Bologna. A “Imagines” in prima internazionale il nuovo film di Alberto Castellani “VERSO CANAAN. Storie di popoli e di una Terra Promessa”: in cento minuti racconta il perché di conflitti epocali: un lungo, affascinante, impegnativo viaggio nelle terre di Israele, Turchia, Siria, Creta, Egitto, Arabia Saudita, ma anche tra le sale dei principali musei europei

Il regista veneziano Alberto Castellani sul set del film “Verso Canaan” (foto castellani)
“Può sembrare effimero proporre in questo tempo di pandemia suoni e immagini di un prodotto che ancora non c’è. Ma a un uomo può essere sottratto tutto, non la speranza. Lo è anche per chi vuole ancora giocare con quei suoni e quelle immagini. Per coltivare la speranza”. Il regista veneziano Alberto Castellani cominciava così, un anno e mezzo fa, quasi una “traslitterazione” letteraria di quel “mola mia” (non mollare) lanciato dagli amici bergamaschi in piena emergenza sanitaria, o quel più banale #andratuttobene scritto ovunque, nel presentare il suo ultimo ambizioso progetto “Verso Canaan”, non ancora film, perché la produzione del film “VERSO CANAAN. Storie di popoli e di una Terra Promessa” prodotto da Media Venice Comunicazione, era stato bloccato dalla pandemia: stop a ogni trasferta per riprese esterne e nei musei di Israele, con sostegno di Israel Ministry of Culture e dell’Ufficio nazionale Israeliano del Turismo. La situazione in questi mesi non è cambiata. Così Castellani ha deciso di portare a termine il progetto con il ricco materiale di cui già disponeva frutto di precedenti missioni in Israele, Turchia, Siria, Creta, Egitto, Arabia Saudita, e di quanto realizzato nei musei europei prima del marzo 2020. E ora il film “VERSO CANAAN. Storie di popoli e di una Terra Promessa”, in due parti, è in prima internazionale a Bologna il 18 e 19 dicembre 2021 nell’ambito di “Imagines, obiettivo sul passato”, diciannovesima edizione della rassegna del Documentario Archeologico organizzata dal Gruppo archeologico bolognese in collaborazione con il museo della Preistoria “Luigi Donini” di San Lazzaro (vedi Bologna. Dopo l’anno di stop per pandemia, il Gruppo archeologico bolognese ripropone “IMAGINES. Obiettivo sul passato”, rassegna del documentario archeologico giunta alla 19.ma edizione: due giornate con film introdotti dagli esperti e dai protagonisti, con il film di Alberto Castellani in prima internazionale | archeologiavocidalpassato).


La statua di Idrimi, trovata ad Alalakh in Turchia e conservata al British Museum: era un re siriano che marciò anche contro Canaan (foto alberto castellani)
“È stata l’occasione per incontrare figure che non appartengono al mondo dorato di faraoni o regine”, sostiene Castellani, “e per raccontare vicende di popoli che vivevano in città periferiche, lontane dal fasto di monumenti colossali ed enigmatici. Genti che frequentavano un ambiente di frontiera, oggi in gran parte nascosto tra i canneti del Nilo o le sabbie dei deserti”. Con “Verso Canaan” Castellani, veneziano, giornalista pubblicista, autore televisivo, torna ad affrontare tematiche archeologiche ispirandosi a vicende narrate dalla Bibbia. È una indagine che lo vede, ancora una volta, percorrere i territori del Vicino Oriente alla ricerca di tracce di lontane presenze. Cananei, Amorrei, Hittiti, Filistei, Fenici, Aramei, Egizi: sono stati questi i popoli idealmente “incontrati” in questo programma che si propone come un lungo, affascinante, impegnativo viaggio nelle terre di Israele, Turchia, Siria, Creta, Egitto, Arabia Saudita, ma anche tra le sale dei principali musei europei, custodi di importanti testimonianze del particolare rapporto intercorso in tempi lontani tra Israele ed altri popoli. Attraverso la loro storia “Verso Canaan: storie di popoli e di una Terra Promessa” cerca di raccontare, in circa cento minuti suddivisi in due puntate (a Bologna nei pomeriggi di sabato 18 e domenica 19 dicembre 2021), il perché di conflitti epocali, indagando su epopee che hanno visto, soprattutto nella vicenda dell’Esodo, la pagina più celebrata: un evento, tra l’altro che solo la Bibbia sembra ricordare. Sullo sfondo, il mondo mesopotamico e faraonico e l’indagine su figure la cui vicenda affonda spesso nel mito: Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè.

“È stato un impegno che ha richiesto un lungo studio preparatorio e che mi ha portato a documentare luoghi di grande suggestione”, aggiunge il regista che in queste settimane sta curando la versione internazionale multilingue del programma. “Le riprese hanno preso avvio nei primi mesi del 2019 per concludersi ad inizio 2020, poco prima della esplosione della pandemia. Dalla città fortezza di Megiddo al materiale esposto nelle sale del Rokfeller Museum e del Bible Land Museum di Gerusalemme o tra i reperti esposti al Museo del Cairo, dalla documentazione dei principali siti israeliani, tra cui alcuni fondamentali per l’economia del racconto come Bet Shemesh, Tel Yarmut, Lachish, o Hebron, alle distese del Neghev o ai deserti della penisola arabica, ho cercato di trasferire in questo mio lavoro lo spirito di una epopea che ha attraversato un tempo lunghissimo, spesso avvolto dalle nebbie di notizie incerte e a volte contraddittore che tavolette o stele sono in grado ancor oggi di chiarire solo in parte”.
È morto a Roma lo storico e filologo biblista Giovanni Garbini: grande esperto di lingue semitiche, studiò fenici, ebrei e arabi preislamici. Scoprì omissioni storiche e manipolazioni del testo della Bibbia
Per lui fenici, ebrei e arabi preislamici non avevano segreti. Lo storico e filologo Giovanni Garbini, illustre orientalista studioso delle lingue semitiche che ha affrontato con una nuova metodologia i problemi della filologia biblica legati all’Antico Testamento, è morto a Roma il 2 gennaio 2017 all’età di 85 anni, come ha reso noto l’Accademia dei Lincei, di cui era socio dal 1990, nel giorno dei suoi funerali. Nato a Roma l’8 ottobre 1931, Garbini aveva iniziato la carriera accademica all’istituto universitario Orientale di Napoli (oggi università “L’Orientale” di Napoli), per passare poi alla Scuola Normale di Pisa e infine, fino al pensionamento, all’università di Roma “La Sapienza”, di cui era professore emerito di filologia semitica. È stato anche componente della sua fondazione Leone Caetani per gli studi musulmani.
Garbini ha dedicato la sua vita di studioso alle lingue semitiche da un punto di vista storico-comparativo e si è dedicato all’interpretazione dei diversi aspetti della cultura di fenici, ebrei e arabi preislamici. Ma è nell’ambito della filologia biblica che il semitista ha offerto studi innovativi, rivelando omissioni storiche e manipolazioni presenti nel testo sacro che hanno condotto Garbini a interpretare differentemente la vicenda biblica e a contestualizzarla maggiormente nel quadro della storia del Vicino Oriente. Secondo Garbini, l’origine del popolo ebraico andrebbe ricercata in quella parte del deserto siriano collocata tra il Tigri e l’Eufrate, a ovest dei monti Kashia. Di qui alcune tribù aramaiche si sarebbero stanziate nel territorio di Damasco e poi sarebbero scese verso il sud, verso l’attuale territorio palestinese. La vicenda di Mosè e dell’esodo dall’Egitto sarebbero invece un mito ancora più antico, autonomo rispetto a quello di Abramo e dei patriarchi. Un regno unitario davidico-salomonico, quindi, sarebbe stato soltanto una creazione leggendaria in quanto il popolo aramaico stanziato in Palestina avrebbe costituito il Regno di Israele, sotto la dinastia degli Omridi, solo intorno al 900 a.C. In precedenza, il beniaminita Saul, avrebbe costituito un regno locale nella Palestina centrale che, progressivamente, sarebbe stato riassorbito dai filistei. David sarebbe stato una specie di capitano di ventura del IX secolo al servizio dei Filistei e Salomone un personaggio assolutamente mitico. Garbini avrebbe inoltre accertato l’esistenza, a Gerusalemme, tra il regno di Ezechia e quello di Giosia, di un lungo regno ammonita, cancellato dagli scribi ebrei. Le ricostruzioni storiche della Bibbia, frutto di gruppi spesso in contrasto tra loro, si sarebbero formate solo dopo la caduta del regno di Giuda e dopo il rientro degli esiliati, cioè durante la dominazione persiana.
Vasta la produzione bibliografica di Garbini, gran parte della quale pubblicata dalla casa editrice Paideia di Brescia: “Storia e ideologia nell’ Israele antico” (1986); “Il semitico nordoccidentale” (1988); “La religione dei fenici in Occidente” (1994); “Introduzione alle lingue semitiche” (1994); “Note di lessicografia ebraica” (1998); “Il ritorno dall’esilio babilonese” (2001); “Storia e ideologia nell’Israele antico” (2001); “Mito e storia nella Bibbia” (2003); “Introduzione all’epigrafia semitica” (2006); “Scrivere la storia d’Israele. Vicende e memorie ebraiche” (2008); “Cantico dei cantici. Testo, traduzione, note e commento” (2010); “Letteratura e politica nell’Israele antico” (2010); “Dio della terra, dio del cielo. Dalle religioni semitiche al giudaismo e al cristianesimo” (2011); “I Filistei. Gli antagonisti di Israele” (2012); “Il Poema di Baal di Ilumilku” (2014); “Vita e mito di Gesù” (2015). Nel 2007 è stato pubblicato da Paideia in suo omaggio il volume “L’opera di Giovanni Garbini. Bibliografia degli scritti 1956-2006”, catalogo di oltre cinquanta anni di produzione scientifica.
Dalla manna al grano dei faraoni, dal vino cotto degli antichi romani al grano monococco della mummia del Similaun: Coldiretti porta a Expo la mostra “No farmers No Party” con i prodotti antenati del “made in Italy” salvati dagli agricoltori italiani

Il grano monococco, la manna e l’idromele: tre prodotti dell’antichità che Coldiretti presenta a Expo Milano nella mostra “No farmers, no party”
C’è la biblica manna nel racconto di Mosè o il vino cotto apprezzato dagli antichi romani, il fagiolo del borgo di Cortereggio o il grano di saragolla noto anche come grano dei faraoni. Coldiretti porta a Expo i cibi più antichi della tradizione italiana, gli antenati del made in Italy, che rischiavano di scomparire e sono stati salvati dagli agricoltori: è la prima esposizione dedicata a prodotti salvati nei secoli dagli agricoltori italiani nel Padiglione Coldiretti “No Farmers No Party” all’inizio del cardo sud. Come nel caso del fagiolo piemontese del borgo di Cortereggio, che in passato, per la sua qualità, era utilizzato come bene di scambio per acquistare l’uva del Monferrato, che serviva per fare il vino. Scomparso dai mercati italiani già negli anni ’80 del secolo scorso è stato salvato da un agricoltore che ne ha consegnato qualche chilo all’Università di Torino per conservarne il germoplasma. Oggi la Piattella, che può dunque essere prodotta con la stessa qualità di una volta, è entrata addirittura nel menù dell’astronauta italiana Samantha Cristoforetti. “Quello che esponiamo con orgoglio è il risultato di generazioni di agricoltori”, sottolinea il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo, “impegnati a difendere la biodiversità sul territorio e le tradizioni alimentari”.
Tra i cibi in mostra il più noto è forse la manna, che deve la sua fama all’episodio riportato nella Bibbia: gli Ebrei guidati da Mosè erravano nel deserto del Sinai, piegati dagli stenti e dalla fame quando ricevettero da Dio questi fiocchi bianchi e dolci dal gusto di miele. A salvarla dall’estinzione sono stati gli agricoltori siciliani, che la estraggono dal frassino per utilizzarla come dolcificante per i diabetici, nelle cure dimagranti e nelle terapie disintossicanti. Viene, invece, dall’antica Roma il vino cotto, bevanda marchigiana prodotta facendo bollire il mosto di uve bianche o rosse in caldaie di rame e lasciata quindi a fermentare e riposare in botti di legno per anni. I patrizi e gli imperatori romani concludevano i loro succulenti banchetti con calici di cotto proveniente dalle campagne picene, tanto che Plinio il Vecchio, nel I secolo d.C., ne descrive il metodo di preparazione e la considera tra le bevande più ricercate d’Italia.
Risale addirittura a 23mila anni fa – spiega Coldiretti – il grano monococco (Triticum monococcum), la specie geneticamente più semplice e antica di grano coltivato, originario della zona centro-settentrionale della Turchia. Anche l’esame della famosa mummia del Similaun (3350-3310 a.C.) ha accertato la presenza del grano monococco a base della dieta nell’età del Rame. La coltivazione di questo cereale scompare però alla fine dell’età del Bronzo (1000-900 a.C.), ma in Lombardia alcuni agricoltori hanno deciso di recuperarla, valorizzandone le caratteristiche dietetico-nutrizionali, grazie all’ottima composizione della sua farina, al basso livello di glutine e al limitato impatto ambientale della sua produzione. Dalle Piramidi deriva, invece, il grano saragolla, conosciuto anche come Grano degli Egizi o del Faraone, che oggi si coltiva in Abruzzo dove fu introdotto nel 400 d.C. Quasi abbandonata con l’avvio delle importazioni di grano dall’estero, la coltivazione del saragolla è stata salvata dai piccoli agricoltori della zona collinare del basso Adriatico. I Muscari, oggi conosciuti come lampascioni, – prosegue Coldiretti – erano particolarmente amati dai Romani che nei pranzi nuziali erano soliti offrirli come cibo augurale per la fecondità degli sposi. Ricercati fin dall’antichità sia per le proprietà benefiche per stomaco e intestino, sia per i loro presunti effetti afrodisiaci, ebbero un posto di rilievo nei trattati di medicina nonché nelle diete proposte dai più famosi personaggi dell’antichità come Galeno, Plinio il Vecchio, Pedanio e persino da Ovidio. La loro coltivazione è stata recuperata in Basilicata. Anche l’idromele, bevanda a base di miele – evidenzia la Coldiretti – era molto noto nell’antichità come “la bevanda degli dei” che Omero chiamava ambrosia. Secondo alcuni si tratta addirittura della bevanda fermentata più antica del mondo, più della birra. Era tradizione, in molte parti d’Europa, che alle coppie appena sposate fosse regalato idromele sufficiente per la durata di una luna, un periodo di tempo di quasi un mese. Il termine “luna di miele” deriva proprio dal fatto che per la durata di una luna la coppia godeva del consumo di questa deliziosa bevanda.
È nato, invece, dall’incontro tra la cultura agroalimentare friulana e quella germanica il Prosciutto di Sauris Igp. La tecnica di produzione, infatti, è legata alla tradizione delle popolazioni tedesche, insediatesi in Friuli Venezia Giulia nel secolo XIII, di lavorare e conservare, attraverso l’affumicatura, la carne e le cosce suine, Da allora, il metodo dell’affumicatura viene tutt’oggi effettuata con le stesse modalità, per assicurare al prodotto le caratteristiche inconfondibili per le quali è conosciuto e apprezzato anche al di fuori dei confini regionali e nazionali. Anche il mais sponcio ha una storia che risale al 1500, quando viene introdotto nelle zone montane di Belluno. Presenta spighe affusolate a tutolo bianco, con semi dalla inconfondibile forma a punta (rostro), da cui il nome dialettale sponcio, cioè che punge, ed è la base della tradizionale polenta gialla di montagna: densa, soda, forte e profumata, con le caratteristiche pagliuzze marroni. Ma è ripresa anche – conclude la Coldiretti – la coltivazione del farro, uno dei primissimi cereali coltivati dall’uomo, proveniente dalla Mesopotamia, da cui, attraverso l’antico Egitto e il Mediterraneo, arrivò nella penisola italica. Molto coltivato nell’antichità, con tracce che risalgono al 7000 a. C., menzionato anche nella bibbia (Ezechiele 4-9), ebbe grande prestigio durante il periodo romano e i legionari ne portavano sempre delle scorte con sé nei loro movimenti da un territorio all’altro.
Siria. L’Isis distrugge due antichi mausolei islamici a Palmira, perché “simbolo del politeismo”. Per ora l’antica città romana, patrimonio Unesco, è stata risparmiata

Lo monumentali rovine di Palmira, patrimonio dell’Unesco, dominata dal mausoleo islamico dello sheikh Mohammad Ben Ali
Palmira a rischio distruzione da parte delle milizie jihadiste dell’Isis. Un evento temuto, annunciato, ma per ora rimasto – in parte – solo una minaccia. Perché se è vero che al momento non ci sono prove che l’Isis abbia infierito sulla città romana, patrimonio dell’Unesco, è invece certo che sono stati fatti saltare in aria due antichi mausolei, tra cui quello dello sheikh Mohammad Ben Ali, vicino al sito archeologico romano, ritenuti “un simbolo del politeismo”. Appena due giorni fa, in piena avanzata jihadista, era anche trapelato che l’Isis aveva piazzato mine e ordigni nella città vecchia. Per timore di distruzioni centinaia di statue e reperti del sito siriano erano stati trasferiti in altre località il mese scorso quando i jihadisti erano penetrati nella parte moderna della città. Ma poi questa notizia era stata smentita da Ahmad Daas, attivista politico siriano dell’opposizione, secondo cui le notizie circolate al riguardo “sono false”: “Non è vero che l’Is ha collocato degli ordigni tra le rovine di Tedmor e i rapporti che ne parlano sono imprecisi e si basano su fotografie fasulle scattate da alcuni cittadini”, smentendo quanto circolato nei giorni scorsi sui media e sugli osservatori per i diritti umani.

Il colonnato di Palmira, punto di sosta per le carovane di viaggiatori e mercanti che attraversavano il deserto siriano
La Sposa del Deserto. Dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, Palmira fiorì nell’antichità come punto di sosta per le carovane di viaggiatori e mercanti che attraversavano il deserto siriano ed ebbe un notevole sviluppo fra il I e il III secolo d.C. Per questo motivo fu soprannominata la “Sposa del deserto”. Il nome greco della città, “Palmyra”, è la traduzione fedele dall’originale aramaico, Tadmor, che significa “palma”. La città è citata nella Bibbia e negli annali dei re assiri, ma in particolare la sua storia è legata alla regina Zenobia che si oppose, secondo la tradizione, ai romani e ai persiani. Poi venne incorporata nell’impero romano e Diocleziano, tra il 293 e 303, la fortificò per cercare di difenderla dalle mire dei Sassanidi facendo costruire, entro le mura difensive, ad occidente della città, un grande accampamento con un pretorio ed un santuario per le insegne per la Legio I Illirica. A partire dal IV secolo le notizie su Palmira si diradano. Durante la dominazione bizantina furono costruite alcune chiese, anche se la città aveva perso importanza. L’imperatore Giustiniano, nel VI secolo, per l’importanza strategica della zona, fece rinforzare le mura e vi installò una guarnigione. Poi sotto il dominio degli arabi la città andò in rovina.

Il mausoleo islamico di Mohammad Ben Ali, discendente del cugino del Profeta Maometto sulla cima di una collinetta a circa 4 chilometri dal sito romano prima dell’esplosione

Qui sopra, il momento dell’esplosione provocato dai miliziani dell’Isis; sotto, quel che resta del mausoleo
La distruzione dei Mausolei. L’Isis, attraverso il suo “braccio mediatico” Wilayat Homs, ha pubblicato due foto del mausoleo islamico di Mohammad Ben Ali, discendente del cugino del Profeta Maometto – una costruzione in pietra e fango consumata dall’erosione, in fango sulla cima di una collinetta a circa 4 chilometri dal sito romano – prima e nel momento dell’esplosione, in cui si vedono le pietre proiettate in tutte le direzioni e pennacchi di polvere. Il servizio è intitolato “L’eliminazione dei simboli politeisti”. Si vedono inoltre di militanti che trasportano l’esplosivo al sito storico. L’Onlus, citata dai media, ha confermato l’avvenuta distruzione, e quella di un altro sacrario islamico antico, quello di Abu Behaeddin, una figura storica di Palmira. I jihadisti dell’Isis “considerano questi mausolei islamici contrari alla fede”, cioè una forma di idolatria, e perciò “hanno proibito qualsiasi visita ad essi”, ha detto, citato da Newsweek, Maamoun Abulkarim, direttore delle antichità del governo siriano. Finora non risultano invece essere state distrutte le rovine romane di Palmira del I e II secoli.
Le meraviglie di Meroe e le ultime scoperte in Sudan alla IV Giornata di Studi Nubiani al museo Pigorini di Roma
Volete conoscere gli ultimi sviluppi delle ricerche sulla civiltà nubiana e le meraviglie di Meroe, l’antica città posta sulla riva orientale del Nilo nell’attuale Sudan, 200 chilometri a nord della capitale Khartoum, famosa per le più di duecento piramidi sparse sul suo territorio dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 2011? L’appuntamento da non perdere è sabato 19 aprile a Roma, al Museo preistorico etnografico “Luigi Pigorini” dove alle 11.30, nella sala conferenze e salone delle Scienze, si aprirà la IV Giornata di Studi Nubiani, promossa dall’ambasciata del Sudan in Italia, dall’Ismeo (associazione internazionale di studi sul Mediterraneo e l’Oriente) e dal museo Pigorini.
La IV Giornata di Studi Nubiani, pur passando in rassegna numerose tematiche delle realtà archeologiche e culturali sudanesi, riserva particolari attenzioni all’epoca meroitica (III secolo a.C. – IV secolo d.C.), la cui data d’inizio coincide con lo spostamento delle sepolture reali dall’area di Napata a quella di Meroe. La parte di valle del Nilo nota come Nubia, nell’odierno Sudan, ospitò infatti in antichità tre diversi regni di Kush: il primo ebbe la capitale a Kerma e durò dal 2600 al 1520 a.C.; il secondo si trovava a Napata dal 1000 al 300 a.C., ed infine l’ultimo fu a Meroe (300 a.C.– 300 d.C.). Durante gli oltre sei secoli in cui Meroe prosperò, l’Egitto fu conquistato dai greci tolemaici e dai romani, mentre il Sudan non è mai stato invaso da potenze straniere. Nel 340 d.C. Meroe fu conquistata dal re cristiano Ezana di Axum (Etiopia). Prima di Meroe, e prima del periodo di Napata, almeno tre re nubiano-sudanesi sono citati nella Bibbia. A quei tempi, i re nubiani della XXV dinastia governavano tutto l’Egitto e furono alleati con Israele contro gli Assiri. Meroe fu un importante centro metallurgico per l’utilizzo del ferro destinato alla realizzazione di armi e attrezzi, tanto che ancor oggi si possono vedere enormi cumuli di scorie di ferro. E sempre a Meroe si sviluppò un sistema unico di scrittura alfabetica che è ancora indecifrabile. Inoltre Meroe esportò al mondo classico dei Greci e dei Romani molti prodotti inclusi elefanti da guerra per scopi militari. Come riporta anche la Bibbia qui si annovera uno dei primi convertiti al cristianesimo sudanesi, uno schiavo eunuco che ha servito la Candace o regina guerriera di Meroe.
Gli interventi della IV Giornata di Studi nubiani alterneranno alla presentazione dei risultati di due missioni archeologiche italiane attualmente operanti in Sudan, l’analisi di fonti antiche e moderne relative alla geografia e al popolamento di questa vasta e variegata realtà africana. Nel corso della conferenza, alla quale sarà presente una vasta rappresentanza del corpo diplomatico africano accreditato in Italia, verrà presentato il volume: “Atti della IV Giornata di Studi Nubiani”, a cura di Eugenio Fantusati e Marco Baldi; edito da Scienze e Lettere nella collana Serie Orientale Roma. Proprio Eugenio Fantusati dell’università di Roma La Sapienza fa parte con la moglie architetto Rita Virriale e i suoi studenti, Eleonora Kormysheva dell’Oriental Institute di Moscow, Richard Lobban del Rhode Island College, della missione archeologica Abu Erteila Project nel sito di Abu Erteila nel comprensorio di Meroe nella parte orientale del deserto di Butana del Sudan. Qui, dopo quattro anni di ricerca, la missione ha scoperto un tempio perduto dell’impero meroitico, la cui esistenza finora era stata solo ipotizzata. “Dal sito di Abu Erteila – raccontano – si possono anche vedere alcune delle tante piramidi meroitiche in Sudan. Anche se più tarde e più piccole che le più famose piramidi egizie, in Sudan ci sono ancora più piramidi che in Egitto”. Lo scavo archeologico di Abu Erteila è iniziato nel 2008, ma è stata dalla quarta campagna che gli archeologi sono riusciti a individuare il tempio meroitico.
Nella nostra quarta stagione”, ricordano gli archeologi dell’Ismeo, “abbiamo continuato lo scavo del kom I (collina artificiale), dove sono state trovate molte pareti di mattoni di fango in situ e un gran numero di mattoni rossi cotti sparsi in grande disordine fino ai livelli di fondazione. Nelle stanze inferiori abbiamo trovato le pentole abbiamo trovato camere con molti strumenti a smeriglio usati per la preparazione del cibo e un’altra camera che aveva gran numero di ossa di animali macellati. Nel corso dello scavo abbiamo trovato anche altri due scheletri adulti e uno di un figlio anche del periodo paleocristiano. In questa stessa campagna abbiamo aperto un nuovo saggio e qui abbiamo avuto i risultati più sorprendenti fino a oggi. In kom II abbiamo portato alla luce due belle anfore, quasi complete, in ceramica a collo stretto per lo stoccaggio di liquidi. Abbiamo anche trovato due rocchi di colonne in arenaria con iscrizioni in geroglifico. Tra le iscrizioni leggibili c’è il riferimento a “neb-Tawi” o ‘Il Signore delle Due Terre”, riservata esclusivamente alla regalità e nobiltà. È ben visibile il dio Hapy della fertilità del Nilo e la combinazione di Nekhbet e Wedjat (avvoltoio e cobra), simbolo della regalità per valle del Nilo. Avevamo la conferma che avevamo individuato un antico tempio meroitico con strutture edilizie orientate coerenti con i vicini templi solari a Meroe, Awlib, Awatib, Naqa e Musawwarat es-Sufra. Infatti, a questa latitudine, questo orientamento il sole si riversa direttamente nel tempio due volte l’anno: e il dio Sole – Amon o Mashil è stato il più celebre nel pantheon enoteistico nubiano”.
Ecco il programma della IV Giornata di Studi Nubiani. Alle 11.30, saluti e introduzione con Francesco di Gennaro, soprintendente del Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini”, e S.E. Amira Hassan Daoud Gornass, ambasciatore del Sudan in Italia. Alle 12, Eugenio Fantusati (Università di Roma “La Sapienza” – ISMEO) in “La missione archeologica di Abu Erteila: un resoconto sulle attività svolte”. Alle 12.30, Jaffar Mirghani (Khartoum, Museo Etnografico) in “Musawwarat identified with Meroe”. Alle 13, Mostra fotografica. Alle 14, Luisa Bongrani (Università di Roma “La Sapienza” – ISMEO) in “Considerazioni sull’Africa di Erodoto: geografia e genti”. Alle 14.30, Andrea Manzo (Università di Napoli “L’Orientale” – ISMEO) in “Sudan ed Egitto nel II millennio a.C.: nuove evidenze”. Alle 15, Marco Baldi (Università di Pisa – ISMEO) in “Il Complesso di Awlib. Alcune osservazioni”. Alle 15.30, Adriano Rossi (ISMEO) presenta il volume degli atti. Saluti finali. Organizzazione a cura dell’Associazione Il Cuore.
Israele. Scoperta a Tel Kabri in Galilea una cantina di 4mila anni fa: è la più antica del mondo
Le nozze di Cana sono sicuramente la descrizione di un banchetto tra i più famosi riportati dai Vangeli: è in quella parabola, in cui Gesù compie il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, che veniamo a conoscenza dell’abitudine molto diffusa all’epoca di dare grandi feste a palazzo e di innaffiare le portate del banchetto con abbondanti libagioni di vino che i servi del padrone di casa andavano a prendere nelle cantine, vicine alla sala del ricevimento, dove il signore conservava il vino migliore. Ma quello di Cana non è l’unico esempio e neppure il più antico. Nella Bibbia il banchetto ha un simbolismo pregnante, dal banchetto dell’alleanza alla Pasqua del Signore, è il momento della comunione con Dio. E sempre il banchetto prevede il pasto (sacro) innaffiato di vino. Ora per quei racconti, per quelle parabole dallo scopo didattico-morale-religioso, ma che riprendevano comunque momenti di vita quotidiana in cui chi ascoltava poteva immedesimarsi, c’è un riscontro oggettivo: nello scavo archeologico del Palazzo reale di Tel Kabri, in Galilea, storica regione della Palestina, oggi divisa amministrativamente tra Israele e Cisgiordania, sono stati trovati una sala per banchetti in grado di tenere mezzo migliaio di ospiti e un annesso magazzino con 40 giare risalente a 4mila anni fa, deposito che si è rivelato la più antica cantina di vino del mondo finora scoperta.
La campagna di scavi del 2013 (23 giugno-1.agosto), i cui risultati sono stati presentati nelle scorse settimane, è stata diretta da Assaf Yasur- Landau dell’Università di Haifa e Eric H. Cline della George Washington University, con Andrew Koh della Brandeis University come direttore associato. Lo scavo è stato sostenuto con sovvenzioni dalla National Geographic, dalla Israel Science Foundation (ISF), Bronfman Philanthropies, e dall’Istituto per la Preistoria dell’Egeo (INSTAP). Ma non sono mancati anche donatori privati. Il team internazionale di circa 60 persone compresi i volontari, provenienti dal Regno Unito, Israele, Inghilterra, Canada, Paesi Bassi e Australia, si è concentrato sul palazzo dei governanti della città, costruito intorno a 3850 anni fa nel periodo del Bronzo Medio. Il palazzo rimase in piedi per almeno 300 anni e a un certo punto copriva una superficie di 6mila metri quadrati su almeno due piani. Yasur-Landau ha reso noto che è stata scoperta un’enorme sala banchetti con residui di festini a base di carne per oltre 500 persone; ogni ospite aveva ricevuto tagli di carne da 500 grammi. Gli archeologi hanno scoperto un magazzino di circa 15 metri quadrati, accanto alla sala del banchetto. In un primo momento avevano trovato una sola giara, alta circa un metro. Scavando ulteriormente sono venute alla luce molte altre giare fino a scoprire che il vano ne conteneva non meno di 40, l’equivalente di 3mila bottiglie di rossi e bianchi dei nostri giorni per un volume totale di circa duemila litri.
Lo staff interdisciplinare si è subito messo al lavoro: la conservazione e il restauro della ceramica sono stati affidati a JJ. Gottlieb e Roee Shafir (Università di Haifa); le analisi scientifiche incluse quelle dei residui ad Andrew Koh (Brandeis University); la datazione al radiocarbonio a Felix Höflmayer (German Archaeological Institute a Berlino); la geoarcheologia a Ruth Shahack-Gross (The Weizmann Institute); la petrografia a David Ben-Shlomo (Università Ebraica di Gerusalemme); l’analisi degli isotopi stabili a Gideon Hartman University of Connecticut); lo studio dei resti animali a Guy Bar-Oz e Nimrod Marom (Università di Haifa), e la microfauna a Lior Weissbrod (Università di Haifa). “È una scoperta molto importante, per quanto ne sappiamo è la più grande e più vecchia cantina nel Vicino Oriente Antico”, ha commentato Eric Cline, archeologo della George Washington University, uno dei direttori degli scavi, come riferisce la stampa di Tel Aviv citata dal sito Israele.net. “È la prima volta che troviamo un deposito così ricco ancora con le giare presenti all’interno di un palazzo cananeo del Medio Bronzo, e che restituisce residui da analizzare e permette di ricostruire la provenienza della ceramica. Sono sicuro che da questo scavo potremo ottenere molte informazioni sull’economia di un palazzo cananeo del II millennio a.C.” La cantina era situata nei pressi di una sala per banchetti, “un luogo dove l’elite di Kabri e, eventualmente, gli ospiti stranieri hanno consumato carne di capra e vino”, ha spiegato il co-direttore Yasur-Landau dell’Università di Haifa. “La cantina e la sala del banchetto sono state distrutte durante lo stesso evento violento, forse un terremoto, che li ha coperte con uno strato di detriti di mattoni di fango e intonaco”.
Non è stato subito chiaro che le giare contenevano vino. Poi Andrew Koh della Brandeis University, un esperto in chimica archeologica e studi classici, analizzando i materiali organici che coprivano le giare, ha trovato tracce di componenti di base del vino come l’acido tartarico e siringico. Koh ha trovato anche tracce di composti che all’epoca erano popolari ingredienti del vino: la resina di terebinto, miele, menta, cannella e bacche di ginepro. Sono ingredienti molto simili a quelli utilizzati per duemila anni in un vino medicinale egiziano. Hanno anche analizzato le proporzioni di ciascun composto scoprendo una notevole coerenza nel contenuto dei diversi vasi. “La ricetta di questo vino è stata rigorosamente rispettata in ogni vaso “, ha spiegato il direttore associato Koh, nel riferire la scoperta al Meeting annuale 2013 delle Scuole americane di Ricerche in Oriente. “Non era vino fatto in casa da dilettanti. Ogni singola giara conteneva vino fatto secondo la stessa ricetta, nelle stesse esatte proporzioni”. Gli archeologi ora vogliono continuare ad analizzare la composizione di ciascuna soluzione, magari scoprendo informazioni sufficienti per ricrearne il sapore cercando di ricostruire la ricetta e riprodurre il vino cananeo di quasi 4mila anni fa.
Scoperto a Gerusalemme edificio del periodo degli Asmonei (II-I sec. a.C.): è il primo
Prende forma la Gerusalemme del periodo asmoneo, quella che finora si conosceva solo attraverso le opere dello storico Giuseppe Flavio. Gli archeologi israeliani, della Israel Antiquities Authority, durante i lavori al parcheggio Giv‘ati, nella “Città di David”, non lontano dalla Città Vecchia di Gerusalemme, hanno riportato alla luce i resti di un antico edificio risalente al periodo asmoneo (II e I secolo a.C.). A Gerusalemme è la prima testimonianza di architetture degli Asmonei, la dinastia fondata da Simone Maccabeo che segnò l’inizio del regno di Giudea a partire dal 140 a.C., e mantenne il potere civile e religioso fino alla conquista romana, nel 37 a.C. quando alla guida del governo della regione fu posto Erode il Grande. I Maccabei, che essendo una famiglia di sacerdoti non discendevano idealmente dalla casa di David, non avevano potuto vantare un effettivo diritto al potere regale e per questo il loro regno venne messo in pericolo dall’opposizione dei Farisei, e il Talmud – testo sacro dell’Ebraismo – li ricorda appena. Per avere notizie della loro ascesa bisogna affidarsi alle informazioni riportate dalla Bibbia (libri I e II dei Maccabei) dove i sovrani asmonei, che ressero il Regno di Giudea fino alla metà del I sec. a.C., sono ricordati soprattutto per aver restaurato le istituzioni politiche e religiose dell’antico Israele.
“L’importanza di questa scoperta”, confermano Doron Ben Ami e Yana Tchekhanovets, direttori degli scavi per conto della Israel Antiquities Authority, “è innanzitutto dovuta alla scarsità di costruzioni della Gerusalemme asmonea finora emersa nelle ricerche archeologiche, malgrado tutti gli scavi condotti. A parte alcuni resti di fortificazioni cittadine scoperti in varie parti di Gerusalemme, il vasellame e altri piccoli oggetti, finora non era mai stato trovato nessuno edificio che caratterizzava la Gerusalemme asmonea: questa scoperta colma una sorta di lacuna nella sequenza della storia dell’abitato di Gerusalemme. Così la città asmonea, che ci era già ben nota dalle descrizioni storiche che appaiono nelle opere di Giuseppe Flavio, ha improvvisamente assunto un’espressione tangibile”.
Non è la prima volta che gli scritti di Giuseppe Flavio, scrittore storico politico e militare romano di origine ebraica, trovano riscontri archeologici. E che proprio Giuseppe Flavio avesse parlato degli edifici asmonei non stupisce, lui nato nel primo anno del regno di Caligola (37-38 d.C.) da una famiglia della nobiltà sacerdotale imparentata proprio con la dinastia degli Asmonei. Il suo nome ebraico era Giuseppe figlio di Mattia mentre il nome romano Flavio fu assunto in seguito, al momento dell’affrancamento e conferimento della cittadinanza da parte dell’imperatore Tito Flavio Vespasiano.
L’edificio asmoneo scoperto dagli archeologi si estende su circa 64 mq, per un’altezza fino a 4-5 metri. Si tratta forse dei resti di un forte, che ha restituito vasellame e monete. Le larghe mura della costruzione (spesse più di un metro) sono costituite da blocchi di calcare grossolanamente sbozzati, sistemati fra loro secondo un metodo caratteristico del periodo asmoneo. Benché all’interno della costruzione siano stati rinvenuti parecchi vasi di terracotta, ciò che più ha sorpreso i ricercatori sono state le antiche monete risalenti all’epoca di Antioco III e IV, alcune con il nome di Alessandro Ianneo scritto in greco antico. Ciò conferma che la struttura venne eretta all’inizio del II secolo ed è poi continuata nel periodo asmoneo, durante il quale vennero apportati vari cambiamenti.
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