#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 21.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco si sofferma sul sarcofago di Khonsumes, tipico sarcofago maschile del Terzo Periodo Intermedio
Col 21.mo appuntamento delle “Passeggiate del direttore” siamo ancora nel Terzo Periodo Intermedio. Il direttore Christian Greco ci presenta stavolta i sarcofagi maschili descrivendo il sarcofago di Khonsumes esposto nella galleria dei Sarcofagi del museo Egizio di Torino. Siamo ancora di fronte a un cosiddetto sarcofago giallo, coperto di decorazioni con l’horror vacui, e la presenza degli stessi elementi dell’unità solare osiriaca: la dea Nut al centro. Sopra la sua testa il simbolo del cielo, solcato da una barca con all’interno uno scarabeo alato con la testa d’ariete, sormontato da un disco solare, e ai due lati la rappresentazione del dio Osiride. Ma perché questo è sicuramente un sarcofago maschile? “Innanzitutto ha una parrucca striata e non decorata a falde larghe orizzontali come un sarcofago femminile, come quello di Tabekenkhonsu”, spiega Greco. “Poi vediamo che invece di avere due mani stese ha due pugni. E non c’è la decorazione di orecchini e né vediamo le rosette sotto le falde della parrucca a indicare i seni. Quindi questo è un sarcofago maschile: siamo all’epoca della XXI dinastia, ed è proprio ora che si vede la distinzione di genere nei sarcofagi. Il sarcofago in questo periodo diventa quell’elemento che raccoglie in sé tutti gli elementi fondamentali per la resurrezione del defunto. E se andiamo a vedere la cassa, vediamo, riconosciamo scene che eravamo abituati a vedere nei rilievi delle tombe tebane. La tomba è rappresentata sormontata da una piramide in mattoni crudi con la parte della cuspide resa in un altro colore perché quella era la parte in pietra dove vi era il pyramidion. La tomba è inserita poi all’interno della necropoli, della montagna tebana, custodita da uno sciacallo. E dalla montagna tebana esce la vacca hathorica, simbolo della dea Hathor, la dea dell’Occidente, custode della necropoli tebana. Anche qui c’è sulla campitura del sarcofago come uno squarcio, di colore diverso dal giallo, per mostrarci l’aldilà. E poi c’è la scena della teogenesi ovvero della dea Nut nuda, simbolo del cielo, ricurva che forma quasi una volta sostenuta da Shu, e a terra invece una divinità maschile verde che è il dio Geb. Dall’unione di Nut e Geb nasceranno le quattro divinità: Iside, Nefti, Osiride e Seth”.

La dea Hathor appare tra i rami del sicomoro: particolare della cassa del sarcofago di Tabekenkhonsu (foto museo Egizio)
Sulla cassa del sarcofago di Tabekenkhonsu ci sono alcune scene molto interessanti. “Innanzitutto, la rappresentazione della dea dell’Occidente, Hathor, che appare nell’albero sicomoro e versa, quasi facesse una libagione, dell’acqua al defunto che è qui in adorazione. L’albero si trova di fronte alla tomba, la tomba di nuovo resa con la sua facciata, sormontata dalla piramide e la parte alta, la cuspide, il pyramidion in pietra. E questa raffigurazione ci ricorda anche un inno delle tombe tebane in cui sappiamo che i familiari che fanno visita alla tomba vengono invitati a soffermarsi e a sedersi sotto i rami dell’albero sicomoro; e quando sentiranno il frusciare delle foglie non dovranno pensare che quello è il vento ma le anime dei defunti che vengono lì a sedersi. Di nuovo la tomba – sottolinea Greco – è quell’elemento liminale che permette l’incontro tra i viventi e i defunti. E poi al centro è rappresentata una scena importantissima che abbiamo visto nel papiro di Iuefankh: il capitolo 125 del Libro dei Morti. La defunta Tabekenkhonsu in abiti di viventi si trova all’interno di uno spazio architettonico definito. Dietro di lei vi è una divinità femminile con una testa un po’ strana, che per noi però è molto utile perché quella testa resa in quel modo è un geroglifico e di legge “imentet” e quindi è la dea dell’Occidente, Hathor. Tabekenkhonsu assieme alla dea dell’Occidente entra in questo spazio. Davanti a lei c’è il dio Thot, il dio della scrittura, il dio della sapienza, con in mano la paletta scrittoria, che è lì a scrivere. Perché? Perché questa è una versione molto compatta del capitolo 125 del Libro dei Morti. Non vediamo la scena della psicostasia, però sappiamo che siamo di fronte a Osiride che siede in trono seguito dalla dea Iside. E riconosciamo un altro elemento importante: il mostruoso Ammit, il divoratore, che qui è rappresentato con la testa di coccodrillo, la parte anteriore di leone, la parte posteriore di ippopotamo. È lì pronto a divorare il cuore nel caso risultasse più pesante della piuma. Anche se la scena della psicostasia qui non è resa, sappiamo che abbiamo a che fare con questa. C’è un altro elemento importante: la presenza del dio Horus, colui che deve vendicare il padre dopo che era stato ucciso da Seth. E lo vediamo qui con la corona dell’Alto e del Basso Egitto, quindi è colui che adesso ha saldamente il potere sull’Egitto ed è succeduto al padre Osiride”.
#iorestoacasa. “Le Passeggiate del Direttore”: col 18.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco, con la Galleria dei Sarcofagi ci porta nel Terzo Periodo Intermedio illustrando il magnifico sarcofago dello scriba Butehamon
Il 18.mo appuntamento con le “Passeggiate con il direttore” è il primo dedicato al Terzo Periodo Intermedio. Il direttore Christian Greco illustra il magnifico sarcofago dello scriba Butehamon che si trova all’inizio della Galleria dei Sarcofagi, ma che forse – precisa Greco – “andrebbe meglio definita come Galleria del Terzo Periodo Intermedio che ci fa capire cosa avviene alla fine del Nuovo Regno, all’epoca di Ramses XI”. Butehamon. è lo scriba della necropoli e probabilmente è lui ad abbandonare il villaggio di Deir el Medina e andare a vivere a Medinet Habu.
“Osservando il sarcofago di Butehamon”, spiega Greco, “colpiscono subito degli elementi di differenza rispetto ai sarcofagi visti in precedenza. Qui c’è un esplodere di colori e di decorazioni. Sembra quasi che ci sia un horror vacui, che ogni centimetro quadrato del coperchio sia coperto dalla decorazione. Perché? In questo momento non si costruiscono più tombe con decorazioni parietali come avevamo conosciuto nel Nuovo Regno. La crisi economica e politica dell’Egitto spinge quindi a cambiare il culto. Però tutti quei testi che decoravano le pareti sono fondamentali perché permettono la trasfigurazione del defunto, permettono al defunto di accedere alla vita dell’aldilà e allora vengono trasferiti nel sarcofago. Così il sarcofago sopperisce alla mancanza di decorazione della tomba e ne acquisisce tutti gli elementi”.
Questo sarcofago ci introduce in quella tipologia dei “sarcofagi gialli”. Il termine è evidente e si vedrà bene con i sarcofagi di Tabakenkhonsu e di Khonsumes: questo colore giallo predominante va a sostituire l’oro che non viene più utilizzato. Il colore è ottenuto grazie all’orpimento, un pigmento a base di arsenico che dà appunto questa colorazione molto forte. “Osserviamo alcuni elementi: si vede che il coperchio esterno del sarcofago di Butehamon presenta nella parte superiore un collare wsekh sui cui lati c’è la testa di falco e di Horus; ha le braccia incrociate sul petto, con le mani chiuse a pugno, elemento tipico per definire il fatto che questo è un sarcofago di un uomo e non di una donna. Vedremo poi che le donne presentavano i sarcofagi con due mani distese. E poi al centro vi è un elemento importantissimo: la solarizzazione, il culto del dio Sole. C’è il simbolo dell’orizzonte con il disco solare sopra, e sotto vediamo il dio nella sua forma mattutina, nella sua forma di scarabeo khepri che spinge il disco solare. E poi la dea del cielo Nut che divide quasi in due il sarcofago.
“La cassa presenta elementi importantissimi legati al culto, legati proprio al fatto che il sarcofago sia un cosmogramma, che raccolga in sé in nuce tutti gli elementi fondamentali per la resurrezione del defunto. Ad esempio, su un lato, c’è una divinità maschile verde stesa, che è il dio Geb, la terra. Al di sopra, a fare quasi una volta, è la divinità femminile Nut, che è il cielo, sostenuta da Shu, dio dell’aria e dell’atmosfera. Bene questo è anche l’inizio di quella che noi potremmo chiamare teo-genesi ma anche antropogenesi. Non è solo la creazione degli dei ma anche la creazione degli uomini. Dall’unione del cielo e della terra, di Nut e Geb, nasceranno quattro divinità Iside, Nefti, Osiride e Seth, che rappresentano anche la lotta manichea tra il bene e il male. Osiride che entra poi in contrasto con Seth. Osiride è il primo sovrano dell’Egitto che viene combattuto e ucciso da Seth. Il bene però sappiamo vincerà perché Osiride, nonostante venga ucciso dal fratello, potrà poi resuscitare grazie all’opera di Iside e Nefti e diventare il sovrano dell’oltretomba. Qui in nuce quindi è rappresentato l’inizio di tutto, l’inizio della creazione degli dei, l’inizio della creazione del mondo. Il sarcofago però ci fa vedere dall’altra parte anche un qualcosa di estremamente interessante. Ci fa entrare, per quando gli umani lo possano fare, nel mondo dell’oltretomba. La campitura bianca a un certo punto si squarcia e dove il bianco non fa più da sottofondo vi sono delle scale che scendono nell’oltretomba. Questa è la Duat, l’oltretomba. Quindi possiamo aver uno sguardo nella Duat, nell’oltretomba, in quello che avverrà nell’aldilà. Ovviamente Osiride è ben presente e lo vediamo sul fondo della cassa con la rappresentazione del cosiddetto pilastro djed, che qui è quasi personificato perché ai lati le braccia del dio tengono in mano lo scettro e il flagello. I due occhi udjat e la corona atef sono sopra il pilastro djed. Il pilastro djed è esso stesso una rappresentazione di Osiride, rappresenta la sua colonna vertebrale. Quindi ancora una volta il sarcofago è il segno dell’unità solare osiriaca, di quello che l’Amduat, ovvero testo cosmografico dell’oltretomba che ci racconta del periplo solare nell’aldilà”.
Missione belga scopre ad Alessandria d’Egitto complesso monumentale del periodo tolemaico: probabile tempio della famosa regina Cleopatra assimilata a Iside. Ne dà notizia la rivista “Archeologia Viva”

I resti del complesso tolemaico scavato nel quartiere moderno di Smouha ad Alessandria d’Egitto (foto Archeologia Viva)
Gli scavi condotti dal museo belga di Mariemont ad Alessandria d’Egitto stanno portando alla identificazione di un grande complesso monumentale del periodo tolemaico: forse un tempio dedicato a Cleopatra assimilata a Iside che in età greco-romana era la più amata delle divinità nella terra del Nilo. Autori della scoperta, come riferisce il numero di gennaio-febbraio 2017 della rivista Archeologia Viva (Giunti editore), sono tre archeologi belgi dell’università Cattolica di Lovanio: Marie-Cécile Bruwier, direttrice scientifica del Museo reale di Mariemont e professoressa di archeologia egiziana e museologia; Marco Cavalieri, professore di archeologia romana e antichità italiche; Nicolas Amoroso, assistente presso la cattedra di archeologia romana e antichità italiche. “È noto come la conoscenza della più famosa città voluta da Alessandro Magno, l’Alexandrea ad Aegyptum di cui parlano le fonti, fondata sul delta del Nilo, sia ben lungi dall’essere completata”, spiega Bruwier su Archeologia Viva. “L’eccezionale e per certi versi incontrollato boom edilizio moderno e la stessa collocazione della città in un ambiente lagunare e paludoso, certamente sfavorevole alla conservazione del sito antico, hanno profondamente trasformato nei secoli il volto dell’area urbana, facendo sì che anche i monumenti più illustri, come la famosa Biblioteca o il Faro, siano ancora oggetto di continue indagini, peraltro non sempre risolutive per la ricomposizione dell’antica topografia”. La missione del Musée royal de Mariemont ad Alessandria d’Egitto si è conclusa dopo diversi anni di ricerche. Grazie alla collaborazione del Consiglio supremo delle Antichità egizie e del Centre d’Études alexandrines (CEAlex), le indagini si sono concentrate nella zona del quartiere moderno di Smouha, un sobborgo orientale della città. Il sito, conosciuto già dal XVIII secolo, solo a partire dal 2008 è stato oggetto di scavi condotti sulla base di attenti studi topografici. In precedenza, le uniche testimonianze si basavano su alcuni frammenti di statue colossali, oggi divisi tra il museo di Mariemont e il museo greco-romano di Alessandria. Le indagini hanno dato brillanti risultati documentando i resti di un tempio monumentale di età greco-romana che aggiungono un importante tassello alla conoscenza dell’antica Alessandria.

L’egittologa Marie-Cécile Bruwier davanti al frammento di regina tolemaica (Cleopatra?) conservata al Museo reale di Mariemont (foto Stephanie Vandreck)
“La missione belgo-francese-egiziana”, continua Bruwier, “da anni è concentrata nel tentativo di ricostruire la natura e l’aspetto di un ampio settore orientale esterno alle antiche mura, nell’attuale quartiere di Smouha, laddove le descrizioni dei viaggiatori dei secoli scorsi e le più recenti indagini archeologiche documentano le tracce di un tempio la cui natura monumentale è attestata dai resti architettonici e dall’apparato scultoreo, forse risalente alla fine dell’età lagide, ovvero al regno di Cleopatra VII (51-30 a.C.), la più famosa regina d’Egitto”. Fra i reperti degli scavi a Smouha, è stato portato alla luce un frammento di lucerna romana raffigurante Iside in trono adorna del basileion: il disco solare sostenuto da due spighe di grano e sormontato da due piume. La presenza di spighe richiama l’assimilazione della dea con Demetra. Una seconda lucerna mostra Iside in trono che allatta il piccolo Arpocrate, mentre il frammento di una manica è riferibile a un busto di Serapide. Sono reperti che evidenziano la pratica di culti isiaci in questo sobborgo alessandrino. Inoltre, alcuni gettoni da gioco alessandrini di età greco-romana portano l’iscrizione Eleusinion con la rappresentazione di un edificio porticato a più piani che lascia ipotizzare l’organizzazione di giochi nell’Eleusi di Alessandria. Ciò presuppone uno spazio adeguato. Due iscrizione geroglifiche frammentarie, scoperte a Smouha nel 2009 e nel 2010, presentano parte di un titolatura reale e dimostrano la presenza di statue reali nel luogo dove sono stati condotti gli scavi. Le ricerche hanno evidenziato una sessantina di blocchi di forma parallelepipeda (in granito, calcare e marmo) e parecchi frammenti di colonne in granito rosa.
Antico Egitto. Scoperta a Tebe-Luxor dalla missione spagnola che opera al recupero del tempio funerario di Thutmosi III, la tomba di un alto funzionario di corte del Terzo Periodo Intermedio con un bel cartonnage

I resti del tempio funerario di Thutmosi III a Deir el Bahari sulla riva occidentale del Nilo a Tebe-Luxor
L’Egitto non finisce mai di stupire: scoperta a Tebe-Luxor la tomba di un alto dignitario dei faraoni risalente al Terzo Periodo Intermedio. Durante la nona campagna di scavo, la missione archeologica spagnola, diretta dall’egittologa Myriam Seco Ælvarez, ha scoperto a Tebe, sulla riva ovest di Luxor in Egitto, una tomba risalente agli inizi del Terzo Periodo Intermedio, vale a dire dell’XI-X sec. a.C.. La sepoltura, alla fine di un breve pozzo, è stata ritrovata lungo la facciata esterna del muro meridionale del tempio funerario del faraone della XVIII dinastia Thutmosi III (1490/68 -1425 a.C.), a Deir el-Bahari, vicino al tempio funerario di Hatshepsut. Lo ha reso noto il ministero delle Antichità egiziano. “La tomba, molto piccola, 80 centimetri di altezza e 60 di larghezza, è in ottimo stato”, assicura Mahmoud Afifi, direttore del Dipartimento delle Antichità locale. “Al suo interno è stato trovato un sarcofago deteriorato con una mummia ben conservata di un alto funzionario di corte, Amon-Renef “Servitore della Real Casa”, avvolto in una bel cartonnage colorato”.

Il bel cartonnage dell’alto funzionario Amon-Renef scoperto nella tomba lungo la facciata esterna del tempio di Thutmosi III dalla missione spagnola di Myriam Seco
“Abbiamo trovato la nicchia al di fuori del perimetro sud del muro del tempio”, racconta Seco che dal 2008 è co-direttore della missione che ha l’arduo compito di recuperare il tempio funerario del più grande faraone di tutti i tempi. “Il sarcofago antropomorfo è stato mangiato dalle termiti. Si sono conservati solo un poco dei piedi e del viso. Al suo interno, però, è stato trovato un cartone molto fragile, che mantiene ancora la sua vivida decorazione: è una vera bellezza”. Il rivestimento di cartonnage è stato usato nell’Antico Egitto a partire dal Primo periodo intermedio per realizzare le maschere funerarie. È stato proprio dallo studio preliminare del cartonnage che si è potuto sapere qualcosa di più preciso sul proprietario della sepoltura. “Vi sono riportati tutti gli elementi della religione egizia. Appaiono i simboli solari, come il disco solare o il cobra; le dee protettive Iside e Nefti con le loro ali spiegate; i quattro figli di Horus incaricati di custodire le viscere del defunto; i falchi protettori sempre con le ali spiegate”. E poi ricorda l’egittologa sivigliana: “Abbiamo anche trovato associati degli oggetti ascrivibili al Terzo Periodo Intermedio. Per questo gli studi preliminari collocano la sepoltura intorno all’XI-X secolo a.C. Ma necessitano ovviamente studi più approfonditi”. Intanto sappiamo che il defunto si chiamava Amon-Renef e portava il titolo di “Servitore della Real Casa”. È stata una figura importante nella corte: si prendeva cura di tutto.
Il poco spazio disponibile nella tomba ha complicato il lavoro degli archeologi. “Immaginate le posture scomode che hanno dovuto adottare i due restauratori che hanno lavorato nella nicchia, con l’ulteriore difficoltà che si doveva muoversi, entrare e uscire senza toccare il cartonnage” riprende la direttrice Seco. “Abbiamo lavorato per una settimana per rimuovere il cartonnage intatto”. Durante il delicato processo, gli esperti hanno coperto la maschera funeraria con una garza, prima di essere recuperata e inviata al laboratorio. “Ora è fondamentale intervenire sul cartone con l’iniezione di prodotti che ne garantiscano la conservazione. Dovremo farlo prima della fine della campagna di scavo”.
Egitto-Pompei. Al museo Egizio di Torino la prima tappa del progetto con la mostra “Il Nilo a Pompei” nella nuova sala Asaad Khaled. Per la prima volta gli affreschi del tempio di Iside e della domus del Bracciale d’oro di Pompei

La mostra “Il Nilo a Pompei” nella nuova sala del museo Egizio di Torino intitolata a Khaled Asaad, l’archeologo siriano ucciso dall’Isis
L’onda lunga del Nilo si ferma alle acque del Po, dopo aver invaso il Mediterraneo e lambito l’area vesuviana e i colli di Roma. Ecco “Il Nilo a Pompei”, la grande esposizione che si è aperta al museo Egizio di Torino, come già annunciato da archeologiavocidalpassato (https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2016/03/01/egitto-passione-antica-da-torino-a-pompei-a-napoli-tre-sedi-per-un-grande-progetto-espositivo-egitto-pompei-grazie-alla-collaborazione-inedita-tra-enti-diversi-legizio/), la prima di un grande progetto espositivo e di ricerca “Egitto Pompei” che nell’arco dell’anno vedrà coinvolti anche il museo Archeologico nazionale di Napoli e la soprintendenza di Pompei. Fino al 4 settembre 332 pezzi, tra pitture, vasellame e sculture, provenienti da venti musei italiani (più dalla metà da Napoli e Pompei) e stranieri, testimoniano l’influenza della cultura egizia su quella greca e romana, in un viaggio ideale dall’Egitto faraonico all’Italia romana con il Mediterraneo come sfondo. E per l’Egizio di Torino sono tante le “prime” legate a questo progetto: “Il Nilo a Pompei” è la prima mostra temporanea promossa dal nuovo corso dell’Egizio dopo la sua inaugurazione il 1° aprile del 2015; è la prima volta nel nuovo spazio riservato alle mostre temporanee al primo piano del palazzo di via dell’Accademia, sala che è stata intitolata a Khaled Asaad, l’eroico direttore del museo e del sito Unesco di Palmira, giustiziato nell’agosto 2015 dall’Isis; è la prima volta anche per opere straordinarie, esposte a Torino, come gli affreschi del tempio di Iside o della casa del Bracciale d’Oro, entrambi a Pompei.

Il manifesto della mostra “Il Nilo a Pompei” aperta fino al 4 settembre 2016 al museo Egizio di Torino
La mostra vuole rispondere a due domande precise: quanto la cultura egizia ha influenzato l’Italia del periodo romano? Quali sono stati i risultati di questa contaminazione in ambito artistico e quali effetti ha avuto sulla vita quotidiana a partire dall’epoca ellenistica fino alla Roma imperiale? Per avere una risposta a questi interrogativi il visitatore è accompagnato in un viaggio che ha come sfondo il Mediterraneo e come protagonisti oggetti e immagini che dalle rive del Nilo hanno toccato nuove terre, incontrato culture diverse e sono giunti sino a noi. Partendo da Alessandria d’Egitto, passando dalla greca Delo e approdando a Pozzuoli in Campania si possono così seguire l’evoluzione di culti e motivi iconografici egizi, soffermandosi in particolare sui siti campani di Pozzuoli, Cuma e Benevento, con un approfondimento su Pompei e Ercolano.
Il percorso della mostra “Il Nilo a Pompei” si snoda attraverso nove sezioni partendo dalla ricezione dell’Egitto nel mondo greco (1. L’Egitto e il mondo greco: l’influenza dell’Egitto, prima nelle civiltà minoica e micenea e poi nel mondo greco, nella madrepatria e nel mondo coloniale), passando per la grecizzazione degli dei egiziani sotto i Tolomei (2. Osiride, Iside e la leggenda osiriaca: la devozione a Osiride, Iside, Horus e i loro dei ancillari nell’Egitto faraonico, prima che questi culti siano rivisitati ad Alessandria e poi a Roma), e la diffusione dei culti egizi nel Mediterraneo (3. Serapide e Iside: la rielaborazione del culto di Osiride-Api e Iside ad Alessandria è il presupposto della loro fortuna oltre i confini dell’Egitto) e in particolare in Italia (4. L’Iseo di Benevento: l’Iseo di Benevento, tempio dedicato alla dea Iside, noto per le sue decorazioni in stile faraonico). Ci si concentra sui culti egiziani nei siti vesuviani grazie a reperti di straordinaria bellezza, come gli affreschi dell’Iseo Pompeiano (5. Il culto di Iside a Pompei: il tempio di Iside a Pompei, l’unico ben conservato fuori dall’Egitto, nel quale i temi egiziani abbondano negli affreschi e negli arredi) o della Casa del Bracciale d’Oro a Pompei (6. La casa del Bracciale d’Oro: in mostra le pitture provenienti dal triclinio estivo, ambiente all’aperto destinato alla convivialità, di una casa patrizia pompeiana che godeva di una meravigliosa vista sul Golfo di Napoli). Si passa poi ad ammirare alcuni tesori da domus pompeiane (7. La casa di Octavius Quartio a Pompei: sezione dedicata alle sculture provenienti dal giardino della casa di Octavius Quartio, una delle abitazioni più grandi di Pompei) e decorazioni in abitazioni private (8. Altre case pompeiane: sezione in cui vengono esibiti due affreschi con tema nilotico, alcune statue ispirate al pantheon egizio e alla fauna della valle del Nilo, una lastra in pietra che riporta un’iscrizione geroglifica). L’allestimento si conclude con una sezione dedicata alla diffusione dei culti isiaci in Piemonte con gli splendidi bronzi del sito di Industria (9. Iside in Piemonte: il sito di Industria, importante snodo commerciale nell’Italia del Nord noto per le officine di lavorazione del bronzo). Il serrato dialogo tra le due sponde del Mediterraneo è valorizzato dalla ricostruzione in 3D delle case pompeiane del Bracciale d’Oro e di Loreio Tiburtino, decorata con statue che rimandano all’Egitto.
Una grande mostra – come si diceva – in tre luoghi, Torino, Napoli e Pompei. Proprio a Pompei la seconda tappa: nella Palestra Grande, uno scenografico allestimento di Francesco Venezia riunirà dal 16 aprile sette monumentali statue con testa di leone della dea Sekhmet e la statua seduta del faraone Tutmosi III che per la prima volta escono dalle sale della collezione permanente del museo Egizio. I monoliti di granito prestati dal museo torinese marcano la centralità del culto solare: un ritorno alle origini di una secolare storia di sincretismi religiosi, in cui l’adorazione della dea Sekhmet riconduce il racconto della mostra alla fase costitutiva del cosmo e all’ordine imposto dagli dei. Il rapporto tra la divinità e il mondo, e la necessità di mantenere un equilibrio tra forze contrapposte, si manifesta attraverso una serie di rituali di cui le imponenti statue sono testimoni. Una emozionante videoinstallazione di Studio Azzurro accompagnerà l’esposizione delle opere. All’interno degli scavi verrà tracciato, inoltre, un percorso egizio a partire dal tempio di Iside, interessato da un intervento multimediale di realtà immersiva, per arrivare alle numerosissime domus che riportano motivi decorativi egittizzanti, come quella di Loreio Tiburtino.

Skyphos di ossidiana da Stabiae con scene di culto egiziano in mostra al museo Archeologico di Napoli
Dal 28 giugno il terzo capitolo dell’esposizione al museo Archeologico nazionale di Napoli. L’inaugurazione di una nuova sezione del percorso di visita delle collezioni permanenti servirà a focalizzare l’attenzione sull’insieme di culti che, nati o arrivati dall’oriente attraverso l’Egitto, hanno trovato in Campania un terreno fertile di ricezione e diffusione nel resto d’Italia. Questo settore del museo andrà a integrare e completare la narrazione della sala in cui sono attualmente ricomposti gli arredi dell’Iseo di Pompei. Troveranno finalmente una collocazione le coppe di ossidiana da Stabia, capolavori dell’artigianato alessandrino che seppe tradurre modelli di epoca faraonica in un linguaggio apprezzatissimo e diffuso all’indomani della conquista romana dell’Egitto (31 a.C.), e i due affreschi provenienti da Ercolano con scene di cerimonie isiache, che sembrano illustrazioni del testo di Apuleio. Nell’esposizione di opere che attestano la diffusione di culti e religioni orientali (da Sabazio a Dusares a Mitra) praticate e seguite per secoli, non mancheranno i riferimenti al giudaismo, presente a Napoli, e al nascente cristianesimo. E dall’8 ottobre l’intero progetto si concluderà con la riapertura della collezione egiziana del museo di Napoli. Negli stessi spazi individuati fin dal 1864 come naturale sede delle raccolte Borgia e Picchianti, e nel totale rifacimento dell’allestimento del 1989, saranno riesposti gli oltre 1200 oggetti che fanno di quella del museo Archeologico nazionale di Napoli una delle più importanti collezioni egizie d’Italia, il cui nucleo principale si è formato prima della spedizione napoleonica. Per facilitare la lettura al pubblico il nuovo percorso è stato articolato per temi. Dopo una sala introduttiva sul formarsi della raccolta, ognuna delle cinque sale sarà dedicata a un argomento: Uomini e Faraoni, La Tomba e il Corredo Funerario, La Mummificazione, Il Mondo magico e religioso, La Scrittura, i Mestieri e l’Egitto in Campania. Un’aggiornata segnaletica, realizzata con l’università L’Orientale, completerà l’allestimento arricchito da supporti multimediali e da un percorso dedicato ai bambini.
110 anni fa l’archeologo italiano Schiaparelli scoprì la più bella tomba della Valle delle Regine, la tomba di Nefertari, la Grande Sposa di Ramses II. Una mostra al museo Egizio del Cairo ricorda 110 anni di presenza italiana in Egitto

La regina Nefertari, la Grande Sposa di Ramese II, ritratta nella sua tomba nella Valle delle Regine
“È uno dei monumenti più insigni della necropoli di Tebe che se non per ampiezza, certo per l’armonia delle sue parti e la squisitezza dell’arte, gareggia pur anco colle più belle tombe della Valle dei re”, avrebbe commentato la straordinaria scoperta della tomba della regina Nefertari l’archeologo italiano Ernesto Schiaparelli, direttore del museo Egizio di Torino dal 1894 fino alla sua morte nel 1928. Era il 1904. Schiaparelli a capo di una missione archeologica italiana scoprì nella Valle delle Regine, a Tebe Ovest, quella che probabilmente è la tomba più bella d’Egitto: la QV66, ovvero la tomba della celeberrima Nefertari, la Grande Sposa Reale di Ramses II (1279-1212), sovrano egizio della XIX dinastia, la quale – pur non avendo regnato in modo autonomo – fu una delle regine più influenti dell’Antico Egitto, a fianco di nomi come Hatshepsut, Tyi, Nefertiti e Cleopatra VII. Ramses II la innalzò alla condizione di divinità vivente attribuendole appellativi come: “la Divina”, “la più amata”, “la Signora del fascino”, “la dolce in amore”, “Madre e Signora del dio in vita”. Non a caso il nome Nefertari letteralmente significa “la più bella”, nome inoltre quasi sempre seguito dall’attributo Mery-en mut, “amata da Mut”, la divinità tebana, sposa di Ammone. Una volta entrato, Schiaparelli si rese subito conto che l’opera dei saccheggiatori aveva lasciato ben poco del corredo originario, ma la QV66 restava ed è un gioiello per la sua struttura architettonica, paragonabile a quelle che si trovano nella Valle dei Re, e, soprattutto, per il magnifico ciclo pittorico che abbellisce le pareti e il soffitto, uno dei più completi e significativi del nuovo regno.
Sono passati 110 anni da quella straordinaria scoperta che parla italiano come la targa che ancora oggi campeggia sopra il cancelletto d’ingresso della tomba in fondo alla breve scala di accesso a ricordare l’opera di Ernesto Schiaparelli. E un anniversario così importante come la scoperta della tomba della regina Nefertari non poteva passare sotto silenzio. Per questo l’ambasciata d’Italia e l’Istituto di Cultura italiano al Cairo, in collaborazione con il ministero delle Antichità egiziano, hanno deciso di promuovere la mostra fotografica “Nefertari 1904 – 2014”, che celebra i 110 anni di presenza italiana in Egitto. L’inaugurazione della mostra, sponsorizzata da Alex Bank, del Gruppo Intesa SanPaolo di Torino, e da Bcube logistica di Coniolo (Al), l’8 dicembre al museo Egizio di piazza Tahrir al Cairo, alla presenza dell’ambasciatore d’Italia, Maurizio Massari, e del ministro egiziano delle Antichità, Mamdouh Eldamaty, e sarà successivamente trasferita ad Alessandria e Luxor. “È uno straordinario esempio dell’impegno e della qualità del lavoro di archeologi e restauratori italiani”, sottolinea l’ambasciatore Massari, “e soprattutto la conferma del grande valore della presenza italiana nel settore archeologico egiziano, presenza ancora oggi rilevante, con 23 missioni attualmente operative in tutto l’Egitto”.
Questa vasta tomba scoperta nel 1904 dall’egittologo Ernesto Schiaparelli, purtroppo deturpata e saccheggiata al punto da essere priva della mummia (il sarcofago in granito rosa è stato trovato aperto e spezzato), è collocata nel versante settentrionale della Valle delle Regine e presenta una pianta molto articolata. È infatti diversa rispetto alle tombe di altre regine (solitamente più semplici e dotate solo di una camera funeraria), e si ispira piuttosto alle sepolture faraoniche della vicina Valle dei Re. Sulle pareti della seconda scala discendente, la decorazione è anche a rilievo. I dipinti raggiungono apici di qualità nell’ambito dell’arte funeraria egizia soprattutto per la ricchezza di colori (verde, blu egiziano, rosso, ocra gialla, bianco e nero) e di dettagli, mentre i temi e i contenuti rispettano le indicazioni contenute nel Libro dei Morti. Le immagini descrivono il viaggio di Nefertari verso l’Aldilà, durante il quale gioca a senet (gioco da tavolo, considerato uno degli antenati del backgammon), entra nel mondo sotterraneo dove incontra molte divinità tra le quali Osiride e Iside. Al termine del ciclo pittorico, Nefertari trionfa e si tramuta in Osiride (dio dei morti), con il conseguente, auspicato raggiungimento dell’immortalità e della pace eterna. All’interno della tomba furono ritrovati resti del sarcofago in granito rosa e pochi pezzi del corredo funerario: 34 ushabti, un frammento di bracciale d’oro, amuleti, cofanetti di legno dipinti e un paio di sandali in fibra intrecciata.
Il nome di Nefertari, che visse più di 3500 anni fa, sin dalla scoperta della sua tomba, è stato soffuso da un alone di mistero, forse per il grande amore che le portò il suo sposo Ramses II il quale non seppe consolarsi della perdita della sua regina che morì nel 1255 a.C., sulla quarantina. Di lei venne narrata, nelle numerose iscrizioni e raffigurazioni rinvenute, la straordinaria bellezza e grazia, tanto che alcuni studiosi arrivano persino a stabilirne la parentela con un’altra famosa regina – Nefertiti – asserendo che entrambe erano figlie di Ay, il penultimo faraone della XVIII dinastia. Dal momento delle nozze, Nefertari diventò la compagna inseparabile e senza rivali del re; tutte le testimonianze dimostrano che aveva un ruolo estremamente importante nel regno per la sua intelligenza, la determinazione e la volontà che le permisero di mantenere al fianco del faraone il controllo non solo delle faccende interne, ma anche di quelle internazionali e sacre. Il comportamento di Ramses II nei confronti di Nefertari fu veramente eccezionale: egli giunse a dedicarle un tempio ad Abu Simbel, raro privilegio per una regina, e le costruì la più bella tra le tombe della Valle delle Regine sulla riva del Nilo, di fronte a Luxor, riempendola di oggetti preziosi e facendola decorare con dipinti ispirati agli “incantesimi”, o ai testi sacri del “Libro dei Morti”, per garantirle l’accesso all’eternità.
Nonostante l’impegno profuso da Ramses II per assicurare l’immortalità di Nefertari, la tomba della sposa venne – come detto – saccheggiata già nell’antichità, tanto che al momento della scoperta, non fu rinvenuta la mummia della regina e si trovarono solo pochi degli oggetti del suo corredo funerario. Non solo, ma molte delle pitture murali andarono danneggiate in seguito alla precedente profanazione; e Schiaparelli stesso constatò che il processo di deterioramento era in atto da tempi antichi, degrado che subì un’accelerazione drammatica dopo l’apertura della tomba da parte dell’archeologo italiano.

Il ritratto di Nefertari prima e dopo i restauri curati da un’equipe di esperti italiani diretta da Laura e Paolo Mora per conto del Getty Conservation Institute

Un momento dei delicati restauri del ciclo di affreschi della tomba di Nefertari durati per cinque anni
Se italiana fu la sua scoperta, italiano è stato anche il salvataggio della preziosa tomba. Schiaparelli intervenne con un ottimo restauro sui dipinti delle pareti, ma nei decenni successivi l’impiego di cemento per nuovi restauri provocò seri danni. Data questa situazione la tomba non venne aperta al pubblico e solo nel 1987 le autorità egiziane decisero di affidarne il restauro al Getty Conservation Institute che chiamò a operare un gruppetto di restauratori italiani guidato da Laura e Paolo Mora (allora direttore dell’Istituto italiano del restauro) e formato da Franco Adamo, Giorgio Capriotti, Lorenza D’ Alessandro, Adriano Luzzi, Giuseppe Giordano e Paolo Pastorello. Un’ équipe di super specialisti tra i migliori del mondo che hanno lavorato cinque anni per stabilizzare lo strato pittorico sull’intonaco e quest’ultimo sulla roccia calcarea delle pareti. Un delicato intervento fatto con bisturi, pennellini e siringhe con cui iniettare consolidanti sotto lo strato pittorico; nessuna integrazione dei dipinti. Durante il restauro sono emersi particolari che hanno fatto “vedere” gli antichi Egizi al lavoro. Sulle pareti sono state infatti trovate annotazioni degli operai che eseguirono lo scavo della roccia (“scavare fin qui!”) e anche le tracce lasciate dalle cordicelle intrise di colore con le quali i pittori “tirarono le righe” per organizzare gli spazi da dipingere. Inoltre, sui dipinti delle pareti sono stati osservati alcuni schizzi di colore blu (il colore del soffitto) e ciò dimostra che il soffitto venne dipinto dopo che erano state eseguite le pitture delle pareti. Un sistema di procedere, questo, che potrebbe sembrare sbagliato ma che trova invece una spiegazione quando si pensa che gli antichi pittori operavano alla luce delle lampade a olio e quindi con poca luce. Per questo preferirono lasciare il soffitto bianco fino alla fine dei lavori in modo che il suo chiarore integrasse la fioca luce delle lampade. Per realizzare la tomba gli antichi egizi estrassero tonnellate di roccia scendendo fino a una profondità di 812 metri e affrescarono una superficie di circa 520 metri quadrati. Uno sforzo immane per creare un luogo degno della regina e che, nella sua stessa disposizione delle camere e nei soggetti dei dipinti, rappresenta l’itinerario rituale che la defunta percorse per unirsi con le forze cosmiche e raggiungere le Stelle Perenni.
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