“Storia del profumo, profumo della storia”: all’Archeologico di Fratta Polesine un’affascinante mostra racconta tremila anni di profumi dall’età greco-romana alla grande profumeria di oggi. Da reperti unici ai manifesti liberty. Prevista anche un’esperienza olfattiva
Tremila anni di profumi, attraverso i loro contenitori: da quelli preziosissimi in alabastro, pasta vitrea o ceramica decorata dell’età greca e romana, come aryballoi, alabastra e lekythoi, a quelli più recenti, dove cominciano a “pesare” i marchi della grande profumeria planetaria di oggi. Insieme a oggetti, libri, antichi formulari e farmacopee, strumenti multimediali ed esperienze sensoriali. Ecco l’originale mostra “Storia del Profumo, profumo della storia” che il Comune di Fratta Polesine, l’università di Ferrara e il Polo museale veneto con la fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo propongono al museo Archeologico nazionale nelle barchesse di Villa Badoer a Fratta Polesine (Rovigo) dal 17 settembre 2016 al 26 marzo 2017. Si scopre così che la storia, quella con la S maiuscola, non è fatta solo di battaglie, incoronazioni e altri grandi eventi. È fatta anche di profumi. Chissà, ad esempio, se la Storia sarebbe stata la stessa nel caso in cui Cleopatra non avesse usato i suoi mitici unguenti profumati! La mostra, curata da Federica Gonzato con Chiara Beatrice Vicentini, Silvia Vertuani e Stefano Manfredini, affronta diversissime storie, tutte incentrate sul profumo e sull’arte profumiera. L’esposizione è arricchita da prestiti concessi dai musei Archeologici nazionali di Venezia, Adria, Portogruaro e dal museo Correr. La mostra è resa possibile grazie alla collaborazione nel progetto scientifico e come prestatori di accademia italiana di Storia della Farmacia, Sistema museale di ateneo e CosMast dell’università di Ferrara, biblioteca comunale Ariostea di Ferrara, centro studi etnografici “Vittorino Vicentini”, fondazione Musei civici di Venezia-Museo del Profumo e del Costume di Palazzo Mocenigo. La parte interattiva della mostra è stata realizzata con il contributo economico e tecnico di: AmbrosiaLab, Cura Marketing GmbH Innsbruck, ViaVai, Mavive, The Merchant of Venice.

I quattro curatori della mostra “Storia del profumo”: Federica Gonzato, Chiara Beatrice Vicentini, Silvia Vertuani e Stefano Manfredini
Quattro i campi d’indagine in cui si articola la mostra, come spiegano i quattro curatori. Si parte dalla ricerca archeologica, l’analisi delle fonti storiche e delle testimonianze iconografiche lungo i secoli, fino ai messaggi pubblicitari e alla studio della produzione odierna di aromi e profumi (tradizione e innovazione), approfondendo il tema grazie all’apporto scientifico e didattico fornito dalla collaborazione con laboratori specialistici, corsi di specializzazione post laurea specialistici e dipartimenti universitari. “Punto di partenza”, scrive Gonzato, “è il patrimonio archeologico del Mediterraneo orientale e la ricostruzione delle tecniche utilizzate a cavallo fra antico e medio Bronzo (II millennio a.C.) per la produzione di essenze, fra cui gli aromi da resina di pino, rosmarino, alloro, mirto, anice e bergamotto, piante tipiche di Cipro e del Mediterraneo, ricostruendo la storia delle tecniche e del gusto olfattivo attraverso i secoli fino ad oggi”. In questo compito – continuano gli archeologi – “ci guidano i reperti archeologici e le fonti storiche e linguistiche, a partire dalle tavolette in Lineare B, che ricordano la produzione di olii profumati ad suo cultuale offerti a divinità, e a seguire altre fonti classiche, quali il Trattato degli odori di Teofrasto, testo base della profumeria antica, le testimonianze di Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia o quelle conservate in Dioscuride in De materia medica”.
Obiettivo dei curatori è “presentare il tema in riferimento alle varie epoche storiche, lungo il medioevo fino all’età odierna, ricostruendo il percorso di questo fondamentale aspetto della vita sociale attraverso i codici e le conoscenze relative a erbe aromatiche (ma anche curative) lungo i secoli. I profumi di oggi, infatti, provengono da una lunghissima tradizione che, nonostante i cambiamenti di tecniche di produzione o di modalità di conservazione ed uso, non hanno dimenticato le loro origini e determinate profumazioni, come ad esempio il bergamotto, sopravvivono e continuano ad essere utilizzate senza perdere la loro freschezza, manifestando così l’esistenza di un patrimonio culturale comune che dall’antichità giunge fino a noi”. Nell’antichità come oggi, i profumi erano commerciati in lussuosi e costosi contenitori, che, oltre a sottolineare la preziosità del contenuto, rappresentavano anche un espediente per attrarre l’acquirente. “Per questo abbiamo ritenuto opportuno inserire una sezione dedicata ai manifesti pubblicitari della Belle Epoque. I legami, chiaramente visibili, fra l’industria profumiera di oggi e la produzione di olii essenziali nel Mediterraneo antico conferma la persistenza di un gusto olfattivo comune che dal Mediterraneo centro-orientale si diffuse a partire dal II millennio a.C. e ancor oggi costituisce la base di alcune fragranze particolarmente apprezzate ed utilizzate in Europa. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il profumo è uno strumento di comunicazione sociale: attraverso il profumo è possibile comunicare una particolare immagine di sé e, allo stesso modo il profumo altrui può costituire una specifica informazione nelle relazioni sociali, utilizzando un codice ben conosciuto all’interno della stessa cultura”. Lo studio dei profumi, e quindi degli odori – concludono Gonzato, Vicentini, Vertuani e Manfredini, “è uno studio di storia della cultura e del comportamento, della medicina, dell’igiene, del culto e dell’immaginario erotico. Tramite i reperti esposti in mostra si propone una lettura attraverso i secoli di un prodotto che ha fortemente influenzato la nostra cultura, i commerci, la letteratura e la ricerca medica”.
Nella sezione base la “Storia del profumo”, in collaborazione con Mavive, Museo del Profumo e del Costume, Palazzo Mocenigo Venezia, si va dalla preistoria all’età romana, percorrendo l’antropologia dell’olfatto e il rapporto tra profumo e società. Si arriva alla cultura bizantina e ai profumi d’Oriente e Occidente. Una sezione è dedicata a Venezia e alle sue fragranze. Sezioni dedicate ai segreti dell’arte profumatoria, alla cosmetica nel Rinascimento, all’Acqua di Colonia. Dai profumi raccontati dalle fonti archeologiche e dai reperti si passa al mondo dei profumi nella pubblicità con tanto materiale del Liberty che comprendono 13 quadri Manifesto pubblicitario, da quelli della ditta Migone 1898 fino ai saponi profumati 1895 ai calendarietti profumati Bertelli, dal 1904 al 1939.
La mostra non offre solo reperti e documenti rari, ma garantisce anche esperienze coinvolgenti. Come cimentarsi in “nasi”, alla scoperta delle diverse essenze, immaginando le loro composizioni. Si potranno annusare essenze diverse, tutte d’origine vegetale. Compresa quella della mitica Rosa Centifolia, varietà che coltivata a Grasse, in Provenza, offre la fragranza che rende unico Chanel n.5. La maison parigina ha l’opzione sull’intera produzione della famiglia Muol, miglior produttore di Centifolia, per i prossimi 100 anni. Per ottenere 1,5 kg di essenza vengono sacrificate centinaia di migliaia di rose, per l’esattezza una tonnellata di petali, per un controvalore economico a molti zeri. L’olio essenziale della rosa di Taif è il più costoso al mondo e se ne producono solamente 16 kg all’anno al costo di oltre 50mila euro al kg. La produzione è destinata in gran parte al re della Arabia Saudita. Nulla di nuovo in questo: i profumi e l’arte profumiera hanno sempre affascinato le famiglie reali. Questa passione contagiò tra le tante Caterina Sforza e Caterina dé Medici, ma soprattutto Isabella d’Este marchesa di Mantova, che nella città lombarda frequentava il suo rinomato laboratorio di profumeria, componendo lei stessa le preziose essenze. Venezia era una capitale dei profumi. Qui venivano fatte arrivare le essenze più rare, provenienti da paesi lontani. Qui operavano celebri essenzieri: qui, non a caso, venne edito I Notandissimi Secreti de l’Arte Profumatoria. Correva l’anno 1555 ed era per l’Occidente il primo ricettario ufficiale dell’arte cosmetica.
Scoperta nella necropoli della Doganaccia a Tarquinia una tomba etrusca di 2600 anni fa ancora inviolata. Progetto per valorizzare la Via dei Principi tra i tumuli del Re e della Regina
È rimasta chiusa per 2600 anni. Ma quando gli archeologi dell’università di Torino e della soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria meridionale l’hanno aperta, si sono trovati di fronte a qualcosa di eccezionale. Nella necropoli etrusca della Doganaccia a Tarquinia è stata rinvenuta una tomba del VII secolo avanti Cristo, intatta. Dell’eccezionale scoperta hanno parlato a Firenze, al X incontro nazionale di Archeologia Viva, Alfonsina Russo, soprintendente per i Beni archeologici dell’Etruria Meridionale, e Alessandro Mandolesi, docente di Etruscologia e Antichità italiche all’università di Torino.
“Se il Vicino Oriente in generale, e la Mesopotamia in particolare, sono territori ad altissimo rischio saccheggi, dove il patrimonio archeologico è alla merce’ di tombaroli, soldataglie e governatori corrotti che alimentano il mercato antiquario depredando i siti del proprio territorio”, esordisce Alfonsina Russo, “c’è un territorio in Italia – l’Etruria – che è stato per lungo tempo altrettanto terra di rapina da parte di tombaroli e oggetto di scavi clandestini che ne hanno depauperato il patrimonio. Almeno fino alla metà degli anni Novanta quando, con l’arrivo del Nucleo Tutela Patrimonio Beni Culturali dell’Arma dei Carabinieri si è posto un freno a queste devastanti attività illecite con l’arresto di numerosi trafficanti di antichità attivi proprio in Etruria. È quindi un fatto eccezionale – continua – poter annunciare il ritrovamento, avvenuto alla fine dell’estate 2013, di una tomba etrusca inviolata, ancora integra all’interno di un territorio particolarmente importante come è quello di Tarquinia, e nello specifico all’interno della famosa necropoli della Doganaccia, dove è ben testimoniato il cosiddetto periodo “orientalizzante” (VII sec. a.C.)”.
La scoperta della tomba 6423 che, come vedremo più avanti, è stata chiamata “dell’Aryballos sospeso” risale al 21 settembre scorso: un sepolcro inviolato rinvenuto nel corso della sesta campagna di scavo del Tumulo della Regina, sepolcro monumentale di oltre 40 metri di diametro, situata a poca distanza dal monumento principale che domina, insieme al gemello Tumulo del Re, l’area archeologica della Doganaccia, a Tarquinia. Gli scavi sono iniziati nel 2008, diretti dalla soprintendente Alfonsina Russo e dall’etruscologo Alessandro Mandolesi dell’università di Torino, con il coinvolgimento e la collaborazione delle associazioni locali. Russo e Mandolesi– proprio per questo ritrovamento – sono stati insigniti di un importante riconoscimento dal presidente Daniele Leodori, a nome del consiglio regionale del Lazio.
La necropoli della Doganaccia si trova al centro della vasta area sepolcrale di Tarquinia, caratterizzata dalla presenza di due grandi tumuli, che l’immaginario popolare ha chiamato “del Re” e “della Regina”, e che oggi sappiamo divisi dal passaggio (ovvero essere posti ai lati) della strada che collegava il porto di Tarquinia (non ancora localizzato con precisione) con la civita: questa strada, che oggi chiamiamo la Via dei Principi, era già stata ipotizzata dal grande etruscologo Massimo Pallottino nella prima metà del secolo scorso. “Tutta l’area della Doganaccia, come si diceva, dal tumulo del Re a quello della Regina alle tombe a essi collegati”, spiega la soprintendente, “è interessata al periodo culturale “orientalizzante” (VII sec. a.C.) che segna il trionfo della mentalità e delle forme socio-economiche della nascente aristocrazia etrusca, quella dei Principi, che avevano rapporti con Corinto, Cipro e il Mediterraneo Orientale in genere. Questo rapporto è attestato dalla metà dell’VIII secolo (730 a.C.) all’inizio del VI (580 a.C.). È in questo periodo che i Principi, come segno della acquisita potenza economica e politica, allargano i tumuli, e li riempiono di prodotti esotici, soprattutto dall’Egitto, come uova di struzzo e oggetti in faiance, che oggi possiamo ammirare al museo nazionale di Tarquinia. I Principi avevano dunque contatti e traffici regolari con i greci e i fenici”. Non conosciamo ancora l’ubicazione esatta del porto di Tarquinia, ma ci sono testimonianze archeologiche alle Saline (importante insediamento dell’Età del Ferro) e alla foce del fiume Marta. “Fonti antiche latine raccontano che verso la metà del VII secolo a.C.”, continua Russo, “qui approdò – proveniente da Corinto – Demarato, il padre di Tarquinio Prisco. Demarato arrivò a Tarquinia non a caso, ma perché già si conoscevano questi luoghi. Quindi il collegamento dalla costa alla civita, quello che passa attraverso i tumuli, era più antico e già noto”. La soprintendenza dell’Etruria meridionale ha ora lanciato il progetto di valorizzazione della Via dei Principi, sviluppando proprio i rapporti che la vicenda di Demarato sottende. Il progetto collega in un percorso culturale i tumuli del Re e della Regina con il museo archeologico nazionale di Tarquinia e le tombe etrusche dipinte.
Il tumulo del Re era stato scavato nel 1928, ma per avere idea di cosa poteva custodire il tumulo della Regina si è dovuto attendere 80 anni fino al 2008 quando è iniziata la sua esplorazione ufficiale. Lo scavo ha rivelato un quadro più articolato e complesso. “È stato trovato un grande vestibolo monumentale a cielo aperto a pianta cruciforme”, interviene il prof. Mandolesi: “questa è una tipica espressione della architettura nella Cipro (sito di Salamina) di cultura omerica. Oltre alla gradinata che precede la piattaforma cultuale, sono state ritrovate tracce di intonaco bianco, caso unico a Tarquinia, e anche in questo caso riferibile a un modello presente a Cipro. E un altro ritrovamento eccezionale nel vestibolo riguarda le tracce di pittura murale tarquiniese: sono le più antiche finora trovate. Purtroppo, nonostante queste incoraggianti e stimolanti premesse, le ricerche archeologiche al tumulo della Regina sono state interrotte per mancanza di fondi”.
Si è invece continuato a sondare e scavare l’area vicino al tumulo della Regina. È qui che è stato trovato un sepolcreto che, vista la vicinanza con il tumulo monumentale, si ipotizza possa essere relativo a famiglie di rango collegate in qualche modo al signore (titolare) del tumulo. È qui che è stata trovata una tomba gemina (640-630 a.C.) realizzata su modello cipriota che imita il tumulo della Regina. È un tumulo di 6 metri di diametro. A una profondità di tre metri si presenta la facciata con lastre a sigillare la porta d’ingresso: una sigillatura compatta che aveva ancora il servizio da simposio posto accanto alla porta. “La perfetta conservazione di quella sigillatura”, sottolinea Mandolesi, “ci ha permesso di dire che eravamo davanti a una tomba integra, non violata né in antico né in tempi recenti: e questo è un fatto eccezionale. L’ingresso presenta una porta ad arco (tipico modello architettonico del VII sec. a.C.) che dà accesso a una piccola camera ricolma di oggetti: la pianta è rettangolare, con due panchine, che sono due letti funerari, più lunga quella a sinistra, più piccola quella a destra. Il corredo funerario è stato posto nello spazio al centro e ai piedi delle due deposizioni. C’erano anche piccoli troni per sostenere il corredo”.
Appeso alla parete di testa un aryballos (di qui il nome dato dalla soprintendente Alfonsina Russo alla tomba: “dell’aryballos sospeso”): quello è l’unico trovato in situ, ma dai fori sulle pareti o dagli appigli (chiodi) ancora visibili si può dire che nella tomba in tutto erano nove gli unguentari appesi al muro. Le differenti dimensioni dei due letti scavati nella roccia per le deposizioni hanno rivelato anche un diverso rito funerario: a inumazione e a incinerazione. Su quello di sinistra infatti c’era uno scheletro, probabilmente di una donna sui 35-40 anni, deposta con ricchi ornamenti e oggetti personali, fra cui una raffinata pisside in lamina di bronzo contenente (secondo uno studio per ora solo con i raggi X) oggetti da ricamo: degli aghi in bronzo o argento, alcuni con la punta ritorta. Sull’altro letto più piccolo sono state ritrovate, invece, le ceneri di un uomo: il marito o il figlio. L’utilizzo della tomba (620-570 a.C.) testimonia una sequenza di deposizione nell’arco di circa mezzo secolo. L’architettura della tomba è tipica del VII secolo: sullo schema a botte viene disegnato un timpano con una linea rossa. La struttura richiama quindi più il concetto di padiglione che quello di casa. Probabilmente l’uomo è morto dopo, quando era già cambiata la mentalità e la cultura. Ricco il corredo funerario composto da vasellame (ceramiche etrusco-corinzie a impasto), oggetti di ornamento, fibule, suppellettili, sigilli, monili e armi tra cui una lancia e un giavellotto.
“Ora è necessario fare le analisi dei resti della sepoltura e studiare i materiali del corredo”, annuncia Alfonsina Russo, “per poter così capire meglio l’ordine seguito nelle deposizioni. Questa tomba è importante anche perché segna il passaggio dalla società dei Principi a una società più popolare”. I reperti trovati verranno sottoposti ad analisi scientifiche nei centri di restauro specializzati. “Apriremo il cofanetto, che pensiamo possa contenere anche gioielli; e condurremo indagini sui resti organici per capire cosa mangiavano i principi”, spiega la soprintendente, riferendosi alla pisside. Per quanto riguarda le armi ritrovate (una lancia, un giavellotto e un coltello rituale), anche queste saranno a breve oggetto di studio. I reperti in metallo e il materiale organico andranno ai laboratori di analisi dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali di Roma e il restante materiale sarà analizzato nei laboratori di Diagnostica e Restauro di Montalto di Castro (della società Mastarna), dalla soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria meridionale e dall’accademia di Belle arti “Lorenzo da Viterbo”.
“È motivo di soddisfazione, in un periodo così difficile per la tutela, perché abbiamo scarse risorse economiche e umane”, conclude Russo, “aver ottenuto questo risultato raggiunto solo grazie a una operazione sinergica con il Comune di Tarquinia, l’Università di Torino e anche, in futuro, con la Regione Lazio, visto che stiamo portando avanti un progetto di valorizzazione di questo sito tramite un finanziamento Por. Tutto ciò dimostra la bontà degli obiettivi che si possono raggiungere grazie alla sinergia tra vari enti e istituzioni”. Saranno infatti presto svolti lavori di valorizzazione dell’intera area, grazie a un finanziamento europeo (Por Fesr), erogato dalla Regione Lazio, nell’ambito del progetto Via dei Principi, che comprenderanno i restauri delle strutture con l’obiettivo di creare un Parco archeologico a tema. Ma è auspicio di tutti che per il futuro si possano proseguire anche gli scavi della Doganaccia.
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