Gli archeologi e gli studenti della scuola di specializzazione di Oristano hanno scoperto nel golfo di Hammamet, in Tunisia, le tracce della Colonia Iulia Neapolis, una delle più importanti città romane d’Africa, sprofondata nel mare nel IV sec. d.C. per un terremoto

Visione area del sito archeologico di Colonia Iulia Neapolis, nel golfo di Hammamet in Tunisia, con una parte sulla costa e una parte sprofondata nel mare
Da Oristano in Sardegna ad Hammamet in Tunisia. Da Santa Maria di Nabui, nel golfo di Oristano, a Nabeul di Cap Bon, vicino a Tunisi. Per un unico comun denominatore: Nesiotikà, la Scuola di specializzazione in Beni archeologici di Oristano, e una Neapolis. Quella sulla costa occidentale sarda, città prima sotto controllo fenicio-punico e poi romano, descritta da Plinio come una delle più importanti città della Sardegna, era stata studiata dalla seconda metà del Novecento, quella nord-africana – nota come Colonia Iulia Neapolis – è stata scoperta (ma sarebbe più corretto dire che ne è stata certificata la sua struttura urbanistica) nella IX missione archeologica sardo-magrebina, conclusasi nei giorni scorsi, coordinata dai professori Raimondo Zucca e Pier Giorgio Spanu e dal prof. Mounir Fantar, responsabile archeologo dell’area della Tunisia del Nord Est, e riservata agli studenti di Nesiotikà. E verso la seconda metà di agosto è programmata una decima missione volta ad approfondire alcune aspetti della scoperta, ma soprattutto le ragioni per cui questo pezzo della città di Neapolis sarebbe rimasto sommerso dall’acqua. Parteciperanno dunque anche archeosismologi e geomorfologi subacquei. La IX campagna si è svolta nell’ambito dell’accordo quadro siglato nel 2009 tra l’Institut National du Patrimoine di Tunisi e l’università di Sassari e ha coinvolto quattro specializzandi della sede di Oristano oltre ad alcuni studenti tunisini. I settori di intervento hanno riguardato un’area terrestre, con la conclusione dei saggi di scavo iniziati nel 2016 e la realizzazione di piccoli saggi di verifica della cronologia degli atria con fontane della Nympharum Domus e del cardo orientale della domus e un’area marina con l’indagine delle strutture sommerse attraverso sonar a scansione laterale (side scan sonar) e immagini fotografiche e video tramite GoPro. E, ancora, la verifica dell’esistenza di strutture portuali sommerse nell’area di Beni Khiar-Mammoura, eventualmente riferibili alla fase successiva alla sommersione nel IV secolo d.C. delle Usines de Salaisons e del porto neapolitano.
Neapolis sarebbe stata fondata nel V secolo a.C.: di qui sono passati i fenici, i cartaginesi e anche i romani., quando raggiunse l’estensione di 60 ettari. Quella che oggi è stata scoperta copre un’area di 20 ettari: lunga un chilometro e larga 200 metri. Antiche strade e vecchi edifici si trovano a 5 metri di profondità e sono suddivisi in isolati, realizzati quasi geometricamente, di 71 metri per 35,5. Sprofondata per effetto di un terremoto nel IV sec. d.C., Neapolis si presenta integra, quasi identica alla città descritta nel IV secolo dopo Cristo. Nell’800 si conosceva la localizzazione di Neapolis, ma gli scavi veri e propri sono iniziati nel 1965, in occasione della costruzione di un hotel. I primi ritrovamenti riguardano un’antica domus con mosaici e un vecchio stabilimento per la produzione del garum, la salsa di pesce. La missione sarda inizia nel 2009 quando, dopo aver studiato la Neapolis sarda di fronte al golfo di Oristano, il professor Zucca proponeva di studiare anche la gemella e omonima città africana. I rilievi anche subacquei e aerei eseguiti nel corso della missione appena conclusa hanno permesso di completare la planimetria della città sommersa che rappresenta circa un terzo dell’intera Colonia Iulia Neapolis.
“La porzione di Neapolis individuata nelle precedenti missioni e ben documentata”, spiegano gli archeologi Raimondo Zucca e Pier Giorgio Spanu del Dipartimento di Storia, Scienze dell’uomo e della Formazione dell’università di Sassari e il professor Mounir Fantar, dell’Institut national du patrimoine (Inp) di Tunisi, “potrebbe essere definita la zona industriale della già ben nota Colonia Iulia Neapolis, ed è caratterizzata dalla presenza di un gran numero di vasche dove si procedeva alla salagione di grandi quantità di pesce (in particolare sardine ma anche piccoli tonni) che poi venivano sistemate all’interno di anfore di terracotta, caricate sulle navi e esportate in vari paesi del Mediterraneo”. Ma non è tutto. Nel corso della IX missione è stato scoperto tra le rovine della città di terraferma un interessante frammento di una lastra calcarea utilizzata per una iscrizione plateale, che ha permesso di individuare quello che potrebbe essere il 27.mo foro romano (il quarto in Africa) con il suo tempio dedicato a Giove Capitolino, la sua Curia e la sua Basilica giudiziaria.
Archeologia medievale in Sardegna. Nel parco archeologico di Mesumundu la Scuola estiva dell’università di Sassari scava in un villaggio “testimone” del passaggio dall’epoca romana a quella bizantina
Siamo nel “mondo di mezzo” della Sardegna settentrionale. Non solo geograficamente, ma – grazie alle ricerche archeologiche – temporalmente: un ponte tra Roma e il Medioevo. L’etimologia dei toponimi non sembra lasciare molti margini al dubbio, sia per quanto riguarda il territorio, il Meilogu (letteralmente: il “luogo mediano”, dal latino medius locus, della regione del Logudoro, in provincia di Sassari), sia per quanto attiene il sito archeologico oggetto del nostro approfondimento, Mesumundu (letteralmente: “mezzo mondo”, quindi ancora una volta un “luogo mediano”, visto che si trova al centro del Giudicato di Logudoro; ma, per gli studiosi, il nome potrebbe anche riferirsi alla cupola dell’edificio, vista come un emisfero, cioè come un “mezzo mondo”, di fattura tardo-romana, in origine un edificio termale, poi adibito a chiesa cristiana dedicata a Nostra Segnora de Mesumundu, altrimenti detta Santa Maria in Bubalis). Mesumundu, nel comune di Siligo, provincia di Sassari, è oggi un parco archeologico esteso per oltre un ettaro in una valle alluvionale vicino a un antico percorso già esistente in età protostorica e ripreso in età romana. Numerose le tracce dell’uomo presenti dall’epoca prenuragica a quella medievale: in particolare c’è un’ampia zona ricca di reperti ceramici, prevalentemente di epoca romana. Tra gli edifici di epoca romana, tra cui le terme, oggi sono in prevalenza rovine di murature e materiali di crollo. Si nota ancora un frammento dell’acquedotto, che convogliava le acque termali dalla sorgente di S’Abba Uddi, e i resti di una fornace per la produzione di laterizi. Inoltre nel parco archeologico, adiacente alla chiesa di Nostra Signora di Musumundu, vi è una necropoli con sepolture risalenti al VI-VII secolo d.C.
A Mesumundu si è da poco conclusa la sesta campagna di scavo della Scuola estiva di archeologia medievale (Seam) del dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’università di Sassari, diretto dal prof. Marco Milanese, ordinario di Archeologia medievale, cui hanno partecipato 30 fra studenti, laureati, dottorandi e dottori di ricerca in archeologia di sette università, italiane e straniere, da Sassari a Parigi, da Lione a Barcellona, da Murcia a Napoli, a Cagliari. Mesumundu è oggetto di scavi archeologici dall’Ottocento. Si conoscono almeno sei interventi ufficiali e un numero imprecisato di scavi clandestini o non autorizzati. “Pur essendo poco conosciuto”, fa notare il prof. Milanese, “è un sito strategico, un central place per la storia del Meilogu, regione storico-geografica della Sardegna che può essere considerata una sub-regione del Logoduro, famoso per la cosiddetta valle dei Nuraghi, un luogo in cui leggere modi e tempi del passaggio dal mondo romano a quello medievale e costruire un caso di studio che possa essere utilizzato per capire questa transizione in Sardegna e nel bacino del Mediterraneo”. E continua: “In quest’area vulcanica le acque termali vennero sfruttate dall’impianto di un complesso termale in epoca imperiale romana (II secolo d.C). Le vicinissime sorgenti di S’Abba Uddi furono captate con un piccolo acquedotto e sfruttate per le terme; ad esse doveva essere associato un tempio delle sorgenti termali, la cui ubicazione è ancora da identificare. Lo stabilimento termale fu restaurato probabilmente dopo 150 anni circa dalla sua realizzazione (fine III – inizio IV secolo d.C.), fino al suo abbandono che sembrerebbe essere sopraggiunto nel V secolo d.C. In età bizantina, alla fine del VI secolo, le terme furono rase al suolo e i materiali da costruzione vennero riutilizzati per la costruzione della chiesa, voluta da un gruppo aristocratico bizantino insediato in questo territorio. Uno dei temi di fondo della campagna di scavo a Mesumundu è anche quello di far luce sull’insediamento monastico cassinese che nel 1065 – a seguito di una donazione giudicale al monastero di monte Cassino – avrebbe interessato l’area in questione (Santa Maria di Bubalis) e il vicino Monte Santo”.

Studenti, laureati, dottorandi e dottori di ricerca in archeologia impegnati nello scavo del villaggio medievale di Mesumundu
La sesta campagna di scavo è stata un successo, come riferisce ancora il direttore della missione: “Mesumundu è stato un villaggio rurale tra il V e il VII sec. d.C.: i ritrovamenti effettuati in un mese di ricerche ci permettono di fare scoperte interessanti a livello regionale e nazionale sul passaggio dall’epoca romana a quella bizantina. La campagna di scavi è stata davvero più proficua delle attese. Rispetto alle conoscenze già disponibili sono emersi rilevamenti molto importanti, sono venute alla luce strutture completamente sconosciute e inattese, una consistente popolazione rurale si è insediata nell’area delle terme dismesse e ha costruito lì le proprie abitazioni”.



















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