“SPINA. La scrittura nel porto adriatico”: è il tema sviluppato dal progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con le iscrizioni etrusche su reperti del museo Archeologico nazionale di Ferrara

“SPINA. La scrittura nel porto adriatico” è il tema sviluppato dagli studenti del laboratorio di Epigrafia etrusca dell’università Alma Mater di Bologna studiando i reperti conservati al museo Archeologico nazionale di Ferrara con iscrizioni etrusche nel percorso multimediale “Scrittura e società nelle città dell’Etruria padana” nell’ambito del progetto “Zich. Scrivere etrusco all’università di Bologna” con la direzione del professor Andrea Gaucci. I cinque approfondimenti proposti sono articolati con grafiche e scritti disponibili anche in podcast audio. Autori: Jacopo Bellezza, Francesca Bonsanto, Jessica Ghini, Michela Martino, Lucia Scandellari (podcast https://anchor.fm/andrea-gaucci/episodes/Spina-sullAdriatico–Un-porto–molte-genti-egv51p).

Spina sull’Adriatico. Un porto, molte genti. Spina, città di fondazione etrusca degli ultimi decenni del VI secolo a.C., sviluppò sin dalla nascita una fisionomia che la distingue da tutte le altre città etrusche. La sua collocazione presso la foce del Po, a pochi chilometri dal mar Adriatico, ne favorì la funzione di scalo marittimo e lo sviluppo di una intensa attività commerciale tra il mondo greco, in particolare Atene, e quello etrusco dell’entroterra padano che aveva come fulcro Felsina. Dopo la metà del IV sec. a.C., la città diventò un polo di attrazione per gli etruschi in fuga dagli altri centri padani a seguito dell’occupazione gallica. Per far fronte alla crisi economica diventò protagonista di una nuova rete commerciale tra i porti dell’Adriatico, intraprendendo anche azioni di pirateria. Il corpus epigrafico di Spina, conosciuto come il più ampio dell’Etruria Padana, registra molte centinaia d’iscrizioni, di cui la maggior parte databile all’ultima fase di vita della città. La scrittura segue le tendenze evolutive comuni a tutta l’Etruria. Le iscrizioni sono tutte graffite su vasi e riportano perlopiù nomi di persona, ad eccezione di una realizzata su un ciottolo di pietra, recante il testo “mi tular” (cioè “io sono il confine”). Questo documento viene considerato di notevole importanza poiché documenta il rituale di fondazione etrusco della città e l’organizzazione dello spazio urbano. Nella fase antica, un significativo numero di iscrizioni attesta la presenza di Greci, attirati a Spina dalle prospettive di commercio con gli Etruschi della pianura padana. La definizione di polis hellenis data dagli scrittori antichi a questa città e anche altre evidenze archeologiche sono riprova di questa radicata presenza. Se nella fase più antica la maggior parte delle iscrizioni etrusche provengono dall’abitato, dopo il IV sec. a.C. aumentano considerevolmente le iscrizioni da necropoli, segno di pratiche rituali che coinvolgevano maggiormente la scrittura. I testi mostrano la diffusa etruschizzazione di nomi italici e greci, a dimostrazione della natura di porto della città ancora nei decenni anteriori alla sua fine, databile prima del 200 a.C.


Grafica dell’iscrizione sulla ciotola dalla Tomba 1057 della necropoli Valle Trebba di Spina (foto unibo)
Una famiglia molto antica. Il testo esprime solo un nome maschile, nel quale il suffisso –nalo denota chiaramente come un gentilizio. Questo appartiene all’importante famiglia dei Per(e)kena/Perkna, nota dal VII sec a. C. fino all’età romana. Originaria della zona della Valdelsa (la più antica attestazione risale al VII sec a.C.), e da lì diffusasi verso Chiusi e Cortona, arrivò ad insediarsi a Marzabotto, nella prima metà del V sec a.C., e poi a Spina, dove è documentata nel IV e III sec. a.C. A dimostrazione del profondo radicamento della famiglia nel territorio, abbiamo numerose attestazioni del termine Perkna dalle iscrizioni rinvenute nelle aree funerarie di Valle Trebba e di Valle Pega a Spina, in gruppi di tombe che dimostrano la scelta di un medesimo spazio sepolcrale da parte degli stessi membri, cioè veri e propri recinti. I ricchi corredi sembrano appartenere ad individui di una élite sociale coesa, che si autorappresenta attraverso rituali comunitari di consumo del vino, testimoniati dal numeroso vasellame deposto assieme al defunto. È assai probabile quindi che si trattasse di un’influente famiglia all’interno del panorama socio-politico della città, in quanto la frequenza di rinvenimento di iscrizioni che fanno riferimento a questo gentilizio rimarca l’appartenenza a questa gens del defunto o di chi offriva il dono funebre.


Grafica dell’iscrizione sul piattello dalla Tomba 623 della necropoli Valle Trebba di Spina (foto unibo)
Un etrusco dalle radici greche. L’iscrizione è stata rinvenuta nel corredo della Tomba 623 nella Necropoli di Valle Trebba sul piede di un piatto in argilla databile attorno al 300 a.C. Si tratta di una formula di possesso, che permetteva al proprietario di rimarcare la proprietà dell’oggetto. È possibile tradurre come “io (sono) di Venu Platunalu”, dove al pronome personale mi, tradotto “io”, segue il prenome maschile Venu e infine il gentilizio Platunalu. Venu, il nome proprio dell’uomo, è attestato in Etruria settentrionale, a Bologna già dal periodo orientalizzante, e poi ad Adria e nella stessa Spina diffuso in periodo ellenistico. Il gentilizio Platunalu non ha altre attestazioni ed è formato con il suffisso di ambito padano –alu. In esso si riconosce una formazione dal nome greco Πλάτων, che registra la storia di un Greco, immigrato in Etruria padana e integrato in una delle comunità etrusche con un atto formale che prevedeva l’assegnazione di un gentilizio. Il nome di famiglia è estraneo al sistema onomastico greco, che perciò in questi casi veniva costruito ex novo. È incerto se la cittadinanza fosse stata acquisita proprio da Venu Platunaluo da un suo antenato, ma si può dire che il personaggio fosse pienamente integrato nella compagine civica di Spina. Questa iscrizione è un’ulteriore prova del traffico di genti e di prodotti caratteristico della città, tanto che, a volte, c’era chi, per ragioni commerciali, politiche o sociali, rimaneva a vivere fino ad essere pienamente integrato.


Grafica dell’iscrizione sul piatto da contesto domestico di Spina (foto unibo)
Una donna etrusca dalle radici greche. Un caso unico nel contesto dell’abitato di Spina è quello di un gruppo di iscrizioni apposte su un intero servizio di vasi di tipo diverso (sei piatti e dodici ciotole), rinvenute all’interno di una casa distrutta da un incendio avvenuto nel IV sec a.C. Le iscrizioni contengono la medesima formula onomastica, formata da un prenome e un gentilizio con desinenza –i che identifica Tata Kephlei come una donna. La struttura onomastica è chiaramente etrusca, anche se il nome di famiglia, a tutt’oggi privo di riscontri, tradisce un’origine greca. Anche il nome proprio Tata è attestato fino ad ora solo a Spina. Nei corredi rinvenuti all’interno delle tombe delle aree funerarie della città questo si caratterizza per identificarsi in alcuni casi come femminile in altri come maschile. Questa eccezionale condizione e la distribuzione dei gentilizi derivati da esso, come l’orvietano Tatana, ha portato ad ipotizzare che Tata sia stato acquisito da un ambiente linguistico non etrusco. Non a caso, le attestazioni dei gentilizi si contano fin dal periodo arcaico ad Orvieto, a Perugia e in Campania, città e luoghi con fortissime interazioni tra popolazioni e lingue diverse. Le iscrizioni di Tata Kephlei dunque, ci ricordano una cittadina di Spina di origine greca, che marcò con il suo nome un intero set da mensa.


Grafica delle due iscrizioni sull’askos dalla Tomba 1026 della necropoli Valle Trebba di Spina (foto unibo)
Scrivere in etrusco o scrivere in greco? Il nome Herine è usato come gentilizio a Chiusi e in altre città dell’Etruria settentrionale. È probabile che questo trovi la sua origine nel mondo italico, diffondendosi poi in Etruria. Riguardo a Spina, si hanno due testimonianze di questo nome, entrambe su un askos all’interno della Tomba 1026 della Necropoli di Valle Trebba di IV sec a.C. La prima iscrizione, “mi herineś”, è stata rinvenuta sul corpo del vaso, al di sotto dell’ansa, mentre la seconda, “herines”, sul piede. Nel primo caso il possesso è indicato attraverso l’espediente dell’oggetto parlante: il pronome “mi” ha funzione di soggetto (“io”), ed è proprio il vaso stesso che si definisce come proprietà di “Herine”, il cui nome è declinato al genitivo. Nella seconda iscrizione invece abbiamo il solo genitivo che può essere tradotto come “di Herine”. È interessante notare che, sebbene le due iscrizioni riportino lo stesso nome, la prima è scritta le caratteristiche scrittorie tipiche di Spina, mentre la seconda sembra presentare alcune lettere di aspetto greco come in particolare il sigma finale a quattro tratti , suggerendo la competenza di più scritture e forse lingue di chi l’ha realizzato. Sempre nella seconda iscrizione, l’ acca a cerchiello tagliato esplicita la ricezione di una riforma grafica elaborata a Spina e influenzata dalla città greca di Taranto, a dimostrazione dello stretto legame culturale tra questi mondi nella fase tarda della città.
Il caso dei marmi del Partenone strappati da Elgin: da TourismA l’appello di Sidjanski e Godart perché anche in Italia si attivi un movimento di opinione per la restituzione alla Grecia dei capolavori di Fidia oggi al British Museum
“I marmi del Partenone è tempo che tornino in Grecia: il capolavoro di Fidia è un unicum, non si può disgiungere disaggregare dividere. Ora anche dall’Italia si alzi forte la voce per la restituzione dei marmi creando un movimento d’opinione che porti a soluzione un caso e un problema che non è solo della Grecia ma di tutta l’Europa”. È un appello deciso quello che due grandi studiosi, Dusan Sidjanski (presidente del comitato svizzero per la restituzione dei marmi del Partenone) e Louis Godart (accademico dei Lincei e consigliere culturale del Presidente della Repubblica), hanno lanciato da TourismA, il primo salone internazionale di archeologia, promosso dalla rivista Archeologia Viva a Firenze dal 20 al 22 febbraio. “Intanto non parliamo più di marmi Elgin, ma di marmi del Partenone, come fa dal 2008, anno della sua fondazione, il comitato svizzero che presiedo”, chiarisce subito Sidjanski.
Si dice che fu una regolare compravendita quella avvenuta tra lord Thomas Bruce conte di Elgin, ambasciatore britannico a Costantinopoli, e il sultano nel 1801. Ma sono molti i dubbi che gli esperti sollevano sulla sua effettiva legalità. E Sidjanski lo spiega bene: “Nell’Ottocento, quando ci fu la spoliazione del Partenone, la Grecia era una provincia dell’impero ottomano. Era quindi il sultano, e solo lui, che decideva e nessuno poteva opporvisi, neppure i diretti interessati, i greci”. Elgin nel 1800 si fece rilasciare dalle autorità turche di Atene il permesso di effettuare sopralluoghi sull’Acropoli unicamente per effettuare rilievi, disegni e calchi. Ma il diplomatico britannico però riuscì ad andare ben oltre i limiti imposti dall’autorizzazione del governatore militare, ottenendo l’anno dopo dal Sultano stesso un firman, ossia un decreto che lo autorizzava a prelevare qualsiasi scultura o iscrizione, il cui asporto non mettesse a rischio le strutture della rocca: così tra il 1801 e il 1805, quando l’autorizzazione viene revocata, schiere di operai guidate dal pittore italiano Giovan Battista Lusieri si dedicarono a una vasta opera di smontaggio delle decorazioni architettoniche che colpì l’acropoli in più punti, infierendo in particolare sul Partenone e sull’Eretteo. La Grecia non poté contrastare il firmano con cui il sultano autorizzava l’asportazione dei marmi del Partenone. “Peccato che di questo firmano non ci sia traccia”, nota amaro Sidjanski, “ci rimane solo una traduzione fatta da un italiano che probabilmente era al servizio dell’ambasciatore. Ma sono molti quelli che ritengono che quella autorizzazione non abbia seguito tutti i crismi della legalità. Se è vero – continua – che già all’epoca il sultanato non dava più il permesso per spostare grandi reperti, come potevano essere i marmi del Partenone, allora vien da pensare che lord Elgin abbia abusato del potere che gli derivava dal Paese che rappresentava nei confronti del sultano”.
È vero che lord Elgin aveva assicurato la massima attenzione per il capolavoro di Fidia, e che anzi quell’operazione andava proprio nella direzione della sua salvaguardia, ma basta seguire proprio quello che in realtà fece per capire che le intenzioni del britannico erano di tutt’altra natura. Nel sultanato ottomano c’era molta corruzione, così fu facile ottenere tutte le “agevolazioni” logistiche che permettessero di raggiungere lo scopo più facilmente. Così lord Elgin fece tagliare i marmi strappati dal Partenone per trasportarli con meno problemi in Inghilterra. Già a partire dal 26 dicembre 1801, temendo intrighi da parte dei francesi, Elgin aveva noleggiato una nave, la Mentor, su cui iniziò a imbarcare i reperti. Nel gennaio del 1804 arrivarono in Inghilterra le prime 65 casse contenenti i materiali sottratti all’acropoli, che rimasero fino al 1816 in un padiglione temporaneo fatto costruire appositamente nella casa di Elgin, il quale si vide rifiutato l’acquisto da parte del British Museum per l’alto prezzo richiesto. Solo nel 1816 si arrivò a un accordo tra le parti e i marmi, divenuti di proprietà statale, furono trasferiti al British Museum, in una galleria appositamente allestita dove sono tuttora. “Il più importante monumento della Grecia antica, il Partenone, capolavoro di Fidia e non di Elgin, deve subire lo scempio di essere menomato dei suoi marmi, il cui nucleo principale non è ad Atene ma a Londra”.
Perché i marmi devono tornare ad Atene? “Tutti noi, tutta l’Europa, abbiamo un debito culturale con la Grecia classica. E ora che ai piedi dell’acropoli è stato aperto il nuovo museo dell’Acropoli, dedicato proprio ai monumenti e ai tesori dell’area più sacra di Atene, e in special modo al Partenone, con cui dialoga anche fisicamente attraverso scorci e prospettive, è venuto il tempo di riunire tutti i marmi di Fidia: è assurdo che più della metà dei rilievi esposti siano delle copie in gesso, perché gli originali sono a Londra!”. La luce calda dell’Egeo dà linfa vitale ai marmi esposti nel nuovo museo, ma le linee armoniose del Partenone dialogano con delle copie e non con i rilievi originali. “Credo che il Partenone rappresenti uno dei monumenti più importanti della cultura europea. Ma, come tutti i monumenti, va letto e considerato nella sua unitarietà oltre che unicità. E perciò non si può tagliare in due”.

L’originale sede del nuovo museo dell’Acropoli in stretto rapporto con il Partenone e gli altri monumenti
“La restituzione dei marmi del Partenone alla Grecia è un problema che tocca l’Europa intera”, gli fa eco Louis Godart. “Perciò si deve mobilitare per riportare queste mirabili sculture ad Atene da dove sono state strappate da un barbaro assetato di denaro”. Atene era appena uscita vittoriosa dalle Guerre persiane, ricorda Godart, guerre che avevano lasciato dietro di sé tanta distruzione, e avevano colpito il cuore più sacro della città: l’Acropoli. Il Partenone di Fidia rientrò in questa grande opera di restituzione e ricostruzione dei grandi monumenti dell’Acropoli. “Perché il Partenone non è il simbolo solo di Atene e della Grecia? Perché – sottolinea Godart – rappresenta i valori fondanti della nostra Europa. Il Partenone celebra quanti hanno lottato per difendere i valori conquistati dai padri: la democrazia e il dovere a ribellarsi all’ingiustizia. Tutti noi siamo figli della Grecia. E questo monito a difendere i valori dei padri ce lo ha lasciato per sempre la stessa Atena, dea della guerra e della saggezza, in una stele del 460 a.C. – nota come Atene pensosa – posta a pochi passi dal Partenone. La stele raffigura appunto Atena che, pensosa, posate le armi, guarda a sua volta una stele che, forse, riporta i nomi dei caduti a Maratona e Salamina. Quel gesto di riflessione fa pensare anche noi ai caduti per la libertà, un valore che va sempre difeso”.

Il nuovo museo dell’Acropoli di Atene (dall’interno, sopra e sotto) dialoga con l’Acropoli e il Partenone di Fidia
Già nel 1982 l’allora ministro greco della Cultura, Melina Mercuri, aveva lanciato una campagna internazionale per riportare a casa i marmi, arrivando perfino a una risoluzione dell’Unesco che a maggioranza votò a favore della restituzione dei marmi. “Ma a esaminare bene il voto – interviene Sidjanski – si vede subito che a favore c’erano solo Paesi del terzo mondo, mentre contrari erano i Paesi che contano nell’Occidente, i quali motivarono il loro no: la Grecia non aveva gli spazi adatti ad esporli, non era in grado di restaurarli/salvaguardarli, non poteva permettersi la vasta platea di pubblico che offriva il British Museum. “Tutte motivazioni che già all’epoca erano manifestamente capziose, ma che oggi (dal 2009) è aperto il nuovo museo dell’Acropoli risultano addirittura ridicole”. La Grecia non chiede – e non ha mai chiesto – la restituzione di singole opere, come la Nike di Samotracia o la Venere di Milo, ma i marmi sì perché sono un tutt’uno col monumento. “Questa è una causa europea, perché in Grecia ci sono le radici della nostra cultura”, ribadisce Sidjanski: “È comunque meglio negoziare con il governo britannico contando anche su una vasta porzione dell’opinione pubblica, compresa quella inglese, favorevole alla restituzione, piuttosto che intraprendere una via legale che, se dovesse andar male, precluderebbe per sempre ogni azione futura”. E allora, conclude Godart con un auspicio: “Attiviamo anche in Italia un comitato pro rientro dei marmi del Partenone”.
Pellegrini “Sulle vie della fede”: in occasione del viaggio-pellegrinaggio di Papa Francesco in Terra Santa su Tv 2000 il documentario di Alberto Castellani tra storia, tradizione, archeologia e spiritualità
Pellegrini “Sulle vie della fede”. Oggi come ieri. Così nel giorno che Papa Francesco inizia il suo “storico” viaggio in Terra Santa tra Giordania Palestina e Israele, il canale satellitare TV 2000 propone questa sera (sabato 24) e domani sera (domenica 25) alle 21 la serie di documentari “Sulla via della fede”, appunto, prodotta dal regista veneziano Alberto Castellani, attivo nel settore della comunicazione audiovisiva, con particolari interessi su tematiche storiche, archeologiche e multiconfessionali. “Sta scritto – spiega il regista – che ci sono gesti dell’uomo che, in un variare di forme, si ripetono. Testimoniano qualche cosa che perdura, che segna indelebilmente l’ambiente: qualcosa di affermato, sostenuto e trasmesso di generazione in generazione come patrimonio irrinunciabile. Ad essi l’uomo non rinuncia. Perché in essi l’uomo riesce a comprendere sé stesso e vede svelato e realizzato il significato della sua esistenza. Tra questi “gesti” vi è il pellegrinaggio. Che è un viaggio, ma non un viaggio qualunque”. E proprio il viaggio di Papa Francesco ne è una prova tangibile.
“Sulle vie della fede” recupera la dimensione umana e religiosa del pellegrino di ieri e di oggi. È un viaggio percorso ai nostri giorni, per ritrovare lo spirito di ieri: un progetto di vita che attraversa la storia dell’uomo. L’occasione per riscoprire tracce di lontani itinerari, quel che resta di abbazie nascoste, di modesti luoghi di ristoro, di antichi ospedali, di semplici cappelle votive. Per prendere coscienza e idealmente condividere una quotidianità che il pellegrino di un tempo decideva di affrontare con un briciolo di follia. Un cammino quasi sempre ostile per ambienti avversi, variare di stagioni, esplodere di guerre e di epidemie, presenze di briganti o di feudatari dispotici. Vicende in cui possono convivere, come per ogni storia dell’uomo, gioie e dolori, disagi e gratificazioni, coraggio e debolezze, fede e credenze.
“Sulle vie della fede” diventa così un lungo racconto alla scoperta di un fenomeno che affonda le sue radici in quelle della storia più lontana a contatto con i pellegrinaggi dell’Egitto faraonico, della cultura mesopotamica, del popolo di Israele, dei misteri di Atene ed Eleusi, del mondo islamico e dell’estremo oriente, fino alle cronache dei primi pellegrini cristiani che cominciarono a frequentare, già nel terzo secolo, la terra di Palestina dove Gesù visse e svolse il suo ministero di predicazione e di amore. “Ho voluto comprendere – spiega Castellani – il desiderio di conoscenza che spinse la pellegrina Elena, madre dell’imperatore Costantino, a riscoprire i luoghi santi cristiani. Il perché, ad esempio, di quella sete di esperienza che indusse un’altra viaggiatrice, Egeria, ad attraversare le terre del Medio Oriente dal Sinai a Costantinopoli, a Gerusalemme”. Un “andare” destinato a diventare non più episodico ma fenomeno di massa vissuto dal pellegrino medievale.

Il regista Alberto Castellani con il film “Sulle vie della fede” ha ripercorso gli itinerari dei pellegrini
Castellani, per il suo programma, ha coinvolto un pool di esperti. Danilo Mazzoleni, decano del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana in Roma, come consulente soprattutto del pellegrinaggio che ha come itinerario finale Roma. Marina Montesano, docente di Istituzioni medievali e Storia medievale alle università di Genova e S. Raffaele di Milano ha suggerito alla regia itinerari e luoghi che avevano come destinazione Gerusalemme e Santiago di Compostela. Don Gianmatteo Caputo, architetto e consulente per la Cei dell’Ufficio Nazionale dei Beni Culturali nonché direttore Museo Diocesano d’Arte Sacra di Venezia, ha fornito il suo contributo soprattutto per quanto concerne il ruolo di Venezia, scalo fondamentale del pellegrinaggio medioevale. A questi consulenti si sono aggiunti poi i contributi di don Giorgio Maschio, della Facoltà Teologica del Triveneto, e di Maurizio del Maschio, studioso del dialogo interreligioso e conoscitore delle località della Terra Santa, anche quelle meno frequentate, che saranno visitate dalla troupe e di altri esperti appartenenti al mondo ebraico, islamico e dell’estremo oriente. “Roma, Venezia, Gerusalemme e più tardi Santiago di Compostela divengono così tappe codificate per il Cristiano itinerante”, conclude Castellani. “Un’esperienza mantenutasi nei secoli, testimoniata oggi da schiere di fedeli che con altri mezzi ma con simile spirito percorrono le stesse vie: le “vie della fede”, come suggerisce il titolo del programma.
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