Milano. Ultimi giorni al Mudec per visitare la mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca”: viaggio dalle origini all’apoteosi dell’Impero Inca
È un viaggio meraviglioso – dalle origini all’apoteosi dell’Impero Inca – quello che il Mudec propone ai visitatori ancora per una settimana, fino al 19 febbraio 2023, con il grande progetto espositivo “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca”. Una mostra che attraverso manufatti plurimillenari, video, ricostruzioni immersive 3D e un allestimento per immagini che rende l’idea di un vero e proprio viaggio nel tempo, traghetterà il pubblico indietro nei millenni raccontando la storia di una civiltà tanto gloriosa quanto antica e remota e di cui spesso si conosce solo l’ultimo tassello, quello più recente e universalmente reso famoso dal ritrovamento dei resti della grande città sacra di Machu Picchu. Ma la storia del Perù inizia da molto, molto più lontano.

Il suggestivo ingresso del percorso della mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù” al Mudec (foto mudec)
Il progetto, a cura di Ulla Holmquist direttrice del museo Larco di Lima e dell’archeologa Carole Fraresso, attraversa la storia artistica e la biodiversità andina in tutta la sua ampia dimensione geografica e profondità cronologica, per culminare con un viaggio ideale nella città inca di Machu Picchu. La mostra è promossa dal Comune di Milano-Cultura e realizzata da World Heritage Exhibitions (Cityneon Holdings) e 24 ORE Cultura, in collaborazione con il Governo del Perù e il ministero della Cultura del Perù, l’associazione Inkatera, e grazie alla collaborazione con il museo Larco di Lima, da cui provengono gli oltre 170 manufatti in mostra, opere in terracotta dalla grande espressività e perfezione tecnica, ma anche ori, argenti e tessuti. Una parte del percorso è dedicata all’avventuroso viaggio al fianco del mitico eroe della Cultura moche Ai Apaec attraverso il quale il pubblico scoprirà i misteri della cosmologia andina, muovendosi trasversalmente attraverso i tre piani dell’universo: il sopra, il qui e il sotto. “Machu-Picchu e gli Imperi d’oro del Perù” a Milano è l’esclusiva tappa italiana di un tour internazionale.

Il percorso immersivo della mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù” al Mudec (foto mudec)
Una mostra-racconto. La mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca” è la narrazione di una storia nella Storia, uno storytelling che si dipana tra video immersivi, ricostruzioni 3D degli ambienti e delle biodiversità e soprattutto manufatti, che prima di essere reperti archeologici furono monili, tessuti e capi d’abbigliamento indossati da uomini e donne che vissero pienamente nel loro mondo e nella loro società, fatta di leggi e costumi, di conoscenze e riti, di simboli e tradizioni, di miti e leggende.

Copricapo frontale con felini e condor in foglia d’oro della Cultura Moche (100 – 800 d.C.), conservato al museo di Lima (foto museo larco)
La mostra racconta al pubblico questo mondo scomparso, eppure ancora così contemporaneo. Il percorso conduce il pubblico all’interno della culla di una delle più grandi civiltà antiche dell’Emisfero Meridionale. Il Perù dell’età antica, eguagliato solo dall‘Antico Egitto – con cui rivaleggia in longevità – e da Roma per il livello tecnico raggiunto, ha accolto nel suo alveo società potenti e sofisticate, che prosperarono per cinquemila anni su un territorio geografico decisamente vario. Il Perù e la sua storia si estendono dalle fertili coste bagnate dalle acque dell’Oceano Pacifico, attraverso il deserto roccioso, fino al gelido altipiano andino (Altiplano Andino), per poi tuffarsi nell’area tropicale del Bacino del Rio delle Amazzoni. Adagiata su una cresta montuosa, avvolta dalla foresta nebulosa e al di sopra della foresta pluviale, la città di Machu Picchu è il simbolo, che tuttora sopravvive, del grande Impero degli Inca, la cui fine improvvisa e violenta avvenne con la Conquista spagnola terminata nel 1572.

Veduta del sito archeologico di Machu Picchu, la città sacra sull’altopiano meridionale, Valle dell’Urubamba, in Perù (foto eduard ermanntraut unsplash)
Machu Picchu. Il percorso della mostra parte proprio da Machu Picchu, raccontando la fine della storia dei grandi regni andini, e inizia con un video immersivo che introduce il lussureggiante paesaggio andino, dove le riprese aeree individuano Machu Picchu, la cittadella di pietra patrimonio culturale e naturale UNESCO, costruita nel 1450 all’apice dell’Impero Inca, e con essa i suoi dintorni straordinari. Invisibile dal basso, Machu Picchu è una fortezza nascosta nella foresta nebulosa, protetta da due montagne sacre gemelle che affondano alla base nella foresta pluviale amazzonica. Centro religioso, osservatorio astronomico e luogo di ingegnosità e produzione agricola, Machu Picchu è un complesso formato da più di 200 strutture in pietra – templi, palazzi, “plazas” (spazi aperti), abitazioni. Protetta dall’invasione spagnola, Machu Picchu venne inglobata dalla foresta pluviale, fino a quando lo storico di Yale Hiram Bingham la rivelò al mondo nel 1911.

Nella mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù” al Mudec gli oggetti sono sono raggruppati secondo il loro significato simbolico (foto mudec)

La maschera funeraria che rappresenta il volto di Ai Apaec (foto mudec)
Leggere gli oggetti. In un ambiente che ricostruisce la foresta pluviale amazzonica, con le sue voci e i suoi colori, la mostra prosegue e aiuta a interpretare, o “leggere”, gli oggetti che incontreremo nell’esposizione. Pur non avendo una lingua scritta, uomini e donne delle società andine rendevano testimonianza delle storie delle collettività cui appartenevano attraverso immagini simboliche visibili sulle pareti dei templi o attraverso sculture di pietra, incisioni lignee, recipienti di ceramica, tessuti e oggetti d’oro e d’argento di incomparabile fattura. Gli oggetti sono raggruppati secondo il loro significato simbolico, ed erano questi i ‘libri’ nei quali venivano documentate le credenze, i rituali, la visione del mondo, le strutture di potere e la vita delle comunità. Vicino all’uscita, un’impressionante maschera funeraria in rame, con artigli di felino fatti di conchiglie e ornamenti per le orecchie a forma di serpente, introduce la figura dell’eroe mitologico, il capo Ai Apaec.

Ciotola in ceramica svasata con rappresentazione di episodi di epica mitologica di Ai Apaec della cultura Moche, conservata al museo di Lima (foto mudec)
Il viaggio eroico di Ai Apaec. Il viaggio dell’eroe mitologico della Cultura Moche Ai Apaec è al centro di questa parte della mostra. Capo di una comunità rurale, Ai Apaec fu capace di imbrigliare le forze della natura e di affrontare una serie di trasformazioni che gli permetteranno di attraversare mondi diversi, fino all’estrema trasformazione, la sua stessa morte. Dopo essere rinato, l’eroe si unirà alla Madre Terra, la Pachamama, assicurando così la continuità dei cicli naturali che procurano sole e pioggia, elementi necessari per la vita. Le immagini proiettate lungo le pareti di questa sezione della mostra danno vita a una vera e propria ‘storia illustrata’, un percorso che racconta al pubblico con l’immediatezza delle immagini non solo la storia di Ai Apaec, ma attraverso le sue gesta eroiche anche i miti e il mondo simbolico che rappresenta il substrato su cui è stato costruito nei secoli l’universo culturale dell’antico Perù, e di cui è fortemente intriso ancora oggi l’immaginario religioso, simbolico e misterico del Perù contemporaneo.

Vasi-bottiglia che rappresentano Ai Apaec a forma di granchio (foto mudec)
Vengono raccontati con il linguaggio delle immagini anche i tre mondi che coesistono simultaneamente nella cosmologia andina: Il Mondo di Sopra; il Mondo del Qui e Ora, o Mondo di Mezzo, il luogo dove le persone vivono e lavorano nelle comunità accanto agli animali, alle piante, ai fiumi e alle montagne, e infine il Mondo Basso, il mondo dell’oceano, il mondo sotterraneo, la terra che sta sotto i nostri piedi, su cui cade la pioggia e dove maturano i semi e la terra degli antenati, ovvero il luogo dove vanno le persone quando muoiono. Gli incontri che fa Ai Apaec e le sue esperienze simboleggiano le sfide del mondo naturale che uomini e donne andini si trovano a fronteggiare nel Qui e Ora. La storia mette in evidenza i cardini della cosmologia andina: come sia necessario dare per ricevere e quanto sia importante onorare gli antenati, ringraziare gli Dei e lavorare, fare sacrifici e offerte per mantenere l’equilibrio dei cicli naturali che rendono possibile la vita.

Coppa del sacrificio cerimoniale nella mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca” al Mudec (foto mudec)
Rituali: la caccia al cervo e il Sacrificio. Il mondo andino si fonda sulla reciprocità: è necessario dare per ricevere. Affinché i cicli naturali abbiano continuità e si mantenga l’equilibrio tra i tre mondi, si devono compiere rituali, fare sacrifici e portare offerte agli Dei. Un rituale comune era rappresentato dalla caccia al cervo. L’uccisione di questi animali, cui veniva attribuito un grande valore e la cerimonia che ne conseguiva venivano eseguiti unicamente dai membri dell’élite della società, che assumevano il ruolo di predatori canalizzando il potere dei felini. La storia viene narrata con la proiezione di immagini del rituale, che sono state prese da un vaso a staffa, che riveste un’importanza fondamentale. I rituali che si eseguivano nei templi erano strettamente riservati agli sciamani e ai capi delle comunità e venivano compiuti in spazi lontani dalla vista del pubblico. Gli oggetti in esposizione raffigurano musicisti e strumenti musicali. Un ampio tamburo Nazca a forma di sciamano ha dei grandi occhi che indicano uno stato di allucinazione. Un video spiega come, similmente a quanto accadeva in molte culture antiche – come quella azteca, celta, greca e romana, tra le altre – le comunità andine praticassero sacrifici umani. Lungo la mostra ci si muove dentro uno spazio che ricrea l’interno di un tempio, dove i prigionieri venivano preparati per il sacrificio e dove erano collocati gli altari. Nel corso del rituale i guerrieri che erano stati sconfitti venivano legati con corde e, similmente ad Ai Apaec, compivano il sacrificio estremo. Nel momento in cui veniva loro tagliata la gola, essi venivano trasformati in esseri sacri. Il loro sangue – il sangue che dà la vita – veniva raccolto in coppe ed offerto ai sommi sacerdoti, cioè ai rappresentanti degli Dei.

La galleria degli antenati nella mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù. In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca” al Mudec (foto mudec)

Sepoltura imperiale Chimu: regali in oro della Cultura Chimu dal museo Larco di Lima (foto museo larco)
L’incontro con gli antenati. Passando sotto un arco a forma di serpente, si entra in una galleria buia, illuminata da un bagliore radiante. Una sontuosa esposizione di manufatti d’oro, d’argento, di rame e di pietre preziose, culmine di maestria e talento, è collocata sullo sfondo di una lussureggiante foresta pluviale, verde e rigogliosa. È il momento dedicato agli antenati, che si presentano al visitatore nell’abbigliamento col quale furono seppelliti. I signori, le signore, i re, le regine e gli imperatori del mondo andino incarnavano gli Dei. Gli abiti preziosi ed i gioielli che indossavano simboleggiavano ciò che erano su questa terra e quello che potevano diventare dopo la morte. I capi politici e religiosi delle comunità, i governanti, personificavano le forze che rendono possibile la vita in questo luogo di acque gelide, deserti aridi e foreste pluviali tropicali. Essi erano in grado di canalizzare il potere del Sole, della Luna e delle stelle con l’oro e l’argento. I metalli preziosi che indossavano non venivano scelti per il valore monetario, bensì per ciò che rappresentavano per l’intera comunità: l’oro era il sudore del Sole e l’argento le lacrime della Luna. I metalli erano il simbolo dei poteri divini che legittimavano il potere dei governanti. Splendenti come corpi celesti, i capi davano la possibilità alla vita di prosperare per il bene dell’intera comunità. Quando morivano venivano sepolti indossando tutto lo splendore dei metalli e si trasformavano in esseri soprannaturali.

Il sito archeologico di Machu Picchu in Perù (foto tomas sobek unsplash)
Machu Picchu oggi. Al di là della Porta del Sole, un murale di Machu Picchu incombe attraverso la foresta nebulosa. Siamo tornati alla cittadella di pietra degli Inca e siamo rientrati nel ventunesimo secolo. Alcune persone impegnate in un progetto di conservazione, che ha avuto inizio nel 1975, descrivono il loro ruolo e l’impatto della riforestazione in quest’area. Testimonianze video di sciamani e di membri delle comunità andine contemporanee spiegano al pubblico l’importanza e il potere della natura nella vita sulle Ande, il valore del Rito e del suo perpetuarsi nelle celebrazioni e nei cerimoniali, ancora oggi.

La postazione integrata di realtà virtuale a movimento VR visivo e sonoro nella mostra del Mudec (foto mudec)
L’esperienza immersiva. La mostra offre infine l’opportunità di sperimentare – attraverso una sala immersiva a parte rispetto al percorso espositivo – una vera e propria simulazione di volo sopra la città sacra di Machu Picchu che stimolerà i sensi della vista, dell’udito e il senso del movimento attraverso una postazione integrata di realtà virtuale a movimento VR visivo e sonoro. Si potrà così provare la sensazione reale, ‘fisica’ di volare sopra i resti del Monumento Patrimonio Unesco e sopra le montagne sacre e la foresta amazzonica, in compagnia di una guida virtuale che ‘volerà’ con noi raccontando la storia di questo magico sito, accompagnandoci in un vero e proprio viaggio emozionale.
“Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America”: in mostra al museo internazionale delle Ceramiche di Faenza trecento reperti tra terrecotte e tessuti, e poi propulsori, sculture, stele, che raccontano in modo nuovo ed emozionale le culture precolombiane

Dettaglio di una figura di divinità scelta per il manifesto della mostra “Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America” al Mic di Faenza
Il museo internazionale delle Ceramiche (Mic) di Faenza “scava” nelle proprie collezioni e depositi. Il risultato è la mostra “Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America”, a cura di Antonio Aimi e Antonio Guarnotta, aperta al pubblico dall’11 novembre 2018 al 28 aprile 2019: una mostra dove fascino, bellezza, storia, tecnologia e ricerca scientifica si intersecano e si fondono per offrire al pubblico, uno spettacolo per gli occhi e interrogativi per la mente. In mostra circa trecento reperti (terrecotte e tessuti) della collezione del MIC di Faenza insieme ad altre opere (propulsori dorati, sculture, stele, ecc.) provenienti dai più importanti musei italiani di antropologia e da due collezioni private. Il MIC di Faenza possiede infatti una delle più interessanti collezioni italiane d’arte precolombiana, costituita da quasi 900 reperti. Il primo nucleo importante risale al prebellico. La collezione si arricchì poi nel dopo guerra, grazie alle donazioni di musei e istituzioni come l’Instituto Nacional de Arqueología y Historia di Città del Messico, The University Museum di Philadelphia, Museo Nacionál de Antropología y Arqueología di Lima, Museo Nacionál di San José ed è accresciuta fino ad oggi grazie a numerose donazioni private, alcune anche recenti. La mostra è arricchita di alcuni reperti, anche di altissimo livello e in alcuni casi unici al mondo, provenienti dalle collezioni del MDS (museo degli Sguardi) di Rimini, del MNAE (museo nazionale di Antropologia ed Etnologia) di Firenze, del MUCIV (museo delle Civiltà) di Roma e del MUDEC di Milano, unitamente a prestiti di alcuni collezionisti privati. “Una mostra orgogliosamente controcorrente”, sottolinea Claudia Casali, direttrice del Mic. “In un periodo in cui le mostre a carattere etnoantropologico tendono spesso a mettere a fuoco una singola cultura”, spiegano i curatori, “la mostra “Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America” vuole presentare una visione complessiva dell’America precolombiana in grado di offrire al visitatore sia una sintesi dei tratti pan-americani comuni alle diverse culture, sia gli approfondimenti specialistici e monotematici più interessanti. In un caso e nell’altro la mostra non dà nulla per scontato, non ripropone visioni superate, ma parte dalle ricerche archeologiche ed etnostoriche più recenti e più avanzate per presentare in modo nuovo gli elementi più affascinanti dell’antica America”.
“Questa è una mostra di emozioni”, anticipa ancora Casali, “che condurrà il visitatore a contatto diretto con civiltà che sono nell’immaginario di tutti, troppo spesso raccontate solo con gli occhi di chi le ha soppresse e depredate”. L’esposizione offre una sintesi nuova e aggiornata sulle più importanti culture dell’antica America e presenta al contempo alcuni dei temi più interessanti emersi dalle ricerche più recenti: la conquista dell’America vista dalla parte dei vinti, la condizione della donna, i sistemi di calcolo dell’antico Perù e l’arte precolombiana presentata come arte e non solo come archeologia. “Certo questa si presenta come una importantissima ed originale mostra d’arte. I pezzi qui riuniti sono degli autentici capolavori”, afferma la direttrice Casali. “Nell’ampia introduzione e nelle sezioni del percorso, in una ambientazione di grande suggestione evocativa, il visitatore ammirerà reperti di incredibile bellezza formale, veri capolavori d’arte, ma soprattutto verrà accompagnato a capirne la provenienza, l’utilizzo e il significato, in un viaggio all’interno delle culture di un continente per molti versi ancora da scoprire o per lo meno da indagare”.
Protagonisti al Mic saranno gli Aztechi, il più potente impero della Mesoamerica, che stupirono i conquistadores per il livello della loro organizzazione sociale, non dissimile da quella dell’Europa del tempo, pur in presenza di aspetti, come il cannibalismo e i sacrifici umani, inaccettabili per i nuovi arrivati. Poi i Maya, del Periodo Classico, un popolo che ha saputo elaborare sistemi calendariali raffinatissimi e una scrittura logo-sillabica che è stata decifrata solo negli ultimi decenni. E infine gli Inca, che costruirono il più grande impero di tutto il Nuovo Mondo. Con una organizzazione sociale che ha spinto alcuni studiosi a parlare di “socialismo”.
“Di queste culture abbiamo voluto offrire una visione che va oltre l’ammirazione del livello artistico raggiunto nell’arte ceramica”, sottolineano Aimi e Guarnotta. “Siamo alle soglie del V Centenario della Conquista del Messico e ci sembra giunto il momento di condividere una nuova lettura di quell’evento, che nasca dalla visione dei vinti, contraddicendo così molti stereotipi sull’antica America. E a proposito di stereotipi, vogliamo sottolineare che la nostra mostra mette in evidenza un dato nuovo e di grande attualità: la condizione della donna in alcune società guerriere e apparentemente maschiliste (Aztechi, Costa Nord del Perù) era migliore di quella dell’Europa del tempo”.
Altri focus avvicineranno i visitatori ad aspetti importanti di queste civiltà, dalla scrittura maya (presente in alcuni dei vasi esposti), al calcolo. “Al Mic, per la prima volta al mondo”, assicurano gli organizzatori, “una mostra offrirà al visitatore la possibilità di cimentarsi nei calcoli come facevano gli Inca, usando abachi a base 10 e 40. In termini di primati, ancora una volta in prima mondiale, chiunque avrà l’opportunità di conoscere la propria data di nascita tradotta nei tre calendari dei Maya. O di scoprire il gioco di squadra più antico del mondo: il gioco della palla praticato in Mesoamerica, anche se più che di uno sport si trattava di un rituale religioso. In mostra, accanto a testimonianze in questa antica tradizione, i video consentiranno di ammirare i giocatori di oggi in azione. A completare il percorso emozionale concorrerà anche la musica, diffusa da registrazioni realizzate con gli antichi strumenti musicali esposti”.
“Egitto. La straordinaria scoperta del faraone Amenofi II”: al Mudec di Milano una mostra racconta il sovrano della XVIII dinastia con i diari di scavo di Victor Loret “riscoperti” dall’università di Milano a cento anni dal ritrovamento da parte dell’egittologo francese della tomba nella valle dei Re
Egitto, Valle dei Re, marzo 1898: l’archeologo francese Victor Loret, da un anno direttore generale delle Antichità egiziane, scopre la tomba di Amenofi II, figlio del grande Thutmosi III e della sposa minore Merira Hatshepsut (da non confondere con la matrigna dello stesso Thutmosi III), divenuto faraone della XVIII dinastia nel 1427 a.C. a soli 18 anni. Loret nei suoi diari di scavo annota tutto con grande precisione: una volta entrato, racconta Francis Janot in occasione della mostra “I Faraoni” nel 2002 a Palazzo Grassi a Venezia, gli scavi proseguirono giorno e notte in un crescendo di tensione febbrile; l’avanzamento era ostacolato dalla grande quantità di detriti soprattutto calcarei che ostruivano il passaggio. Giunto finalmente in un’immensa sala, alla luce delle candele Loret scorse un feretro aperto. E annotò: “Vuoto? Non oso pensare il contrario, giacché non sono mai stati trovati faraoni nella necropoli (…). Raggiungo il sepolcro con difficoltà, attento a non calpestare nulla. All’esterno leggo ovunque il nome e il prenome di Amenofi II. Mi sporgo sopra il bordo, avvicino una candela. Vittoria! Sul fondo vedo un sarcofago con un mazzo di fiori rivolto verso la testa e una corona di foglie sui piedi”. Loret aveva scoperto la prima tomba mai trovata prima con la mummia del faraone ancora dentro il sarcofago (la seconda e ultima sarà, 25 anni dopo, quella di Tutankhamon). Nonostante la tomba fosse stata selvaggiamente spogliata in antico, gli antichi profanatori – ancora per motivi inspiegabili – non infierirono sulla mummia di Amenofi alla ricerca di amuleti in oro e altri oggetti preziosi lasciati sul corpo del defunto. Così Loret trovò la mummia come era stata deposta 3500 anni prima. E lì rimase fino al 1928, quando fu traslata al museo Egizio del Cairo.

1898: l’egittologo francese Victor Loret nella tomba del faraone Amenofi II (foto archivio Università di Milano)
Nonostante il faraone Amenofi II sia descritto dalle fonti come il sovrano perfetto, perché è bello, è un atleta straordinario, e consolida i confini del regno ereditato dal padre Thutmosi III fino all’Eufrate, in Asia, e alla quarta cataratta, in Africa, la scoperta della sua tomba non accende i riflettori su di lui. Perché? Proprio negli anni in cui Loret scava nella Valle dei Re, l’Egitto diventa protettorato britannico. Così l’archeologo francese, messo da parte e costretto a lasciare l’Egitto, decide di tenere per sé la scoperta. Deve passare più di un secolo perché si torni a parlare di Loret e di Amenofi II. Nel 1999 l’università Statale di Milano compra dagli eredi l’archivio dell’egittologo francese che pubblica nel 2004. È allora che si scopre che all’interno della raccolta sono conservati i diari di scavo di Victor Loret, dati per persi o mai esistiti: con il loro minuzioso corredo di annotazioni, fotografie, piante e disegni aprono dunque a un secolo di distanza praterie e scenari d’approfondimento che la comunità scientifica milanese, e non solo, ha vagliato attraverso approfondite ricerche.
Da questa storia avventurosa nasce la mostra, aperta al museo delle Culture (Mudec) di Milano fino al 7 gennaio, “Egitto. La straordinaria scoperta del faraone Amenofi II”, dove le carte manoscritte di Loret sono mostrate in pubblico per la prima volta in un percorso filologico che li associa ai molti dei reperti rinvenuti dallo stesso Loret e frutto di prestiti eccezionali dal museo del Cairo, e da quelli di Leida, Firenze e Vienna. La mostra quindi racconta al pubblico una doppia “riscoperta”: quella della figura storica del faraone Amenofi II, spesso ingiustamente oscurata dalla fama del padre Thutmosi III; e la “riscoperta” archeologica del grande ritrovamento nella Valle dei Re della tomba di Amenofi II. “Egitto. La straordinaria scoperta del faraone Amenofi II” è promossa dal Comune di Milano-Cultura e da 24ORE Cultura – Gruppo 24ORE, che ne è anche il produttore, in collaborazione con l’università di Milano. Sono entrambi egittologi della Statale infatti i due curatori, Patrizia Piacentini, titolare della cattedra di Egittologia, e Christian Orsenigo, che con il coordinamento dell’egittologa Massimiliana Pozzi Battaglia (SCA-Società Cooperativa Archeologica) hanno ideato un percorso che coniuga approfondimento scientifico ed emozione. Sia la tematica che i reperti esposti, infatti, permettono un approccio che predilige l’attrattiva sul grande pubblico e offrono contemporaneamente spunti di ricerca e possibilità di approfondimento agli studiosi così come ai molti appassionati della materia. Interessante il video con la presentazione della mostra: guardalo.
http://www.youtube.com/watch?v=armwKr-tdgw
La mostra espone reperti provenienti dalle più importanti collezioni egizie mondiali: dal museo Egizio del Cairo al Rijksmuseum van Oudheden di Leida, dal Kunsthistorisches Museum di Vienna al museo Archeologico nazionale di Firenze. Da questi musei e da collezioni private provengono statue, stele, armi, oggetti della vita quotidiana, corredi funerari e mummie. Fondamentale la collaborazione con l’università di Milano, che ha prestato i documenti originali di scavo della tomba del faraone custoditi nei suoi preziosi Archivi di Egittologia, e la collaborazione con la rete dei musei civici milanesi, sempre molto attiva: in particolare il museo del Castello Sforzesco nel periodo autunno-inverno 2017 presta a questa mostra alcuni reperti della collezione egizia, in occasione della chiusura temporanea delle proprie sale per ristrutturazione. Ha inoltre importanza fondamentale l’apparato multimediale e scenografico presente nelle sale della mostra, con vere e proprie esperienze immersive che evocano le calde e antiche atmosfere nilotiche dei paesaggi egiziani del II millennio a.C., dando all’esposizione un taglio unico, nel segno distintivo delle mostre MUDEC.
Il cuore della mostra è la figura del faraone Amenofi II con la ricostruzione in scala 1:1 della sala a pilastri della sua tomba: guarda il video. Un’esperienza immersiva che accompagna il pubblico invitandolo a entrare, attraverso un focus sulle credenze funerarie e la mummificazione, nella camera funeraria per ammirare i tesori che accompagnavano il faraone nel suo viaggio verso l’Aldilà, come ad esempio la stupenda barca sacra, in legno dipinto, proveniente dalla anticamera della Tomba di Amenofi II e conservata al museo Egizio del Cairo. “La struttura della tomba è complessa e le sue dimensioni imponenti”, spiegano gli egittologi. “Una doppia successione di scala e corridoio conduce alla sala del pozzo che sbocca nel vestibolo a due pilastri. Dal vestibolo una terza scala e un terzo corridoio portano a una grande sala rettangolare sostenuta da sei pilastri (sui quali era raffigurato il re al cospetto di diverse divinità), che si prolunga a Sud, al di là dell’ultima coppia di pilastri, nella camera sepolcrale con il sarcofago. Le pareti della stanza a sei pilastri sono decorate con i testi completi del Libro dell’Amduat e con le illustrazioni corrispondenti, come se si trattasse di un grande papiro murale”. L’archeologo Loret portò alla luce non solo la mummia del faraone, ma anche quelle di alcuni celebri sovrani del Nuovo Regno, tra cui Thutmosi IV, Amenofi III, Sethi II, Ramses IV, Ramses V e Ramses VI, mummie che erano state nascoste all’interno di una delle quattro stanze annesse alla camera funeraria, con lo scopo di sottrarle alle offese dei profanatori di tombe. Tra gli altri corpi ritrovati da Loret nella tomba, anche quelli della madre e della nonna di Tutankhamon.

la Pantera in legno bitumato proveniente dalla tomba di Amenofi II e conservata al museo Egizio del Cairo
L’antica civiltà del Nilo nel II millennio a.C. viene presentata nelle altre sezioni della mostra. La vita quotidiana, con gli usi e i costumi delle classi sociali più vicine alla corte di Amenofi II, è illustrata attraverso gioielli e armi, oggetti legati alla moda e alla cura del corpo, che mostrano il livello tecnologico e sociale raggiunto in questo periodo della storia egizia. Il tema delle credenze funerarie fornisce spunti di riflessione in merito alla lunga e complessa durata di questa straordinaria civiltà antica. Simbolo della mostra è la testa di statua di Thutmosi III, padre di Amenofi II, proveniente dal Khunsthistorisches Museum di Vienna, che, sottolineano gli egittologi, riassume al meglio l’evoluzione stilistica nella ritrattistica regale. Tra i reperti da segnalare la Pantera in legno bitumato proveniente dalla tomba di Amenofi II e conservata al museo Egizio del Cairo. “L’animale accompagnava il sovrano nel suo viaggio ultraterreno con passo tranquillo e aggraziato”, interviene l’egittologa Massimiliana Pozzi Battaglia di Sca. “La scultura rende compiutamente l’idea di quanto gli antichi egizi, pur investendo di tanti significati la rappresentazione di una pantera, osservassero la natura e la capissero. I dettagli anatomici dell’animale non lasciano dubbi, nonostante la colorazione simbolico-mitologica, quanto all’identificazione della Panthera-pardus”. Anche Loret si dedicò al riconoscimento delle specie animali nelle rappresentazioni egizie. Lo confermano i documenti “riscoperti” nel suo Archivio, tra cui appunti – esposti in mostra – con le riproduzioni dello studio sui pesci: una vera e propria tavola delle specie ittiche presenti nei geroglifici e iscrizioni. E poi acquerelli che con buona mano riproducono specie di rettili e uccelli cari agli antichi abitanti dell’Egitto.
A un anno dalla scomparsa del direttore, Filippo Maria Gambari, Il museo delle Civiltà di Roma-Eur vuole ricordarlo presentando il volume “Riscopriamo Angera. La collezione Pigorini Violini Ceruti”: evento esclusivamente online venerdì 19 novembre 2021, alle 17, in diretta Streaming 











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