eolie e museo “Bernardo Bernabò Brea”, e Marcello Saija, presidente del Centro internazionale di Ricerca per la Storia e la Cultura Eoliana (CIRCE), introduce e coordina Maria Clara Martinelli, archeologa del parco. Presentano il volume di Armin Wolf, che sarà presente, Antonio De Caro, grecista e traduttore dal tedesco del testo di Wolf, e Massimo Cultraro, archeologo e dirigente del Cnr.

La copertina del libro di Armin Wolf “Ulisse in Italia. Sicilia e Calabria negli occhi di Omero”
Armin Wolf in “Ulisse in Italia”, dopo anni di studi, definisce un metodo di ricerca basato sulle conoscenze nautiche e geografiche, confrontate con informazioni sulle correnti marine, sui venti, sulle stelle e sulle eclissi di sole, per proporre una mappa del viaggio di Odisseo. Cioè non viene offerta semplicemente l’ennesima localizzazione dell’Odissea, bensì è sviluppato il metodo con cui si può stabilire in modo critico se in generale l’Odissea faccia riferimento a luoghi geografici reali o si svolga solamente nei mari della fantasia. Il risultato della ricerca, dispiegata alla scrivania e poi, in numerosi viaggi sul posto – con Omero alla mano – fra il 1962 e il 2016, verificata, precisata e documentata attraverso un cospicuo materiale illustrativo, in gran parte mai pubblicato prima, è il seguente: Omero descrive effettivamente un (suo?) viaggio. Questo viaggio si svolge intorno alla Sicilia e attraverso l’Italia. Il poeta localizza le avventure di Ulisse presso le coste che i Greci del suo tempo, cioè nel sec. VIII a.C., stavano scoprendo nel corso della colonizzazione in Occidente. In tal modo egli trasmette il più antico documento testuale della storia della Tunisia, di Malta, della Sicilia e dell’Italia. Il libro contiene inoltre la prima storia delle localizzazioni dell’Odissea avvenute fino ad oggi. La convinzione, ampiamente invalsa, che l’Odissea si svolga in modo fiabesco, viene messa criticamente in discussione. Inoltre, il libro di Armin Wolf raccoglie in un intero capitolo la storia delle localizzazioni che lette tutte insieme fanno capire bene l’attrazione magnetica delle avventure di Odisseo. Cosa accade alle “cosiddette isole Eolie” citate da Tucidide nel V secolo a.C.? E Lipari, l’antica Meligunis dove Odisseo è accolto presso la reggia di Eolo come racconta Parthenius nel I secolo a.C.? Nel viaggio tracciato dall’autore, l’isola di Eolo è Malta, Stromboli rappresenta le rupi erranti ma anche l’omphalos ovvero l’ombelico del mare, Lipari (o Panarea) è Ogigia l’isola di Calipso. Interessante è la localizzazione della terra dei Feaci, che per Omero non è un’isola, in quella parte di Calabria stretta tra il golfo di Sant’Eufemia e quello di Squillace.
Napoli. Al museo Archeologico nazionale si presenta il libro “Heinrich Schliemann a Napoli” che restituisce la figura dello scopritore di Troia ma anche il suo profondo legame con la città partenopea e i siti vesuviani

Tutti conoscono il nome di Heinrich Schliemann, il mitico scopritore di Troia e poi di Micene, Tirinto e Orcomeno. Al pensiero di Micene i nostri ricordi vanno alla “maschera d’oro di Agamennone”, raffigurata nel libro di storia della terza elementare. Meno noto è il suo legame con Napoli, dove morì nel 1890. Di quest’ultimo aspetto, soprattutto, si parla nel libro “Heinrich Schliemann a Napoli” (Francesco D’Amato Editore) con saggi di Umberto Pappalardo, Sybille Galka, Amedeo Maiuri, Carlo Knight, Lucia Borrelli, Massimo Cultraro, e una nota di Paolo Giulierini. Il libro “Heinrich Schliemann a Napoli” sarà presentato mercoledì 22 settembre 2021, alle 17, nel Giardino delle Fontane del museo Archeologico nazionale di Napoli. Interverranno Paolo Giulierini (direttore del Mann), Umberto Pappalardo (direttore del Centro Internazionale di Studi Pompeiani), Massimo Cultraro (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e Lucia Borrelli (Centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche dell’università Federico II). Il giornalista Carlo Avvisati de “Il Mattino” modererà il dibattito. Per partecipare è obbligatoria la prenotazione inviando una mail a info@damatoeditore.it.


Heinrich Schliemann con gli scavatori riportano alla luce l’antica Troia sulla collina di Hisarlik in Turchia
Il nome di Troia ci riporta invece al liceo, all’Iliade e alll’Odissea, alla questione omerica, dove ci si domandava: ma Omero sarà mai esistito? E come era possibile che un cantore della fine dell’VIII secolo (la scrittura fu introdotta intorno al 750 a.C.) potesse descrivere con tanti dettagli una città messa a ferro e fuoco intorno al 1250 a.C., ovvero 500 anni dopo? Tanti interrogativi Schliemann non se li pose, guidato dalla fede assoluta nella veridicità di Omero e bene armato di zappa e pala (come lui stesso scrive), scavò sulla collina di Hissarlik, in Turchia, e trovò Troia. Ma Schliemann è stato anche lo scopritore della “civiltà micenea”, restituendo all’umanità ben mille anni di storia dei quali, prima di lui, non si conoscevano – al di fuori dei racconti omerici – le testimonianze concrete.


Copertina del libro “Heinrich Schliemann a Napoli”
Questo valore di Schliemann quale “artefice” o “restitutor” della storia è ben delineato nel primo saggio di Sybille Galka, cuore e anima della Società e del Museo “Heinrich Schliemann” di Ankerhagen, che fu la città dove egli trascorse la sua prima infanzia. Seguono un saggio del celebre archeologo Amedeo Maiuri, che fu soprintendente di Pompei ed Ercolano (e non solo) e direttore del museo Archeologico nazionale di Napoli e uno di Umberto Pappalardo sulla sua intensa attività di viaggiatore: infatti Schliemann fece scorrerie per il mondo immaginabili per un uomo di quell’epoca, giungendo in America (dove prese la cittadinanza), Africa, India, Cina e Giappone.


Heinrich Schliemann, morto a Napoli nel 1890
Venne anche almeno dieci volte a Napoli, non solo perché da qui prendeva la nave per raggiungere la sua casa ad Atene, ma anche perché amava questa città. Nonostante Napoli non fosse più la splendida capitale europea del secolo XVIII ma fosse divenuta nell’Ottocento socialmente molto problematica, c’erano tante cose da vedere: Pompei, Ercolano, il Museo Archeologico, il Teatro San Carlo e poi il Vesuvio, Sorrento, Capri e tanto altro ancora! Non è quindi un caso che morì proprio a Napoli, a Natale del 1890, prima di imbarcarsi per Atene… voleva ancora rivedere le nuove scoperte di Pompei e le nuove acquisizioni del museo Archeologico nazionale. In Italia aveva conosciuto dapprima a Pompei il giovane ispettore Giuseppe Fiorelli, che avrebbe poi rivisto a Napoli come direttore del Museo Nazionale e nuovamente a Roma in qualità di direttore generale delle Antichità del nuovo Regno d’Italia. Con Fiorelli ebbe dunque un lungo sodalizio, testimoniato da un frequente scambio epistolare. Carlo Knight spiega perché alcune di queste lettere, proprio alcune fra le più importanti, non ci sono pervenute. Possedute dal napoletano Domenico Bassi, che nel 1927 le pubblicò nell’ormai raro libro “Il carteggio” di Giuseppe Fiorelli. In Italia ne sono custoditi solo due esemplari, uno a Milano e uno a Venezia, qui riprodotto in appendice insieme alle trascrizioni dei diari di viaggio napoletani, i cui originali sono custoditi oggi presso l’American Academy di Atene.
Il paesaggio protagonista al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria: nel secondo incontro l’archeologo Maurizio Cannatà ricostruisce “Un paesaggio ‘perduto’ della Calabria antica. Pausania e la palaia graphè di Temesa”

“Il paesaggio torna protagonista al museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria”, così il direttore Carmelo Malacrino presenta il secondo incontro della rassegna “Paesaggi della storia. La Calabria e il suo territorio attraverso le collezioni del MArRC”, sulla pagina Facebook del Museo. “È il secondo appuntamento della rassegna dedicata al tema “Paesaggi della storia. La Calabria e il suo territorio attraverso le collezioni del MArRC”, commenta il direttore. “L’incontro si inserisce nel proseguo delle iniziative legate alla Giornata Nazionale del Paesaggio, istituita dal Ministero diretto da Dario Franceschini. Il MArRC, così, continua a portare le sue collezioni sui canali social in attesa di poter presto riaprire le porte del Museo al pubblico”. Nell’incontro del mese di aprile il funzionario archeologo Maurizio Cannatà intrattiene il pubblico con la conferenza “Un paesaggio ‘perduto’ della Calabria antica. Pausania e la palaia graphè di Temesa”.
“Nessun’altra civiltà del mondo antico ha creato un sistema narrativo di racconti leggendari paragonabile a quello dei Greci”, commenta Cannatà. “Per secoli, attraverso il mythos (letteralmente ‘racconto’) e attraverso le storie dei suoi protagonisti principali, gli ‘eroi’, i Greci hanno narrato il loro passato più antico, ricostruendo le loro origini e legittimando il loro potere sul territorio, spesso a discapito di popolazioni non greche. La storia della Magna Grecia – continua- ci ha restituito numerosi esempi di questo fenomeno culturale. Quello più affascinante, sicuramente il più noto, sin dall’antichità, fu il mito dell’Eroe di Temesa, città costiera della Calabria tirrenica, poiché affonda le sue radici direttamente nell’Odissea, il poema fondativo della civiltà occidentale”.

“Temesa – spiega l’archeologo del MArRC- fu una delle tappe dell’avventura ‘italiana’ di Ulisse, il luogo dove uno dei suoi compagni, Polites, si ubriacò e violentò una fanciulla, essendo per questo ucciso dagli abitanti del luogo. Lasciato insepolto da Ulisse, che si affrettò a salpare con le sue navi, il corpo di Polites si trasformò in demone, perseguitando la comunità di Temesa. Da quell’antefatto nacque il mito di un eroe-lupo, cui veniva offerta in ogni anno la più bella fanciulla di Temesa per placare la sua ira, fino all’arrivo del prode Euthymos, un personaggio storico realmente esistito, pugile olimpionico e comandante dell’esercito locrese, che vinse in battaglia il demone liberando per sempre Temesa dal gravoso tributo. Una leggenda al confine tra il mito e la storia, quindi, da cui nacque addirittura un proverbio, noto in tutto il mondo antico, che metteva in guardia tutti coloro che erano artefici di soprusi e ingiustizie, dell’arrivo, prima o poi, dell’eroe di Temesa. Grazie a Pausania, scrittore greco del II secolo d.C., sappiamo che questa storia era così famosa da essere rappresentata in una pittura antica, in cui era raffigurato il ‘paesaggio mitico’ di Temesa, con la città, il suo fiume, la sua fonte e, soprattutto, il suo ‘Eroe’ vestito di lupo. La pittura era conservata a Olimpia, nel più importante santuario del mondo greco, dove i Greci conservavano le memorie del proprio passato mitico, e con esse anche della storia di Temesa e del suo Eroe”.
Forlì. Ai musei San Domenico la grande mostra “Ulisse. L’arte e il mito”. Un viaggio nell’arte mai raccontato che ripercorre, con 250 opere attraverso i secoli, le vicende del più antico e moderno personaggio della letteratura occidentale: Ulisse
Dall’Odissea alla Commedia dantesca, da Tennyson a Joyce e a tutto il Novecento, di volta in volta, Ulisse è l’eroe dell’esperienza umana, della sopportazione, dell’intelligenza, della parola, della conoscenza, della sopravvivenza e dell’inganno. È “l’uomo dalle molte astuzie e “dalle molte forme”. Dopo la Guerra di Troia, quando affronta le sue avventure nel viaggio del lungo ritorno, egli è già un personaggio famoso. Ma quel viaggio è anche la faticosa riconquista di sé, della propria identità, attraverso il recupero narrativo della sua vicenda alla corte di Alcinoo, attraverso la memoria del ritorno. Così come accade all’arte, che narra narrandosi, che racconta l’oggetto e la sua forma stilistica. All’eroe omerico, eroe dell’esperienza umana, è dedicata la grande mostra “Ulisse. L’arte e il mito”, ospitata ai musei San Domenico di Forlì fino al 31 ottobre 2020, a cura della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì e sotto l’egida di Gianfranco Brunelli, direttore dei progetti espositivi, e del comitato scientifico presieduto dal prof. Antonio Paolucci e con la main partnership di Intesa Sanpaolo. Una nuova, ambiziosa sfida. Un viaggio nell’arte mai raccontato che ripercorre, attraverso i secoli, le vicende del più antico e moderno personaggio della letteratura occidentale: l’uomo dal “multiforme ingegno”, Ulisse. La vasta ombra di Ulisse si è distesa infatti sulla cultura d’Occidente. Dal Dante del XXVI dell’Inferno allo Stanley Kubrick di 2001 – Odissea nello spazio, dal capitano Acab di Moby Dick alla città degli Immortali di Borges, dal Tasso della Gerusalemme liberata alla Ulissiade di Leopold Bloom l’eroe del libro di Joyce che consuma il suo viaggio in un giorno, al Kafavis di Ritorno ad Itaca là dove spiega che il senso del viaggio non è l’approdo ma è il viaggio stesso, con i suoi incontri e le sue avventure. È il mito che si è fatto storia e si è trasmutato in archetipo, idea, immagine. E che oggi, come nei millenni trascorsi, trova declinazioni, visuali, tagli di volta in volta diversi. Specchio delle ansie degli uomini e delle donne di ogni tempo.
La mostra era inizialmente prevista dal 15 febbraio al 21 giugno 2020. Ma la chiusura temporanea per decreto governativo legata alla pandemia da coronavirus di tutti i luoghi della cultura, compresi teatri e musei, ha costretto gli organizzatori a riprogrammare la mostra dal 19 maggio al 31 ottobre 2020. Per venire incontro a quanti avrebbero avuto piacere a visitare l’esposizione forlivese, durante il lockdown per iniziativa della Regione Emilia Romagna, è stato realizzato da LepidaTv un video sulla mostra “Ulisse, l’arte e il mito”. “Il più grande viaggio nell’arte”, spiegano i curatori del programma, “raccontato in un video documentario che affronta il tema di Ulisse e del suo mito, che da tremila anni domina la cultura dell’area mediterranea ed è oggi universale. La mostra illustra un itinerario senza precedenti, attraverso capolavori di ogni tempo: dall’antichità al Novecento, dal Medioevo al Rinascimento, dal naturalismo al neo-classicismo, dal Romanticismo al Simbolismo, fino alla Film art contemporanea”. Il documentario di Lepida Tv è stato curato da Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, in collaborazione con Comune di Forlì, IBC, APT Emilia-Romagna, e Regione Siciliana.
Fin dall’antichità gli artisti non hanno cercato di illustrare in forma puramente didascalica l’intera Odissea. Se l’età arcaica privilegia gli episodi di Polifemo, di Circe, di Scilla e delle Sirene, l’età classica aggiunge gli incontri e i riconoscimenti: l’incontro con Tiresia, Atena, Nausicaa e Telemaco, il dolore e l’inganno della tela di Penelope, il riconoscimento della nutrice Euriclea, la strage dei Proci. L’ellenismo aggiunge l’incontro domestico e commovente con il cane Argo, l’abbraccio e il riconoscimento tra Ulisse e Penelope, l’arte romana infine, oltre a ripetere i modelli precedenti, raffigura, quale epilogo consolatorio, l’abbraccio tra Ulisse e il padre Laerte. L’arte antica non è interessata a mettere in scena il poema epico, quanto un uomo che attraverso le sue molteplici e dolorose esperienze ha imparato a conoscere se stesso. Dante, che scrive 2000 anni dopo Omero, usa gli autori latini che sottolineano le qualità di Ulisse. Così nel canto XXVI dell’Inferno egli conferisce a Ulisse una nuova e diversa centralità. L’Ulisse di Dante non è spinto dalla nostalgia del ritorno, né, come l’Enea virgiliano, è mosso da una missione, egli è un viandante spinto dall’ardore “a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, e si lancia “per altro mare aperto”, verso il “folle volo”.

La testa di Ulisse dal museo Archeologico nazionale di Sperlonga, simbolo della mostra di Forlì (foto museo Sperlonga)
Le sale del San Domenico (formato dalla chiesa di San Giacomo, da un primo chiostro ad essa adiacente e completamente chiuso e da un secondo chiostro, aperto su un lato) ospitano 250 opere tra le più significative, dall’antico al Novecento, suddivise in 16 sezioni, in un percorso museale che comprende pittura, scultura, miniature, mosaici, ceramiche, arazzi e opere grafiche, e che si snoda attraverso i più grandi nomi di ogni epoca. A partire dall’Ulisse di Sperlonga, opera in marmo del I sec. d.C., immagine simbolo della mostra, e dall’Afrodite Callipigia dell’antichità. Nella suggestiva cornice del San Giacomo è possibile ammirare il Concilio degli dei di Rubens, e via via la Penelope del Beccafumi, la Circe invidiosa di Waterhouse arrivata dall’Australia, fino a Le Muse inquietanti di De Chirico, all’Ulisse di Arturo Martini e al cavallo statuario di Mimmo Paladino. Di assoluto prestigio le collaborazioni con i più importanti musei nazionali e internazionali, tra i quali il Musée d’Orsay di Parigi, la Royal Academy di Londra, il museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, il Metropolitan Museum of Art di New York, i musei Vaticani, le Gallerie degli Uffizi di Firenze, le Gallerie d’Italia, e l’università di Ginevra.
“La sirena: soltanto un mito? Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza”: una singolare mostra al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma affronta il tema delle creature fantastiche rappresentazione di rare patologie, come la sirenomelia

Il famoso episodio dall’Odissea con Ulisse che resiste alle sirene (donne-uccello) rappresentato su uno stamnos da Vulci oggi al British Museum
Il loro canto ammaliava i marinai che rischiavano di morire se si avvicinavano loro incautamente. Sono le sirene, con l’aspetto di donna nella parte superiore del corpo e di uccello in quella inferiore, che gli antichi ritenevano abitassero un’isola tra Scilla e Cariddi, un’isola mortifera disseminata di cadaveri in putrefazione. Lo sapeva bene Ulisse, come ci racconta Omero nell’Odissea, che – su consiglio della maga Circe – riuscì a superare indenne il canto delle sirene, intonato per causare la morte sua e del suo equipaggio: “Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,/ e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce./ Nessuno è mai passato di qui con la nera nave/ senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele,/ ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose” (Odissea XII, 184-8: traduzione di Giuseppe Aurelio Privitera, Milano 2007). Ma l’immagine della sirena che noi oggi abbiamo è ben diversa: sono creature fantastiche che popolavano il mare, con il busto umano e con la coda di pesce, un’immagine che prende forma solo dall’VIII-IX secolo d.C. con il Liber Monstrorum, un bestiario e trattato di mirabilia, che parla chiaramente della figura della sirena come oggi noi la intendiamo, codificata e resa immortale dal 1913 con la realizzazione della statua della Sirenetta che attende malinconica il suo principe, monumento simbolo di Copenaghen. In realtà queste creature acquatiche erano note anche nell’antichità, ma i greci non le chiamavano sirene. Per loro erano nereidi e tritoni. Il tema affascinante delle sirene è affrontato in una singolare mostra “La sirena: soltanto un mito? Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza” aperta fino al 30 settembre 2018 nella sala Venere del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.

La mostra “La sirena: soltanto un mito?” allestita nella sala Venere del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma
Come si intuisce già dal titolo, l’approccio alla mostra è più scientifico che letterario. Non è un caso infatti che la ricerca che ha portato alla mostra sia stata curata dal museo di Villa Giulia e dalla Fondazione San Camillo Forlanini, con il coinvolgimento del museo di Storia della Medicina del Dipartimento di Medicina Molecolare e del Polo museale dell’Università “Sapienza” di Roma, e promossa in occasione del decennale della Fondazione San Camillo Forlanini di Roma e dell’evento “Premio 2018 – Eccellenze in Sanità”, attribuito il 13 giugno 2018 nel prestigioso contesto del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, contestualmente all’inaugurazione della mostra “La sirena: soltanto un mito? Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza”.

Il singolare ex-voto proveniente da scavi ottocenteschi a Veio sembra evocare un corpo affetto da una rarissima malformazione congenita, la sirenomelia
Focus della mostra è un raro e singolare tipo di ex-voto, frutto di scavi ottocenteschi condotti a Veio ed esposto dal 2012 nella sala 39 del museo di Villa Giulia. Generalmente interpretato come una rappresentazione schematica della parte inferiore del corpo umano, in coerenza con quella semplificazione dei processi produttivi a cui si assiste nel corso dei secoli III-II a.C., questo particolarissimo votivo anatomico sembra invece evocare suggestivamente un corpo affetto da una rarissima malformazione congenita, la sirenomelia. Questa gravissima patologia determina lo sviluppo di un singolo arto, simile a una coda di pesce, mentre il feto è nel grembo della madre e dunque è immediatamente evidente alla nascita. Intorno a questa singolare storia di religione e di scienza ruotano racconti e immagini che fanno comprendere come nel mondo antico fossero ritenute “straordinarie” patologie rare, quali il nanismo e l’epilessia, solo per citarne alcune. “Nel mondo etrusco”, spiegano gli archeologi, “si hanno varie manifestazioni del sacro collegate all’evidenza di anomalie o di comportamenti divergenti dalla norma in bambini ritenuti prodigiosi. Nella letteratura latina ricorrono frequentemente termini quali monstrum, prodigium, confrontabili con il greco teras, che esprimono concetti legati a eventi “soprannaturali”, considerati come segni divini e a volte presagi funesti”.

Tavola anatomica del 1829 sulla sindrome sirenomelica, eccezionale reperto del museo di Anatomia patologica dell’università La Sapienza di Roma
Accanto alle “storie” di malattie “prodigiose” che ci giungono dal mondo antico, la mostra getta uno sguardo sull’attualità e sull’evoluzione degli strumenti chirurgici. Dal museo di Anatomia patologica dell’università La Sapienza di Roma viene eccezionalmente prestato il reperto anatomico di una neonata affetta da sirenomelia, patologia di cui la Fondazione San Camillo Forlanini ha delineato le problematiche cliniche e gli strumenti diagnostici. Dal museo di Storia della Medicina dell’università La Sapienza di Roma giungono in mostra interessanti manufatti che illustrano l’evoluzione dello strumentario chirurgico fin dall’età romana, chiaramente connessa con il progredire delle teorie e delle conoscenze anatomiche e mediche. Infine tre video dell’archivio storico video “Adalberto Pazzini” del medesimo museo, installati nella saletta adiacente alla Sala Venere che ospita la mostra, consentono al visitatore di approfondire aspetti della ritualità e delle pratiche magiche popolari (Magia dell’assurdo), di conoscere i dettami della Scuola Medica Salernitana (Chirurgia medievale) e di ripercorrere le raffigurazioni artistiche di patologie e interventi terapeutici (Arte e medicina).
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