Aidone (Enna). “Salviamo gli Argenti di Morgantina. Il Mibact riveda l’accordo capestro col Met. Devono rimanere in Sicilia. Sono fragili”: appello di Dario Di Blasi a sostegno della battaglia portata avanti dall’Archeoclub, che ha scritto a Franceschini. E l’assessore regionale Samonà: “Sta cambiando la collaborazione tra Regione Siciliana e Met. Alla fine rivedremo la convenzione”


Dario Di Blasi, già direttore della Rassegna internazionale del Cinema archeologico di Rovereto

Il manifesto della 25.ma Rassegna di Rovereto del 2014 con un dettaglio degli Argenti di Morgantina
“Salviamo gli Argenti di Morgantina. Fermiamo quei viaggi tra Stati Uniti e Sicilia previsti ogni quattro anni da un accordo capestro che va rivisto per garantire un futuro a un tesoro fragile quanto prezioso”. È un appello accorato quello che affida ai social Dario Di Blasi, direttore artistico di Firenze Archeofilm, già curatore della Rassegna internazionale del Cinema archeologico di Rovereto. E proprio quando curava la rassegna roveretana, ricorda, “avevo deciso di dedicare le immagini coordinate del festival (pubblicazioni, poster, locandine, immagini web) a reperti o particolari di reperti provenienti da Musei archeologici italiani. L’intento era quello di convincere un pubblico sempre più vasto a visitare i musei archeologici e conoscere gli oggetti e le collezioni esposte, il più possibile vicini al loro contesto di ritrovamento. Nell’edizione 2014 feci pubblicare il particolare di un Emblema in argento dorato proveniente da Morgantina che rappresentava il mostro Scilla. L’Emblema appartiene proprio alla splendida collezione di argenti databili attorno al III sec a.C. conservati, ora, al museo Archeologico regionale di Aidone (En)”. Perché “ora”? Perché gli Argenti di Morgantina sono tornati a casa nel giugno 2020, l’ultima tappa di un viaggio che, dal 2006, vede i preziosi reperti viaggiare ogni quattro anni tra la Sicilia e gli Stati Uniti. I sedici pezzi – che risalgono al III secolo a.C. e che costituiscono il tesoro di Eupolemo – sono sottoposti, infatti, ai vincoli di una Convenzione siglata nel 2006 tra il Mibact e il Metropolitan Museum di New York in virtù della quale, a fronte della restituzione dei beni archeologici un tempo illecitamente trafugati dal patrimonio culturale nazionale, sono state previste forme di collaborazione tra le istituzioni museali coinvolte per quarant’anni. In particolare la convenzione prevede una rotazione delle opere in virtù della quale la Sicilia si impegna a prestare, nei quattro anni in cui gli argenti tornano in patria, beni di importanza analoga, per la loro esposizione al Met. E per questo turno dovrebbe essere formalizzato il prestito di opere provenienti da Selinunte sul tema della colonizzazione greca in Occidente e dei suoi molteplici esiti e significati, che sarebbero al centro di una grande mostra in programma al Metropolitan Museum.

Tesoro di Morgantina: coppa in argento con emblema che rappresenta Scilla (foto Regione Siciliana)
“Sapere che anche la collezione degli splendidi argenti è soggetta a un accordo capestro che definisco coloniale non è confortante”, sottolinea Di Blasi. “Nei 4 anni in cui i reperti rimangono ad Aidone l’Italia deve garantire, anche provenienti da altri musei, reperti di uguale significato e valore al Metropolitan. In qualche misura i reperti che vanno al Metropolitan al posto degli Argenti sono ostaggio nel caso Aidone non ottemperasse all’accordo di trasferire al Metropolitan ogni 4 anni gli argenti. Il tutto senza pudore e attenzione per lo stato di conservazione degli stessi. Nei 4 anni in cui gli Argenti tornano a New York il Museo di Aidone si deve arrangiare per coprire il vuoto. Forse non si tratta di gran cosa ma io personalmente trovo molto grave l’accettazione di questo stato di cose da parte dei maggiori responsabili dei Beni culturali perché ritengo si siano assuefatti a uno stato di soggezione che definisco coloniale. Penso oggi come ieri che sui beni culturali debba ancora crescere la consapevolezza del loro valore e importanza per la conoscenza e consapevolezza della nostra identità. Per la difesa del loro territorio faccio i complimenti i cittadini di Aidone, il museo, l’Archeoclub e Alessandra Mirabella che ha seguito tutta la vicenda della collezione degli argenti anche per conto del locale Archeoclub di cui fu presidente per molti anni”.


La chiesa di San Francesco sede del museo Archeologico regionale di Aidone (foto Graziano Tavan)

Rosario Santanastasio, presidente nazionale Archeoclub d’Italia
Ma stavolta sembra che la reazione da parte di Aidone e della Sicilia sia più consapevole e strutturata. Già nel 2014, in occasione del primo rientro al Met, si sollevò alta la protesta della sezione siciliana dell’ArcheoClub Aidone – Morgantina per bloccare il viaggio di ritorno a New York forte anche dei risultati di una campagna di indagini diagnostiche non invasive realizzata nell’estate 2014 ad Aidone che aveva confermato la fragilità degli argenti. Ma allora fu tutto invano. “A distanza di un decennio dal primo rientro”, annuncia Rosario Santanastasio, presidente nazionale di ArcheoClub D’Italia, “chiediamo di rivedere l’accordo siglato nel 2006 da Philippe de Montebello direttore del Metropolitan Museum di New York e dall’allora ministro dei Beni culturali Rocco Buttiglione per tutelare tale patrimonio archeologico e storico della nostra Italia. Per questo motivo, ArcheoClub ha scritto al ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini che sta lavorando in modo egregio sulla tutela del patrimonio culturale italiano”. E Rosalia Raffiotta, presidente della sezione locale ArcheoClub Aidone – Morgantina: “L’Archeoclub Aidone-Morgantina nel tempo ha lavorato intensamente per dare il proprio contributo alla valorizzazione di questi straordinari tesori, organizzando in più occasioni anche manifestazioni con petizioni e appelli alle istituzioni. Siamo ancora convinti che gli esiti della campagna di indagini diagnostiche dell’estate del 2014 abbiano fornito dati significativi per poter chiedere al Met la revisione dell’accordo, essendo stato accertato uno stato di conservazione precario dei reperti, che probabilmente all’epoca dell’accordo non fu tenuto in sufficiente considerazione o che è sopraggiunto nel corso degli anni successivi”. Di qui l’appello al ministero dei Beni culturali, alla soprintendenza e al parco archeologico di Morgantina da ArcheoClub, associazione Ecomuseo: I semi di Demetra di Aidone, il comitato cittadino di Aidone, l’associazione donne aidonesi ADA, l’associazione università del Tempo Libero di Aidone, l’associazione musicale “Vincenzo Bellini”, l’associazione Nois sede di Aidone, l’associazione “All’improvviso di Aidone”, Legambiente Circolo Piazzambiente: “Con questo appello sollecitiamo pertanto gli organi competenti affinché si avvii una discussione urgente a livello regionale e nazionale, quindi internazionale, per ridiscutere l’accordo con il Met”.

Alberto Samonà, assessore regionale dei Beni culturali e dell’Identità siciliana
Un messaggio di speranza viene dall’assessore dei Beni culturali e dell’Identità siciliana, Alberto Samonà: “Il rapporto di collaborazione tra la Regione Siciliana e il Met ha subìto nel corso degli ultimi mesi un grande impulso grazie al governo Musumeci. Sono in corso ipotesi di collaborazione strutturata sulle quali continuiamo a lavorare e che potrebbero aiutarci a ridefinire i termini di una Convenzione che, per certi aspetti, risulta datata. Cercheremo di operare nella direzione di una possibile revisione dell’accordo che porti alla collocazione stabile e definitiva degli argenti di Morgantina nella sede museale naturale di Aidone, struttura che ne consente la necessaria contestualizzazione e interpretazione culturale”. Tutte richieste contenute nella nota inviata da Samonà al dirigente generale del Dipartimento dei Beni Culturali.

Alessandra Mirabella, già presidente dell’Archeoclub di Aidone-Morgantina
La vera storia degli Argenti di Morgantina… “Gli argenti, noti come il “Tesoro di Morgantina”, costituiscono il più importante insieme conosciuto di oreficeria proveniente dalla Sicilia ellenistica”, ricorda Alessandra Mirabella che ha postato il video di denuncia nel 2014. “Trafugati nel 1980 dai tombaroli dal sito della città siculo-ellenistica, furono venduti a Robert Hecht, il maggiore ed impunito trafficante di antichità di tutti i tempi, il quale li cedette, nel periodo 1981-1984, al Metropolitan Museum di New York. Nel 1987 l’archeologo prof. Malcolm Bell III – da anni direttore degli scavi nel sito siciliano di Morgantina – avendo riconosciuto in quegli argenti l’oggetto dello spettacolare rinvenimento clandestino di cui si parlava ad Aidone qualche anno prima- ne informò le autorità italiane. La battaglia per la restituzione del tesoro di Morgantina, protrattasi per oltre vent’anni, si concluse solo nel 2006 quando Philippe de Montebello, direttore del Metropolitan, sottoscrivendo l’accordo con la Repubblica Italiana, si impegnò a restituire gli argenti, imponendo come contropartita la clausola del prestito periodico quarantennale. Sulla scorta di tale accordo, il tesoro dovrà essere “prestato” per quattro anni al Metropolitan e quindi rimpatriato. Dopo i successivi quattro anni, il ciclo prestito/rimpatrio riprenderà e continuerà per i prossimi quarant’anni. Di certo tali ripetuti viaggi non potranno non danneggiare i delicati manufatti; inoltre, la loro lunga assenza priverà il museo Archeologico di Aidone di preziosi reperti che studiosi e visitatori anelano di vedere ed ammirare. Per ovviare a tale situazione, si denuncia l’accordo siglato dal governo italiano dell’epoca per impedire che inizi il ciclo prestito/rimpatrio rimarcando che il Metropolitan Museum, acquisendo gli argenti da un trafficante, commise a sua volta il reato di ricettazione. Ed un reato – conclude Alessandra Mirabella – non può sottostare ad un accordo che abbia il crisma della legalità”.
“Il corpo del reato”: in mostra a Pompei un primo lotto di tesori antichi, prove del saccheggio del patrimonio archeologico di Campania, Puglia, Basilicata, avvenuti tra il 1970 e il 1990. In vent’anni depredati più di 800mila reperti
Sono ceramiche, crateri, ex voto, anche qualche falso: dal IV secolo all’età romana. Vengono dalla Campania (Pompei e nei dintorni come Boscotrecase, Gragnano e Sant’Antonio Abate), ma anche da Puglia e Basilicata. In tutto 170 reperti con una caratteristica in comune: ognuno è un “corpo del reato”, come ricorda il titolo della mostra, “Il corpo del reato” appunto, che li presenta, fino al 27 agosto 2017, all’antiquarium degli scavi di Pompei. Ma questi preziosi reperti in mostra sono solo alcuni dell’immenso patrimonio archeologico saccheggiato dai tombaroli. E sono stati proprio i tombaroli a immettere sul mercato clandestino una enorme quantità di oggetti dal valore inestimabile, alcuni dei quali finiti persino in collezioni di musei internazionali come il Getty a Los Angeles e il Metropolitan di New York. Tra il 1970 e il 1990 si calcola siano stati depredati non meno di 800mila reperti. “Questa mostra denuncia lo “stupro” subito dal patrimonio culturale italiano, saccheggiato e clandestinamente rivenduto dal 1960 a oggi”, afferma Massimo Osanna, soprintendente di Pompei. “Il recupero dei reperti consente oggi di esporre qui una piccola parte del “bottino” svincolato e ora in vetrina nell’antiquarium degli Scavi di Pompei”. Si tratta di materiale di deliziosa fattura e di immenso valore, recuperato con operazioni internazionali da carabinieri, guardia di finanza e magistratura e lasciato nel buio di locali blindati, dai quali non poteva essere spostato né mostrato perché costituiva, appunto corpo di reato”.
Nelle vetrine dell’Antiquarium di Pompei ora sono dunque esposti 170 reperti: ceramiche, statue, anfore, offerte votive che affiancano oggetti di pari bellezza, ma prodotti dai falsari, anche questi finiti per decenni nei depositi giudiziari e ora rispolverati e collocati in teche di vetro. Gli originali di fronte ai fake dimostrano quanta perizia i falsari hanno mutuato dalla storia antica che ha fatto grande l’Italia. “Questi oggetti”, stigmatizza Osanna, “simboleggiano la violazione cui è costantemente sottoposto il patrimonio culturale. Molti di questi reperti provengono dalla Daunia, non sono quindi tutti del territorio campano, ma sono stati trafugati in Puglia e in Basilicata, regioni che hanno maggiormente subito il saccheggio di opere antiche. Purtroppo sono anche una cruda testimonianza della perdita di conoscenza per la nostra società. In molti casi, infatti, non è possibile risalire ai luoghi in cui sono stati trafugati e, nel contempo, alle popolazioni che hanno subito il saccheggio non è più dato conoscere le straordinarie bellezze di cui erano custodi”. I reperti esposti sono stati sequestrati anche a piccoli ricettatori non inseriti nella ramificata filiera del commercio internazionale, dediti piuttosto a rifornire il livello “basso” del mercato, quello dei piccoli antiquari e delle collezioni private. Oggetti, quindi, trafugati e destinati al solo desiderio personale, ma che oggi tornano seppur silenti a essere patrimonio di ogni cittadino del mondo.
Osanna sottolinea il valore anche educativo della mostra che “vuole offrire ai visitatori il senso dell’oltraggio arrecato al patrimonio culturale italiano”. I reperti esposti sono associati ai nomi dei detentori illegali ai quali le forze dell’ordine effettuarono i sequestri, avvenuti tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso, quando la razzia di migliaia di siti italiani alimentò preziose collezioni di musei internazionali come il Getty a Los Angeles e il Metropolitan a New York. Per allestire questa mostra, è stato necessario superare i vincoli burocratici che bloccavano questi beni durante i lunghi processi per i quali, appunto, costituivano corpo di reato. Grazie alla sensibilità del giudice Carlo Spagna, magistrato delegato all’ufficio Corpi di Reato del Tribunale di Napoli, la soprintendenza di Pompei è entrata in possesso del materiale ora esposto. “Certe cose o si fanno in un giorno o non si fanno”, afferma il giudice Spagna spiegando con quale celerità è riuscito a ottenere ciò che non era affatto semplice: fare uscire dai sotterranei i reperti sequestrati negli anni Settanta, risalendo all’iter giudiziario per constatarne la chiusura. “Altri reperti sono stipati nell’Antiquarium di Stabia e speriamo presto di poterli svincolare per esporli al pubblico”, promette Osanna. I beni archeologici assegnati in via definitiva alla soprintendenza di Pompei provengono da Castel Capuano, a Napoli, sede del Museo Criminale che il giudice Spagna ha auspicato venga presto rinominato Museo delle Regole.

Tra i reperti sequestrati anche qualche falso come il famoso torso di ermafrodita: autentica contraffazione
Attenti ai falsi. Tra i vasi decorati, utilizzati in epoca romana durante i banchetti, le piccole brocche dipinte finemente di nero, i boccali e i contenitori in vetro per custodire preziosi unguenti, spicca un busto bianchissimo di un ermafrodita. Né volto, né gambe ma il corpo sembra di una giovane donna dai seni appena accennati, vita stretta e fianchi rotondi, ma con portentosi genitali maschili. Ebbene, proprio questo busto è un clamoroso falso. Ed è il più fotografato. “Che sia un falso si ricava dall’analisi della fattura dei capelli e dei peli del pube, scolpita in riccioli”, assicura Luana Toniolo, l’archeologa che ha curato l’allestimento della mostra. Secondo solo al mercato della droga, quello dei falsi archeologici e artistici oggi è un vero e proprio business illegale. Ultimamente si è calcolato che i reperti archeologici immessi sul mercato dai trafficanti sono falsi per circa due terzi del loro volume. Falsi perfetti, o quasi, realizzati da artigiani e rifilati attraverso un’efficiente rete di canali, ai collezionisti privati e ai mediatori stranieri. Ad ogni sequestro, i tecnici delle soprintendenze si impegnano così a valutare l’autenticità degli oggetti custoditi clandestinamente, cercando di riconoscere la contraffazione sulla base degli errori che, involontariamente, il falsario può avere compiuto seguendo gli stili e gli usi del tempo antico. Nei laboratori dei falsari si rifà tutto: bronzi, ceramiche dipinte, monete, statue. Per soddisfare la richiesta di realizzano “falsi inediti” o rielaborati da oggetti veri; i falsi vengono poi venduti singolarmente o mescolati insieme a qualche pezzo autentico.
Etruria. Dopo quasi mezzo secolo di odissea il Cratere e la Kylix di Eufronio, capolavori della ceramica attica del V sec. a.C., tornano a casa a Cerveteri. Per sempre
Un’odissea durata quasi mezzo secolo. Ma ora è stata detta la parola fine: il Cratere e la Kylix di Eufronio, due capolavori assoluti della ceramica attica del V sec. a.C., rimarranno per sempre a Cerveteri, la loro casa. Lo ha annunciato il ministro per i Beni culturali e il turismo, Dario Franceschini. E il direttore regionale del polo museale del Lazio, Edith Gabrielli, ha già firmato l’atto che prevede il trasferimento definitivo delle due opere dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma al museo nazionale Cerite di Cerveteri, dove entrambi i capolavori sono esposti in via provvisoria dal dicembre 2014 per la mostra “I capolavori di Eufronio”, che chiuderà il 20 gennaio 2016. Fu proprio in occasione della vernice della mostra ceretana che il ministro Franceschini, pressato dal giovane sindaco Alessio Pascucci, non escluse la possibilità che le due opere di Eufronio, simbolo della lotta contro il traffico illecito di reperti archeologici, potessero in futuro rimanere definitivamente a Cerveteri (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2014/12/22/il-cratere-di-eufronio-capolavoro-del-v-secolo-torna-con-una-mostra-a-cerveteri-a-40-anni-dal-trafugamento-ora-e-accanto-allaltro-capolavoro-di-eufronio-la-kylix-e-si-pensa-farlo-restare/). E così è stato. “Da anni gli storici dell’arte ci ricordano che l’unicità e la forza del nostro Paese sta nel collegamento musei/territorio”, sottolinea Franceschini. “Questa scelta va concretamente nella direzione di rafforzare questo legame. Anche i numeri poi ci danno ragione ricollocare le opere d’arte nei loro luoghi d’origine e puntare su un turismo sostenibile e diffuso, che non si concentri solo sulle grandi città d’arte, è una carta vincente. Il ritorno a casa del cratere e della kylix di Eufronio fa parte di una strategia nazionale di attenzione al territorio che incrocia i piani strategici di promozione turistico-culturale con la ricerca di un turismo colto, di qualità, capace di apprezzare un’offerta rinnovata”.
Trafugato dai tombaroli nel 1971 ed esportato illegalmente negli Usa dove è stato esposto per lunghi anni in una teca del Metropolitan di New York il Cratere di Eufronio, capolavoro dell’arte attica del V secolo a.C, era poi rientrato in Italia nel 2006 e collocato al Museo di Villa Giulia a Roma. A dicembre 2014 era stato trasferito temporaneamente a Cerveteri, sua casa d’origine, dove ora resterà in via definitiva insieme all’altro capolavoro di Eufronio, la Kylix (coppa da vino) anch’essa uscita dall’Italia illegalmente e al centro di una travagliata contesa internazionale che l’ha vista restituire definitivamente all’Italia alla fine degli anni novanta dal Getty Museum di Malibù.

La kylix di Eufronio a Cerveteri da maggio 2014, era stata restituita nel 1999 dal Getty Museum di Malibu
La presenza dei due capolavori nel museo di Cerveteri, fa notare ancora Franceschini, “ha avuto effetti significativi sull’indotto turistico locale: nel solo 2014, grazie al rientro temporaneo del Cratere di Eufronio e della kylix, i visitatori del Museo Nazionale Cerite sono aumentati del 75%, mentre nei primi nove mesi del 2015 il totale dei visitatori del museo ha superato quello dell’intero 2014 – da gennaio a settembre sono stati 23075 contro i 22164 registrati tra gennaio e dicembre dell’anno scorso. Un effetto trainante che ha coinvolto anche la Necropoli della Banditaccia dove nei primi nove mesi di quest’anno il totale dei visitatori è stato di gran lunga superiore a quello dell’intero 2014 (69255 ingressi da gennaio a settembre contro i 49770 registrati da gennaio a dicembre dell’anno scorso). Crescite significative hanno riguardato anche il museo nazionale etrusco di villa Giulia a dimostrazione che la crescita dei visitatori di Cerveteri non è avvenuto a discapito della storica sede espositiva”.
Incontenibile la soddisfazione del sindaco della cittadina laziale Alessio Pascucci all’annuncio del ministro: “Oggi Cerveteri è protagonista del mondo proprio come tremila anni fa. Dopo essere stati trafugati e portati lontano dalla nostra città più di 40 anni fa tornano a casa per rimanerci. È un risultato storico, la notizia più importante che potevamo ricevere e che premia il duro lavoro di questi tre anni e gli incredibili risultati di presenze turistiche avute nella nostra città”. A lui fa eco il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: “Ringrazio il ministro Dario Franceschini per la decisione di lasciare al Museo di Cerveteri il Cratere di Eufronio. È un’ottima notizia e un fatto di straordinaria importanza. Valorizza il territorio e va incontro alla comunità di Cerveteri che ha avanzato con forza questa richiesta. Questa scelta rilancia sicuramente un’area che con il museo, la necropoli etrusca, e a pochi chilometri il Castello di Santa Severa, sta assumendo un ruolo sempre più importante nella nostra regione e in Italia. Noi continueremo a fare di tutto per essere vicini al Comune e alle soprintendenza in questo lavoro di rilancio di una vocazione turistico culturale”.
Baghdad riapre il museo archeologico mentre a Mosul si contano i danni: condanna unanime dello sfregio dell’Isis ai reperti partici da Hatra e assiri da Ninive. Molte erano copie
Baghdad rivive mentre Mosul muore. Le autorità irachene hanno ufficialmente riaperto al 1° marzo il museo nazionale di Baghdad, in Iraq. Era chiuso da dodici anni e il suo patrimonio era stato danneggiato dai saccheggi causati dalla guerra del 2003. Si stima che solo un terzo dei circa quindicimila reperti trafugati siano stati recuperati negli anni successivi. Una buona notizia certamente, una risposta chiara e decisa delle autorità irachene a quanto successo a Mosul, con la distruzione da parte dell’Isis delle testimonianze delle civiltà preislamiche, dall’assira alla partica. “Quell’evento – sottolineano – ha ricordato brutalmente alla comunità internazionale i rischi del patrimonio artistico nelle zone mediorientali ancora devastate dalla guerra”. E il presidente del Parlamento iracheno, Salim al Jubury: “Queste forze delle tenebre provano ad essere nemici del presente, del futuro e del passato dell’Iraq”. Mentre il vice presidente della Repubblica, Osama al Nujaify, non ha dubbi: “Ora il popolo attende il segnale per liberare Mosul dagli invasori che l’hanno inquinata. Quanto avvenuto a Mosul va oltre la capacità di descrivere la barbarie e l’orrore”.

I proclami degli jihadisti a giustificazione dello scempio fatto a Mosul hanno fatto il giro del mondo
Orrore e sgomento. Sono immagini di una violenza insensata e scioccante, quelle che hanno fatto il giro del mondo. Cinque minuti di video diffusi dall’Isis in cui miliziani jihadisti, uomini barbuti e donne in chador nero, si sono accaniti contro “i simboli pagani, idoli venerati invece di Allah da gente che viveva nei secoli passati”, abbattendo e dandosi metodicamente alla distruzione di statue e bassorilievi conservati nel museo di Mosul, dove sono custoditi i reperti di Ninive, l’antica capitale dell’impero assiro. E questo è solo l’ultimo episodio – ma forse il più grave – di una campagna contro le vestigia del passato in nome di una presunta purezza islamica portata avanti dai miliziani del Califfato su imitazione dei Taleban che nel 2001 fecero saltare in aria le gigantesche statue del Buddha a Bamiyan, in Afghanistan, tra lo sconcerto della comunità internazionale. Dopo avere conquistato Mosul e la circostante piana di Ninive con una fulminea offensiva nel giugno dello scorso anno, l’Isis ha bruciato migliaia di libri sottratti alle biblioteche, improvvisando roghi nelle piazze, ha danneggiato una parte della cinta muraria di Ninive, ha distrutto con l’esplosivo moschee e chiese meta di pellegrinaggi considerati eretici. Le statue vengono abbattute con rabbia dai loro piedistalli, per essere poi decapitate e distrutte a colpi di mazza o con l’uso di martelli pneumatici.
Immediata e generale l’indignazione della comunità internazionale, non solo del mondo accademico. L’Unesco ha condannato con forza la distruzione a picconate di statue e altri manufatti del museo di Mosul da parte dell’Isis e chiesto una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza (Cds) per la protezione delle tradizioni culturali dell’Iraq come «elemento essenziale» per la sicurezza del Paese. «È stato un deliberato attacco alla storia e alla cultura millenaria dell’Iraq», ha detto la direttrice dell’agenzia Onu Irina Bokova secondo cui questo ultimo atto di vandalismo «è molto più di una tragedia per la cultura, è un problema di sicurezza dal momento che alimenta violenza settaria, estremismo e conflitti». La Bokova ha detto di aver investito il Consiglio di Sicurezza invocando la risoluzione 2199 sui finanziamenti illeciti all’Isis approvata di recente dai Quindici. Sono infatti numerose le denunce secondo le quali i jihadisti si sono impadroniti di antichi reperti o hanno addirittura effettuato scavi clandestini per rivendere sul mercato nero tutto ciò che trovavano come una delle principali fonti di finanziamento per la ‘guerra santa’, accanto al petrolio. “Occorre una ‘Coalizione di Civiltà’ contro l’ISIS, che unisca, con l’Occidente e i Paesi emergenti, le nazioni arabe ed islamiche”, interviene Francesco Rutelli, che da quasi due anni sta promuovendo una Campagna Internazionale per la salvaguardia del patrimonio culturale a rischio. “Stiamo denunciando un aspetto cruciale della deriva islamista-fondamentalista: la deliberata distruzione del Patrimonio Culturale come strumento di potere politico-ideologico-religioso-terroristico. Questa nostra azione è stata dapprima ignorata – a partire dall’Unione Europea, dove la signora Ashton non ha voluto fare assolutamente nulla – in ragione di una malintesa contrapposizione al dittatore siriano Assad. Un immobilismo demenziale, incapace di cogliere la gravità della minaccia e delle distruzioni in Siria, quindi tragicamente dilagate in Iraq. Con la nostra Campagna per la Salvezza del Patrimonio minacciato – grazie all’impegno di prestigiosi studiosi guidati da Paolo Matthiae (che recentemente ha rilanciato l’appello da Tourisma, il salone internazionale dell’archeologia. Vedi: https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2015/02/21/paolo-matthiae-lo-scopritore-di-ebla-premiato-a-tourisma-da-dove-lancia-un-grido-di-dolore-per-la-siria-e-poi-ammonisce-larcheologia-del-vicino-oriente-e-finita-in-futuro-non-sa/) – abbiamo denunciato tre crisi gravissime: la distruzione del Patrimonio dell’umanità in teatri di battaglia, gli scavi illegali e traffico illecito di Patrimonio archeologico, sia per finanziare la sussistenza, sia l’armamento dei gruppi islamisti e, infine, il ritorno dell’iconoclastia, ovvero la distruzione deliberata da parte dell’ISIS delle tracce delle culture additate come diverse, o perverse (riesumando il modello nazista hitleriano)”. E conclude amaro: “Chi uccide la Memoria unica ed irripetibile dell’Umanità, non compie opera meno grave dell’uccisione, dello stupro, del rapimento, della conduzione in schiavitù degli esseri umani. Forse, la diffusione deliberata di queste immagini di Mosul da parte dell’ISIS, con la sua sprezzante immonda arroganza, farà risvegliare qualche anima bella che negli ultimi anni ha preferito far finta di non sapere e non vedere, per non dover agire”.
Condanna unanime. Se il presidente francese, Francois Hollande, a margine della sua visita nelle Filippine, definisce lo sfregio al museo di Mosul “un atto di barbarie”, il ministro delle antichità della Repubblica d’Egitto, Mamdouh El Damati, a Rovereto per la firma di una convenzione con il Museo civico della città trentina sulla catalogazione fotografica dei siti del Medio Egitto, “atti intollerabili di vandalismo”. Investito dall’Unesco che ne ha chiesto una riunione urgente, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha condannato “con forza” i “barbarici atti di terrorismo” attribuiti all’Isis che includono rapimenti, uccisioni e la “deliberata distruzione di insostituibili manufatti religiosi e culturali del Museo di Mosul” e il rogo di migliaia di libri e manoscritti rari dalla biblioteca di quella città. Thomas Campbell, il direttore del Metropolitan Museum che nelle sue raccolte ospita una importante collezione di arte mesopotamica: “A nome del Metropolitan, un museo che nelle sue raccolte protegge e mostra con orgoglio opere d’arte della Mesopotamia antica e islamica, condanniamo con forza questo atto di catastrofica distruzione inferta a uno dei più importanti musei del mondo, l’attacco insensato non colpisce tragicamente solo Mosul ma il nostro impegno universale a usare l’arte per unire i popoli e promuovere la comprensione umana”. E il ministro italiano ai Beni culturali, Dario Franceschini: “Dopo la violenza atroce sulle persone, ora la follia cieca e distruttrice dell’Isis sulle statue assire a Mosul, patrimonio di tutta l’umanità”.

Secondo gli esperti molte delle opere distrutte a Mosul erano copie: gli originali sarebbero a Baghdad
Ma cosa è andato veramente distrutto a Mosul? Il museo di Mosul è/era uno dei principali del paese, dopo quello di Baghdad, e uno dei più importanti del Medio Oriente. Era articolato in quattro sezioni, dedicate all’arte islamica, preistorica, assira e partica. Nel 2003, nelle prime fasi della guerra in Iraq, molti reperti vennero rubati o danneggiati. Quello stesso anno il personale del museo trasportò 1500 reperti al museo di Baghdad. Ci sono poche informazioni su che cosa sia stato del museo tra il 2009 e oggi, dice l’Arca, associazione con attività in Italia e negli Stati Uniti che si occupa della tutela del patrimonio artistico. Proprio da Baghdad, fonti della commissione nazionale per il patrimonio culturale hanno detto che parte dei reperti del museo di Mosul distrutti nel video diffuso dall’Isis erano copie e che gli originali sono custoditi al Museo iracheno della capitale o all’estero. Altri pezzi erano invece originali, ma le autorità non precisano la loro quantità. Il filmato, diffuso dall’Isis, è “devastante” secondo Daniele Morandi Bonacossi, docente di archeologia all’università di Udine e direttore della missione archeologica “Terra di Ninive” nel nord Iraq. “I nostri riferimenti a Mosul sono stati costretti ad andare via. I loro dipartimenti sono stati chiusi. Senza lavoro e sotto minaccia sono ora lontani dalla città”, afferma Morandi Bonacossi con una lunga esperienza di scavi e ricerche in Siria e Iraq. “Ero a Dohuk (in Kurdistan iracheno) quando due settimane fa abbiamo appreso la notizia della distruzione di un tratto delle mura di Ninive. Ma nessuno può confermare questo fatto”.
Sui danni inflitti dall’Isis al museo di Mosul e al sito di Ninive, il docente dell’ateneo friulano afferma che alcune delle statue distrutte sono copie in gesso di statue di epoca partica (secondo secolo a.C. – primo secolo d.C.), provenienti dal sito di Hatra, a circa 100 km a sud ovest di Mosul e scavato in passato da una missione dell’università di Torino. Altri pezzi erano invece originali, come conferma Morandi Bonacossi. “Ci sono molte statue originali di calcare, che rappresentano divinità e sovrani”. Sul sito di Ninive, i jihadisti hanno distrutto con diabolica metodicità delle statue colossali che rappresentano tori androcefali di epoca assira. Nel filmato dell’Isis si vede in particolare la distruzione di due «lamassu» (così venivano chiamati in assiro) posti accanto a una delle 15 porte di Ninive, quella dedicata al dio Nergal. Sul valore commerciale di queste statue il docente italiano non può esprimersi: “Il loro valore è incalcolabile. Ma non sarebbe possibile per i jihadisti metterle sul mercato. Sono statue che pesano centinaia di tonnellate e c’è bisogno di uno sforzo logistico enorme per poterle rimuovere da dove si trovano. È più probabile – conclude Morandi Bonacossi – che l’Isis abbia venduto gli oggetti più piccoli e abbia invece distrutto le statue che non avrebbe potuto piazzare nel mercato nero”.
Nelle prime ricostruzioni giornalistiche si è parlato soprattutto dei reperti artistici che risalgono al periodo assiro-babilonese, ma nel video la maggioranza delle opere distrutte sembra provenire dal sito archeologico di Hatra, città-stato alleata dell’impero partico, e risalgono per lo più al II-III secolo dopo Cristo. L’impero dei Parti si sviluppò tra il III secolo avanti Cristo e il III secolo d.C. e si estendeva, al momento della sua massima espansione, nei territori degli odierni Iran, Iraq e sulle coste orientali della penisola arabica.
Il Cratere di Eufronio, capolavoro del V secolo, torna con una mostra a Cerveteri a 40 anni dal trafugamento: ora è accanto all’altro capolavoro di Eufronio: la kylix. E si pensa farlo restare per l’Expo

Il Cratere di Eufronio, capolavoro del V sec. a.C., trafugato nel 1971 da Cerveteri dove ora è tornato

Il ministro Dario Franceschini all’inaugurazione della mostra “I capolavori di Eufronio” a Cerveteri
Il Cratere di Eufronio è tornato nella “sua” Cerveteri. Il capolavoro dell’arte attica del V secolo di uno dei più importanti pittori del mondo antico, dopo una quarantennale avventura di scavi di frodo, trafficanti internazionali e trattative con gli Stati Uniti, dove è stato conservato per anni, è esposto al museo nazionale Cerite fino al 20 gennaio nella mostra di Cerveteri “I Capolavori di Eufronio” accanto alla kylix (coppa da vino) dello stesso autore. A inaugurare l’eccezionale mostra il ministro per i Beni culturali e turismo Dario Franceschini e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, accolti dal sindaco Alessio Pascucci. Proprio il sindaco della cittadina laziale, che sui beni culturali della città ha grandi progetti e che ha visto triplicare i biglietti del museo da quando vi è esposta la kylix di Eufronio, anch’essa tornata in Italia dopo aver percorso le vie del traffico illegale, aveva esplicitamente e a più riprese chiesto al ministro che il cratere (attualmente parte della collezione di Villa Giulia a Roma) rimanesse a Cerveteri. E Franceschini, a Cerveteri, ha lasciato intendere di non essere contrario a una collocazione definitiva del capolavoro nella cittadina laziale da cui era stato strappato, accendendo le speranze del giovane sindaco Alessio Pascucci: “Il patrimonio culturale deve essere distribuito nel Paese. Credo che questa mostra sul Cratere di Eufronio vada prolungata anche nel periodo di Expo, che va da maggio a ottobre. E poi, chissà…”. E ha continuato: “Expo sarà, ne siamo certi, un successo enorme, che avrà numeri incredibili. In Cina sono già stati venduti un milione di biglietti e altri 500mila saranno venduti a breve. La nostra sfida è evitare che tutti si concentrino su Roma e Milano e sui grandi musei di queste città”.

La kylix di Eufronio a Cerveteri da maggio, era stata restituita nel 1999 dal Getty Museum di Malibu
Ritenuto unanimemente “l’opera più importante” fra le pochissime che ci sono rimaste, 27 in tutto, del grande maestro greco del V secolo a. C., il Cratere di Eufronio, cratere a calice decorato a figure rosse, alto 45.7 cm con un diametro di 55.1 cm, modellato dal ceramista Euxitheos e dipinto dal ceramografo Eufronio intorno al 515 a.C., e ornato con scene dell’episodio omerico del trasporto del corpo dell’eroe Sarpedonte, era stato trafugato nel 1971 dai tombaroli che lo avevano strappato da una tomba di Greppe Sant’Angelo, alle porte di Cerveteri. Il cratere fu venduto per un milione di dollari dal mercante d’arte svizzero Robert Hecht Jr. e dal mercante d’arte italiano Giacomo Medici al Metropolitan Museum of Art di New York. Solo grazie a una indagine della procura di Roma e dei carabinieri del Comando tutela patrimonio culturale, e all’impegno del governo, che aprì un canale diplomatico con gli Usa, l’inestimabile reperto riuscì nel 2008 a rientrare in Italia, accolto nel museo nazionale etrusco di Villa Giulia. La kylix decorata con storie della caduta di Troia, invece, è stata restituita dal Getty Museum di Malibu, in California, nel 1999: proviene, hanno ricostruito gli studiosi, dal Santuario di Ercole di Cerveteri. Ecco dunque perché, per la soprintendente all’Etruria meridionale Alfonsina Russo Tagliante, la mostra di Cerveteri “è il simbolo della lotta contro il traffico illecito di reperti archeologici”, terzo mercato nero mondiale dopo armi e droga. Per l’assessore alla Cultura del Lazio, la scrittrice Lidia Ravera, “è come se i fregi del Partenone tornassero ad Atene”. Ma è anche una occasione per il territorio: “Cerveteri – spiega il governatore Zingaretti – sta entrando a far parte di una rete di promozione in Italia e nel mondo: bisogna lavorare in vista di Expo 2015 affinché si arrivi all’appuntamento con l’idea dell’esistenza del ‘bel Lazio’”.

La scena, tratta dall’Iliade, narra della morte di Sarpedonte, figlio di Zeus e di Laodamia, alleato dei Troiani nella guerra contro gli Achei
L’opera è conservata al Museo Etrusco di Villa Giulia, a Roma: ha una capacità di 45 litri ed è l’unico cratere di Eufronio arrivato completo, è stato spiegato. Le anse dividono la superficie in due aree decorate con scene differenti. La scena sul lato principale è tratta dall’Iliade e narra della morte di Sarpedonte, figlio di Zeus e di Laodamia, alleato dei Troiani nella guerra contro gli Achei. Le personificazioni del Sonno, Hypnos e della Morte, Thanatos, ne riportano il corpo in patria, trascinandolo via dal campo, il dio Hermes, al centro della scena, dirige l’operazione. “La composizione – spiegano gli storici dell’arte antica – è dominata dal grande corpo di Sarpedonte che evidenzia la padronanza raggiunta da Euphronios nella rappresentazione dello scorcio e nella comprensione della struttura anatomica; le due figure allegoriche, chine sul giovane, sono rappresentate, a parte le ali, come guerrieri, in pose naturalistiche e con anatomia precisa. Due altri guerrieri chiudono la scena alle estremità; sono figure stanti, osservatori, tradizionalmente presenti ad indicare l’esemplarità della rappresentazione, forse un collegamento tematico con il gruppo di giovani che, sul lato opposto del cratere, vengono raffigurati nell’atto di indossare le armi prima di una battaglia: una scena di genere, non necessariamente collegata ad eventi identificabili. Si tratta di giovani ateniesi contemporanei, ma identificati con nomi tratti dalla mitologia dalle iscrizioni che accompagnano ciascuna figura. La scelta di unire scene storiche a vicende mitologiche, sullo stesso vaso e con lo stesso stile, crea un legame tra l’attualità e il mito”.
La storia e il restauro della biga d’oro di Monteleone di Spoleto in mostra al Castello di Postignano: ma senza l’eccezionale carro etrusco, che è esposto al Met di New York
L’appuntamento è al castello di Postignano a Sellano in Umbria per la mostra “La biga di Monteleone di Spoleto: storia e restauro” che fa rivivere la storia della Biga d’oro di Monteleone di Spoleto l’eccezionale reperto etrusco del VI secolo a.C. scoperto nel 1902 nelle campagne umbre, che però in mostra non ci sarà: la biga è infatti esposta al Metropolitan di New York che per ora resiste nella battaglia a colpi di carte bollate da parte del piccolo centro umbro che la rivorrebbe indietro. In mostra fino al 31 ottobre bisognerà accontentarsi di ammirare un ologramma della biga, proiettato all’interno di una delle sale del borgo messe a disposizione dalla Mirto s.r.l., proprietaria del borgo del castello di Postignano, pittoresco villaggio collinare medievale che domina il paesaggio incontaminato della Val Nerina in Umbria, un territorio ricco di cultura e storia, che dista mezz’ora da Spoleto, Foligno, Norcia, Cascia, Spello, Montefalco, Bevagna e il parco naturale dei Monti Sibillini. Per decenni questa “bella addormentata” è rimasta abbandonata, ma ora, dopo un ampio e sensibile restauro, si respira una vita nuova. ”Abbiamo accolto l’idea di Marisa Angelini, sindaco di Monteleone di Spoleto, di organizzare questa mostra”, spiega l’architetto Gennaro Matacena, socio e fondatore della società, che ha interamente ricostruito il borgo, “ed il progetto si è poi allargato. Quello che unisce noi e questa iniziativa è il territorio. Il nostro scopo è quello di creare delle sinergie virtuose”.
La rassegna è stata comunque resa possibile – spiegano gli organizzatori – proprio grazie alla disponibilità del Met (Metropolitan Museum of Art) di New York che ha concesso le foto e i grafici della biga, oltre che del Comune umbro. Nella chiesa SS. Annunziata e nella sala Mustafà del borgo medioevale di Castello di Postignano sono illustrati la storia della biga dopo la sua scoperta, avvenuta nel 1902, a Monteleone di Spoleto, e il lavoro realizzato dall’archeologa del Cnr Adriana Emiliozzi, che tra il 2002 e 2006 ha diretto lo smontaggio e il corretto rimontaggio del veicolo, di proprietà del Met. La mostra si articola in due sezioni: “La storia”, coordinata da Carla Termini; “Il restauro”, coordinata da Adriana Emiliozzi. E insieme all’immagine olografica della nuova struttura del carro è esposta anche la copia in bronzo del vecchio montaggio realizzata negli anni ’80 dagli allievi di Giacomo Manzù per la mostra “Gli Etruschi in Valnerina: La biga di Monteleone di Spoleto” e concessa per l’occasione dal comune di Monteleone di Spoleto: ”Portare la biga qui serve a far circolare la cultura, a moltiplicare le possibilità di fruizione”, spiega il sindaco Angelini. ”Una cooperazione virtuosa -continua – che dà slancio al territorio, richiamando l’attenzione dei turisti. Il restauro del borgo oggi è la notizia: mettere in comunicazione queste due realtà serve ad entrambe”.
Realizzata nel VI secolo a.C. in Etruria meridionale, la biga entrò in possesso di un notabile sabino che la portò con sé nella tomba e nel 1902 fu rinvenuta casualmente da un contadino. Venduta per una cifra irrisoria, passò di mano più volte, arrivando a Parigi e, da qui, a New York, acquistata dal primo direttore del Metropolitan, l’italiano Luigi Palma di Cesnola. Seguirono decenni di silenzio fino alla richiesta di restituzione presentata dal Comune di Monteleone di Spoleto tra il 2002 ed il 2008, quando il contenzioso fu definitivamente archiviato dal Tribunale di Spoleto. Nel 2007, il Met riallestì la sezione di archeologia greco-romana ponendo la biga al centro del percorso espositivo. ”Si tratta – spiega l’archeologa Carla Termini – di un’opportunità enorme per far conoscere la storia di questo importante reperto. La mostra è divisa in due sezioni: la prima raccoglie il lavoro di una precedente mostra, organizzata nel 1985, mentre nella seconda si può ammirare la biga dopo l’enorme lavoro di restauro, curato dalla archeologa Adriana Emiliozzi”. Costruita in legno di noce ricoperto di bronzo dorato, la biga, infatti, continua Termini, era stata ”ricostruita in maniera erronea a New York. Per quattro anni la dottoressa Emiliozzi ha studiato la sua composizione, per poi smontarla e restituirle la sua costituzione originaria”.

Sviluppo grafico dei pannelli di rivestimento della biga decorati con scene tratte dalla mitologia greca
“La Biga di Monteleone di Spoleto”, spiega Canino Info onlus, “è uno dei reperti archeologici più emozionanti del periodo etrusco. Fu trovata nel 1902 a Monteleone di Spoleto da un contadino intento nei lavori di rinnovo dell’aia della sua casa. Mentre spianava un grosso cumulo di terra il terreno gli franò sotto i piedi, aveva scoperto una tomba del VI secolo a.C. Il contadino vendette a mercanti d’arte fiorentini il carro che, dopo una serie di passaggi in Italia arrivò a Parigi per poi finire al Metropolitan Museum di New York. La Biga è un carro da parata in legno di noce interamente rivestita di lamine di bronzo dorato lavorato a sbalzo. Il timone (circa 2 metri) ha l’attacco coperto da una protome di cinghiale; al termine ha invece una testa di uccello rapace. Poco prima di questa è il giogo per l’attacco dei due cavalli, con due anse terminanti a testa di serpente. Il corpo centrale della Biga è chiuso da tre pannelli, uno centrale e due laterali, che hanno bordi arrotondati e curvilinei. Le ruote, sempre in legno ricoperto di lamine bronzee, hanno nove raggi ciascuna per un diametro di cm. 67. Il mozzo termina con una testa di leone. Questi pannelli sono decorati con scene prestate dalla mitologia greca. Sul pannello centrale sono raffigurati una donna (Teti) ed un uomo (Achille) l’una di fronte all’altro, separati da uno scudo bilobato con elmo crestato di tipo corinzio e con protome di ariete. In alto, ai lati dell’elmo, vi sono due uccelli rapaci che volano verso il basso, mentre al di sotto dello scudo c’è un cerbiatto maculato, forse ucciso. La dea veste un lungo chitone ed un mantello. Achille è rappresentato nella classica raffigurazione barbata, con capelli lunghi e riccioli che gli cadono sulle spalle. Indossa un corto chitone e dei gambali, il tutto ricco di decorazioni. Lo scudo bilobato è decorato nella parte superiore da una testa di gorgonie, mentre nell’inferiore è un protome di felino maculato. Sul pannello destro è rappresentato Achille vittorioso in duello su Re Memnone: egli punta la spada sul corpo dell’avversario colpendolo, mentre a terra c’è Antiloco, grande amico di Achille e vittima di Memnone. Sul pannello di sinistra è rappresentata l’ascesa al cielo di Achille e a bordo di un carro trainato da cavalli alati, sotto il carro giace Polissena sacrificata in suo onore. La fascia al di sotto dei tre pannelli è decorata con figure animali che si azzannano tra loro, personaggi in corsa, grifoni. Tra i pannelli laterali e quello centrale è un kuros, un giovane nudo in posizione frontale rigida”. Il carro rientra in quegli oggetti di tipo santuario che avevano una funzione puramente “rappresentativa: carri del genere erano infatti utilizzati solamente in parate e cortei trionfali ed accompagnavano nella tomba i loro possessori, da ricercarsi sempre tra personaggi di alto rango, proprio a testimonianza di questa loro posizione sociale”.
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