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Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco i primi tre episodi: la Grande Etruria, Ulisse ed Eracle, Caere/Pyrgi e Delfi

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Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024

Il progetto era di pubblicare la serie video contestualmente al periodo di apertura della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma fino al 7 aprile 2024. Poi una serie di imprevisti ha prolungato l’attesa. Ma da qualche settimana è iniziata la pubblicazione on line di “Rasna. Una serie etrusca”, 19 video, lanciati con trailer sulle pagine Facebook e Instagram del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, e in forma integrale sul canale YouTube ufficiale MuseoEtruTv. I video, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, sono lunghi mediamente intorno ai 10 minuti ciascuno. In occasione del Centenario della scoperta di Spina, questo video-racconto per capitoli che parte dalla celebre città portuale nel delta del Po allargando poi lo sguardo dalla pianura padana e dall’Adriatico fino al Tirreno e all’intero Mediterraneo, è un modo per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, anche una parte fondamentale della nostra attuale storia.

Valentino Nizzo direttore del Museo archeologico di Villa Giulia - Roma

Valentino Nizzo, già direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, docente all’università L’Orientale di Napoli (foto etru)

“I video sono stati girati in un pugno di giorni (potrei dire ore) dello scorso mese di ottobre”, ricorda Nizzo, “tra Roma, Pyrgi, Ferrara e Comacchio, nel pieno dell’allestimento della mostra e quando ancora non sapevo che presto l’esperienza di Villa Giulia sarebbe finita. L’intento è stato quello di produrre una serie di contenuti didattici che andassero oltre l’effimera durata dell’esposizione”. Tutti i video sono integralmente sottotitolati in Italiano e in inglese in modo da garantirne la massima accessibilità. “Molte istituzioni e persone hanno contribuito con grande disponibilità alla realizzazione del progetto e sono ricordate alla fine di ciascun video. Mi piace menzionare la mia prima casa, il museo Archeologico nazionale di Ferrara, il museo del Delta antico di Comacchio e lo splendido Parco del Delta, il Comune di Comacchio, il Castello di Santa Severa e il museo del Mare e della Navigazione antica. Oltre al personale tutto del Museo di Villa Giulia (in particolare Anna Tanzarella che ha mantenuto le redini del progetto) e delle altre istituzioni coinvolte, devo ringraziare Tiziano Trocchi, Marco Bruni e Flavio Enei per la loro squisita ospitalità. I video sono stati prodotti dalla Michbold di MIchele Boldi e realizzati con grande competenza e sensibilità artistica da Nicola Nottoli che ha sapientemente valorizzato le riprese effettuate da Maurizio Cinti e una parte dei contenuti elaborati per la mostra. Prezioso e instancabile – conclude Nizzo – è stato il supporto di Alessandra Felletti e Flavia Amato”. E allora iniziamo a guardare “Rasna. Una serie etrusca” con i primi tre episodi.

“1. LA GRANDE ETRURIA”. L’Italia fu un tempo etrusca. Parte da qui il racconto di “Rasna. Una serie etrusca”, la narrazione pensata per incorniciare i grandi temi entro cui si muove la mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”, ultima tappa delle celebrazioni per il Centenario della scoperta di Spina. Quanto era estesa la Grande Etruria? Quale eredità ci resta della cultura etrusca? Dalla Villa di papa Giulio III, Valentino Nizzo, curatore della mostra e già direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, inaugura la serie di 19 approfondimenti tematici che raccontano la storia pre-romana della nostra Penisola, quella in cui si è formata la nostra identità culturale e sociale.

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Mappa dei territori etruschi in Italia (foto etru)

“Prima della dominazione romana, la potenza etrusca si estendeva ampiamente per terra e per mare. I nomi dei due mari, superiore e inferiore, da cui l’Italia è cinta a guisa di un’isola, offrono una testimonianza della loro potenza, perché l’uno le popolazioni italiche chiamarono mare Tosco, nome comune all’intera gente, e l’altro Adriatico dalla colonia etrusca di Adria. I Greci li chiamano pure Tirreno e Adriatico. Si stabilirono tra le terre che si estendono tra entrambi i mari, fondando dapprima dodici città nella regione, tra l’Appennino e il mar Tirreno, e poi mandando al di là dell’Appennino altrettante colonie quante erano le città di origine. Occuparono così tuta la regione al di là del Po, fino alle Alpi, eccettuato l’angolo abitato dai Veneti all’estremità del mare Adriatico. Così Tito Livio nel I sec. a.C. all’epoca di Augusto, testimonia quella che era la Grande Etruria. Quasi tutta l’Italia fu un tempo sotto il dominio degli Etruschi, ricordava Catone nelle Origini, nel II secolo a.C., e Polibio nello stesso periodo ricordava che per conoscere la potenza che un tempo ebbero gli Etruschi, bisogna guardare alle due grandi pianure che essi dominarono; la padana e la campana. Queste testimonianze ci servono a ricordare quello che l’archeologia ha dimostrato da tempo essere una realtà, cioè quanto la presenza degli Etruschi, o come li chiamavano i Greci Tirreni, sia stata pervasiva in tutta la nostra penisola, lasciando un’eredità inestimabile sia dal punto di vista materiale, come attestano gli straordinari capolavori esposti qui nel museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, sia dal punto di vista immateriale, poiché attraverso i romani molto della cultura degli Etruschi è arrivato fino ai nostri giorni. E poi c’è un altro tema immateriale importante: il fascino che gli Etruschi hanno esercitato dal Rinascimento fino all’epoca contemporanea, inducendo in più fasi della nostra storia molti artisti a ispirarsi alla loro arte.

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Villa Giulia a Roma vista da drone (foto etru)

“Negli anni in cui veniva realizzata Villa Giulia, tra il 1550 e il 1555 da papa Giulio III Ciocchi del Monte, originario di Arezzo, venivano alla luce capolavori dell’arte etrusca come la Chimera e la Minerva di Arezzo e l’Arringatore di Perugia, che stupirono per la loro qualità artistica, estetica, e per la presenza di iscrizioni etrusche. Lo stesso vale per Cosimo I de’ Medici che istituì il Granducato di Etruria, nominando se stesso Magnus dux Etruriae. Probabilmente anche Giulio III era orgoglioso del passato etrusco da cui proveniva e di cui era idealmente erede, essendo aretino. Alle mie spalle, nel celebre Ninfeo di Villa Giulia, realizzato dall’Ammannati sotto la supervisione di Vasari e Michelangelo, due fontane descrivono altrettanti fiumi. A sinistra il Tevere, caratterizzato dalla lupa capitolina, indicava la sede dove il pontefice aveva assunto il soglio di San Pietro, e l’altra, l’Arno, caratterizzato da un leone, indicava la sua terra di origine in prossimità del fiume che segna quelli che sono i due confini ideali dell’Etruria propria, l’Arno e il Tevere. Etruria che però, come testimonia Livio, nel passo che ho citato, andava ben oltre. Andava fino alla pianura Padana e, come sappiamo, fino anche a quella campana, fino agli estremi limiti meridionali della Campania, ai confini con l’attuale Calabria, dove poi sarebbe stata fondata Poseidonia e ancor prima era sorta Pontecagnano nell’agro picentino. L’Italia dunque fu un tempo etrusca e la mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto del Mediterraneo” ci consente di approfondire la storia attraverso quello che è il racconto del porto più importante fondato dagli Etruschi sull’Adriatico intorno al 520 a.C.

“Spina, una città che ha vissuto tre, quattro secoli, collocandosi in una posizione strategica alla foce del Po, su quel mare Adriatico che Tito Livio riteneva avesse preso il nome di una colonia etrusca, Adria, che però i Greci come Spina ritenevano una città greca, al punto che veniva ammessa, Spina, come poche altre città quali Cerveteri, in quel santuario delfico che agli occhi dei Greci indicava il luogo dove soltanto la grecità poteva trovare ospitalità. 

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Locandina della mostra “Spina 100. Dal mito alla scoperta” al museo del Delta antico dal 1° giugno al 16 ottobre 2022

“Questo racconto espositivo, iniziato a Comacchio, per il centenario della scoperta di Spina nel 1922, e proseguito poi presso il museo Archeologico nazionale di Ferrara, si conclude qui al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, allargando lo sguardo dalla pianura Padana e da Spina e dall’Adriatico anche al Tirreno e all’intero Mediterraneo. Un modo per raccontare la storia dell’Italia preromana, quella nella quale le identità etniche che ancora oggi caratterizzano le nostre peculiarità regionali hanno cominciato a formarsi. Un modo quindi per capire attraverso gli Etruschi e gli altri popoli con i quali hanno dialogato, in primis i Greci e poi i Romani, un pezzo della nostra attuale storia”.

“Con l’entrata in scena dei Greci il gioco si fa serio e la storia si tinge dei colori del mito”, spiega Valentino Nizzo. “O, almeno, la storia come la intendevano i Greci che si attribuivano attraverso le imprese di Eracle e Ulisse il merito di aver civilizzato un Occidente selvaggio di nome e di fatto, come attesta il mitico fratello di Latino, Agrio il Selvaggio, nato dall’amore fugace di Ulisse con Circe. Ma questo è solo l’inizio…”.

“2. LA SCOPERTA DELL’OCCIDENTE: ULISSE ED ERACLE”. Il secondo episodio di “Rasna. Una serie etrusca” ci descrive il mondo occidentale con gli occhi dei Greci. Un mondo ancora nebuloso, barbaro, che possiamo leggere attraverso la lente di ingrandimento del racconto mitologico. Sono gli episodi delle peregrinazioni di Ulisse e quelli dei viaggi di Eracle per il compimento delle sue celebri fatiche, narrati dalle fonti e cristallizzati nelle raffigurazioni dei vasi, ad offrire lo spunto per raccontare la visione, all’epoca condivisa, del mondo occidentale.

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L’itinerario di Ulisse da Troia a Itaca (foto etru)

“Circe, figlia di Helios, figlio di Hyperion, partorì in unione a Odisseo, paziente, Agrios e Latino perfetto e forte. Telegono generò grazie ad Afrodite d’oro. Essi molto lontani nel recesso delle isole sacre su tutti i Tirreni illustrissimi regnavano”. Esiodo nella Teogonia, alcuni versi finali, descrive quello che è il mondo occidentale. Siamo probabilmente prima della colonizzazione che Omero farà nell’Odissea delle peregrinazioni di Ulisse in Occidente. O almeno siamo in un momento in cui cominciano a definirsi quegli orizzonti occidentali che diventeranno celebri in letteratura grazie all’Odissea di Omero. Il mondo che descrive Esiodo, se appunto può essere riferito alla sua epoca, cioè la fine dell’VIII secolo a.C., quel brano è il primo momento dei contatti tra il mondo greco e quello occidentale. È un mondo ancora nebuloso, in cui si può dire che Latino e Agrios, il selvaggio, figli di Circe e Ulisse, regnano sui Tirreni nelle isole sacre dell’estremo Occidente. C’era quindi una fusione tra il mondo latino, quello tirrenico. Almeno questo è il modo in cui i Greci interpretavano popoli che vivevano molto lontani. Alcuni ritengono questo brano un po’ più recente e lo spostano al 600 a.C., ma questi sono dettagli di un mondo nel quale si comincia a ragionare su la discendenza, le parentele, quelle relazioni genetiche che agli occhi dei Greci erano fondamentali per intessere rapporti politici, commerciali ed economici.

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Vaso per attingere l’acqua con Ulisse che acceca Polifemo, proveniente dalla necropoli della Banditaccia di Cerveteri, e conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)

“Un altro aspetto che era fondamentale agli occhi dei Greci era la civilizzazione di un Occidente che era di loro grande interesse economico, ma che appariva barbaro, barbaro come un ciclope poteva apparire: un essere mostruoso da un occhio solo in quell’isola, sacra volendo, come l’Eea di Circe, che la Sicilia, dove viveva in una grotta, non aveva mai conosciuto Polifemo il piacere del vino, e Ulisse, imprigionato nella grotta, glielo farà conoscere, e questo è l’espediente che lo renderà celebre per la sua intelligenza, offrendogli del vino e inducendolo a bere, farà sì che Polifemo rimarrà ebbro, ubriaco, perché non sapeva che il vino dovesse essere bevuto, come facevano i greci, allungato con l’acqua. Il gigante, ebbro, addormentato, fa in tempo poco prima a dire a Ulisse che lo mangerà per ultimo come premio. Ma Ulisse aveva già previsto tutto: con un palo arroventato acceca il suo unico occhio, ma lo lascia vivo in modo che nei giorni seguenti, facendo uscire le pecore dalla grotta, possa dare a Ulisse e ai suoi compagni superstiti l’espediente per scappare. Aggrappati, nascosti sotto le pecore, come si vede nella pisside dalla Tomba della Pania (Chiusi). Questo vaso, quindi, rappresenta quell’idea di civiltà attraverso il vino che è un elemento che ricorre in tutti i miti dei Greci in rapporto con questo mondo occidentale da civilizzare.

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Collezione Castellani: vaso con le fatiche di Ercole conservato al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)

“Ma non è solo Ulisse l’esploratore dell’Occidente, i cui figli diventano addirittura i fondatori di città importanti. Telegono si dice avesse fondato Cerveteri, e altri eroi discendenti più o meno diretti di Ulisse furono fondatori di città in Italia. Un altro eroe civilizzatore, il semidio per eccellenza, è Eracle. In alcune sue imprese aveva attraversato l’Occidente e l’aveva civilizzato. Nella più famosa, quella contro Gerione, il mostro tricorpore e tricefalo, lo aveva portato verso quelle colonne d’Eracle che segnavano il limite estremo d’Occidente: in Spagna, dove oggi è Gibilterra e non lontano Cadice. Lì viene mandato per rapire le mandrie di Gerione e sconfiggere questo essere, sì mostruoso, ma eroico quanto lui. Qui lo si vede in due vasi databili tra il 560 a.C. e il 520. C’è una generazione che li distanzia. C’è un’evoluzione stilistica. Qui Eracle combatte con l’arco, qui combatte con la tradizionale clava. In entrambi i casi si vede l’inizio del soccombere di Gerione, colpito in un occhio da una freccia qui, colpito dalla clava in quest’altro vaso. Eracle poi porterà con sé le mandrie attraverso la nostra penisola. Il primo a descrivere in modo completo questi miti è Stesicoro, un poeta di Imera, un poeta lirico di cui si conservano molti frammenti ma la cui importanza era maggiore di quanto oggi noi immaginiamo, soprattutto in un Occidente indigeno che conosceva molto bene i miti dei greci e li utilizzava anche per i propri scopi. Stesicoro descriveva la Gerioneide e descriveva evidentemente il passaggio di Eracle in Italia lungo la nostra penisola, prima tra i Liguri e poi nell’Etruria. Probabilmente già nella Gerioneide si descrive anche il passaggio di Eracle nel territorio di Cerveteri, dove avrebbe fatto scaturire delle sorgenti d’acqua, perché questa è una delle caratteristiche ricorrenti nel mito di Eracle in Occidente. Proprio dalle parti di Pyrgi, tra Pyrgi e Cerveteri. E poi a Roma, altri miti collocavano appunto l’impresa di Eracle, che portò alla fondazione del suo culto presso l’ara massima. Descritto da Virgilio nell’Eneide il suo incontro appunto con l’essere mostruoso Caco, che viveva in una grotta ai piedi dell’Aventino. Eracle, in un’altra fatica, l’undicesima rispetto alla decima di Gerione, doveva di nuovo tornare in Occidente per recuperare i pomi delle Esperidi. Il mito è controverso. Ricordiamo che un altro autore greco, Pisandro, è quello che ha codificato le dodici fatiche di Eracle facendocele conoscere come oggi sono celebri. Ma ci fu un lungo lavorio per codificarle. L’undicesima fatica infatti ha delle varianti. Una di queste dice che prima di arrivare presso le Esperidi, collocate nell’Africa settentrionale dove Atlante reggeva sul proprio capo la volta celeste, si sarebbe fermato in un luogo emblematico per l’Occidente greco: le foci del Po, dove avrebbe dovuto affrontare un essere mostruoso che, come tutte le divinità connesse all’acqua, aveva la caratteristica di modificarsi, di avere delle repentine metamorfosi. Qui in questa anforetta è raffigurato Triton, ma potrebbe trattarsi di Nereo, e quel Nereo che diciamo costituisce una tappa mostruosa lungo il percorso di civilizzazione di Eracle verso i pomi delle Esperidi. Eracle però era venerato, ammirato agli occhi soprattutto del mondo aristocratico di VI secolo, perché era il dio, l’uomo che era riuscito a diventare dio, superando le dodici fatiche e aiutando gli dei dell’Olimpo contro i giganti nello scontro avvenuto nella piana di Flegra, i Campi Flegrei. Così come venne localizzato in una seconda fase dello sviluppo del suo mito.

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Hydria Ricci (530 a.C.), scoperta nella necropoli della Banditaccia a Cerveteri, e conservata al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia: dettaglio con il rito di sacrificio nei confronti di una divinità, probabilmente Dioniso (foto etru)

“E qui vediamo invece nell’Hydria Ricci, uno dei vasi più belli tra quelli prodotti da maestranze della Grecia ionica in Etruria, il premio ricevuto da Eracle: l’eterna giovinezza e l’eterna vita tra gli dei dell’Olimpo. Qui lo si vede mentre sale sul carro trionfale guidato dalla sua sposa per l’eternità. Ebe, l’incarnazione della giovinezza, lo sta letteralmente portando tra gli dei dell’Olimpo come premio per le sue fatiche, lui che in terra non aveva avuto una fine gloriosa. E in questo stesso vaso, si chiude il cerchio con quello che abbiamo visto rappresentato nel mito di Polifemo, una straordinaria scena che mostra come i Greci ritenevano dovessero essere compiuti i rituali di offerta delle carni e del vino. Vi è un Dioniso, o un sacerdote, che indica un poderoso grappolo d’uva e tutta una serie di adepti al culto che stanno preparando le carni per il sacrificio. Saper bere vino, saper sacrificare, erano agli occhi dei Greci degli elementi fondamentali di civiltà. Gli Etruschi li avevano recepiti, erano idealmente ancor più greci dei Greci nella loro vita quotidiana. E lo affermano in un vaso prodotto da greci, ma per le loro esigenze, nel quale probabilmente una delle possibili interpretazioni in questa scena di sacrificio è coinvolto anche Icario o Malleus, uno dei pirati Tirreni che avevano rapito Dioniso. Ma è anche quello che lo aveva riconosciuto nel famoso mito della trasformazione dei pirati Tirreni in delfini. E colui il quale Dioniso decide di salvare e colui al quale probabilmente Dioniso insegna tutta quella sapienza che renderà gli Etruschi meritevoli di avere thesauroi a Delfi e di dialogare alla pari con i Greci”.

“L’etnocentrismo, anzi, potremmo forse dire impropriamente attualizzando, lo “snobismo” dei Greci è un dato ben noto che non si preoccuparono mai di nascondere più di tanto”, spiega Valentino Nizzo. “Eppure, nonostante questo e l’inevitabile conflittualità che spesso caratterizzò i loro rapporti, fecero alcune rare eccezioni, proprio con gli Etruschi di Cerveteri e con quelli di Spina. Tanto straordinarie quanto significative se si riflette con attenzione sulla documentazione disponibile, seppure tormentata dallo stato lacunoso e frammentario che la caratterizza. Perché Pyrgi venne definita da Servio metropolis degli Etruschi? Quale ruolo ebbero i thesauroi etruschi a Delfi? In che modo questi temi si intrecciano col più ampio dibattito sull’origine degli Etruschi? Questo ed altro potete trovarlo nel terzo episodio”.

“3. CAERE/PYRGI. LA METROPOLIS DEGLI ETRUSCHI E DELFI”. Siamo giunti alla terza puntata di “Rasna. Una serie etrusca” ed entriamo nel vivo dei rapporti fra Greci ed Etruschi. Al centro troviamo la dibattuta questione sull’origine degli Etruschi con tesi diversificate e complesse sulle quali si è andata costruendo la tradizione di questo popolo, a metà tra narrazione del mito e trasmissione della storia condivisa. I Greci hanno certamente contribuito alla costruzione dell’immagine degli Etruschi: da barbari pirati a popolo degno di essere ammesso al santuario di Delfi. Di queste e altre storie ci racconta Valentino Nizzo direttamente dal museo Archeologico nazionale di Ferrara. Il viaggio verso la conoscenza del mondo etrusco è cominciato e ci porterà nel cuore del Mediterraneo dove le relazioni commerciali e culturali ne hanno decretato fama e grandezza.

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Ipotesi di ricostruzione dell’area santuariale di Pyrgi con i templi A e B (foto sabap vt)

“Il più importante commentatore antico dell’Eneide, Servio, nello spiegare un passaggio di Virgilio “Pyrgi Veteres”, aggiunge una frase molto interessante sulla quale si è soffermata la critica. “Questa fortezza fu nobilissima al tempo in cui gli Etruschi esercitavano la pirateria. Infatti fu la loro metropoli. L’uso della parola metropoli non è mai fatto a caso nel mondo antico: indica la città madre, il punto di origine di un intero popolo. Quindi questa affermazione collega direttamente Pyrgi, il santuario portuale di Cerveteri, con le tradizioni sulle origini degli Etruschi che sappiamo sono molto diversificate. Giovanni Colonna ha spiegato l’uso del termine collegandolo a due possibili versioni di questa tradizione. La prima è quella di ascendenza erodotea che ricollegava l’origine degli Etruschi alla Lidia e alla loro emigrazione forzata in seguito a una carestia, verso Occidente. Tuttavia Erodoto li faceva approdare nel paese degli Umbri, quindi sull’Adriatico, dove sorgeva già al suo tempo la città di Spina. Alla fine del V secolo e nel corso del IV, però, questa tradizione viene spostata dall’Adriatico al Tirreno: il punto di approdo dei profughi Tirreni dalla Lidia diventa appunto la spiaggia di Cerveteri. Questa è una sorta di occidentalizzazione del mito originario, della provenienza orientale degli Etruschi, che pone l’accento su una città particolarmente rilevante, non solo a quel tempo o anche prima, ma agli occhi dei Siracusani che potrebbero aver elaborato questa versione, Pyrgi e Cerveteri risultavano senza dubbio importanti. E questa tradizione continuava dicendo che questo Tirreni, approdati nelle spiagge di Cerveteri, avrebbero poi conquistato Cerveteri, che si chiamava Agilla ed era stata precedentemente fondata dai Pelasgi. In questo modo la tradizione si collegava con la versione di Ellanico, quella delle migrazioni, questa volta dei Pelasgi: dalla Grecia, prima a Spina, poi nel centro Italia a Cortona, chiamata Croton erroneamente, e poi la loro irradiazione nell’Etruria propria.

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Il santuario di Apollo a Delfi in Grecia (foto graziano tavan)

“C’è un’altra però versione del mito un po’ più complessa, che dà agli Etruschi un’origine autoctona, dice che sono originari della nostra penisola e il luogo di origine sarebbe proprio l’area di Cerveteri. Anche se forse, questa è la tesi di Colonna, sarebbero arrivati lì dalla Sardegna, ma il discorso è lungo e complesso. A noi interessa evidenziare un aspetto importante della costruzione delle tradizioni, legato all’importanza che agli occhi dei Greci gli Etruschi assumono all’indomani della battaglia di Aleria, nel mare sardo, quando compiono un atto indegno di un popolo civile, quello della lapidazione dei prigionieri focei superstiti alla sconfitta che gli Etruschi avrebbero subito di fronte ad Aleria, in Corsica. Nel luogo dove vennero lapidati, Erodoto infatti dice che più tardi tutti gli esseri che passavano per quel luogo in cui giacevano i Focei divenivano storpi monchi e invalidi. Ugualmente le greggi, gli animali da tiro e gli uomini. Gli Agilei allora mandarono a interrogare l’oracolo di Delfi volendo riparare il fallo, e la Pizia ordinò loro di far compiere quelle cerimonie che gli Agilei compiono ancora oggi. Essi infatti offrono sacrifici funebri grandiosi e celebrano in onore dei morti un agone ginnico ed equestre. Nascono quindi in seguito a questo atto indegno dei giochi, dei sacrifici, evidentemente in onore di divinità che sono probabilmente le stesse collegate a quell’Apollo che aveva espresso il suo parere. Infatti noi sappiamo che anche in un settore del santuario di Pyrgi era venerato un Apollo con funzione oracolare, anche se era un Apollo etrusco, Suri, un Apollo infero, legato anche all’idea che il sole tramonta proprio in quel mare, sul quale Pyrgi si affaccia. Il santuario di Delfi era certamente il santuario più importante della Grecia. Era il luogo dove si andava a consultare la divinità per tramite della Pizia, prima di imprese come la fondazione di una colonia. Lo sappiamo fin dalla fine dell’VIII secolo e questo faceva sì che i sacerdoti di Delfi esercitassero un’influenza molto importante, alla quale corrispondevano anche doni e decime rilevanti. Tuttavia non si andava soltanto a consultare Apollo per la fondazione di città, ma anche in seguito ad atti negativi come la lapidazione dei Focei o, la tradizione ci ricorda e lo mostra uno splendido vaso di Spina da Valle Pega, anche Oreste, dopo l’uccisione di Clitennestra, sua madre, andò a consultare l’oracolo di Delfi per conoscere il modo in cui poteva espiare quel terribile peccato.

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Cratere a volute attico a figure rosse della Tomba 57C di Valle Pega, conservato nel museo Archeologico nazionale di Ferrara, attribuito al Pittore di Kleophon, 430 a.C.. Nel registro superiore: sacrificio in onore di Apollo. Nel registro inferiore: danza orgiastica di satiri e menadi forniti di tirso e fiaccole e alcune con nebrls (foto drm-er)

“Qui vediamo in un altro monumentale cratere da Valle Pega, la scena di una processione, la consacrazione di un toro offerto ad Apollo che attende, seduto idealmente all’interno del tempio, cinto da due grandi tripodi. Il tripode era l’oggetto più caratteristico del santuario di Delfi, e ai piedi di uno di questi tripodi scorgiamo una pietra rotonda che potrebbe essere il celebre omphalos, l’ombelico che “apriva” una porta verso la terra dalla quale uscivano i vapori che consentivano alla Pizia di entrare in contatto con la divinità. Questi due vasi quindi ci mostrano uno scenario fatto di rituali, fatto di dialoghi con la divinità. Ci consentono di entrare nei luoghi più sacri della grecità. E il fatto che un popolo che per una parte della loro storia i Greci considerarono barbaro, fatto di pirati senza scrupoli, sia ammesso a consultare la Pizia e per suo tramite Apollo, indica l’assoluta rilevanza che agli occhi dei Greci avevano almeno a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. gli Etruschi, grazie al pagamento di cospicue decime dovute anche alle ricchezze che accumulavano con il commercio e forse anche con la pirateria. Gli Etruschi, infatti, si erano potuti comprare uno spazio sacro, un thesauròs a Delfi, nel quale offrire le proprie le proprie decime alla divinità e avere una sorta di precedenza nella consultazione di Apollo. Un onore unico tra i cosiddetti barbari che ebbero città come Cerveteri, e poi anche Spina. E questo la dice lunga quindi dei rapporti tra i Greci e i Tirreni, della loro evoluzione e del significato che questi popoli e queste città dovettero avere agli occhi dei Greci, al punto da indurli a riflettere sulle loro origini e sul perché, in epoche evidentemente anche molto lontane e precoci, tutto ciò era stato possibile. E questi vasi ci offrono uno squarcio di quel mondo greco. Sono vasi prodotti ad Atene che raccontano di una Grecia che per gli Etruschi evidentemente era molto vicina, al punto da volerli con sé nelle loro tombe e ancor prima nelle loro case”.

Baia. Al Castello presentazione del libro “Il ramo d’oro. Un giallo delle origini” di Jean-Noël Schifano nell’ambito della mostra “Alla ricerca del Ramo d’oro – Immaginaria 2023” a cura del collettivo Opus continuum con il parco archeologico dei Campi Flegrei

baia_castello_immaginaria_libro-il-ramo-d-oro-un-giallo-delle-origini_presentazione_locandina“Ricorda Enea, non prima è concesso scendere sotto la terra che si sia colto dall’albero l’auricomo ramo. Questo dono a lei sacro Proserpina bella fissò che le si porti…” Con queste parole la Sibilla cumana esorta l’eroe troiano a cercare nel bosco sacro la chiave d’accesso al mondo infero. Ma cos’è il ramo d’oro, qual è la sua vera natura? Virgilio ci ha lasciato in eredità un enigma da sciogliere. La posta in gioco è alta, spaventosa, forse bizzarra, ma sicuramente necessaria e Jean-Noël Schifano ha raccolto la sfida. Con il suo nuovo libro “Il ramo d’oro. Un giallo delle origini” (ed. Colonnese), il primo scritto direttamente in Italiano, la lingua del padre, Schifano ci accompagna in un appassionante viaggio nelle terre ardenti fino all’estremo limite delle acque avernali, lì dove ci ricorda l’autore è racchiusa, come in una lacrima, tutta la cultura occidentale. Sabato 13 maggio 2023, alle 11, nella suggestiva cornice del Castello di Baia, Schifano dialogherà con l’architetto e scrittore Francesco Escalona, ospite della rassegna “Immaginaria 2023. Alla ricerca del ramo d’oro”, accolto da Selene Salvi del collettivo “Opus Continuum” e dal direttore del parco archeologico dei Campi Flegrei, Fabio Pagano. È questo il quarto appuntamento del ciclo di conferenze organizzate nell’ambito della mostra “IMMAGINARIA 2023 – Alla ricerca del ramo d’oro” a cura del collettivo Opus continuum in collaborazione con il parco archeologico dei Campi Flegrei. Ingresso gratuito.

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Copertina del libro “Il ramo d’oro. Un giallo delle origini” di Jean-Noël Schifano

Il ramo d’oro. Un giallo delle origini (pagg. 72, euro 8) è l’ultimo scritto di Jean-Noël Schifano, che ha arricchito la storica ed elegante collana “Lo Specchio di Silvia” delle edizioni Colonnese, guidate da Francesca Mazzei, che sarà accanto all’autore nei due incontri di presentazione. Virgilio, il grande poeta che amò e fu amato da Napoli, dove si trova la sua tomba, aveva nel suo nome – Publius Vergilius Maro – l’anagramma del “ramo” (Maro-Ramo). Quel ramo che per duemila anni gli studiosi hanno creduto fosse un “ramo di vischio”; le cui foglie crepitavano, leggere, al vento, e dal quale Enea estirpava il ramoscello troppo lento a venire. Parte da questa intuizione, l’appassionato e “ardente” excursus di Schifano sulla storia, la poesia, la letteratura dell’antica terra dei Campi Flegrei, con la scoperta dell’intimo saluto, del pensiero alle origini e all’infanzia che il grande Virgilio volle lasciare tra le righe delle sue opere immortali, sul ciglio dell’Averno.

Jean-Noël Schifano

Lo scrittore Jean-Noël Schifano

Jean-Noël Schifano è autore di una quindicina di libri ispirati dalla civiltà napoletana, tra cui “Il gallo di Renato Caccioppoli”, “Anna Amorosi” e il classico “Cronache napoletane”, editi in Italia da Colonnese. Cittadino onorario di Napoli, dove ha diretto l’Institut Français, è editore presso Gallimard e traduttore di Elsa Morante, Umberto Eco, Alberto Savinio, Italo Svevo, Leonardo Sciascia. Con le sue traduzioni ha fatto conoscere in Francia Anna Maria Ortese, Fabrizia Ramondino, Elena Ferrante. Per Colonnese ha pubblicato inoltre “Il vento nero non vede dove va” e “Amara o Le Opere Pie della Misericordia Corporale”.

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Panoramica del Castello di Baia, sede del museo Archeologico nazionale dei Campi Flegrei (foto pa-fleg)

“Alla ricerca del Ramo d’oro – Immaginaria 2023”, mostra a cura del collettivo di artisti Opus Continuum, è visitabile al museo Archeologico dei Campi Flegrei nel Castello di Baia fino al 21 maggio 2023. Le mostre organizzate dal collettivo di artisti figurativi Opus Continuum si sono sempre distinte per le tematiche legate ai miti e alle leggende del territorio, dove il mito non è semplice rievocazione antiquaria, ma lente per leggere eventi e situazioni della nostra vita e del nostro tempo. Dopo il sepolcro della Sirena Parthenope è affrontato un altro enigma: che cos’è il ramo d’oro, qual è la sua vera natura? Anche su questo tema che riguarda il territorio si è scritto e continua a scrivere tantissimo. Con quel ramo (di vischio, mirto, oppure una spiga di grano come suggerì Giambattista Vico?), dono da fare alla bella Proserpina, Enea discese da vivo agli inferi per scoprire il suo destino. Il mito, o per meglio dire una delle sue tante varianti, racconta che l’ingresso all’Ade sia proprio nei Campi Flegrei. Lì la Sibilla, dalla sua esecrabile dimora, affidava al vento e alle foglie i suoi responsi. Così come è stato per il mitico sepolcro della nostra Sirena, nei secoli schiere di eruditi (ed in seguito di archeologi) hanno letteralmente setacciato l’intero territorio alla ricerca di una grotta, una cavità primordiale che potesse in qualche modo rappresentare quel passaggio agevole tra il “sopra” e “sotto”. Quante cavità artificiali nei Campi Flegrei sono state identificate come sede della Sibilla o come ingresso all’Ade? Ed ecco un esempio della potenza del mito che per alcuni diviene realtà, storia. Gli artisti del collettivo partenopeo, come l’eroe troiano, hanno affrontato quel terribile ed affascinate viaggio. Hanno cercato tra il folto degli alberi il proprio ramo, chiave di accesso al loro personale “sottosuolo”.  Questi gli Artisti espositori del collettivo: Sergio Coppola, Renato Criscuolo, Ludovico della Rocca, Fulvio De Marinis, Michele Di Lillo, Loris Lombardo, Carlo Alberto Palumbo, Selene Salvi.

Napoli. Nel giorno del 700mo anniversario dalla morte di Dante il museo Archeologico nazionale presenta la mostra “Divina Archeologia. Mitologia e storia della Divina Commedia nelle Collezioni del Mann”: 56 reperti, in gran parte inediti; due sezioni espositive, tra mito e storia. Progetto di valorizzazione con un podcast dedicato

Locandina della mostra “Divina Archeologia. Mitologia e storia della Divina Commedia nelle Collezioni del Mann” al museo Archeologico nazionale di Napoli dal 29 ottobre 2021 al 10 gennaio 2022

Lo scorso marzo, in occasione del Dantedì 2021 e delle celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Alighieri, il museo Archeologico nazionale di Napoli aveva presentato in anteprima digitale, su Facebook ed Instagram, alcune opere dell’esposizione dedicata a “Divina Archeologia. Mitologia e storia della Divina Commedia nelle Collezioni del Mann” (vedi Napoli. In occasione del Dantedì 2021 il museo Archeologico nazionale presenta on line della mostra “Divina Archeologia” (dal 14 settembre), mitologia e storia della Divina Commedia nelle collezioni del Mann. Giulierini: “Racconteremo Dante e il mondo classico. E anche il rapporto del nostro territorio con Virgilio e l’immaginario del Sommo Poeta” | archeologiavocidalpassato). “Annunciamo nel DanteDì  la data simbolica scelta  per l’inaugurazione della mostra, il 14 settembre 2021”, aveva spiegato il direttore Paolo Giulierini. Il 14 settembre 2021 la mostra “Divina Archeologia. Mitologia e storia della Commedia di Dante nelle collezioni del MANN” non apre (sarà in programma al museo Archeologico nazionale di Napoli dal 29 ottobre 2021 al 10 gennaio 2022: 56 reperti, di cui 40 selezionati dai depositi, manufatti in gran parte poco conosciuti al pubblico o inediti).  Ma in questa data emblematica, il direttore Paolo Giulierini traccia le linee guida dell’esposizione: “Perché Dante al museo Archeologico nazionale di Napoli?  Divina archeologia, che abbiamo voluto annunciare proprio in occasione del 14 settembre, data della morte del Sommo Poeta 700 anni fa, vuole essere un cammino dantesco originale e pieno di scoperte.

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L’affresco da Ercolano con Achille e il centauro Chirone, conservato al Mann (foto Giorgio Albano)

Dante, che fu a Napoli due volte come ambasciatore presso Carlo II d’Angiò, nella Commedia come in altre sue opere ci parla infatti di argomenti e personaggi  rappresentati  negli straordinari reperti del nostro Museo.  Da creature fantastiche, come Cerbero, Medusa, Eracle, Diomede, Ulisse, Teseo, Minosse, il Minotauro, le Arpie,  a personaggi storici, a partire da Virgilio, Cesare, Costantino, Traiano.  E su una volta del museo c’è anche lui, Dante. Tanti sono poi gli spunti per itinerari dedicati, a Napoli e in Campania, dalla tomba di Virgilio, ai Campi Flegrei, fino alla vicina piazza Dante, dalla facciata del duomo alla Biblioteca nazionale di Napoli che custodisce uno dei primi manoscritti della Commedia. La nostra narrazione è arricchita anche da  una serie di podcast che ci condurranno con i loro protagonisti all’interno e all’esterno del Mann”.

Monete conservate al Mann ed esposte nella mostra “Divina Archeologia” (foto mann)

napoli_unina_illuminated-dante-project_logoLa mostra, realizzata con il contributo della Regione Campania, si avvarrà della consulenza scientifica del dipartimento di Studi umanistici dell’università di Napoli “Federico II”, in particolare con il professore Gennaro Ferrante, responsabile scientifico dell’Illuminated Dante Project, e delle collaboratrici Fara Autiero e Serena Picarelli. Al team della “Federico II” sono affidate l’analisi e la scelta delle immagini tratte dai manoscritti medievali della Commedia: queste miniature saranno parte integrante del percorso espositivo, instaurando così un dialogo suggestivo tra il reperto classico ed il mondo al tempo di Dante.  Alighieri ed i suoi contemporanei, infatti, studiavano la classicità quasi esclusivamente grazie alle fonti letterarie e, per questo, l’esposizione creerà una saldatura ideale tra espressioni culturali diverse (vasi, statue, affreschi, monete) che hanno “tradotto”, con il proprio linguaggio, la fortuna millenaria della tradizione mitologica.

Vasi, recuperati dai depositi del Mann, con raffigurati miti ripresi da Dante (foto mann)

L’esposizione, che potremo ammirare nelle sale degli affreschi del Mann, sarà articolata in due sezioni: “I racconti del mito” e “I personaggi del mito e della storia”. Nella prima parte dell’allestimento, a cura di Valentina Cosentino (segreteria scientifica del museo), saranno illustrati cinque miti, legati a cinque personaggi significativi del poema dantesco: Achille, Teseo, Ercole, Enea, Ulisse. La seconda sezione sarà immaginata come una galleria di ritratti dei personaggi reali o fantastici che Dante incontra nel suo viaggio ultraterreno: quattro le “categorie” narrate, con mostri, dei, figure storiche, scrittori.

La presunta tomba di Virgilio a Piedigrotta (Napoli)
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La giornalista e scrittrice Cinzia Dal Maso

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Il regista Andrea W. Castellanza

Un allestimento e non solo: il 14 settembre, su Spreaker e sulla pagina Facebook del Mann, viene lanciata la prima delle sei puntate della serie “Divina Archeologia podcast”, promossa dal museo Archeologico nazionale di Napoli e realizzata da Archeostorie e NW.Factory.media. Per questo podcast introduttivo, dedicato a Virgilio, ecco un suggestivo viaggio dal presunto sepolcro del poeta a Piedigrotta, giungendo al Lago D’Averno, a Castel dell’Ovo ed, infine, in un ricongiungimento ideale, alle sale del nostro Istituto: musica e parole in un percorso che si svilupperà in altri cinque racconti, diffusi sulle piattaforme podcast e sui canali del Mann, a partire dall’inaugurazione della mostra. Sei puntate, dunque, che raccontano Dante guardandolo da lontano, dal punto di vista di quegli antichi che lui ha usato come metafore di umani vizi e virtù. Ogni puntata è un filo teso tra le epoche per cogliere continuità, connessioni, diversità, stravolgimenti. I brevi testi evocativi di Cinzia Dal Maso e Andrea W. Castellanza, interpretati da attori di vaglia, sono inseriti in un ambiente sonoro che, ideato e realizzato da Erica Magarelli e Francesco Sergnese con la regia di Paolo Righi, è esso stesso racconto. Il risultato è un vero e proprio “podcast narrativo” dove tutto, parole suoni e musiche, concorre armonicamente allo svolgersi del racconto. Divina Archeologia Podcast si ascolta sul sito web del Mann (www.mannapoli.it) e su tutte le piattaforme podcast.

Napoli. In occasione del Dantedì 2021 il museo Archeologico nazionale presenta on line della mostra “Divina Archeologia” (dal 14 settembre), mitologia e storia della Divina Commedia nelle collezioni del Mann. Giulierini: “Racconteremo Dante e il mondo classico. E anche il rapporto del nostro territorio con Virgilio e l’immaginario del Sommo Poeta”

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Il direttore del Mann, Paolo Giulierini (foto Graziano Tavan)

#Divinarcheologia: con questo hashtag, in occasione del Dantedì 2021 e delle celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Alighieri, il museo Archeologico nazionale di Napoli presenterà in anteprima digitale, su Facebook ed Instagram, alcune opere dell’esposizione dedicata a “Mitologia e storia della Divina Commedia nelle Collezioni del Mann”. La mostra “Divina Archeologia”, realizzata con il contributo della Regione Campania, aprirà il 14 settembre 2021 e resterà in calendario sino a marzo 2022. ”Annunciamo nel DanteDì  la data simbolica scelta  per l’inaugurazione della mostra, il 14 settembre”, spiega Paolo Giulierini, direttore del Mann. “Come è noto, Dante morì a Ravenna  il 14 settembre 1321, e una collaborazione importante è stata attivata con il Classis Ravenna- Museo della città e del territorio. Tanti sono i miti, gli eroi, i  personaggi della storia antica che si incontrano nella Divina Commedia, e il Mann è una miniera di riferimenti iconografici. Pochi sanno che un’immagine di Dante con veste purpurea e corona d’alloro campeggia su una volta del nostro Museo, opera ottocentesca dell’artista Paolo Vetri.  Divina Archeologia sarà anche l’occasione per celebrare il legame fortissimo  tra Virgilio e Napoli, dove si trova la sua tomba: prima di San Gennaro il poeta latino era considerato un ‘protettore’ della città e un mago, come testimonia il celebre mito dell’uovo di Virgilio. Un percorso che ci porterà con una serie di podcast dedicati, anche fuori dal Mann, fino al lago d’Averno e non solo. E  inviteremo istituti e docenti a tenere lezioni  su Dante nelle nostra sale e nell’auditorium”. 

Diomede, scultura marmorea proveniente da Cuma e conservata al Mann (foto Luigi Spina)

L’anteprima digitale della mostra partirà giovedì 25 marzo 2021, alle 8.30: scelta come simbolo della campagna la statua marmorea di Diomede, proveniente da Cuma e “immortalata” in uno splendido scatto di Luigi Spina. L’eroe greco fu fido compagno di Ulisse nel furto del Palladio: anche per questa impresa, in cui mostrò coraggio e, al contempo, grande capacità di ordine inganni, è collocato con Ulisse nell’ottava bolgia del cerchio dei fraudolenti (Inferno, XXVI).

Affresco da Pompei con la scena del cavallo di Troia e Ulisse conservato al Mann (foto Luigi Spina)
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L’affresco con Achille a Sciro dalla Casa dei Dioscuri di Pompei, conservato al Mann (foto Mann)

Dal mito di Diomede a quello di Ulisse: al più celebre viaggiatore di tutti i tempi sarà dedicato il post con l’affresco che rappresenta una scena della guerra di Troia; nel reperto, ritrovato a Pompei, è raffigurato il momento simbolico del dramma, quando, cioè, i Troiani portano all’interno delle mura il cavallo di legno, condannando in tal modo la città alla distruzione. L’inganno del cavallo è una delle trame per cui l’Alighieri punisce idealmente Ulisse nella prima cantica della Commedia. Più volte nominato in relazione a Ulisse ed al Centauro Chirone, c’è anche Achille che, inserito tra i Lussuriosi dell’Inferno, è uno dei protagonisti del Dantedì virtuale del Mann; saranno postati online due affreschi: “Achille a Sciro” (dalla Casa dei Dioscuri di Pompei), che ritrae il momento in cui Ulisse e Diomede smascherano l’eroe, mandato presso la corte di Licomede per sfuggire alla guerra di Troia; Achille è in abiti femminili al centro della scena e regge lo scudo, trattenuto da Ulisse (a destra) e Diomede (a sinistra). 

L’affresco da Ercolano con Achille e il centauro Chirone, conservato al Mann (foto Giorgio Albano)

Ancora, sarà condiviso l’affresco con Achille ed il centauro Chirone, citato nel XII canto dell’Inferno: il centauro Chirone fu maestro del Pelide ed, in questo affresco da Ercolano, è raffigurato giovanissimo mentre apprende l’arte della lira. I personaggi presentati nell’anteprima digitale del Dantedì sono solo alcuni dei protagonisti della mostra “Divina Archeologia”: grazie all’esposizione, sarà possibile viaggiare con mitologia, archeologia e letteratura, in un suggestivo dialogo tra i versi del poeta ed i reperti del Mann.  

Parco archeologico dei Campi Flegrei. Per il Dantedì 2021 la prima “Lectura Dantis Averna” al tempio di Apollo sul lago d’Averno: Andrea Mazzucchi legge il Canto III dell’Inferno “Dante e Virgilio all’ingresso degli Inferi”, geografie dantesche e geometrie flegree

La locandina della prima Lectura Dantis Averna al tempio di Apollo sul lago d’Averno con il prof. Andrea Mazzucchi

parco-archeologico-campi-flegrei_logoNon poteva esserci luogo più suggestivo per celebrare il Dantedì: il tempio di Apollo sul lago d’Averno a Pozzuoli. È qui che giovedì 25 marzo 2021, alle 12, ci sarà la Lectura Dantis Averna Inferno Canto III “Dante e Virgilio all’ingresso degli Inferi”, geografie dantesche e geometrie flegree: lettura esegetica di Andrea Mazzucchi dell’università “Federico II” di Napoli. La prima Lectura Dantis al cosiddetto Tempio di Apollo sul lago d’Averno, in occasione del Dantedì 2021, sarà in diretta alle 12 sulla pagina Facebook del Parco archeologico dei Campi Flegrei e sui canali dell’emittente televisiva regionale Campi Flegrei (555 e 877 HD). L’evento inaugura e istituisce una rassegna di Lecturae dedicata all’interpretazione e alla divulgazione dell’opera di Dante, che proseguirà con edizioni annuali. Il parco archeologico dei Campi Flegrei e il Comune di Pozzuoli nell’ambito del Progetto “Pozzuoli città che legge”, in collaborazione con l’università di Napoli “Federico II”, partecipano alle celebrazioni per il settimo centenario della morte del Sommo Poeta e promuovono il primo appuntamento delle Lecturae Dantis Avernae al cosiddetto Tempio di Apollo, l’imponente edificio termale di epoca romana che sorge lungo le sponde del lago d’Averno. Il Dipartimento di Studi umanistici dell’università di Napoli, nella persona del direttore, il professor Andrea Mazzucchi, esprime il compiacimento per questa importante iniziativa che vede il coinvolgimento di tutte le scuole presenti in un territorio, quale è quello flegreo, ricco di fascino e di importanti memorie virgiliane e dantesche. Non a caso Galileo Galilei individuava il luogo d’inizio del viaggio dantesco nell’aldilà, nel territorio tra Cuma e Napoli e, nello specifico, nel bosco che circonda il lago d’Averno.

Il cosiddetto Tempio di Apollo sul lago di Averno (Pozzuoli) (foto pa-fleg)
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Andrea Mazzucchi dell’università “Federico II” di Napoli

Il lago d’Averno, celebrato come luogo dell’ingresso di Enea agli Inferi, diventa la cornice per la lettura del III canto dell’Inferno della Divina Commedia e suggerisce un legame tra Virgilio, Dante (che non conobbe mai fisicamente questi luoghi) e il paesaggio flegreo.  Sarà il professor Andrea Mazzucchi, ordinario di Filologia della Letteratura Italiana e direttore del Dipartimento di Studi umanistici dell’università di Napoli Federico II, a fare da guida nell’universo dantesco. L’iniziativa punta alla partecipazione del più ampio pubblico e in particolare delle scuole del territorio. Per il 2021, anno delle celebrazioni dantesche, l’evento del 25 marzo rappresenta il primo di una serie di appuntamenti che vedranno coinvolti gli studenti in un percorso di approfondimento dell’opera di Dante alla ricerca di connessioni con il patrimonio flegreo, restituito alla comunità attraverso letture e performance offerte ai visitatori dei siti del parco archeologico dei Campi Flegrei. Il progetto vede il coordinamento scientifico del professor Andrea Mazzucchi e sarà realizzato in collaborazione tra parco archeologico dei Campi Flegrei, università di Napoli “Federico II” e Comune di Pozzuoli, nello specifico, assessorato alla Cultura (Stefania de Fraia) e assessorato alla Pubblica istruzione (Anna Maria Attore), nell’ambito del Progetto “Pozzuoli città che legge” (referente prof.ssa Angela Giustino). Tale progetto mira infatti a promuovere sul territorio puteolano la diffusione del libro e della lettura ad alta voce, oltre che nelle scuole anche in altri contesti istituzionali e della vita quotidiana, al fine di favorire la coesione sociale e la crescita culturale e civile della città.

Dalla guerra alla caduta di Troia, con i suoi protagonisti Achille, Ulisse, Enea: a Comacchio la mostra “Troia. La fine della città. La nascita del mito” in collaborazione con il Mann. Seconda parte: il viaggio iniziato con Omero si conclude con Virgilio, che celebra Roma nuova Troia

Locandina della mostra “Troia. La fine della città. La nascita del mito” a Comacchio fino al 27 ottobre 2019

È il 1898 quando Heinrich Schliemann, seguendo fedelmente quanto descritto da Omero nell’Iliade, scopre Troia. Nel nostro viaggio spazio-temporale affrontato visitando la mostra “Troia. La fine della città. La nascita del mito”, aperta fino al 27 ottobre 2019 a Palazzo Bellini di Comacchio, curata da Carla Buoite e Lorenzo Zamboni, da un’idea di Paolo Giulierini, Alice Carli e Roberto Cantagalli, partendo da Omero e passando attraverso alcuni miti greci siamo arrivati alla scoperta sulla collina di Hisarlik, nell’attuale Turchia nordoccidentale, delle vestigia della mitica Troia, dando vita a una campagna di scavi che arriva fino ai nostri giorni, e non vede ancora la fine (vedi https://archeologiavocidalpassato.com/2019/09/11/cantami-o-diva-del-pelide-achille-lira-funesta-a-comacchio-la-mostra-troia-la-fine-della-citta-la-nascita-del-mito-in-collaborazione-con-il-m/).

Le diverse fasi della cittadella di Hisarlik: la Troia omerica è la VI finale o VII iniziale

Ma quella individuata da Schliemann non era la Troia omerica o almeno non solo. Dietro il mito di Troia c’è una città che conosce una vita lunghissima, tra l’Antica età del Bronzo e il periodo bizantino (dal 3000 a.C. alla fine del 1200 d.C. circa) scandita dagli studiosi in dieci periodi (I-X). Molte delle fasi edilizie di Troia mostrano segni di incendi, distruzioni e terremoti. Secondo diversi ipotesi, la città descritta da Omero coinciderebbe con il periodo VI finale, oppure VII iniziale (circa 1300-1200 a.C.). In questi livelli gli scavi hanno messo in luce una cittadella di circa 2 ettari, circondata da mura possenti, e una “città bassa” estesa per almeno altri 27 ettari. Se il mito riconduce la guerra di Troia al rapimento di una donna, gli attacchi militari che la città ha subito suggeriscono la sua importanza strategica nello scacchiere geopolitico del mondo antico. Troia sorgeva infatti a controllo dello stretto dei Dardanelli, punto di passaggio obbligato tra Europa e Asia, e via d’accesso al mar Nero (un ruolo che secoli più tardi sarà ereditato da Costantinopoli, l’odierna Istanbul).

Ricostruzione della fase Troia VI, la cittadella e la “città bassa”

Guerrieri achei e anatolici del XIV e XIII secolo a.C., ricostruzione ipotetica dell’abbigliamento e dell’armamento dell’epoca

Mura incrollabili. Una delle particolarità del sito di Hisarlik è che fin dalla sua nascita è dotato di una cerchia difensiva, costantemente rinnovata e rinforzata nel corso dei secoli, segno di ricchezza e potere. Nelle fasi della tarda età Bronzo, alla fine del I millennio a.C., la cortina muraria di Troia mostra alcuni dettagli tecnici notevoli, con mura composte di grandi blocchi squadrati per tutta la profondità, dotate di pendenza e contrafforti sporgenti. Le difese erano completate da torri, ingressi obliqui (le porte Scee) e rampe di accesso. Gli eroi di Omero sono stati rappresentati, nei secoli, nei modi più diversi e fantasiosi. Anche in questa mostra li vediamo spesso abbigliati, di volta in volta, come guerrieri greci del periodo arcaico e classico, o reinventati secondo canoni romantici e immaginari. In realtà possiamo ricostruire l’armamento e l’abbigliamento dei Micenei grazie agli scavi e alle raffigurazioni dell’epoca su affreschi e ceramiche dipinte. Anche i nomi dei personaggi trovano testimonianza archeologica. Dai documenti scritti dell’epoca, le tavolette in Lineare B, sappiamo infatti che esistette effettivamente un popolo chiamato A-ka-wi-ja-de (gli Achei), presso cui il potere era in mano a un re, il wanax, e ai suoi comandanti, i la-wa-ge-tas, e che adorava una divinità femminile chiamata A-ta-na Po-ti-ni-ja (Atena). I nomi con cui Omero ha immortalato i suoi eroi sono micenei: A-ki-re-u (Achille), E-koto (Ettore), Pi-ri-ja-me-ja (Priamo). Interessante però che questi nomi fossero di persone comuni, di bassa estrazione sociale, inservienti, pastori, schiavi.

Affresco di Achille e Chirone, 65-79 d.C., da Ercolano, Basilica: Chirone insegna al giovane Achille a suonare la lira (foto Giorgio Albano, Mann)

L’educazione di un eroe: Achille. “Uomo grande e generoso, nobile pedagogo, che a maggior tua gloria allevasti un intero popolo di eroi…”, scrive Goethe nel Faust (7, II, 15). I monti della Tessaglia, nella Grecia centrale, sono il regno dei Centauri, irascibili, rozze e selvagge creature per metà uomini e per metà cavalli. Al contrario dei suoi primitivi compagni, il mite Chirone, amante delle scienze mediche e umane, vive da eremita nella grotta del monte Pelio, dedicandosi all’insegnamento. Sotto la sua guida vengono formate le giovani promesse del mito greco: Eracle, Teseo, Giasone, Aiace, Enea, e persino il padre della medicina, Asclepio. Tra i suoi celebri allievi c’è anche Achille, che da Chirone impara i segreti della caccia, della guerra, della medicina, della chirurgia e dell’arte oratoria, temprato nel corpo e nell’animo. L’anomalo centauro forgiò inoltre la lancia magica che solo Peleo e poi suo figlio Achille erano in grado di brandire. La stessa lancia con cui venne prima ferito e poi curato Telefo.

Pelike apula a figure rosse, Gruppo di Ruvo, 375350 a.C. Achille affranto per la morte di Patroclo, consolato dalla madre, la dea marina Teti, che gli porta assieme alle sorelle Nereidi le nuove armi forgiate da Efesto (foto Giorgio Albano, Mann)

L’ira funesta. Nei versi dell’Iliade le passioni e le emozioni sono protagoniste assolute: ira, superbia, desiderio, gloria, vendetta, violenza, ma anche dignità, senso dell’onore, leale amicizia, cura, premura e amore muovono le azioni dei protagonisti. Il poema si apre con l’ira di Achille, funesta, rovinosa, che esplode per l’ingiustizia subita dall’arrogante sovrano Agamennone, che gli sottrae la sua amata Briseide. Non solo i suoi sentimenti vengono feriti, è la stessa immagine pubblica di Achille a subire un disonore incancellabile. Per non cedere alla violenza, Achille si chiude in un’ostinata solitudine, allietata solo dalle arti e dai banchetti. Achille è un eroe complesso, in cui alla spietata violenza in battaglia si affiancano le delicate premure che riserva ai suoi amici e compagni più cari, su tutti l’inseparabile Patroclo. La perdita dell’amico prediletto, che ne veste le armi per sfidare il campione troiano Ettore, lo getta nel baratro di un’inconsolabile disperazione. Per Patroclo Achille versa fiumi di lacrime che nemmeno la divina madre Teti può fermare. Per vendicarlo torna in battaglia più feroce e spietato che mai, infierendo sul corpo del rivale Ettore. Ma ancora una volta mostra la sua grandezza d’animo, ascoltando le toccanti parole di Priamo, piangendo insieme a lui per le reciproche perdite, e consentendo a un anziano padre di dare onorevole sepoltura al figlio amatissimo.

Cratere apulo a figure rosse, da Ruvo di Puglia, tomba 111, attribuito al pittore dell’Ilioupersis, 370-360 a.C. Achille trascina il corpo di Ettore alla presenza dell’immagine di Patroclo (foto Giorgio Albano, Mann)

Disegno con la ricostruzione di un hippos, imbarcazione fenicia

La caduta di Troia. Ilio, nome greco della città di Troia, è caratterizzata dall’epiteto delle sue celebri mura, che vengono definite “forti”, “ben costruite”, o semplicemente “belle”. Dopo nove anni di sanguinose battaglie, e nonostante la morte di Ettore, i Greci ancora non sono riusciti a espugnare le possenti mura troiane, erette da Apollo e Poseidone, che torreggiano tra il mare e le piane dell’Asia. Sfiniti dalla guerra, i Greci, ispirati dal multiforme ingegno di Ulisse e con l’aiuto divino di Atena, erigono un cavallo simile a un monte dai fianchi d’abete intrecciati, e lo lasciano davanti alle porte della città, come dono votivo ad Atena, protettrice di Troia, prima di fingere la ritirata. In realtà, come da recenti studi dell’archeologo navale Francesco Tiboni, Omero avrebbe parlato mai parlato di un cavallo ma avrebbe fatto riferimento a una nave fenicia, l’hippos (cavallo) appunto (da qui l’interpretazione errata nei secoli successivi, quando si era persa nozione dell’imbarcazione fenicia), usata all’epoca – carica di doni preziosi – come tributo degli sconfitti lasciata davanti alla città inespugnata (vedi https://archeologiavocidalpassato.com/2018/02/19/tourisma-2018-il-cavallo-di-troia-una-clamorosa-fake-news-dellantichita-larcheologo-navale-tiboni-omero-non-ha-mai-scritto-di-un-cavallo-ilio-fu-vinta-con-lin/). Riprendiamo il racconto. Il sacerdote troiano Laocoonte subito s’avvede dell’inganno, e prova a mettere in guardia i suoi compagni, pronunciando la famosa frase immortalata nei versi dell’Eneide virgiliana: “… temo i Greci anche se recano doni”. Ma ecco emergere dalle acque tranquille del mare due serpenti dalle spire immense e dalle creste rosso sangue, che avvolgono e straziano le carni del sacerdote e dei suoi due figli col loro corpo squamoso, soffocandone le disperate grida. I Troiani, persuasi che la cruenta fine di Laocoonte sia una divina punizione per le sue empie parole, spalancano esultanti le porte della città all’inganno acheo: gravida di armati la macchina fatale sale alle mura. I festeggiamenti per la fine della guerra e la ribadita supremazia di Troia proseguono fino a notte, mentre la spiaggia è ormai deserta.

Aiace Oileo strappa Cassandra dal Palladio, davanti a Priamo, da Pompei, I sec. d.C. (foto Patrizio Lamagna, Mann)

Il massacro. Tra cigolii, passi furtivi e bisbigli, nel cuore delle mura il cavallo immane vomita soldati armati che lesti aprono le porte della città ai compagni. I Troiani tentano un’ultima disperata difesa: si lotta porta a porta, fino all’ultimo uomo. Ma i Greci sciamano ormai inarrestabili, incendiando e distruggendo qualsiasi cosa incontri le loro armi: ammazzano, sgozzano, predano come fiere assetate di sangue, mentre i Troiani, impreparati e inermi, soccombono. Dovunque la città è sconvolta da grida di dolore: crescono i clamori e un fragore orrendo di armi sovrasta la notte. La Cittadella, cuore pulsante della città, cade preda di nemici pronti a ogni nefandezza ed efferato crimine. Quella di Troia è principalmente una vicenda di guerra, in cui prevalgono la violenza bruta e la prevaricazione del più forte sul più debole. E la sfida non è solo il duello eroico, due valenti guerrieri che si misurano ad armi pari gareggiando per l’onore e la gloria. Il mito, come la storia, è costellato di azioni vili e turpi, dove sono soprattutto gli anziani, le donne e i bambini a subire l’orrore e l’oltraggio. L’ultima, fatale notte di Troia è infatti un crescendo di episodi truculenti e di violenze intollerabili. Il vendicativo figlio di Achille, Neottolemo, fa strage di Troiani, arrivando a scagliare dalle mura Scee il corpo del piccolo Astianatte, figlio di Ettore. Tra gli ultimi a venire ucciso è il vecchio re, Priamo, ormai annichilito e prostrato sui gradini dell’altare, mentre tenta invano di opporsi al suo destino. Risuonano, agghiaccianti e concitate, le urla delle donne troiane: ma la morte è per loro quasi un sollievo, al confronto dell’umiliazione e della schiavitù che le aspetta quali bottino di guerra. Cassandra, che tutto ha già visto, aggrappata all’altare di Atena leva inutilmente gli occhi al cielo, mentre cade, inerme, tra le grinfie dell’empio Aiace Oileo. Come sua madre Ecuba, come le sue sorelle, come Andromaca, la sposa di Ettore, la attende un cupo futuro di prigionia presso le corti nemiche. Per Elena, oggetto di odio e rancori sia da parte dei Troiani che dei Greci, la resa significa il disprezzo del suo stesso popolo. Eppure, Menelao, marito tradito, la riporta a casa e la perdona, e nell’Odissea Ulisse la rincontrerà onorata e rispettata regina.

Terracotta da Pompei con Enea, Anchise e il piccolo Ascanio in fuga da Troia, I sec. d.C. (foto Patrizio Lamagna, Mann)

L’ultimo, fatale capitolo della nostra storia è ormai compiuto. Calcante, sacerdote e indovino dell’esercito greco, lo aveva predetto nel II libro dell’Iliade (“Nove anni a Troia durerà la guerra, il decimo la città cadrà…”), e la sua visione trova ora un tragico compimento. Distruzione e saccheggio regnano ormai sulla sacra rocca di Troia. Crollano per sempre le belle mura di Ilio, avvolte dalle fiamme. Ben pochi sono i superstiti. Tra questi Enea, principe troiano, al quale gli dei hanno affidato una missione da portare a compimento. Con l’anziano padre Anchise in spalla, il figlioletto Ascanio per mano e le ceneri degli antenati, Enea fugge, nella notte, tra i flutti del mare…

Anfora attica a figure nere, fine del VI secolo a.C., da Nola (Napoli). Enea, Anchise e il piccolo Ascanio in fuga da Troia (foto Patrizio Lamagna, Mann)

Fughe e ritorni. Nonostante la vittoria, gli eroi greci vivranno dei ritorni difficili: sono i nostoi, le peripezie e i ritorni degli eroi omerici, fatti di imprevisti, di vagabondaggi, di errori che apriranno nuovi scenari, premesse di nuove storie. Il più famoso dei ritorni è quello di Ulisse, che durerà ben dieci anni, e che viene narrato nell’Odissea. Dei Troiani, Enea è uno dei pochi a sopravvivere. Lo vediamo ormai in fuga verso l’Occidente, con il padre Anchise, il figlioletto Ascanio, detto Iulo, e un manipolo di compagni. Di Enea e del suo viaggio narra Virgilio nell’Eneide, un’opera modellata sui poemi omerici, dei quali si propone come un “sequel”. Le vicende sono quelle successive alla fuga da Troia, caratterizzate da lunghe peregrinazioni e da numerose perdite. Le tappe principali sono le isole greche di Delo, Creta e le Strofadi, l’Epiro, nell’odierna Albania, la Sicilia, il regno di Cartagine sulla costa nordafricana, persino l’Averno, il mondo dei morti. Il viaggio si concluderà in Lazio, e con il matrimonio con la principessa Lavinia, figlia del re locale Latino, Enea diviene l’illustre antenato della civiltà romana.

Rilievo in marmo pentelico, originale greco della fine del V – inizi del IV secolo a.C., da Pompei, Casa V, 3, 10. Scena di sacrificio offerto da una famiglia a una divinità femminile, Afrodite o Demetra (foto Patrizio Lamagna, Mann)

Sacrifici e rinascite. Il rilievo di marmo, esposto in mostra a Comacchio, è un prezioso originale greco, simbolo del lusso e del livello culturale sfoggiato in alcune case di Pompei, dove è stato rinvenuto, posato a terra contro un muro in attesa di una collocazione definitiva. La Casa V, 3,10, dotata di altri arredi originali, tra cui statue bronzee, testimonia l’uso di veri e propri pezzi d’antiquariato greco, icona di una ricchezza colta e ricercata. Nei secoli la cultura greca plasma infatti la società romana nel profondo, attraverso le tecniche, le scienze, le arti e la letteratura. La scena rappresentata è una processione sacrificale: un gruppo di devoti accompagna in sacrificio un ariete al cospetto di una divinità femminile, nettamente sovradimensionata. Si tratta forse di Afrodite, amorevole madre e protettrice di Enea, oppure, secondo un’altra interpretazione, di Demetra, dea ancestrale della rinascita e della fertilità.

Busto di Ottaviano di marmo, di età tiberiano-claudia (14-54 d.C.), da Fondi (Latina) (foto Patrizio Lamagna, Mann)

Roma, una nuova Troia. Siamo alla fine del nostro viaggio che iniziato con Omero e trova il suo compimento in Virgilio: quindi da Troia a Roma. Nell’Eneide di Virgilio infatti l’eroe troiano Enea, tramite il figlio Iulo, viene celebrato come il capostipite della gens Iulia, una delle più importanti famiglie della repubblica romana, il cui esponente più illustre è Giulio Cesare. Mediante adozione, Ottaviano Augusto entra a far parte della famiglia Iulia, e sfrutta abilmente a fini propagandistici questo mito delle origini. I poeti della sua corte, tra i quali Virgilio, sono incaricati di trasporre in versi un mito inventato ad arte, quello della genealogia eroica e divina della prima dinastia imperiale. Una delle caratteristiche del nuovo Enea virgiliano, la pietas, ne fa il prototipo dell’uomo obbediente agli dèi e umile di fronte alla loro volontà, rispettoso delle tradizioni e dei vincoli familiari. Ora da celebrare non sono più gli antichi eroi omerici, ma un nuovo ordine morale, di cui Ottaviano Augusto si pone come restauratore. Si chiude il capitolo del mito, si apre quello della storia.

TourismA 2018. Il cavallo di Troia? Una clamorosa fake news dell’antichità. L’archeologo navale Tiboni: “Omero non ha mai scritto di un cavallo. Ilio fu vinta con l’inganno: ma entro le sue mura fu fatta penetrare una nave di tipo fenicio nota come hippos”

L’archeologo navale Francesco Tiboni e il direttore Piero Pruneti sul palco di Tourisma 2018. Alle loro spalle la copertina del libro “La guerra di Troia. Un inganno venuto dal mare” (foto Graziano Tavan)

Il cavallo di Troia? Una clamorosa fake news dell’antichità. Una bugia con le gambe lunghe come quelle di un… cavallo. Francesco Tiboni, archeologo navale di NavLab Laboratorio di Storia navale dell’università di Genova, ne è convinto perché – ribadisce – “Omero non ha mai scritto di un cavallo”. E a due anni dalle prime comunicazioni (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2016/06/24/miti-sfatati-il-cavallo-di-troia-era-una-nave-lhippos-fenicio-larcheologo-navale-rilegge-omero-e-i-relitti-antichi-e-smaschera-lequivoco-millenario-dovuto-al-traduttore-antico-alloscuro-de/), seguite da contributi più articolati e da un libro, “La guerra di Troia. Un inganno venuto dal mare” (Edizioni Storia e Studi sociali, 2017), il mondo accademico comincia a recepire la “novità” che smantella un episodio entrato nell’immaginario collettivo da più di due millenni. “E questo per me è un grande risultato”, commenta soddisfatto Tiboni dal palco di TourismA 2018, salone di archeologia e turismo culturale, a Firenze dal 16 al 18 febbraio 2018. Proprio a TourismA l’archeologo navale ha ripercorso le tappe filologiche della sua ricerca partendo proprio dal suo recente saggio dove ha esaminato uno degli episodi più noti della guerra di Troia, l’inganno del cavallo di legno, analizzandolo da un punto di vista archeologico, storico e filologico, allo scopo di chiarire come una vicenda che per i contemporanei di Omero era estremamente chiara nella propria evidenza, nel tempo possa essere stata fraintesa e decontestualizzata. Avvalendosi degli strumenti dell’archeologia navale, attraverso l’analisi delle parole, delle immagini e dei relitti, l’autore giunge a proporre una precisa collocazione dell’episodio che pose fine alla guerra di Troia all’interno di un quadro tematico ben definito, quello appunto della dimensione navale del mondo mediterraneo prearcaico.

Disegno con la ricostruzione di un hippos, imbarcazione fenicia

“Sono un archeologo navale”, ha puntualizzato subito, “e quindi ho voluto approfondire gli aspetti della navigazione nel Mediterraneo tra la tarda età del Bronzo, cioè quello corrispondente alla guerra di Troia, e la prima età del Ferro, periodo in cui sono stati scritti i poemi omerici. È proprio in questi secoli che tra le navi che solcavano le acque del Mediterraneo c’era un’imbarcazione fenicia molto diffusa e nota col nome di hippos, così chiamata perché aveva la polena a testa di cavallo, imbarcazioni con le quali sarebbe stata circumnavigata addirittura l’Africa”. Le fonti antiche citano la nave hippos in più occasioni. Strabone la ricorda come una nave mercantile fenicia. Sofocle (Andromeda, fr. 2, Apud Athenaeum, XI, 64): “su hippoi o su piccole navi navighi verso terra?”. Trifiodoro (184-5): “dopo aver pregato la glaucopide figlia di Zeus (Atena, ndr), si precipitano al mercantile hippos”. Ma forse la citazione più interessante, spiega Tiboni, è quella contenuta in Plinio il Vecchio (Naturalis Historiae, VII, 57) che afferma: “Hippo di Tiro inventò l’oneraria”. “Quando Plinio scrive – siamo nel I sec. d.C. – la tradizione di queste navi  si è ormai persa nel corso dei secoli. Sappiamo che nel Levante non è riscontrato il nome Hippo. Quindi il nome della nave oneraria, hippos, si fonde con le sue origini fenice, la città di Tiro, e in Plinio diventa un nome proprio: Hippo di Tiro. Ma, al di là della “sovrapposizione-contrazione” delle notizie, abbiamo la conferma che l’hippos era una nave fenicia”.

L’archeologo navale Francesco Tiboni

Ma quello che per Tiboni è fondamentale è che Omero, nel descrivere l’inganno del cavallo, usa sempre una terminologia navale. Odissea (IV, 708-9): “Dimmi araldo, perché mio figlio solca il mare a bordo delle navi che sono gli hippoi del mare?”; (XI, 523): “Quando ci imbarcammo sull’hippos, che Epeo costruì, noi fiore degli Argivi, e tutto da me dipendeva, aprire il solido inganno e richiuderlo”. E ancora (VIII, 487-520): “Dicci del dourateous hippos che Epeo costruì con Atena”. Per Tiboni questo è un passo importante perché si associa hippos all’aggettivo dourateous, che rimanda al termine dourata, cioè alle tavole del fasciame che compongono una imbarcazione. “Quindi non stiamo parlando di un cavallo di legno, come per secoli è stato tradotto (per legno Omero avrebbe usato un’altra parola), ma di una nave. E a ribadire il concetto più che Epeo, del quale si sa essere stato un pugile e un discobolo, è l’intervento divino di Atena che in epoca omerica era la protettrice dei maestri d’ascia”.

Esempi di pittura vascolare con il “cavallo di Troia” mostrati da Tiboni a TourismA 2018 (foto Graziano Tavan)

Ma allora come è nata la bufala del “cavallo” di Troia? “Già i greci parlano del cavallo perché avevano perso la nozione della nave fenicia”, spiega Tiboni. “Comunque le rappresentazioni dell’inganno di Troia sono abbastanza scarne. Ne conosciamo solo 37, e non sembrano riferirsi a una tipologia precisa.  Esemplare in questo senso le scene vascolari: i vasai riproducevano l’episodio su informazioni che avevano letto o tramandate oralmente, e quindi ognuno lo interpretava alla sua maniera. L’idea del cavallo di legno si rafforza in periodo romano dopo aver letto – superficialmente e frettolosamente – Virgilio che in realtà nell’Eneide (II, 16, 112, 186, 234-237) nel narrare dell’inganno, descrive non un cavallo ma un’imbarcazione e le diverse fasi della sua costruzione che in antico partiva dal fasciame e poi passava allo scheletro”. Scrive Virgilio: “Ne intessono le murate con tavole di abete… già sorgeva il cavallo fatto di travi d’acero”, che è la prima sequenza: la realizzazione del fasciame in legno di abete o di acero. Segue la costruzione dello scheletro in legno di quercia (“Così intessuto di travi di quercia”). Ma anche la descrizione dell’introduzione del cavallo in Troia è illuminante. Sempre Virgilio: “Separiamo le mura e apriamo le fortificazione della città. Ognuno dà una mano a sottoporre rulli scorrevoli al cavallo a legare al suo collo lunghe funi”. Chiarisce Tiboni: “Quindi non si abbattono le mura: si aprono le porte. E l’uso dei rulli è quello tipico per la messa in secca delle navi, ben decritto da Tacito”. Ma ormai la fake news era stata confezionata. Il “cavallo di legno” di Virgilio viene ripreso e reso immortale da Giambattista Tiepolo nel Settecento per giungere senza colpo ferire ai nostri giorni nel film “Troy”, colossal epico del 2004 diretto da Wolfgang Petersen.

Tiboni mostra i rilievi assiri con la rappresentazione di un hippos trascinato dentro la città facendolo scorrere su grandi rulli (foto Graziano Tavan)

Cosa successe veramente davanti alle mura di Troia? “Per capire la valenza dell’inganno”, fa sapere l’archeologo navale, “dobbiamo aver ben presente cosa succedeva tremila anni fa quando si giungeva alla fine di un conflitto: la parte perdente doveva pagare il tributo alle divinità vincitrici. Spesso lo si faceva offrendo alla città vincente una nave carica di merci preziose”. I greci in dieci lunghi anni lontano dai loro regni non erano riusciti ad avere la meglio sulla città tra lo Scamandro e il Simoenta. Le grandi mura, che la tradizione vuole realizzate da Poseidone e Apollo, avevano retto a ogni assalto. Non rimaneva che la resa. E il pagamento del tributo. “Ma quale nave era più adatta?”, si chiede Tiboni. “Considerando le rivalità interne tra i greci, è facile pensare che nessuno voleva che una propria nave diventasse il simbolo disonorevole della resa. E così si scelse una nave non greca, un hippo fenicio, che fu avvicinato alle mura facendolo scivolare su grandi rulli”. Un rilievo dal palazzo del re assiro Assurbanipal a Ninive del VII sec. a.C. ci fa capire bene come avveniva il tributo ai vincitori con il trascinamento sui rulli di un hippo, agganciato alla testa di cavallo, dentro la città. “Come possiamo immaginare”, riprende Tiboni, “l’operazione era piuttosto laboriosa e richiedeva molto tempo, durante il quale le monumentali porte della città rimanevano spalancate. Quindi non ci fu l’abbattimento delle mura, con l’ingresso di un manipolo di greci nella pancia del cavallo: avrebbero fatto ben poco”. Ma con le porte spalancate e, si può supporre, le guardie distratte dai festeggiamenti di ringraziamento agli dei per la fine della guerra e il pagamento del tributo, l’irruzione dei greci dentro le mura di Ilio fu un gioco da ragazzi. “L’inganno del cavallo di legno aveva raggiunto lo scopo: la presa di Troia. Un inganno venuto dal mare, a bordo di una nave fenicia”.

Miti sfatati. Il Cavallo di Troia? Era una nave: l’hippos fenicio. L’archeologo navale Tiboni rilegge Omero e i relitti antichi e smaschera l’equivoco millenario dovuto al traduttore antico all’oscuro dell’esistenza dell’imbarcazione dei Fenici

"La passeggiata del cavallo i Troia" affrescata da Giandomenico Tiepolo nella seconda metà del XVIII secolo nella villa di famigli a Zianigo nella terraferma veneziana

“La passeggiata del cavallo i Troia” affrescata da Giandomenico Tiepolo nella seconda metà del XVIII secolo nella villa di famigli a Zianigo nella terraferma veneziana

L'archeologo navale Francesco Tiboni

L’archeologo navale Francesco Tiboni

Anche il grande Giandomenico Tiepolo, quando nella seconda metà del Settecento decise di affrescare la villa di famiglia a Zianigo nella terraferma veneziana, non esitò a inserire nei vari soggetti anche un mito universale: il Cavallo di Troia. Eppure quel mito che fa parte dell’immaginario collettivo da millenni potrebbe essere sfatato dai recenti studi di Francesco Tiboni, 39 anni, archeologo subacqueo nato e cresciuto a Vobarno, provincia di Brescia, da tre anni ricercatore all’università di Aix en Provence. Ne parla in un ampio servizio l’ultimo numero della rivista “Archeologia Viva” (Giunti editore). “Il Cavallo di Troia non era un cavallo di legno, bensì una speciale nave da guerra”, assicura Tiboni. L’archeologia navale arriva ora in soccorso dell’interpretazione del celebre episodio narrato da Omero: non il mitico (e improbabile) quadrupede i Troiani avrebbero introdotto dentro le mura della città – in parte abbattendole per farcelo entrare – ma l’Hippos, una nave di tipo fenicio con la polena a testa di cavallo. Un equivoco millenario di una traduzione di un termine ha impedito di conoscere in realtà il marchingegno che fu utilizzato per abbattere le mura di Troia, sostiene l’archeologo italiano che insegna in Francia. Tiboni spiega che l’inganno ideato da Ulisse e allestito dagli Achei fu messo in atto per mezzo di “una nave, piuttosto che di un cavallo”, perchè l’Hippos va identificato con un vascello e non con un quadrupede.

Disegno con la ricostruzione di un hippos, imbarcazione fenicia

Disegno con la ricostruzione di un hippos, imbarcazione fenicia

Le navi usate dai commercianti nel mondo antico erano piuttosto larghe e di forma fortemente arrotondate, adatte a trasportare merci di ogni genere”, spiega Lionel Casson, “esperto di navi e navigazione antiche. “Lo scafo di legno veniva costruito senza usare chiodi metallici, le parti venivano tenute insieme da perni anche questi di legno, e per l‘impermeabilizzazione e il riempimento di intersizi si usava stoppa (corda) e pece. I greci chiamavano queste imbarcazioni gaulos (plurale gauloi) e hippos (plurale hippoi), il primo termine significava ‘vasca’ e si riferiva alla forma arrotondata, ma il termine poteva anche derivare dalla parola fenicia golah, il secondo termine faceva riferimento alla forma di testa di cavallo della prua. La stabilità della nave sull’acqua si otteneva con pesi sul fondo, pietre o sabbia se si trasportavano le anfore, le navi erano prive di chiglia o carena. Oltre ai fenici anche i greci, gli italici e forse anche i sardi usavano imbarcazioni simili”. Tiboni non entra nel merito della questione omerica o della giungla delle verità o meno degli episodi narrati da Omero, si sofferma sul cavallo. Fa analisi del testo, intreccia le parole omeriche e di Virgilio con quelle di tecnologia navale. La pancia del cavalo diventa una stiva, le ruote e le lunghe funi con i quali il cavallo fu trasportato sotto le mura di Troia assomigliano al modo in cui, secondo le più recenti ricerche, le navi mercantili venivano tirate con forza. Il cavallo prende forma, si deforma, e si trasforma in nave, in un Hippos. «Una nave che cadde in disuso nei secoli successivi – spiega Tiboni – e chi tradusse in seguito non ne era proprio a conoscenza dell’esistenza. Ma Omero, nei suoi versi, è invece preciso nel suo linguaggio marinaresco». Il lavoro di Tiboni inizia a girare per mesi tra alcuni addetti ai lavori. C’è incredulità, talvolta scetticismo, alla fine convincimento. «Ho trovato più diffidenza tra i giovani ricercatori – osserva -, mentre ho raccolto più attenzione e sostegno tra gli studiosi della vecchia scuola».

Francesco Tiboni, archeologo navale all'università di Aix en Provence

Francesco Tiboni, archeologo navale all’università di Aix en Provence

Ma come e quando la nave è diventata un cavallo? Intorno al VII secolo a. C. è nato l’equivoco, poi ingenerato successivamente anche da Virgilio che ne fu inconsapevole trasmettitore rispetto all’originale di Omero. “Dal punto di vista lessicale, appare evidente che l’apparizione del cavallo risulta legata a un errore di traduzione, un’imprecisione nella scelta del termine corrispondente che, modificando di fatto il contenuto della parola originaria, ha portato alla distorsione di un’intera vicenda”, scrive Tiboni. “Se, infatti, esaminiamo i testi omerici, reintroducendo il significato originale di nave – certamente noto ai contemporanei – non solo non si modifica in alcun modo il significato della vicenda, ma l’inganno tende ad acquisire una dimensione meno surreale. È di certo più verosimile che un’imbarcazione di grandi dimensioni possa celare al proprio interno dei soldati, e che loro possano uscire calandosi rapidamente da portelli chiaramente visibili sullo scafo e per nulla sospetti agli occhi di chi osserva”. E appare più plausibile anche ipotizzare che una grande nave, di un tipo noto per essere solitamente utilizzato per pagare tributi, possa essere non solo interpretata come un dono e un segno di resa, ma anche come un eventuale voto divino. È possibile che, nel corso dei secoli, essendo caduto in disuso il termine navale, l’identificazione dell’Hippos con uno scafo “non fosse più automatica”, sottolinea l’archeologo.

Il grande cavallo di legno innalzato per i turisti all'ingresso del sito archeologico di Troia in Turchia

Il grande cavallo di legno innalzato per i turisti all’ingresso del sito archeologico di Troia in Turchia

“Se consideriamo l’iconografia, notiamo che tra le pochissime figurazioni del cavallo (venticinque in tutta la storia dell’arte antica), le prime si datano al VII secolo a.C., periodo cui risalgono le opere post-omeriche prese a riferimento da Virgilio. Dunque, è più che possibile che l’equivoco millenario della traduzione dell’Hippos omerico si possa collocare in questo momento”, spiega sempre Francesco Tiboni. “E che Virgilio, cui si deve la vera grande diffusione del tema nella cultura occidentale, abbia codificato tale passaggio utilizzando il termine latino ‘equus’ (che significa ‘cavallo’), forse a causa della tradizione post-omerica, come farà anche il filosofo bizantino Proclo (412-485 d.C.) nella Crestomazia, riportando testi di Lesche di Mitilene (VIII-VII sec. a.C.) e di Arctino di Mileto (VIII sec. a.C.). La sottovalutazione incolpevole – e ante litteram – dell’archeologia navale, intesa come capacità di analisi delle diverse fonti a disposizione degli studiosi finalizzata al riconoscimento e studio dei modelli di imbarcazione antichi, potrebbe quindi aver determinato questo equivoco plurisecolare, che, oggi, proprio l’archeologia navale può finalmente sanare», conclude Tiboni deciso a tradurre tutta la vicenda in un libro.

Scoperta a Tell Mozan in Siria una fossa necromantica: 4500 anni fa era la “Porta degli Inferi” della città hurrita di Urkesh dove si evocavano gli antenati. Riferimenti alla Nekyia di Odisseo e di Enea presente nella letteratura greco-romana

La fossa necromantica ("abi" in hurrita) scoperta a Tell Mozan, l'antica Urkesh, in Siria

La fossa necromantica (“abi” in hurrita) scoperta a Tell Mozan, l’antica Urkesh, in Siria

Giorgio Buccellati e Marilyn Kelly alla 25. Rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto

Giorgio Buccellati e Marilyn Kelly alla 25. Rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto

Pochi gradini, ripidi, e si accedeva alla porta del regno dei morti, una fossa profonda dove il sacerdote evocava gli spiriti degli antenati. Succedeva a Urkesh, una città hurrita di 4500 anni fa, fiorente in quella che oggi è territorio curdo nella Siria Nord-Orientale, ai confini con la Turchia. La scoperta di una cosiddetta “fossa necromantica”, in hurrita “abi”, dove cioè si entrava in contatto col Regno dei Morti, è uno dei risultati più intriganti della missione diretta dalla famiglia Buccellati (Giorgio Buccellati con la moglie Marilyn Kelly del Cotsen Institute of Archeology di Los Angeles – UCLA; e il figlio Federico Buccellati della Goethe University di Frankfurt a.M.), che nel trentennale dello scavo a Tell Mozan (il moderno toponimo di Urkesh) hanno fatto il punto delle ricerche in un’interessante incontro alla 25. Rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto, moderato da Luca Peironel dello Iulm di Milano, allievo di Paolo Matthiae e a sua volta archeologo impegnato in missioni in Siria.

La collina artificiale di Mozan si eleva nel paesaggio siriano: là sotto è conservata Urkesh

La collina artificiale di Mozan si eleva nel paesaggio siriano: là sotto è conservata Urkesh

“Il sito di Urkesh (l’odierno Tell Mozan)”, introduce Peironel, “conosce il suo periodo di massima espansione nel III millennio a.C. e in parte del II. Il sito è importante perché testimonia i cambiamenti epocali avvenuti nella società: soprattutto la nascita delle città (la cosiddetta urbanizzazione secondaria) che si data di poco dopo quella avvenuta in Mesopotamia”. Lo scavo di Urkesh è iniziato nel 1984 e copre un’area di 130 ettari. In questi 30 anni sono stati scoperti templi, palazzi e documenti di archivio che confermano come gli abitanti di Urkesh ebbero delle relazioni con il regno accadico. Quindi grandi monumenti e intensi rapporti internazionali. E tra questi monumenti anche il singolare “abi” che ha svelato il rito necromantico.

Scena di Nekyia: particolare di un vaso greco conservato allo  Staatliche Antikensammlungen di Monaco

Scena di Nekyia: particolare di un vaso greco conservato allo Staatliche Antikensammlungen di Monaco

Il rito necromantico, che nella pratica cultuale e nella letteratura greca è chiamato Nekyia (in greco antico νέκυια), è un rito attraverso il quale spettri o anime di defunti venivano richiamati sulla terra e interrogati sul futuro. Ed è proprio dalla letteratura greco-romana che a noi sono giunti gli esempi più famosi, come Odisseo-Ulisse (Od. XI) ed Enea (En. VI), per entrambi i quali il termine Nekyia, anche se non necessariamente assimilabile a una catabasi (cioè il viaggio fisico vero e proprio nell’aldilà), è usato per illustrare sia il rito necromantico sia il viaggio fisico nell’Ade: eventi che in effetti offrono ambedue l’opportunità di parlare con i defunti.

L'incontro di Ulisse con Tiresia nello sceneggiato rai "Odissea" del 1969

L’incontro di Ulisse con Tiresia nello sceneggiato rai “Odissea” del 1969 di Rossi-Bava

Il più antico riferimento al rito necromantico viene proprio dal Libro XI dell’Odissea: il passo è così intrigante che su di esso l’archeologo-scrittore Valerio Massimo Manfredi ancora nel 1990 aveva costruito un romanzo giallo, “L’oracolo”, ripreso e aggiornato recentemente per inserirlo, dopo “Il giuramento” e “Il ritorno”, come terza tappa dei romanzi su Odisseo “Il mio nome è Nessuno”. Odisseo, alla corte dei Feaci, racconta che, ottenuto il consenso per il ritorno a casa dalla maga Circe, viene avvertito dalla stessa dea che prima di volgere la prua verso la patria Itaca, avrebbe dovuto discendere agli Inferi per consultare l’anima dell’indovino Tiresia. Odisseo parte e giunge fino all’Oceano, immaginato come un fiume che circondava le terre emerse, dove era collocato l’Oltretomba. Qui egli avrebbe dovuto scavare una fossa, versarvi in giro una libagione a tutti i morti: prima una bevanda di latte e miele, poi il dolce vino ed infine acqua. Avrebbe anche dovuto spargervi della farina d’orzo e per ultimo sacrificare alle divinità infernali una pecora nera ed un montone. Sarebbe quindi giunto Tiresia a predirgli il futuro e a indicargli la via del ritorno. Scrive Omero “Scavai la fossa cubitale, e miele/ Con vino, indi vin puro, e lucid’onda/ Versaivi, a onor de’ trapassati, intorno,/ E di bianche farine il tutto aspersi./ Poi degli estinti le debili teste/ Pregai, promisi lor, che nel mio tetto,/ Entrato con la nave in porto appena,/ Vacca infeconda, dell’armento fiore,/ Lor sagrificherei, di doni il rogo/ Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,/ Immolerei nerissimo arïete,/ Che della greggia mia pasca il più bello./ Fatte ai Mani le preci, ambo afferrai/ Le vittime, e sgozzaile in su la fossa,/ Che tutto riceveane il sangue oscuro”. Odisseo dunque scava una fossa e la riempie di sangue sgozzando degli animali sacrificali. Sopraggiungono così le ombre dei defunti a bere il sangue e temporaneamente entrarono in contatto con i vivi: Elpenore, il compagno rimasto senza sepoltura in casa di Circe, l’indovino Tiresia, la madre Anticlea, morta dopo la sua partenza per la guerra di Troia, Agamennone, Achille, Aiace.

Enea, la Sibilla e Caronte in un quadro di Giuseppe Maria Crespi (XVIII secolo)

Enea, la Sibilla e Caronte in un quadro di Giuseppe Maria Crespi (XVIII secolo)

Anche Enea, per giungere nella nuova patria, deve affrontare un viaggio nel mondo dei morti. Se Odisseo la porta dell’Ade la trova solcando l’Oceano, Enea raggiunge l’accesso all’Averno sbarcando a Cuma, in Campania dove l’eroe, memore dei consigli di Eleno, si reca nel tempio di Apollo. La somma sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Deifobe, figlia di Glauco, invasata dal dio durante il vaticinio, gli rivela che riuscirà ad arrivare nel Lazio, ma per ottenere la nuova patria dovrà affrontare odi e guerre, essendo inviso a Giunone. Su sua richiesta, la Sibilla guida Enea nell’Aldilà. Scrive Virgilio: O vergine, nessuna specie di travagli mi si presenta nuova o inaspettata; tutto ho provato e considerato nell’animo, tra me. Una cosa sola ti prego: poiché si dice che qui si trovino la porta del re dell’inferno e la tenebrosa palude formata dal rigurgito dell’Acheronte, che io possa andare alla presenza dell’anima dell’amato genitore; insegnami la via ed aprimi le sacre porte (…). Con tali parole pregava e abbracciava gli altari, quando così la veggente cominciò a parlare: O generato dal sangue degli DEI, Troiano figlio di Anchise, facile è la discesa nell’Averno: notte e giorno è aperta la porta dell’oscura Dite, ma ritrarre il passo ed uscire all’aria superna, questo è il problema, qui sta l’impresa (…). Ma se ti piace affrontare questa folle fatica, ascolta ciò che prima deve essere fatto. Un aureo ramo, con foglie e gambo pieghevole, consacrato a Giunone infernale, è nascosto sotto un albero ombroso: lo copre tutto il bosco e le ombre lo chiudono in oscure convalli. E non si può entrare nei luoghi segreti della terra prima di aver staccato dall’albero il virgulto dalle fronde d’oro. Proprio questo dono la bella Proserpina ordinò che le fosse portato; strappato il primo, ne nasce un altro pure d’oro e il virgulto mette frondi d’uguale metallo. Dunque, cerca profondamente cogli occhi e, trovato il virgulto d’oro, strappalo con la mano secondo il rito; ed infatti ti seguirà facilmente e di buon grado se i Fati ti chiamano; altrimenti con nessuna forza potrai vincerlo né strapparlo con duro ferro (…). Conduci nere pecore, e siano queste le prime offerte, così vedrai alfine i boschi dello Stige e i regni inaccessibili ai vivi. Disse, e, chiusa la bocca, tacque”. Caronte, lo psicopompo dell’Ade, ostacola l’ingresso di Enea e della Sibilla a bordo della sua barca, sostenendo che i vivi finora traghettati sono stati per lui grave fonte di problemi. Quando però gli mostrano il ramo d’oro, chiave degli Inferi che portano con loro, acconsente a trasportarli. Enea e la sacerdotessa incontrano prima le anime di molti troiani caduti in guerra, poi quelle dei suicidi per amore: tra queste v’è anche Didone, che reagisce gelidamente al passaggio di Enea, il quale scoppia in un pianto disperato. Giunti alla diramazione tra la via per il Tartaro e quella per i Campi Elisi, incontrano l’ombra del poeta Museo, che porta Enea dall’amato padre Anchise.

L'abi scoperto a Tell Mozan veniva usato per i riti necromantici di notte

L’abi scoperto a Tell Mozan veniva usato per i riti necromantici di notte

La ripida e stretta scaletta che porta nella fossa necromantica di Urkesh

La ripida e stretta scaletta che porta nella fossa necromantica di Urkesh

Fin qui letteratura e mito. Ma a Tell Mozan la fossa necromantica è una realtà. “L’Abi, il nome antico della fossa necromantica”, spiega Giorgio Buccellati, “risale almeno al secondo quarto del terzo millennio, ma è forse molto più antica. Allo stato attuale degli scavi raggiunge una profondità di 8 metri, e ci preserva uno dei luoghi cultuali più sacri e più caratteristici della religiosità hurrita, non solo per Urkesh ma per tutto il mondo hurrita. In contrasto con le tradizioni mesopotamiche, anticipa invece aspetti salienti della sensibilità religiosa dei Greci e della Bibbia. Si tratta di una monumentale struttura sotterranea, usata di rado e in tal caso di notte. Serviva come un canale ideale tra i nostro mondo e quello dei morti, la “undiscovered country” dell’Amleto di Shakespeare. Ma per gli Hurriti questa era invece una “discovered country” perché tramite questa fossa si sentivano in grado di entrare nella regione nascosta e interpretare la voce dei suoi spiriti”.

L'evocazione del rito necromantico nell'abi di Urkesh a Tell Mozan in Siria

L’evocazione del rito necromantico nell’abi di Urkesh a Tell Mozan in Siria

La mappa di Tell Mozan con la posizione del tempio e dell'abi di Urkesh

La mappa di Tell Mozan con la posizione del tempio e dell’abi di Urkesh

Gli abitanti di Urkesh guidati dai loro sacerdoti si muovevano dal tempio, posto nel punto più alto della città, e raggiungevano l’Abi, la grande fossa aperta vicino al palazzo, la quale rappresentava il luogo più profondo, e quindi – nell’immaginario – più vicino al regno dei Morti. “Dal tempio si accedeva dunque all’Abi, la Porta degli Inferi”, continua Buccellati. “In questo pozzo molto profondo che si apre accanto al palazzo la gente di Urkesh veniva a chiedere aiuto agli antenati per il raccolto o prima di andare in guerra. L’Abi non è altro che una fossa necromantica, dove si scendeva (e si scende ancora) attraverso una scaletta molto ripida. Erano i sacerdoti a richiamare gli spiriti degli antenati attraverso un preciso rituale che prevedeva l’uso di due pugnali e il versamento del sangue di animaletti”.

Un maialino in terracotta a ricordare gli animali sacrificati per evocare gli antenati

Un maialino in terracotta a ricordare gli animali sacrificati per evocare gli antenati

La scoperta è stata possibile grazie al ritrovamento e allo studio delle ossa animali (“Nel passato – sottolinea il professore italiano – sarebbero state buttate, con tutti i dati scientifici ad esse legati, come materiale di disturbo Oggi per fortuna ci sono gli archeo-zoologi”). Gli archeologi impegnati a Urkesh pensavano che i sacrifici riguardassero grossi animali. Invece lo scavo ha smentito questa convinzione: “A Tell Mozan abbiamo trovato solo ossa di maialini di pochi mesi e di piccoli cani, macellati come se si volesse estrarre qualcosa piuttosto che per il pasto”.

La cosiddetta “Signora degli Inferi”, piccola giara antropomorfica trovata nella fossa necromantica di Urkesh

La cosiddetta “Signora degli Inferi”, piccola giara antropomorfa trovata nella fossa di Urkesh

Il rito necromantico è stato ricostruito dai Buccellati seguendo le descrizioni riportate dai testi ittiti in lingua hurrita. “Prendono due pugnali,/ che sono stati/ fatti assieme/ alla statua/ della divinità,/ e scavano/ una fossa./ Offrono/ una pecora/ alla divinità…/ e la sacrificano/ giù nella fossa”. C’è un’eco con l’episodio di Enea che parla con la madre. Dalla fossa necromantica di Tell Mozan proviene la cosiddetta “Signora degli Inferi”. Si tratta di una piccola giara antropomorfa. Presumibilmente conteneva olio profumato usato nei rituali della Nekyia. “La distorsione della bocca non è casuale”, fa notare Giorgio Buccellati. “Gli spiriti degli Inferi non parlavano distintamente ma come un cinguettio di uccelli (così ci dicono i testi hurriti). La nostra figura – conclude – rappresenta quindi un tale spirito nel momento in cui comunica il suo messaggio indistinto che una donna medium dovrà poi interpretare”.

Bimillenario di Augusto. Mostre ed eventi a Roma dal’Ara Pacis (L’arte del comando) ai Mercati Traianei (La città di Augusto) e al foro di Augusto rivive la romanità con Piero e Alberto Angela

All'Ara Pacis di Roma la mostra "L'arte del comando. L'eredità di Augusto"

All’Ara Pacis di Roma la mostra “L’arte del comando. L’eredità di Augusto”

La mostra all'Ara Pacis "L'arte del comando. L'eredità di Augusto"

La mostra all’Ara Pacis “L’arte del comando”

A Roma si susseguono mostre ed eventi per celebrare il bimillenario di Augusto. “L’arte del comando. L’eredità di Augusto”, al Museo dell’Ara Pacis fino al 7 settembre, è una tappa fondamentale per approfondire le principali politiche culturali e di propaganda messe in atto da Augusto nel suo principato e replicate nei secoli per il loro carattere esemplare. Le 12 sezioni della mostra, articolate per temi ed epoche storiche differenti, illustrano in che modo imperatori come Carlo Magno, Federico II, Carlo V o Napoleone, per citarne solo alcuni, nel corso della storia abbiano reinterpretato “l’arte del comando” di Augusto a volte con formule molto vicine o identiche. Sono esposti incisioni, dipinti, monete, mosaici, acqueforti, oli, sculture e gemme grazie ai prestiti di prestigiosi istituti culturali, dagli Uffici ai Musei Vaticani, dal museo di Capodimonte alla Galleria Borghese, da Palazzo Barberini al museo etrusco di Villa Giulia, solo per citarne alcuni. “La propaganda augustea si basava sulla discendenza della gens Julia dall’eroe troiano Enea, il figlio di Anchise e della dea Venere già noto dalla tradizione epica greca e romana e protagonista nel Lazio di antichi miti di fondazione”, spiegano i curatori della mostra Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini. “Il principe ebbe però l’abilità di commissionare una serie di opere che sistematizzavano le origini troiane di Roma e al tempo stesso quelle della sua stessa famiglia, in modo tale che la sua ascesa al potere apparisse agli occhi dei contemporanei non solo legittima ma predestinata. A questo scopo commissionò opere come l’Eneide, l’arredo simbolico del suo Foro e l’Ara Pacis, facendo della propaganda un’arte e affidando alle creazioni delle migliori menti del suo tempo la sua stessa immagine. Augusto seppe scegliere i suoi collaboratori e con loro adattò al suo regime il mito dell’età dell’oro, quando il tempo ricomincia il suo ciclo e riporta tra gli uomini semplicità di costumi, prosperità e pace universale”. Queste due leve, usate dal circolo augusteo per gettare le basi dell’immaginario imperiale, furono così efficaci che la discendenza divina dell’imperatore e la pace augustea saranno fonte d’ispirazione nei secoli per gli assolutismi a venire.

I Mercati Traianei di notte: lì apre la mostra "Le chiavi di Roma"

I Mercati Traianei di notte: lì apre la mostra “Le chiavi di Roma”

La mostra "Le chiavi di Roma. La città di Augusto" è promossa dai Musei Virtuali europei

La mostra “Le chiavi di Roma. La città di Augusto” è promossa dai Musei Virtuali europei

L’evento “Keys To Rome”, ai Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali dal 24 settembre 2014 al 12 aprile 2015 ha come tema centrale della mostra “Le Chiavi di Roma. La città di Augusto”. L’esposizione, ideata e curata dalla soprintendenza Capitolina e dal CNR, è un evento organizzato dalla più grande rete di eccellenza europea sui Musei Virtuali, V-MUST, coordinata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Quattro città forniranno quattro prospettive diverse sulla cultura romana: il cuore di Roma, con il Museo dei Fori Imperiali; Alessandria d’Egitto, nelle splendide sale della Biblioteca Alessandrina; Amsterdam con l’innovativo Museo Allard Pierson e, infine, Sarajevo all’interno della storica biblioteca, sede del municipio, da poco restaurata. Le quattro città, che simboleggiano i “quattro angoli” del mondo romano, sono alla base dell’idea della mostra europea e saranno un’occasione senza precedenti per guardare all’Impero da punti di osservazione storici, geografici, culturali e umani molto diversi. Al centro dell’esperienza museale, un percorso fatto di filmati, di sistemi di interazione naturale e applicazioni mobili, guiderà il visitatore a ripercorrere la storia romana, grazie a due protagonisti, un vecchio mercante e suo nipote, che dovranno ritrovare gli oggetti appartenuti alla famiglia e svelarne i segreti, usando le chiavi di Roma, nell’unico giorno in cui il dio Giano consentirà di aprire le porte del tempo. Nella Grande Aula del Museo, una mappa della città darà al visitatore la sensazione di “camminare” nella Roma di duemila anni fa. Il Foro di Augusto, il suo Mausoleo, l’Ara Pacis e gli altri monumenti, “emergeranno” dalla mappa e racconteranno la propria storia. Due busti di Augusto e Agrippa – il suo “braccio destro” – si animeranno e parleranno delle strategie e degli avvenimenti storici che hanno permesso l’irresistibile ascesa del princeps e la trasformazione della città. Infine, videopannelli presenti lungo il percorso espositivo illustreranno le novità scientifiche sugli ultimi scavi, testimoniando la continua ricerca e la presenza sul territorio degli archeologi della soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Nell’ambito delle attività collaterali che arricchiranno ulteriormente l’evento, verrà anche organizzata la “Digital Museum Expo”, esposizione e workshop rivolti a professionisti e operatori del settore, che presenteranno le soluzioni tecnologiche più recenti, create per i musei del futuro. L’Expo sarà visitabile a Roma, sempre all’interno del Museo dei Fori Imperiali, per una settimana, dal 24 al 28 settembre 2014. Verrà poi spostato a turno nelle altre quattro sedi di “Keys to Rome” tra ottobre e dicembre.

La sera il foro di Augusto a Roma rivive con lo spettacolo a effetti speciali di Piero Angela

La sera il foro di Augusto a Roma rivive con lo spettacolo a effetti speciali di Piero Angela

Una suggestiva visione notturna del Foro di Augusto a Roma

Una suggestiva visione notturna del Foro di Augusto a Roma

Ma si potrà anche «camminare» nella Roma Augustea scoprendo luoghi suggestivi e testimonianze architettoniche importanti dell’azione innovatrice di Augusto. “Foro di Augusto. 2000 anni dopo” è un progetto spettacolare ideato e curato da Piero Angela e Paco Lanciano con la storica collaborazione di Gaetano Capasso. Grazie ad appositi sistemi audio con cuffie gli spettatori (durata 40 minuti; max 200 persone; le giornate di pioggia saranno recuperate) possono ascoltare la musica, gli effetti speciali e il racconto di Piero Angela in 6 lingue, italiano, inglese, francese, russo, spagnolo e giapponese, tutte le sere fino al 27 settembre in tre repliche alle 21, alle 22 e alle 23 da via Alessandrina, proprio affacciati sul Foro di Augusto. “Utilizzando le tecnologie più all’avanguardia”, spiega Renzo De Simone, “il progetto illustra in modo puntuale il sito archeologico situato lungo via dei Fori Imperiali e adiacente a via Alessandrina partendo da pietre, frammenti e colonne presenti. Gli spettatori sono accompagnati dalla voce di Piero Angela e da magnifici filmati e ricostruzioni che mostrano i luoghi così come si presentavano all’epoca di Augusto: una rappresentazione emozionante ed allo stesso tempo ricca di informazioni dal grande rigore storico e scientifico”. Le tribune ideate per ospitare il pubblico e l’impianto tecnico necessario (luci, proiettori, computer ecc.) sono stati realizzati, in accordo con la soprintendenza Capitolina, con l’obiettivo di ridurre al minimo l’impatto visivo sull’area archeologica. Disposte su due file parallele, le tribune sono contenute interamente dal marciapiede di via Alessandrina e composte da 7 moduli interrotti dalle scale a doppia rampa per un’altezza totale di circa 2,60 metri più il parapetto alto 1 metro. “Pur spaziando su vari aspetti di quel fenomeno unico che fu la romanità”, continua De Simone, “il racconto è sempre ancorato al sito di Augusto, utilizzando in modo creativo i resti del Foro per cercare di far parlare il più possibile le pietre. Oltre alla ricostruzione fedele dei luoghi, con effetti speciali di ogni tipo, il racconto si sofferma sulla figura di Augusto, la cui gigantesca statua, alta ben 12 metri, dominava l’area accanto al tempio. Con Augusto Roma ha inaugurato un nuovo periodo della sua storia: l’età imperiale è stata, infatti, quella della grande ascesa che, nel giro di un secolo, ha portato Roma a regnare su un impero esteso dall’attuale Inghilterra ai confini con l’attuale Iraq, comprendendo gran parte dell’Europa, del Medio Oriente e tutto il Nord Africa. È questa dunque un’occasione – conclude – anche per raccontare che quella conquista significò l’espansione non solo di un impero, ma anche di una grande civiltà, che ha portato con sé cultura, tecnologia, regole giuridiche, arte. In tutte le zone dell’Impero ancora oggi sono rimaste le tracce di quel passato, con anfiteatri, terme, biblioteche, templi, strade”. Dopo Augusto, del resto, molti altri imperatori lasciarono la loro traccia nei Fori Imperiali costruendo il proprio Foro. “Roma – ricorda Alberto Angela – a quel tempo contava più di un milione di abitanti: nessuna città al mondo aveva mai avuto una popolazione di quelle proporzioni; solo Londra nell’800 ha raggiunto queste dimensioni. Era la grande metropoli dell’antichità: la capitale dell’economia, del diritto, del potere e del divertimento”.

L'imperatore Ottaviano Augusto

L’imperatore Ottaviano Augusto

Infine c’è lo spettacolo d’eccezione ‘Tyrtarion”: per celebrare Augusto andrà in scena nella cornice suggestiva dei Mercati di Traiano il 30 agosto alle 19 con replica il 31 agosto. I poeti di età augustea “cantati” e musicati dagli studenti dell’Accademia Vivarium Novum: Virgilio, Orazio, Ovidio, Catullo torneranno a essere recitati e cantati per celebrare l’Imperatore Augusto nella lingua dell’antica Roma: il latino.