San Francisco. Al Legion of Honor Museum aperta la mostra “Last Supper in Pompeii: From the Table to the Grave” con molti reperti provenienti dal museo Archeologico di Napoli


La grande statua di Bacco che accoglie i visitatori della mostra “Last supper in Pompeii” al museo di San Francisco (foto mann)
“Che grande emozione nel vedere gli scatti della mostra “The last supper in Pompeii” al museo Legion of Honor di San Francisco”, postano sui social del museo Archeologico nazionale di Napoli. “Tantissimi capolavori del Mann rappresentano il cuore di un allestimento straordinario, che travalica i confini per catturarci con le sue suggestioni!”. “Last Supper in Pompeii: From the Table to the Grave” è il titolo dell’eccezionale mostra aperta al Legion of Honor Museum di San Francisco, dove sarà allestita sino al 29 agosto 2021, con il supporto del Consolato Generale d’Italia e dell’Istituto Italiano di Cultura di San Francisco. La mostra riporta al mondo di Pompei fissato come un’istantanea dall’eruzione del 79 d.C., concentrandosi sulla vita di tutti i giorni e soprattutto sul cibo e sulle bevande consumati dagli abitanti di Pompei. Insieme a pentole, padelle e altri accessori per la distribuzione, la preparazione e il servizio del cibo, la mostra include preziose opere d’arte che rivelano lo splendore e il lusso amati dai ricchi romani di Pompei.

La mostra, originariamente organizzata da Paul Roberts dell’Ashmolean Museum of Art and Archaeology, University of Oxford, porta a San Francisco magnifiche sculture romane, mosaici e affreschi, nonché tazze, utensili e servizi di ristorazione in argento per banchetti per rivelare come gli antichi amassero mangiare e bere. L’esposizione offre anche uno spaccato di come il cibo e il vino venissero prodotti e distribuiti prima di essere portati nelle cucine e infine sui tavoli da pranzo. La mostra guarda alle diverse aree della casa in cui cibo e bevande ebbero un ruolo importante, a partire dall’ingresso di casa, con l’atrio ed il suo santuario nel giardino al centro dell’abitazione, ricco di alberi da frutto e piante officinali. Un’intera parete affrescata, proveniente da una sala da pranzo estiva, parzialmente all’aperto, è giunta da Pompei a San Francisco per questa mostra.

Gli scavi condotti nel 1984 alla Villa B a Oplontis (Torre Annunziata), vicino a Pompei, hanno portato alla luce un magazzino a volta dove più di 60 persone rimasero uccise nell’eruzione. Gli archeologi hanno realizzato i calchi di alcune delle vittime versando del gesso negli spazi lasciati vuoti dai gas sotto la cenere. Uno di questi è stato fuso in cera e poi in resina e mostra incredibilmente le ossa, il cranio e persino i denti di una donna, così come i beni che portava, dai gioielli d’oro a un filo di perline di poco valore. La “Signora di Oplontis“, come è stata chiamata, è più resistente degli altri calchi in gesso e quindi si è potuto trasportarla a San Francisco come testimone dei terribili eventi di quel 79 d.C.


Una brocca in bronzo da Pompei (foto mann)
“Last Supper in Pompeii” mette in luce anche le bevande e i cibi consumati dai romani, sulla base di un attento esame di minuscoli resti ritrovati su piatti e vasi. Sebbene alcuni alimenti fossero importati dall’estero, la maggior parte delle provviste veniva prodotta localmente. Pompei ha avuto la fortuna di godere di un clima mite ed era circondata dalle pendici del Vesuvio ricoperte di vigneti. I cereali, la verdura e la frutta, comprese le olive e l’uva, usata soprattutto per il vino, venivano prodotti e lavorati localmente e greggi e mandrie venivano ingrassati nelle vicinanze; il pesce veniva pescato sulla costa. Uno degli oggetti più interessanti della mostra che potrebbe sorprendere i visitatori è un contenitore che serviva per contenere e ingrassare i ghiri, una delle prelibatezze della tavola romana.


Affresco con Iside Fortuna, Arpocrate e Amorino da Pompei in mostra a San Francisco (foto mann)
Gli dei e la superstizione erano presenti in ogni ambito della vita pompeiana e la mostra include immagini di molte di queste divinità. Bacco, il dio della vite, è ben rappresentato. I suoi seguaci, inclusi satiri e menadi con i loro lussuriosi rituali, costituiscono una parte speciale della mostra. Provenienti principalmente dal “Gabinetto Segreto” del museo Archeologico nazionale di Napoli, alcune di queste scene vivaci e lascive raccontano l’importanza della fertilità nel culto di questo dio. La maggior parte delle opere di questa affascinante mostra non ha mai lasciato l’Italia.
A Venezia la mostra “Idoli. Il potere dell’immagine”, terzo grande evento della Fondazione Giancarlo Ligabue: una finestra sulla “rivoluzione neolitica” e la raffigurazione umana, un viaggio nel tempo e nello spazio con oltre 100 opere tra Occidente e Oriente, dalle porte dell’Atlantico fino ai remoti confini dell’Estremo Oriente, tra il 4000 e il 2000 a.C.

La locandina della mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” a Venezia dal 15 settembre 2018 al 20 gennaio 2019
Un mese. Manca solo un mese alla grande mostra “Idoli. Il potere dell’immagine”, la terza in tre anni della Fondazione Giancarlo Ligabue, che dal 15 settembre 2018 al 20 gennaio 2019 aprirà a Venezia, a Palazzo Loredan, una finestra sulla “rivoluzione neolitica” e la raffigurazione umana, un viaggio nel tempo e nello spazio con oltre 100 opere tra Occidente e Oriente, dalla penisola Iberica alla Valle dell’Indo, dalle porte dell’Atlantico fino ai remoti confini dell’Estremo Oriente, dal 4000 al 2000 a.C. L’alba della civiltà. Fin dalla preistoria l’uomo ha sentito la necessità di rappresentare la figura umana: con i graffiti e le pitture murali, ma anche in forma tridimensionale. Da quei lontanissimi tempi, fin dall’età paleolitica, ci è giunta un’immensa quantità di statuette realizzate in diversi materiali riproducenti tratti umani. Quale fosse il loro significato – valore simbolico, religioso o di testimonianza, espressione di concetti metafisici, funzione rituale o “politica” – e quali soggetti realmente rappresentassero, rimane ancora un mistero. La mostra “Idoli” (dal greco eídolon, immagine) – promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, istituita nel 2016 da Inti Ligabue, e curata da Annie Caubet, conservatrice onoraria del Musée du Louvre – ci propone il primo tentativo di confronto dall’Oriente all’Occidente, di opere raffiguranti il corpo umano del 4000-2000 a.C. Attraverso 100 straordinari reperti – alcuni eccezionali per l’importanza storico-scientifica e la rarità – e grazie ad un apparato didattico coinvolgente, sarà possibile percorrere un ampio spazio geografico, che si estende dalla penisola Iberica alla Valle dell’Indo, dalle porte dell’Atlantico fino ai remoti confini dell’Estremo Oriente, in un’epoca di grande transizione, in cui i villaggi del Neolitico si evolvono a poco a poco nelle società urbane dell’Età del Bronzo.

Inti Ligabue, presidente della Fondazione Ligabue, con Annie Caubet, curatrice della mostra “Idoli”, tra il prof. Stefano De Martino, dell’università di Torino (a sinistra) e Alessandro Marzo Magno, direttore del Ligabue Magazine, alla presentazione della mostra (foto Graziano Tavan)
“È questa la mostra che segna il coronamento di una prima fase importante dell’attività della nostra Fondazione, una maturazione e un passo avanti sostanziali”, interviene Inti Ligabue alla presentazione dell’esposizione. “Ognuna delle esposizioni finora realizzate è stata un’avventura, in termini di conoscenza, organizzazione e ideazione, ma soprattutto sul piano umano e personale. Condividere nuclei importanti della Collezione Ligabue con il pubblico ha significato ripercorrere, con finalità nuove e sotto una luce diversa, la storia collezionistica della nostra famiglia e le ricerche condotte per tanti anni da mio padre, con il Centro Studi da lui fondato, aggiornando e approfondendo gli studi grazie a curatori e comitati scientifici prestigiosi, rivivendo le emozioni di tante missioni, ma anche acquisendo nuove conoscenze e indagando nuovi modi di “conoscere e far conoscere”. In tre anni dunque, tre grandi mostre e altrettanti focus sull’attività scientifica e sulle conoscenze archeologiche, paleontologiche e antropologiche sviluppate da Giancarlo Ligabue e dai tanti studiosi e Istituzioni che lo hanno affiancato. “Con l’esposizione “Il mondo che non c’era” sull’arte precolombiana – continua – abbiamo indirettamente dato conto di numerose spedizioni compiute in Centro e Sud America e di culture e popoli che ancora attendono un riscatto da parte della Storia e del mondo occidentale. Con “Prima dell’Alfabeto. Viaggio alle origini della scrittura in Mesopotamia” abbiamo ripercorso una delle avventure più affascinanti della storia dell’uomo, rendendo evidente il grande valore culturale di quell’infinità di segni che fin da piccolo io stesso guardavo, senza comprendere, impressi sulle tavolette di argilla e sui piccoli sigilli che papà collezionava con straordinario interesse. Ora, con questa mostra andando a ritroso nel tempo, affrontiamo un’altra “via di Damasco dell’Umanità” e ripercorriamo un’altra straordinaria avventura umana: quella della traduzione visiva, attraverso singolari opere scultoree, delle concezioni metafisiche elaborate dall’uomo in un’epoca di grande transizione e di sconvolgente evoluzione della società. Dal 4000 al 2000 a.C., di pari passo con l’imporsi della scrittura e con la rivoluzione urbana e tecnologica, si sviluppano e si diffondono diverse visioni estetiche nelle rappresentazioni tridimensionali e antropomorfiche delle “Idee”, che spesso percorrono distanze geografiche impensabili. È una rivoluzione epocale”.

Figura steatopigia in basalto del IV millennio a.C. proveniente dall’Arabia Saudita e conservata in una collezione privata di Londra
Era stato proprio Giancarlo Ligabue, in uno dei suoi ultimi studi, ad affrontare questo tema affascinante. “L’ipotesi che il Dio padre di tutte le religioni monoteiste fosse stato in origine una Dea Madre iniziò a delinearsi dopo la scoperta delle prime veneri paleolitiche, dove il corpo femminile era sentito come centro di forza divina. Proprio in quel momento, tra paleolitico medio e superiore, si pensa si siano verificati nello spirito e nella coscienza dell’uomo, determinati mutamenti di struttura della psiche. Alla fase dell’inconsapevolezza si contrappone una sorta di pulsione che gli specialisti oggi attribuiscono ad un rapido evolvere della coscienza. Nasce un concetto di religiosità. L’uomo aveva scoperto di avere un’anima”. Gli albori della cultura figurativa antropomorfa – spiega Inti Ligabue -, i miti fondativi dell’umanità, la rappresentazione del potere, sia esso di fecondazione, divino o eroico: c’è tutto questo nella mostra “Idoli”. Un viaggio unico e irripetibile che ci conduce alle origini delle raffigurazioni del corpo umano: dalle prime immagini ancora ambigue e dalla dubbia interpretazione, nell’età neolitica, alla loro evoluzione nell’età del Bronzo. Un viaggio che, valicando montagne, superando steppe e deserti, attraversando mari e oceani, rivela connessioni trasversali, comunanze di sentire e contatti in territori distantissimi.

La cosiddetta “Venere Ligabue”, star della mostra, in clorite, capolavoro della Civiltà dell’Oxus (2200-1800 a.C.), proveniente dall’Iran Orientale: fa parte della Collezione Ligabue
La cosiddetta “Rivoluzione neolitica” è epocale: segna il passaggio da clan e tribù a società più complesse, vede l’avvento di nuove tecnologie e della lavorazione dei metalli, l’affermarsi delle prime forme di scrittura in diversi centri, l’avvio di reti commerciali e dei relativi traffici anche tra popoli molto distanti, che in tal modo intensificano i rapporti e gli scambi di merci e materiali, di idee e forme espressive. In questo contesto si collocano le misteriose rappresentazioni della figura umana che saranno esposte a Venezia, di cui quattordici appartenenti alla Collezione Ligabue, le altre provenienti da collezioni private internazionali e da importanti musei europei: l’Archäologische Sammlung-Universität Zürich, l’Ashmolean Museum of Art and Archaeology– University of Oxford, il Musées Royaux d’Art et d’Historie di Bruxelles, il Monastero abbaziale Mechitarista dell’isola di San Lazzaro degli Armeni a Venezia, il Badisches Landesmuseum Karlsruhe, il MAN-Museo Arqueológico nacional di Madrid, il Polo Museale della Sardegna–Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, i Musei Civici Eremitani di Padova, il Cyprus Museum a Nicosia e il Musée d’Archéologie Nationale et Domaine National de Saint-Germain-en-Laye. “Dapprima – spiegano i curatori – saranno quasi esclusivamente figure femminili, poi con l’affermarsi di società sempre più strutturate, saranno soprattutto gli uomini a divenire protagonisti: dei, sovrani, eroi. Sarà sorprendente vedere come, in parti del mondo tra loro lontanissime, si affermino tradizioni e forme di rappresentazioni simili o si ritrovino materiali necessariamente giunti da paesi distanti, eppure già in relazione tra loro: l’ossidiana della Sardegna e dell’Anatolia, i lapislazzuli importati dall’Afghanistan, l’avorio ottenuto dalle zanne degli ippopotami dell’Egitto o delle Coste del Levante”.

Suonatore d’arpa cicladico in marmo dell’Antico Cicladico II (2600-2400 a.C.), proveniente da Thera (Santorini) e conservato al Badisches Landesmuseum Karlsruhe
La mostra prende in esame gli idoli da un punto di vista estetico, a partire tuttavia da una solida base storica e archeologica, che si amplia ulteriormente nel catalogo dell’esposizione (Skira) grazie al contributo di esperti internazionali. Viene così proposto un confronto tra caratteri fissi e condivisi e aspetti variabili, visti dalla duplice angolazione dell’antropologia e dell’estetica. Tra i fattori comuni c’è la qualità artistica: “Gli individui che realizzarono quelle sculture – spiega la curatrice Caubet – erano artisti dotati di grande talento, che muovendosi tra il rispetto dei modelli tradizionali e la creazione innovativa, seppero comunque lasciare un segno”. Figure simili all’apparenza, rispondenti a codici iconografici analoghi, sono in realtà ciascuna un unicum nelle proporzioni, nei particolari, nel fascino, grazie al tocco dell’artista. L’esposizione a Palazzo Loredan, a Venezia, ci mostrerà – provenienti dalle Isole Cicladi, dall’Anatolia Occidentale, dalla Sardegna, ma anche dall’Egitto, dalla Spagna, dalla Mesopotamia o dalla Siria – le famose “Dee Madri” (raffigurazioni femminili particolarmente prospere nei seni e nei fianchi, simbolo forse del potere della Terra, della Maternità e della Fertilità), e gli idoli astratti e geometrici che tanto affascinarono gli artisti del Novecento: oppure i cosiddetti “isoli oculari” o idoli placca, nati dalla fascinazione esercitata dall’occhio come espressione della presenza spirituale, fino all’affermarsi nel Terzo millennio, nel corpo umano nelle sue forme naturali”. Non più solo esseri dall’identità ambigua, in particolare dal punto di vista del sesso (figure femminili androgine, presenza contemporanea di organi sessuali maschili e femminili, ecc.) né solamente espressione di principi divini, ma anche uomini mortali, reali – spesso colti in atteggiamento orante – e nuove divinità create a immagine dell’uomo. Quello che invece non cambia è il bisogno dell’individuo e della società di esprimere, con manufatti o con opere d’arte, le proprie paure, le proprie speranze, la propria fede.
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