“Le Passeggiate del Direttore”: col 24.mo appuntamento il direttore del museo Egizio, Christian Greco fa un approfondimento sulle mummie degli animali, manifestazione animale del dio, deposte come ex voto. E poi parla dell’enoteismo e delle divinità poliadiche
“Le mummie animali e il visir Gemenefherbak” sono il tema affrontato da Christian Greco nel 24.mo appuntamento con le “Passeggiate del direttore”. Un elemento interessante del culto in Antico Egitto è quello delle mummie animali. Esse fanno parte di quel culto che gli egizi rivolgevano agli dei, anzi alla manifestazione che determinati dei potevano avere in forma animale. Esistono diverse tipologie di mummie. In giare di argilla ci sono mummie di un uccello, l’ibis. Ma si trovano anche mummie di serpente, di pesci, di toro, di falco, di babbuino. “Ci sono quindi quasi tutte le tipologie di animali che possono essere messe in connessione con la manifestazione del dio alle quali si poteva dare una mummia. Una mummia come ex voto”, spiega Greco. Perché qual è la funzione delle mummie animali? “Le mummie animali potevano essere preparate come cibo per l’aldilà, e in quel caso hanno un aspetto relativamente diverso. Al museo Egizio di Torino sono conservate mummie preparate come cibo. Gli uccelli, per esempio, vengono spennati, l’oca viene preparata e messa in un contenitore di modo che il defunto possa essere assicurato di cibo nell’aldilà. Ci sono anche i casi, ma sono molto limitati, di animali domestici che venivano poi mummificati e sepolti insieme al proprietario”.
Ma la stragrande maggioranza delle mummie animali sono ex voto: si portava una mummia che aveva le stesse sembianze della manifestazione animale del dio come ex voto perché il dio potesse essere benevolente e potesse dare tutti i favori che il fedele richiedeva. “Ma quando parliamo di dio e di dei nell’antico Egitto, cosa intendiamo?”, si chiede Greco. “È un sistema molto complesso, un sistema che si può definire un sistema politeistico, ma che già studiosi negli anni Ottanta del secolo scorso un sistema enoteistico”. Al museo Egizio di Torino una cartina dell’Egitto con il Nilo mostra una serie di divinità collegate al luogo in cui principalmente erano adorate. Ad Abido, per esempio, è associato il dio Osiride. “Ma Osiride era una divinità nazionale. Certo, però Osiride nasce innanzitutto da una divinità locale che si chiamava Khenti-mentju, il primo degli Occidentali. Tra l’altro Khenti-mentju è anche uno degli epiteti di Osiride. Osiride è il primo degli Occidentali perché Osiride è colui che è morto e poi è resuscitato. I morti si trovano in Occidente perché l’Occidente è il luogo in cui il sole tramonta e comincia a viaggiare nell’aldilà per le 12 ore della notte. Ma allora cosa significa che una divinità è legata a una città? Ritorno al termine enoteismo: possiamo dire che per quanto concerne lo sviluppo cronologico della religione nell’antico Egitto non parliamo di monoteismo, ovvero di dio unico, ma parliamo di enoteismo, di dio 1, cioè in ogni città vi è una particolare divinità che era importante. Quindi ad Abido ad esempio era molto importante Osiride che si riconnetteva al culto tradizionale di Khenti-mentju prima che questa diventasse una divinità nazionale. Ebbene, gli abitanti di Abido pregavano essenzialmente Osiride come una divinità poliadica e a questa divinità facevano convenire tutte le loro richieste”. E continua: “Se consideriamo le varie forme o kheperu che gli dei possono assumere, forme che in greco si chiamano epistaseis, manifestazioni, capiamo un altro concetto fondamentale: le divinità dell’antico Egitto abitavano in Egitto. L’Egitto era la “ta meri”, la terra amata dagli dei. Il prof. Assmann ha detto che mai una religione è stata così immanente come la religione antico-egizia, e che la prima separazione tra gli uomini e gli dei avviene in Grecia quando gli dei vanno ad abitare nell’Olimpo. Allora se il divino pervade completamente il mondo, pervade l’ecumene, il divino si manifesta in vari modi e quindi divino diventa il Nilo con il dio Hapi, diventano divine l’acqua e l’atmosfera con il dio Shu. Tutto in sostanza è divino. Il mondo è abitato dagli dei. Il divino poi si manifesta in vari modi, però stiamo anche attenti che queste kheperu, manifestazioni, a volte sono semplicemente caratteristiche del divino. Vediamo nella barca solare nell’Amduat che il dio sole è accompagnato da Sia ed Heka, ovvero da eloquenza e magia, che sono due caratteri stessi del divino. Allora forse per sintetizzare possiamo dire che tutto il mondo dell’antico Egitto è pervaso dal divino, che l’Egitto aveva davvero una religione assolutamente immanente, ma che al contempo le divinità poliadiche, ovvero le divinità che avevano un certo ruolo all’interno della città, per quella città sono quelle più importanti. Ed ecco quindi che ad Abido Osiride aveva un ruolo particolare, ma come lo aveva Ptah a Menfi, e Amon-Ra a Tebe”.

Il meraviglioso sarcofago in pietra del visir Gemenefherbak conservato al museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)
Questo ricollegarsi alle divinità, al ruolo che esse hanno nella vita dell’antico Egitto, ma anche nella vita dopo la morte, lo ritroviamo anche nei sarcofagi. Come nel meraviglioso esemplare in pietra del sarcofago di Gemenefherbak. “È un esempio meraviglioso di uno stile che diventa quasi minimalista. E se leggiamo alcune parole del testo iniziale, ritroviamo l’elemento dell’offerta funeraria che il sovrano e Osiride devono dare. E ritroviamo Osiride che è Khenti-imentet, il primo degli Occidentali, colui che è risorto dal regno dei morti e continua nell’aldilà. Ed è il “necer aa”, il dio grande. Osiride e il sovrano devono fare in modo di dare un’offerta di voce, un’offerta magica, fatta di pane e di birra. Ecco il potere reificante della parola: se si scrivono le offerte di cui il defunto ha bisogno, queste offerte in qualche modo potranno essere garantite al defunto che ci si augura possa navigare, possa arrivare fino ai campi di Iaru, i campi elisi dove potrà continuare a svolgere la sua vita in eterno”.
L’appassionante racconto delle campagne archeologiche dell’antico Oriente da metà Ottocento a oggi rivive nell’incontro al museo Egizio di Torino con Paolo Matthiae che presenta il suo ultimo libro “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale”

La maschera funeraria di Tutankhamon: uno dei tesori trovati da Carter e Carnarvon nella tomba del giovane faraone
L’appassionante racconto delle campagne archeologiche dell’antico Oriente da metà Ottocento a oggi, dalla decifrazione delle due scritture più antiche dell’umanità alle prime epiche imprese alla ricerca di Ninive, alle grandi scoperte nella Valle dei Re a Tebe, da Ebla, Qatna e Aleppo in Siria a Nimrud e Sippar in Mesopotamia, a Troia e Hattusa in Anatolia, ad Abido e Amarna in Egitto, fino a Gerusalemme in Palestina. Sarà un incontro particolarmente appassionante quello con Paolo Matthiae, il noto archeologo del Vicino Oriente, che mercoledì 20 marzo 2019, alle 12, nella sala conferenze del museo Egizio di Torino, nell’ambito del ciclo “Incontro con gli autori”, presenta il suo ultimo libro “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale” (Einaudi). Come il titolo del volume fa intendere, Matthiae parte dalle evidenze archeologiche (e anche dalle fonti testuali) per ricostruire la storia culturale, politica ed economica dell’intera area vicino orientale: Anatolia, Siria, Mesopotamia e Levante, e anche l’Egitto. Il volume è suddiviso in dodici capitoli, ognuno dei quali è dedicato ad un sito chiave; la scelta di questi siti non è casuale, ma si tratta di luoghi che sono stati al centro di grandi scoperte archeologiche e continuano ad essere oggetto di nuove analisi e studi anche recenti. Tre siti sono egiziani, rispettivamente Abido, Avaris e Amarna, tre si trovano in Siria, Ebla, Qatna e Aleppo, due sono anatolici, Hattusa e Troia, uno è nel Levante, Gerusalemme, e tre si riferiscono all’area mesopotamica, Nimrud, Babilonia e Sippar. Ingresso libero in sala conferenze fino a esaurimento posti. Al termine della conferenza sarà possibile acquistare il libro “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale” di Paolo Matthiae.

Il sito di Ebla in Siria: dal 2011, con lo stop alle missioni archeologiche a causa della guerra, non c’è più manutenzione. La città del III millennio a.C. si sta distruggendo
Dialogheranno con Paolo Matthiae il direttore Christian Greco, il prof. Stefano de Martino e la prof.ssa Clelia Mora. Paolo Matthiae è accademico dei Lincei, già professore di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente all’università di Roma “La Sapienza”. Dal 1963 ha diretto lo scavo nel sito siriano di Tell Mardikh, l’antica città di Ebla. Matthiae è autore di moltissimi volumi e saggi scientifici. Dopo le distruzioni operate dall’Isis in Siria e Iraq, Matthiae si è molto impegnato sul tema della protezione del patrimonio culturale in aree di guerra, pubblicando recentemente anche il volume “Distruzione, Saccheggi e Rinascite”, o organizzando mostre e convegni. Stefano de Martino è professore ordinario al dipartimento di Studi storici dell’università di Torino, dove insegna Ittitologia e Civiltà dell’Anatolia preclassica. È direttore scientifico del Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l’Asia. È coordinatore del dottorato dell’università di Torino “Technology Driven Sciences: Technologies for the Cultural Heritage”. È autore di saggi e volumi sulla storia, la civiltà e la lingue degli Ittiti e dei Hurriti; fa parte del team internazionale che studia e pubblica le tavolette in lingua hurrita rinvenute nel sito di Ortaköy (Turchia). Clelia Mora è professore ordinario al dipartimento di Studi umanistici dell’università di Pavia, dove insegna Storia del Vicino Oriente antico e Storia, epigrafia e sistemi di scrittura nel Vicino Oriente antico. Dal 2000 al 2010 ha collaborato con la missione archeologica francese attiva a Terqa in Siria e dal 2010 è responsabile del Progetto Kinik Höyük, nell’ambito del quale sono condotte indagini archeologiche in Cappadocia in sinergia con la New York University.
Uno dei maggiori protagonisti dell’archeologia orientale rievoca origini, sviluppi e risultati delle più affascinanti imprese degli ultimi decenni. Sempre attento a rilevare, nel passaggio suggestivo dalla terra dello scavo all’interpretazione della storia, l’inestimabile contributo che le scoperte recano alla ricostruzione di un lontano passato fondamentale per lo sviluppo della civiltà umana, che vide il sorgere e l’affermarsi delle prime città, dei primi stati territoriali, dei primi imperi a vocazione universale nella storia mondiale. “Le scoperte rievocate e illustrate nelle pagine di questo libro hanno in comune alcune caratteristiche fondamentali. In primo luogo, sono il frutto, in modi certo diversi, di esplorazioni archeologiche sistematiche di lungo periodo. In secondo luogo, sono state realizzate, approssimativamente, nell’ultimo mezzo secolo. In terzo luogo, a un giudizio oggettivo e di nuovo in modi diversificati, hanno avuto un significato rivoluzionario. Il loro valore leggendario dipende, da un lato, dal forte impatto di innovazione che è tipico di tutte e, dall’altro, dal loro carattere inatteso e sorprendente. La notevole varietà di queste scoperte, in ambiti differenziati della ricerca storica, ha inciso, volta a volta, sulla storia politica, sulla storia religiosa, sulla storia sociale, sulla storia economica, sulla storia artistica, sulla storia letteraria e, in diversi casi, su più di una di esse…Se è vero che non v’è nulla di più concreto e reale di una scoperta archeologica, è altrettanto vero che le interpretazioni prime di quella scoperta, che sono un’esperienza esaltante, non hanno nulla di definitivo perché esse sono solo un contributo, primario e fondamentale, alle innumerevoli valutazioni storiche future. Le interpretazioni che per ciascuna delle scoperte raccolte in questo saggio sono qui presentate, spesso già oggetto di accesi dibattiti negli ambienti scientifici, nella maggior parte dei casi sono di questo tipo ed esprimono solo una parte iniziale del lungo loro tragitto, di fatto inesauribile, dalla terra alla storia”.
Antico Egitto a Vittorio Veneto. Paolo Renier chiude gli incontri a margine della mostra “Rispetto, Conoscenza e valore. 1989-2018” con il suo intervento su “L’energia di Abydos, il valore simbolico di Sethi I, il retaggio spirituale”

Paolo Renier, autore del Progetto Abido, in mostra a Vittorio Veneto (foto Graziano Tavan)

La locandina della mostra “Rispetto, Conoscenza e valore. 1989-2018, Paolo Renier per Abydos-Egitto” a Vittorio Veneto
Paolo Renier fa il bis per il gran finale della mostra “Rispetto, Conoscenza e valore. 1989-2018, Paolo Renier per Abydos-Egitto” alla Rotonda di villa Papadopoli a Vittorio Veneto (Tv), messa a disposizione dall’associazione storico culturale Zheneda, mostra che, dopo la proroga concessa a grande richiesta del pubblico, chiuderà definitivamente domenica 1° luglio 2018. A Vittorio Veneto Paolo Renier presenta un racconto particolare dove il protagonista è proprio lui o, meglio, la sua trentennale esperienza dedicata all’antico Egitto, tra incontri, scoperte e documenti fotografici: dalla “folgorazione” per la civiltà dei faraoni e, soprattutto, per la città sacra di Abydos in occasione del suo primo viaggio – come turista – sulle rive del Nilo (era il 1989), alla nascita del progetto Abydos, alla realizzazione del rilievo fotografico del soffitto astronomico della stanza del sarcofago dell’Osireion. E ora, alla vigilia del finissage della mostra, Renier fa il bis o, meglio, completa il suo racconto, come richiesto proprio dagli attenti partecipanti all’incontro di sabato 23 giugno 2018 nell’aula magna della Rotonda di villa Papadopoli. Quindi sabato 30 giugno 2018, stavolta non più alle 18 ma alle 17 (per avere più tempo da condividere con i presenti), il fotografo trevigiano, autore e promotore del Progetto Abydos, riprende la conversazione dal titolo impegnativo “L’energia di Abydos, il valore simbolico di Sethi I, il retaggio spirituale”, durante la quale farà scorrere sullo schermo la sua storia con i testi e le immagini, presenti nel percorso della mostra, sviluppando i tre titoli-temi attraverso l’esperienza trentennale in Egitto dedicata a “Rispetto, Conoscenza e Valore di Abydos-Egitto”.

La grande frattura nella falesia sopra Abido, dove gli antichi egizi ponevano l’ingresso dell’Aldilà (foto Paolo Renier)
Abydos non è un sito qualsiasi dell’Antico Egitto. Quando Renier parla di “energia di Abydos” cerca di rendere quell’atmosfera speciale che ancora oggi si respira tra i suoi templi da dove lo sguardo spazia sul deserto fino all’orizzonte chiuso da un’alta falesia dove si apre una gola che per gli antichi egizi era la porta di accesso all’Aldilà. Di certo per millenni Abydos ha esercitato un’attrazione particolare sugli antichi egizi. Già il nome originale (Ȝbḏw, pronunciato convenzionalmente Abdju) che significa collina del tempio, ci porta dritti all’essenza della città sacra per eccellenza perché appunto si riteneva che in quell’antica città, nel tempio simbolo della collina primigenia emergente dal Nun, vi fosse conservata la testa di Osiride. Forse è un caso che proprio ad Abido sia stata trovata l’unica rappresentazione nota del grande faraone Cheope. Ma forse non è un caso che per ben 3000 anni Osiride sia stato venerato ad Abido dove appunto si diceva fosse conservata la reliquia più preziosa del dio: la sua testa. Un’immagine del reliquiario campaniforme che la racchiudeva si può ammirare ancora oggi. È raffigurata su una splendida pittura policroma all’interno del tempio abideno del faraone Sethi I. Del resto la tradizione raccontava che intorno alla tomba di Osiride ci fossero 365 altari per le offerte, uno per ogni giorno dell’anno.

La grande distesa di cocci che ancora oggi si può vedere nella zona di Umm el-Qa’ab ad Abido (foto Graziano Tavan)
Si perdono nella preistoria le origini della città sacra, che sicuramente fu capoluogo importante se non addirittura capitale dell’Alto Egitto nel periodo predinastico di Naqada e nel protodinastico. E proprio la necropoli di Umm el-Qa’ab (che significa in arabo la Madre dei Vasi, perché quando l’egittologo inglese Flinders Petrie scoprì questo sito – all’inizio del XX secolo – la collina sacra era letteralmente ricoperta da vasi: otto milioni di vasi deposti lì nel corso dei secoli da mani scomparse migliaia di anni fa, in offerta a Osiride, il signore dell’oltretomba) sembra essere l’anello di congiunzione tra l’Antico Egitto prima e dopo l’unificazione. Nel cosiddetto “cimitero U”, uno dei tre della necropoli di Umm el-Qa’ab, sono state portate alla luce ben 650 tombe di epoca predinastica (periodo Naqada I) e sepolture più raffinate (3800-3150 a.C.) dedicate a personaggi importanti, i primi dominatori delle Due Terre. Nella zona centrale c’è il “cimitero B” che ospita gli ultimi re predinastici sepolti approssimativamente dal 3150 al 3050 a.C. Tra i resti di questi signori si trovavano un tempo le spoglie di re Narmer, che la tradizione vuole unificatore delle Due Terre, e di re Horus Aha, il Combattente. Infine, nell’area sud della necropoli abidena, si estende il cimitero più ampio che abbraccia le tombe di una regina e sei re della I dinastia e di due re della II dinastia. Personaggi sepolti intorno al 3050 – 2800 a.C. Uno di questi regnanti, Horus Djer, governò per ben 50 anni. Salì al trono intorno al 2980 a. C. Secoli dopo, la sua tomba sarebbe stata trasfigurata dalla leggenda e divenuta il centro di un culto del dio Osiride.

L’egittologa Federica Pancin al lavoro ad Abido seguita dal custode del tempio di Sethi I(foto Paolo Renier)
“La necropoli di Umm el-Qa’ab”, scrive Federica Pancin, egittologa di Ca’ Foscari, “costituiva la tappa più importante nella celebrazione dei misteri osiriaci, che si teneva ogni anno ad Abido e a cui partecipavano gli abitanti di ogni parte dell’Egitto e di ogni estrazione sociale: la divinità si manifestava in queste occasioni, quando la sua effigie usciva dal tempio e veniva portata in processione per la città e nel deserto. La grande partecipazione è confermata dalle centinaia di stele, recuperate dalle diverse missioni archeologiche, che i pellegrini più facoltosi provenienti da tutto l’Egitto lasciavano ad Abido, anche se è più verosimile che essi non si recassero fin lì direttamente e commissionassero invece ai locali o ad agenti di viaggio i loro monumenti”. E continua: “La tomba di Djer/Osiride fu meta di pellegrinaggi nazionali per oltre un millennio: ogni anno, verosimilmente nel mese di Khoiak, si celebrava la processione in cui veniva messa in scena la passione di Osiride, che assicurava il successo della rigenerazione di Osiride e, con essa, la rinascita della vegetazione della Valle del Nilo”.

Paolo Renier ad Abydos con l’egittologo Gunter Dreyer dell’università Tedesca del Cairo (foto Graziano Tavan)
Forse non è un caso che proprio nella necropoli di Umm el-Qa’ab siano stati trovati i primi ideogrammi e segni di scrittura datati 3200 a.C. A scoprirli è stato l’egittologo tedesco Gunter Dreyer che Paolo Renier, insieme a chi scrive, ebbe l’onore di incontrare nel suo viaggio-missione del 2004 proprio nella casa della missione tedesca ai margini del deserto di Abido. “Straordinari e importantissimi reperti”, ricorda Renier nella mostra di Vittorio Veneto, “scolpiti in piccole tavolette in avorio o in pietra, vere testimonianze delle prime dinastie dei faraoni, e che in seguito per la loro importanza, essendo i primi segni di scrittura, sono state portate al museo Egizio del Cairo, dove le possiamo ancora vedere esposte nelle teche appena si entra nella sala principale”.

Il faraone Seti I in delicato bassorilievo nel tempio di Seti I ad Abido straordinariamente reso dalla maestria di Paolo Renier
E poi non si può ricordare Abido senza menzionare il faraone Sethi I (e il figlio Ramses II) con il suo grande tempio, una delle opere architettoniche più complesse e straordinarie dell’Antico Egitto, dove l’arte egizia tocca livelli sublimi, forse mai più superati, e con l’annesso Osireion, un unicum nell’architettura dei faraoni, e per certi versi ancora uno dei monumenti più misteriosi, e per questo più affascinanti, non solo di Abido. “Il sito di Abido”, scrive Renier, “si trova esattamente al centro dell’Egitto, e questo non credo sia un caso, anche perché non conosco in tutto l’Egitto un luogo così carico di spiritualità”. Il fotografo trevigiano ricorda bene di aver visto coppie di giovani sposi desiderosi di avere figli, la sposa accompagnata da alcune donne vestite di nero, compiere dei particolari riti nel tempio di Sethi I e nell’acqua dell’Osireion. “Chiaramente non ho mai saputo e soprattutto cercato di voler conoscerne il seguito di quei momenti così intimi di vita con particolare e autentica devozione. Mi piace ricordare che nel Vangelo dell’apostolo Giovanni, c’è questa parabola: “…..a Gerusalemme vi è, presso la Porta delle Pecore, una piscina chiamata in ebraico Betzaeta che ha cinque portici. Sotto di essi c’era sempre un gran numero di sofferenti, ciechi, zoppi e paralitici che attendevano il mutamento dell’acqua, poiché un Angelo del Signore scendeva in tempi stabiliti nella piscina e l’acqua ne era mutata, e il primo che entrava nella piscina, dopo tale mutamento, veniva risanato da ogni infermità …..e Gesù gli disse: “ vuoi essere guarito? ” L’infermo rispose: “ Signore io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si increspa, perciò mentre io mi avvicino, qualche altro scende prima di me.”…..Gesù gli ordinò: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina! ”. Allora mi viene spontanea una domanda: ma se succedeva questo mutamento dell’acqua con incredibili miracoli, in un tempio più piccolo e più semplice di quello di Abydos, cosa poteva succedere nell’imponente edificio dell’Osireion?”.
“L’acqua è sempre stata veramente un elemento protagonista nel tempio di Sethi I”, continua Renier, “unico tempio in Egitto con due grandi pozzi uguali costruiti all’inizio della grande scalinata di accesso, ora coperti di sabbia. Al tempo del faraone quello di sinistra poteva essere una specie di nilometro che misurava i livelli del Nilo, nonostante la distanza dal fiume di oltre 10 chilometri. Invece quello di destra poteva forse misurare l’altezza dell’acqua del canale dell’Osireion, che ancor oggi ha dei livelli diversi durante l’anno. Tutti e due i pozzi, comunque, servivano per purificare il visitatore. C’è però chi sostiene l’idea che forse il pozzo di destra potesse servire anche all’illuminato che doveva superare una speciale prova, quella di immergersi nell’ingresso di un percorso sotterraneo, per poi nuotare in apnea lungo un condotto di circa 120 m. situato proprio sotto il tempio di Sethi I, forse con delle camere di respiro per poter arrivare fino alle scale di accesso nel piano centrale del vicino tempio dell’Osireion. Una volta eseguiti rituali di particolare spiritualità, in questa specie di isola circondata dall’acqua di un canale, probabilmente si poteva aver accesso al corridoio ipogeo, non a caso lungo ancora circa 120 m., che però questa volta conduce all’esterno di tutto il complesso del tempio di Sethi I, in mezzo al deserto”.
I codici di Nag Hammadi. E forse non è neppure un caso, come intende Renier porre all’attenzione del pubblico in chiusura del suo incontro, che proprio a pochi chilometri da Abido, a Nag Hammadi, siano stati trovati antichi codici, risalenti al III – IV secolo d.C. e contenenti per la maggior parte scritti gnostici cristiani composti, probabilmente, intorno al II-III secolo d.C.. La scoperta risale al 1945, quando in una giara di terracotta un gruppo di beduini del villaggio di al-Qasr trovò alcuni papiri, che rimasero però nascosti per lungo tempo dopo il ritrovamento; andarono dispersi, ma furono fortunatamente recuperati, messi a disposizione degli studiosi. E infine pubblicati nel 1985. I testi sono scritti in copto antico, benché la maggior parte di essi siano stati tradotti dal greco. L’opera più importante presente in essi è il Vangelo di Tommaso, l’unico manoscritto della raccolta a essere completo. “Vorrei riuscire, nei miei prossimi eventi”, conclude Renier, “ad avvicinarmi a una più reale conoscenza del passato attraverso le mie immagini e soprattutto le mie esperienze egizie, con l’aiuto dei miei più cari amici studiosi, e assieme cercare di scoprire la vera storia che ci lega così incredibilmente all’antico Egitto dei faraoni”.
Scoperta archeologica dell’anno: l’International Archaeological Discovery Award “Khaled al-Asaad” 2017 sarà assegnato a Paestum dalla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico e da Archeo a Peter Pfälzner per aver scoperto in Iraq la grande città dell’Età del Bronzo presso il piccolo villaggio curdo di Bassetki. Presenti i tre figli archeologi di Khaled Asaad

i resti di una grande città del Bronzo scoperta in Iraq, vicino al villaggio curdo di Bassetki dalla missione dell’università di Tubinga
Cinque le nomination all’International Archaeological Discovery Award “Khaled al-Asaad”, per la scoperta archeologica dell’anno, e tutte particolarmente importanti e significative: la grande città dell’Età del Bronzo presso il piccolo villaggio curdo di Bassetki, Iraq; l’edificio della barca di Sesostri III e i graffiti di 120 navi ad Abido, Egitto; la prima opera architettonica dei Neanderthal in una caverna di Bruniquel, Francia; la città indo-greca di Bazira, Pakistan; le 400 tavolette di epoca romana ritrovate nella City di Londra, Regno Unito (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2017/06/21/annunciate-le-cinque-grandi-scoperte-archeologiche-del-2016-in-lizza-per-il-terzo-international-archaeological-discovery-award-khaled-al-asaad-promosso-da-borsa-mediterranea-del-turi/). Venerdì 27 ottobre 2017, alle 20.30, alla Borsa mediterranea del turismo archeologico, nell’area archeologica di Paestum, l’International Archaeological Discovery Award “Khaled al-Asaad” verrà assegnato alla scoperta della città dell’Età del Bronzo nel Kurdistan iracheno da parte di Peter Pfälzner. A pochi giorni dall’inizio della Bmta (26-29 ottobre 2017), prime anticipazioni sull’attesa kermesse che quest’anno festeggia il ventennale con un programma particolarmente ricco di eventi. E tra questi sicuramente da non perdere è l’International Archaeological Discovery Award “Khaled al-Asaad” che insieme ad altri due momenti (l’incontro “#pernondimenticare il Museo del Bardo, 18 marzo 2015” con la partecipazione del direttore Moncef Ben Moussa; “#unite4heritage for Palmyra”, la serie di incontri sulla distruzione del patrimonio culturale e sulla disintegrazione delle identità) dà un senso al fatto che la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico sin dall’inizio sia riconosciuta da Unesco e Unwto quale best practice di dialogo interculturale.
La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico e Archeo, la prima testata archeologica italiana – lo ricordiamo -, hanno inteso dare il giusto tributo alle scoperte archeologiche attraverso un Premio annuale, giunto alla terza edizione, assegnato in collaborazione con le testate internazionali, tradizionali media partner della Borsa: Current Archaeology (Regno Unito), Antike Welt (Germania), Dossiers d’Archéologie (Francia), Archäologie der Schweiz (Svizzera). Il premio, International Archaeological Discovery Award, è stato intitolato a Khaled al-Asaad, direttore dell’area archeologica e del museo di Palmira dal 1963 al 2003, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale, e oggi è l’unico riconoscimento a livello mondiale dedicato al mondo dell’archeologia e in particolare ai suoi protagonisti, gli archeologi, che con sacrificio, dedizione, competenza e ricerca scientifica affrontano quotidianamente il loro compito nella doppia veste di studiosi del passato e di professionisti a servizio del territorio. Nella 1ª edizione (2015) il Premio è stato assegnato a Katerina Peristeri per la Tomba di Amphipolis (Grecia); la 2ª edizione (2016) all’INRAP Institut National de Recherches Archéologiques Préventives (Francia), nella persona del presidente Dominique Garcia, per la scoperta della Tomba celtica di Lavau.
Quest’anno ad assegnare l’International Archaeological Discovery Award “Khaled al-Asaad” a Peter Pfälzner, coordinatore della missione archeologica e direttore del dipartimento di Archeologia del Vicino Oriente dell’IANES (Institute Ancient Near Eastern Studies) dell’Università di Tubinga in Germania, per la scoperta della grande città dell’Età del Bronzo nel nord dell’Iraq situata presso il piccolo villaggio curdo di Bassetki nella regione autonoma del Kurdistan, fondata intorno al 3000 a.C. e la cui storia si è protratta per 1200 anni, interverranno tre ospiti speciali: Waleed, Fayrouz e Omar, cioè i tre figli di Khaled al-Asaad, tutti e tre archeologi. Waleed, ultimo direttore dell’area archeologica e del museo di Palmira, era stato catturato insieme al padre e poi rilasciato dall’Isis nel 2015. Una prigionia di sei lunghi mesi fatta di violenze psicologiche e anche fisiche. Fayrouz, archeologa, vive a Berlino dove sta completando un master all’università in attesa di tornare in patria. Con il padre e con il fratello maggiore Waleed, che ne aveva ereditato il ruolo di direttore del sito, Fayrouz lavorava quotidianamente. Omar, archeologo, era presente con la madre al momento del rapimento del padre.
Egitto, splendore millenario: a Bologna capolavori dal museo di Leiden. Cinquecento reperti che dialogano con i tesori del museo di Bologna. Per la prima volta ricongiunti i rilievi della tomba di Horemheb a 200 anni dalla sua scoperta a Saqqara

Al museo Archeologico di Bologna la mostra “Egitto. Splendore millenario” con i capolavori del museo di Leiden
Sotto le due torri di Bologna rivive lo splendore di una civiltà millenaria e unica che da sempre affascina tutto il mondo: l’Egitto delle Piramidi, dei Faraoni, degli dei potenti e multiformi, ma anche l’Egitto delle scoperte sensazionali, dell’archeologia avvincente, del collezionismo più appassionato, dello studio più rigoroso. Per la prima volta sono esposti l’uno accanto all’altro i capolavori delle collezioni del museo di Leiden e del museo archeologico di Bologna, nella mostra “Egitto. Splendore millenario. Capolavori da Leiden a Bologna” aperta al museo archeologico felsineo fino al 17 luglio 2016, curata da Paola Giovetti, responsabile del museo e Daniela Picchi, curatore della sezione egiziana del museo. Non solo un’esposizione di fortissimo impatto visivo e scientifico, ma anche un’operazione che non ha precedenti nel panorama internazionale. La collezione di antichità egiziane del museo nazionale di Antichità di Leiden in Olanda – una delle prime dieci al mondo – e quella di Bologna – tra le prime in Italia per numero, qualità e stato conservativo – si integrano in un percorso espositivo di circa 1700 metri quadrati di arte e storia. Sono 500 i reperti, dal periodo Predinastico all’epoca romana, giunti dall’Olanda al museo bolognese: opere quali la Stele di Aku (XII-XIII Dinastia, 1976-1648 a.C.), il “maggiordomo della divina offerta” la cui preghiera racconta l’esistenza ultraterrena del defunto in un mondo tripartito tra cielo, terra e oltretomba; gli ori attribuiti al generale Djehuty, che condusse vittoriose le truppe egiziane nel Vicino Oriente per il faraone Thutmose III (1479-1425 a.C.), il grande conquistatore; le statue di Maya, Sovrintendente al tesoro reale di Tutankhamon, e Meryt, cantrice di Amon, (XVIII dinastia, regni di Tutankhamon-Horemheb, 1333-1292 a.C.), massimi capolavori del museo nazionale di Antichità di Leiden, che hanno lasciato per la prima volta l’Olanda; e, tra i numerosi oggetti che testimoniano il raffinatissimo stile di vita degli egiziani più facoltosi, un Manico di specchio (1292 a.C.) dalle sembianze di una eternamente giovane fanciulla che tiene un uccellino in mano. E per la prima volta dopo 200 anni dalla riscoperta a Saqqara della sua tomba, la mostra offre l’occasione unica e irripetibile di vedere ricongiunti i più importanti rilievi di Horemheb, comandante in capo dell’esercito egiziano al tempo di Tutankhamon e poi ultimo sovrano della XVIII dinastia, dal 1319 al 1292 a.C., che Leiden, Bologna e Firenze posseggono. Ma non è tutto: assieme ai capolavori di Leiden e Bologna, la mostra ospita importanti prestiti del museo Egizio di Torino e del museo Archeologico nazionale di Firenze, all’insegna di un network che vede coinvolte le principali realtà museali italiane.
La mostra si articola in sette sezioni e sette temi principali. Tra tutte, il ruolo centrale spetta a quella dedicata alla tomba di Horemheb, generale dell’esercito egiziano, comandante militare al tempo di Tutankhamon e infine faraone che regnò sull’Egitto dal 1319 al 1292 a.C. Ogni tappa fondamentale della carriera di questo grande stratega si lega a una città diversa nella quale egli ogni volta fece costruire la propria sepoltura. La tomba – i cui resti sono confluiti nella collezione di Bologna – è quella della necropoli di Saqqara, nei pressi di Menfi, all’epoca capitale amministrativa del Paese e sede del comando dell’esercito e dell’arsenale militare. La storia della scoperta della tomba è affascinante, quanto le decorazioni parietali che la rendono un monumento eccezionale del Nuovo Regno (che comprende la XVIII, XIX e XX Dinastia e va dal 1552 fino al 1069 a.C.): individuata a Saqqara nell’Ottocento, fu spogliata di numerosi frammenti parietali, ora esposti nei musei di tutto il mondo, incluse Bologna e Leiden che conservano i nuclei più rilevanti sia per quantità, sia per qualità. Quando oramai si erano perse le tracce della sua esistenza, complice la sabbia del deserto che la aveva nuovamente nascosta, la tomba fu riscoperta nel 1975 da una missione archeologica anglo-olandese: fu così che i rilievi, asportati nell’Ottocento e non sempre attribuiti a Horemheb, poterono essere virtualmente ricollocati al loro posto, evidenziando la ricchezza, originalità e raffinatezza artistiche di questa sepoltura. E allora con gli egittologi di Bologna e Leiden iniziamo una “visita guidata” per conoscere più da vicino i tesori esposti in mostra.
Il predinastico e l’Età arcaica – alle origini della storia Il passaggio dalla tradizione orale a quella scritta, dalla preistoria alla storia, rappresenta il momento fondante della civiltà egiziana. La collezione di Leiden è ricchissima di materiali che documentano il ruolo centrale della natura in questa lunga evoluzione culturale e artistica. Molti di questi oggetti, di assoluta modernità stilistica, aprono l’itinerario espositivo, tra cui un vaso decorato con struzzi, colline e acque. La scena raffigurata su questo vaso del Periodo Naqada (dal nome di un sito dell’Alto Egitto e che raggruppa la produzione artistica tra il 3900 e il 3060 a.C.) ci riporta a un Egitto caratterizzato da un paesaggio rigoglioso che i cambiamenti climatici hanno poi trasformato nel tempo. Struzzi, come quelli dipinti in rosso sul contenitore, assieme a elefanti, coccodrilli, rinoceronti e altri animali selvatici erano allora una presenza abituale del territorio nilotico.
L’Antico regno – un modello politico-religioso destinato al successo e le sue fragilità Il periodo storico dell’Antico Regno (dalla III alla VI Dinastia, 2700-2192 a.C.) è noto per le piramidi e per il nascere di una burocrazia che ha al suo vertice un sovrano assoluto, considerato un dio in terra e padrone di tutto l’Egitto. Questo senso dello Stato e le sue regole terrene e ultraterrene, molto elitarie, sono ben documentati negli oggetti provenienti da contesto funerario di cui la collezione olandese è particolarmente ricca, tra cui una tavola per offerte in alabastro. L’offerta al defunto era parte fondamentale del rituale funerario per assicurare una vita oltre la morte. La particolarità di questa tavola appartenuta a un alto funzionario di stato è data dalla forma circolare, insolita, e dal ripetersi del concetto di offerta come indicato dal testo scritto, dal vasellame scolpito in visione zenitale e, soprattutto, dalla raffigurazione centrale che corrisponde al geroglifico hotep (offerta), ovvero una tavola su cui poggia un pane.
Il Medio Regno – il dio Osiride e una nuova prospettiva di vita ultraterrena La fine dell’Antico Regno e il periodo di disgregazione politica che ne segue determinano grandi cambiamenti nella società egiziana, che riconosce al singolo individuo una maggiore responsabilità del proprio destino, anche ultraterreno. Ogni egiziano, in grado di farsi costruire una tomba con adeguato corredo funerario, può ora aspirare a una vita eterna. Il dio Osiride, signore dell’oltretomba, diviene la divinità più popolare del Paese. Dal suo tempio ad Abido, uno dei più importanti luoghi di culto dell’Egitto, provengono molte stele ora a Leiden e a Bologna. Tra cui quella di Aku, il maggiordomo della divina offerta, che la dedica a Min-Hor-Nekhbet, la forma del dio itifallico Min adorata nella città di Abido. La preghiera che Aku rivolge al dio racconta di un’esistenza ultraterrena in un mondo concepito come tripartito: in cielo dove il defunto si trasfigura in stella, in terra dove la sepoltura è luogo fondamentale del passaggio dalla vita alla morte e in oltretomba dove Osiride concede al defunto la vita eterna.
Dal Medio al Nuovo Regno – il controllo del territorio in patria e all’estero La sconfitta degli Hyksos, “i principi dei paesi stranieri” che invadono e governano l’Egitto settentrionale per alcune generazioni, dà origine al Nuovo Regno. Una politica estera molto aggressiva arricchisce il Paese che vive uno dei periodi di maggiore splendore. La classe sociale dei professionisti della guerra si afferma sino al punto da raggiungere il vertice dello stato e dare origine ad alcune dinastie regnanti. La ricchezza e il prestigio di questi militari si concretizzano anche nella produzione di oggetti raffinati, quali gli ori appartenuti a Djehuty, generale del faraone Tuthmosi III. L’arte orafa egiziana ci ha lasciato in eredità gioielli di grande pregio artistico e valore economico, come un elemento di pettorale (o cintura) presente in mostra. Questo monile, attribuito alla tomba del generale Djehuty, l’uomo al quale il sovrano Thutmosi III affidò il controllo delle terre straniere, ne rappresenta un raffinato esempio. Figurato a fiore di loto blu, simbolo di rinascita e rigenerazione, doveva fungere da elemento centrale di un elaborato pettorale o di una cintura cerimoniale a numerosi fili. Il cartiglio inciso sul lato posteriore suggerisce che il gioiello sia stato donato da Thutmosi III in persona.
La necropoli di Saqqara nel Nuovo Regno I musei di Leiden e di Bologna possono essere considerati “gemelli” perché conservano due nuclei importanti di antichità provenienti da Saqqara, una delle necropoli della città di Menfi. Durante il Nuovo Regno questa antica capitale dell’Egitto tornò a essere un centro strategico per la politica espansionistica dei sovrani di XVIII Dinastia. Lo dimostrano le monumentali sepolture degli alti funzionari di stato che vi ricoprirono incarichi amministrativi, religiosi e militari, tra le quali le tombe del Sovrintendente al tesoro reale di Tutankhamon Maya e di sua moglie Meryt, cantrice di Amon, e di Horemheb, comandante in capo dell’esercito e principe ereditario di Tutankhamon. Le statue di Maya e di sua moglie Meryt arrivarono in Olanda nel 1828 con la collezione D’Anastasi. Solo molti anni dopo, nel 1986, una missione archeologica anglo-olandese individuò la tomba di provenienza a sud-est della piramide di Djoser a Saqqara. Queste statue, che rappresentano i massimi capolavori egiziani del museo nazionale di Antichità di Leiden, hanno lasciato per la prima volta il museo olandese per essere esposte in mostra. Quando Egypt Exploration Society di Londra e il museo nazionale di Antichità di Leiden intrapresero gli scavi a sud-est della piramide a gradoni di Djoser nel 1975, l’obiettivo era quello di individuare la tomba di Maya e di Meryt. Grande fu la sorpresa nello scoprire, invece, la sepoltura del generale Horemheb che concluse una strepitosa carriera politica divenendo ultimo sovrano di XVIII Dinastia. La sua tomba, che ha una struttura a tempio, è caratterizzata da un ingresso a pilone, tre grandi corti e tre cappelle di culto che affacciano sulla corte a peristilio più interna. Da quest’ultima proviene gran parte dei rilievi conservati a Leiden e a Bologna, che raccontano le più importanti imprese militari di Horemheb condotte contro Siriani, Libici e Nubiani, le popolazioni confinanti con l’Egitto.
Il Nuovo Regno – il benessere dopo la conquista Arredi raffinati, strumenti musicali, giochi da tavolo, gioielli: sono solo alcuni dei beni di lusso che testimoniano il benessere diffusosi in Egitto a seguito della politica espansionistica dei sovrani del Nuovo Regno. Grazie ai raffinati oggetti è possibile rivivere momenti di vita quotidiana, immaginando di essere all’interno di un palazzo regale o nella dimora di qualche alto funzionario. Come per il manico di specchio in mostra costituito dal corpo aggraziato e sensuale di una fanciulla, che tiene in mano un piccolo uccellino.
L’Egitto del primo millennio L’Egitto del primo millennio a.C. è caratterizzato da una sempre più evidente debolezza del potere centrale a favore dei governatori locali che si attribuiscono il ruolo di dinasti regnanti. La perdita di unità politica e territoriale indebolisce la capacità di difesa dei confini del Paese, che è conquistato a più riprese da Nubiani, Assiri e Persiani. Centri forti di potere rimangono i templi, che gestiscono una parte importante dell’economia e la trasmissione del sapere, svolgendo un ruolo d’intermediazione politica tra potere regnante e popolazione devota. Molti dei capolavori in mostra appartengono a corredi funerari di sacerdoti e provengono da importanti aree templari, tra cui il sarcofago di Peftjauneith che, nell’insieme di cassa e coperchio, riproduce le sembianze del dio Osiride, avvolto in un sudario di lino e con il volto verde che evoca il concetto di rinascita. La raffinata decorazione di questo sarcofago conferma l’alto rango in ambito templare del suo proprietario, sovrintendente ai possedimenti di un tempio del Basso Egitto. La scena interna alla cassa mostra la dea del cielo Nut inghiottire ogni sera (a Occidente) il disco del sole per poi partorirlo ogni mattina (a Oriente). La conquista dell’Egitto da parte di Alessandro Magno nel 332 a.C. chiude la fase “faraonica” della storia egiziana. Con i suoi successori, i Tolemei, ha inizio la dominazione greca del Paese che avrà come ultima sovrana la famosa Cleopatra VII. Il dorato declino del Paese continuerà per molti altri secoli, oltre la conquista romana del 31 a.C. sino alla dominazione araba nel VI secolo dopo l’era volgare. Il dialogo tra antico e nuovo, locale e straniero, che contraddistingue l’epoca greca-romana, permette ancora il raggiungimento di elevati livelli artistici, come testimoniano i celebri ritratti del Fayum, di cui il museo di Leiden conserva pregevoli esemplari presenti in mostra.
L’Antico Egitto a Vittorio Veneto. “Il tempio del faraone Seti I” ad Abido nella mostra di Paolo Renier alla Rotonda

La locandina della mostra “Egitto. Il tempio del faraone Seti I: le sacre rappresentazioni” alla Rotonda di Vittorio Veneto
L’Antico Egitto torna o, meglio, resta nella Marca Trevigiana. Dopo le esperienze di Conegliano (con la mostra a Palazzo Sarcinelli “Egitto, come Faraoni e Sacerdoti nel tempio di Osiride custodi di percorsi ormai inaccessibili”, vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/?s=conegliano) e di Oderzo (con la mostra a Palazzo Foscolo “Omaggio a Tutankhamon. L’Arte Egizia incontra l’Arte Contemporanea”, vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/?s=oderzo ) ora tocca a Vittorio Veneto dove il 25 aprile, alla Rotonda, in piazza Giovanni Paolo I, si inaugura una nuova mostra “Egitto. Il tempio del faraone Seti I: le sacre rappresentazioni”, proposta sempre da Paolo Renier grazie all’invito e alla collaborazione della associazione Zheneda e di Ceneda Arte e Cultura con il patrocinio della Città di Vittorio Veneto. Renier viene così incontro a quanti, con insistenza, avevano chiesto di prorogare l’esperienza coneglianese. Ma attenzione, a Vittorio Veneto non sarà una “copia” di quanto proposto a Palazzo Sarcinelli. Anzi, sarà un allestimento del tutto originale dove, ovviamente, non potrà mancare l’esposizione in scala 1:1 del soffitto astronomico dell’Osireion di Abido (vero unicum che può permettersi di mostrare solo Paolo Renier che lo fotografò dettagliatamente qualche anno fa) e un excursus su Abido, la città sacra dedicata a Osiride il dio dell’Aldilà e della resurrezione. Ma stavolta il focus sarà incentrato tutto sul grande faraone Seti I, il padre di Ramses II, sotto il cui regno l’arte egizia toccò uno dei suoi punti più elevati, un vero “rinascimento”. E capolavoro dei capolavori è proprio il tempio che Seti I realizzò ad Abido e che oggi, come sanno i fortunati che riescono ad arrivare nella città sacra di Osiride, accoglie – quasi abbraccia – gli ospiti con la sua monumentale facciata che in origine doveva misurare 180 metri, e oggi – perdutane una parte – raggiunge gli 80 metri, che sono pur sempre dimensioni ragguardevoli.
Il tempio di Seti I, dedicato a Osiride, noto come “grande tempio di Abido”, scoperto nel 1830, venne eretto per venerare gli antichi sovrani, la cui necropoli si trovava presso le sue mura. Secondo sovrano della XIX dinastia, Sethi I ascese al trono circa 30 anni dopo la caduta del regno di Akhenaton. Il tempio, in finissima pietra calcarea, a forma di L, è uno tra i più belli per lo stato straordinario di conservazione in cui si trova e per i rilievi policromi tra i più belli del Nuovo Regno. Sono proprio questi rilievi (“Le sacre rappresentazioni”, come ricorda il titolo della mostra) oggetto dell’allestimento di Vittorio Veneto, riprodotti come non si possono ammirare da nessun’altra parte grazie alle riproduzioni in scala 1:1 e alle gigantografie di Paolo Renier che qui mostra tutta la sua abilità e sensibilità di fotografo e di appassionato dell’Antico Egitto. Qualità ed esperienze esaltate, all’inizio dell’avventura di Renier ad Abido, dal decano degli egittologi italiani, Sergio Donadoni, uno dei massimi ricercatori del Novecento, che ha da qualche settimana tagliato il traguardo delle cento candeline. Scrisse Donadoni: “L’opera di Renier è frutto ed espressione di uno specifico innamoramento per una specifica località, in confronto con l’aspirazione alla totalità propria degli altri: non l’Egitto in genere, ma Abido è quel che incanta questo osservatore. Un centro che merita una simile dedizione, carico com’è di storia, di significato, di arte. Renier si muove senza altra pretesa se non quella di dirci come il suo occhio si sia compiaciuto di questa o quella visione, di questa o quella possibilità di sfruttarla figurativamente. Se conosce il valore storico dei vari monumenti, delle varie rappresentazioni, non è di quello che ha fatto la sua guida nella sua scelta e nel suo approccio. Alla esigenza del “capire” il passato e l’arte del passato oppone quella, non meno essenziale ed autentica, del sentirlo. Sono due modi diversi e complementari di far valer quello che è la vera caratteristica dell’arte, il suo essere in perpetuo contemporanea di chi se ne appropri il messaggio”.

Paolo Renier con gli organizzatori di Vittorio Veneto davant ai pannelli del Soffitto astronomico della Stanza del Sarcofago
Vediamo un po’ meglio come si articola la mostra di Vittorio Veneto. All’ingresso della mostra il visitatore è accolto da una presentazione generale del sito di Abido con una descrizione dell’area archeologica, poi scendendo una scalinata (proprio come se si entrasse in una tomba) si troverà dentro al tempio del faraone Seti I, padre di Ramses II, così il visitatore potrà ammirare i rilievi delle sacre rappresentazioni dove le straordinarie immagini di Renier esaltano l’arte decorativa dell’Antico Egitto: qui tocca veramente i momenti più alti. Si potrà poi essere accompagnati nel cuore della mostra, entrando nella Stanza del Sarcofago che conserva il famoso Soffitto astronomico: qui l’opera documentaria di Paolo Renier non è solo importante sotto il profilo artistico, ma anche scientifico, permettendo un primo anche se parziale salvataggio del reperto e costituendo una fonte fotografica integrale e a grandezza originale. Le due splendide divinità Nut scolpite nel Soffitto, costituiscono non solo due eccezionali espressioni artistiche del Nuovo Regno, ma anche due preziosi documenti storici di inestimabile valore, un tesoro eccezionale per la storia dell’astronomia e della religione egizia. La mostra si inaugura il 25 aprile alle 18 e sarà poi aperta al pubblico tutti i sabati e domeniche dalle 15 alle 19 fino al mese di luglio, con ingresso gratuito (visite guidate solo su prenotazione mail: info@studiorenierpaolo.it – cell. 333.9628610),
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