Alla scoperta del museo civico “Antonino Di Vita” con gli archeologi dell’VIII rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea: “Alla fine del VI sec. a.C. fu centro indigeno ellenizzato”

L’abitato di Licodia Eubea disteso ai piedi del castello (foto Graziano Tavan)
È domenica. E nel programma dell’VIII rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea (Ct) lo spazio è vuoto. Ma solo apparentemente. Perché la domenica mattina, in attesa del rush finale con le ultime proiezioni del pomeriggio e le premiazioni alla sera (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/10/21/viii-rassegna-del-documentario-e-della-comunicazione-archeologica-nella-serata-finale-un-susseguirsi-di-emozioni-assegnato-il-premio-archeovisiva-per-il-miglior-film-a-pastori-nella-grotta/), è dedicata alle visite guidate. E nel mini-tour alla scoperta dei tesori (non solo archeologici) di Licodia Eubea tappa obbligata è il museo civico “Antonino Di Vita” ospitato in locali comunali in corso Umberto, la strada principale del paese. Qui si conservano i materiali rinvenuti nel territorio licodiano, che ne tracciano le principali fasi: dall’età neolitica, rappresentata dai vasi con i tipici motivi geometrici della facies di Santo Cono -Piano Notaro, ai materiali di importazione greca e di fattura locale, che identificano la facies di Licodia Eubea. Gran parte dei ritrovamenti furono portati alla luce da Paolo Orsi e successivamente da diversi scavi degli anni ’80 e ’90 del Novecento a opera della soprintendenza con l’aiuto dei volontari dell’Archeoclub di Licodia Eubea. Il museo si divide in tre sezioni: la fase più antica dell’insediamento nel territorio; l’abitato arcaico e il centro indigeno ellenizzato; materiali importati insieme a oggetti in ceramica locali “facies di Licodia Eubea”. Ad accompagnarci in questa visita al museo “Di Vita” ci sono Alessandra Cilio, archeologa, direttore artistico della rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea, e l’archeologa Concetta Caruso, presidente Archeoclub d’Italia di Palazzolo Acreide.

L’archeologa Alessandra Cilio, direttore artistico della rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea (foto Graziano Tavan)
È proprio Alessandra Cilio a intervenire sull’origine del nome di Licodia Eubea, toponimo composto da due elementi di origine diversa. “Il paese, chiamato Licodia probabilmente a partire dall’epoca araba (infatti in arabo Al Kudia o Al Kudy Ali vuol dire cerro, ovvero grande masso o l’aspra roccia di Alì, e quindi sarebbe molto attendibile l’ipotesi che il toponimo Licodia derivi da Alcudia, poi trasformato in lingua siciliana in A-Likudya, oggi Licodia), aggiunge la parola Eubea“, spiega, “perché, nel corso dell’Ottocento, alcuni eruditi locali si convincono che il territorio licodiano avesse ospitato la colonia calcidese di Euboia, fondata dalla colonia di Leontini attorno al 650 a.C. menzionata da Tucidide nel VI libro della sua Guerra del Peloponneso. Nel 1870, la città decide di assumere il nome di Licodia Eubea, mantenendolo fino ai giorni nostri. Saranno le scoperte archeologiche condotte a partire dalla fine del XIX secolo a mostrare come il centro non fosse di origine greca, ma siculo”.

Il castello di Santapau domina il centro abitato di Licodia Eubea (foto Graziano Tavan)

L’archeologo roveretano Paolo Orsi “protagonista” fu il primo ad avviare ricerche scientifiche nel territorio di Licodia Eubea
Ad accoglierci all’ingresso c’è l’archeologo per antonomasia della Magna Grecia, Paolo Orsi: fu proprio l’archeologo roveretano che, prima come ispettore (dal 1888) poi come soprintendente alle Antichità di Siracusa, intraprese le prime ricerche scientifiche nel territorio licodiese. “La sua eccellente sensibilità per l’indagine topografica e il rigoroso metodo scientifico di conduzione dello scavo archeologico”, spiegano al museo, “lo portarono a identificare – teoria valida ancora oggi – nella collina del castello di Santapau l’acropoli attorno alla quale si estendeva l’abitato, delimitato a settentrione dalla collina del Calvario da dove iniziava la zona delle necropoli”. Orsi soprattutto “saggiò” alcune tra le più importanti necropoli di Licodia: quelle cosiddette urbane (Calvario, Perriera, Orto della Signora) e quella “suburbana” in contrado Schifazzo, identificando due tipologie sepolcrali: le tombe a pozzetto con fosse e loculi, e le tombe a camera, affiancate da un tipo che Orsi definisce “intermedio” a pozzetto con corridoi. Tutte con il rito dell’inumazione.
Numerosi sono i ritrovamenti che testimoniano la presenza dell’uomo in epoca preistorica, di cui ritroviamo interessanti testimonianze nella prima sala del museo “Antonino Di Vita”. “Il Neolitico – spiega Concetta Caruso – è ben testimoniato dallo studio di Ippolito Cafici sul villaggio S. Cono e dai rinvenimenti di via Capuana (1991), dove sono presenti tracce di capanne, strumenti in selce e ceramica di Stentinello, di Diana ma soprattutto della cultura di Serra d’Alto”. Il periodo è attestato anche in contrada Marineo, dove sono ubicate una serie di grotte, la cui frequentazione va dal Neolitico medio all’età protostorica. “Il II millennio è documentato dai vasi trovati sulla collina del Calvario da P. Orsi e dallo strato preistorico con frammenti appartenenti allo “stile Castellucciano” individuato durante gli scavi condotti in via S. Pietro”.

Ceramica indigena in vetrina al museo civico “Antonino Di Vita” di Licodia Eubea (foto Graziano Tavan)
Tra la fine del VI e l’inizio del V sec. a.C. è attestato il centro indigeno-ellenizzato con ritrovamenti di ceramica della facies di Licodia Eubea insieme a materiale di importazione greca. “Nel 1985 – ricorda Caruso – durante lo scavo delle fondamenta di un edificio in via San Pietro a Licodia Eubea è venuto alla luce un’abitazione articolata su due livelli, per adattarsi alla forte pendenza del terreno, collegati da una scala, con all’aperto un focolare per la cottura degli alimenti”. Recentemente, tra via Capuana e via San Pietro, sempre in occasione di un cantiere edile, è stata trovata una fornace per la produzione di ceramica di piena epoca ellenistica che ha restituito una gran quantità di suppellettile da mensa. Collegato al centro abitato ci sono le necropoli, con corredi funerari che accanto ai vasi greci di importazione (attici, corinzi, orientali) hanno restituito vasi di tipologia indigena come l’anfora, l’hydria, lo scodellone e l’askos. Fu proprio Paolo Orsi a intuire l’esistenza non già di un centro greco ma siculo databile tra il VII e il V sec. a.C. Intuizione confermata da un altro grande archeologo, Luigi Bernabò Brea. “Negli ultimi anni – riprende Caruso – grazie alla collaborazione tra soprintendenza, amministrazione comunale e Archeoclub le ricerche hanno permesso di individuare una necropoli extra moenia con tombe a cameretta del VI sec. a.C. probabilmente riconducibile a un insediamento indigeno extra urbano”.
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