Ischia. “Il rapporto tra il mondo greco e quello etrusco in ambito coloniale” con Nizzo (Etru) (Mann) e Giulierini: nuovo appuntamento all’Archeologico di Lacco Ameno del progetto “Kepos 2022 paesaggi e archeologia” promosso dalla Fondazione Walton
“Ci fu un tempo nel quale quasi tutta l’Italia fu sotto il dominio degli Etruschi”, così Catone il Censore nel II secolo a.C. ricordava ancora quella che era stata la potenza degli Etruschi, dal Tirreno all’Adriatico, mari che anche agli occhi dei Greci avevano un “cuore” e un “nome” etrusco, come attesterà ancora nel I secolo a.C. Tito Livio. Gli storici greci come Polibio erano altrettanto consapevoli di questa originaria potenza riconducendone le ragioni al controllo di due vaste e fertili pianure, epicentro strategico della loro economia. Parte da queste suggestioni “Il rapporto tra il mondo greco e quello etrusco in ambito coloniale”, il nuovo appuntamento del percorso culturale del progetto Kepos “Incontri su archeologia e paesaggio”, organizzato dalla Fondazione Walton e Giardini La Mortella. Giovedì 8 settembre 2022, alle 18.30, al museo Archeologico di Pithecusae a Villa Arbusto di Lacco Ameno sull’isola d’Ischia, dopo i saluti istituzionali, parleranno il direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, Valentino Nizzo (se supera il tampone finale per il Covid) su “I popoli del mare. Greci e Etruschi nel Tirreno”, e il direttore del museo Archeologico nazionale di Napoli, Paolo Giulierini su “I popoli della pesca tra Greci e Etruschi: mito e storia”. Modera Mariangela Catuogno, responsabile scientifico del progetto Kepos. Nizzo ripercorrerà attraverso il mito, le fonti letterarie e la straordinaria evidenza archeologica di Pithekoussai e di Cuma, i moventi e le dinamiche di questo lungo processo e la dialettica dei rapporti, degli scambi e degli scontri che impegnarono Greci, Etruschi e Italici dall’VIII fino al V secolo a.C., quando con la seconda battaglia di Cuma del 474 a.C. le ambizioni etrusche nel Tirreno meridionale subiscono una gravissima battuta di arresto che segnò per sempre l’inizio di una nuova epoca. Giulierini spiegherà quel delicato rapporto tra il mare e la pesca. Del resto pescare nel mondo antico significa, a differenza di altre pratiche, come l’agricoltura, condurre una lotta quotidiana per il sostentamento in un ambiente tutt’altro che asservito, pieno di elementi sconosciuti, infidi e talora mortali, tali da ribaltare il concetto di preda e predatore, come nel noto caso del cratere di Ischia. Gli Etruschi e i Greci sono presentati a confronto rispetto alle fonti letterarie, agli ambienti di pesca, all’evoluzione degli utensili e delle tecniche utilizzate, ai sistemi organizzativi e alle economie degli abitati e delle città costiere, che spesso giungono a battere monete con effigiate creature marine. Pescare è, dunque, un’esperienza con mille sfaccettature: riguarda solo le classi umili abituate a pesci di piccola taglia ma, talora, personaggi delle élites che compiono atti di eroismo contro “mostri del mare”, alla base dello sviluppo di raffigurazioni su tombe o classi vascolari al limite della mitologia.
Natale di Roma, per “Canti di pietra” il parco archeologico del Colosseo ospita l’attore e regista Abel Ferrara che legge le poesie di Gabriele Tinti ispirate ai riti della fondazione di Roma, dall’umbilicus urbis al Lacus Curtius

Giovedì 21 aprile 2022, in occasione della ricorrenza del Natale di Roma, alle 11.30, il parco archeologico del Colosseo per “Canti di Pietra”, ospita l’attore e regista Abel Ferrara per la lettura delle poesie di Gabriele Tinti ispirate ai riti della fondazione di Roma, ai luoghi sacri e misterici collegati con la fase originaria della città. L’evento è aperto a tutto il pubblico in possesso di biglietto di accesso al PArCo. La lettura poetica avrà luogo nei pressi dell’umbilicus urbis che – come dice il nome stesso (umbilicus dal greco omphalòs) – è il centro simbolico della città, per poi concludersi in prossimità del Lacus Curtius, un luogo enigmatico avvolto da molte leggende. L’umbilicus urbis è stato identificato con il centro ideale della città che celava il mundus, ossia la fenditura nel terreno dedicata agli Dei Mani che fungeva da contatto, da porta, tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Il passaggio veniva aperto tre volte all’anno con la formula di rito Mundus patet che consentiva alle anime dei morti di ricongiungersi a quelle dei vivi in giorni considerati nefasti.

Le poesie ispirate al Lacus Curtius si riferiscono invece alle varie narrazioni mitiche e in particolare al racconto di Tito Livio che parla di una profonda voragine che improvvisamente si aprì nel cuore del Foro Romano, forse all’inizio del periodo regio. Egli riporta che furono compiuti numerosi tentativi per riempirla con la terra, ma senza successo. Il responso degli àuguri fu, come sempre, di difficile interpretazione: l’abisso poteva essere chiuso soltanto con il sacrificio di “quo plurimum populus Romanus posset” (Livio, Ab Urbe condita libri, libro VII, cap. V), ovvero di ciò che il popolo romano aveva di più caro. Il cavaliere Marco Curzio pensò che la cosa più preziosa dei Romani fosse il valore dei suoi giovani soldati. Fu così che, vestito con l’armatura da battaglia, montò in sella al suo cavallo e si gettò nella voragine, sacrificando la propria vita.
Trieste. “Oltre Aquileia. La conquista romana del Carso (II-I sec. a.C.)”: una mostra e un congresso sulla conquista e sulla romanizzazione dei territori a Est di Aquileia tra II e I secolo a.C., con un’attenzione particolare per l’altopiano del Carso, posto tra Italia e Slovenia

“Oltre Aquileia. La conquista romana del Carso (II-I sec. a.C.)”: una mostra da poco inaugurata al museo Scientifico Speleologico della Grotta Gigante e al Centro Visite della Riserva Naturale Regionale della Val Rosandra, con Federico Bernardini archeologo e ricercatore di Ca’ Foscari tra i curatori, e un congresso internazionale di due giorni (10-11 novembre 2021) al France Prešeren theatre a Bagnoli della Rosandra di San Dorligo della Valle (Ts), durante il quale sarà assegnata la borsa di studio finanziata dalla Fondazione Pietro Pittini e dedicata a studenti dell’università Ca’ Foscari Venezia e della Scuola Interateneo di Specializzazione in Beni Archeologici (SISBA), per le nuove tecnologie applicate alla ricerca storica e archeologica. La mostra (16 ottobre 2021 – 28 febbraio 2022) racconta una fase fino a poco tempo fa quasi sconosciuta dal punto di vista archeologico: la conquista e la romanizzazione dei territori a est di Aquileia tra II e I secolo a.C., con un’attenzione particolare per l’altopiano del Carso, posto tra Italia e Slovenia.


Cartina dei territori romani e degli Istri lungo le coste dell’Alto Adriatico, elaborata da M. Belak (foto unive)
Come ben illustrato nella cartina elaborata da M. Belak, si possono apprezzare le regioni adriatiche nord-orientali subito dopo la fondazione di Aquileia: il territorio romano e quello occupato dagli Istri e da altre popolazioni indigene. Mentre nel riquadro in alto a destra è rappresentata l’estensione schematica del territorio romano all’inizio del II secolo a.C. In mostra una selezione di reperti archeologici provenienti da due dei più antichi accampamenti militari romani noti, identificati nei pressi di Trieste e le cui origini risalgono alla fase immediatamente successiva alla fondazione di Aquileia nel 181 a.C. Oltre ai reperti dai siti triestini, il percorso espositivo include armi e manufatti da accampamenti e campi di battaglia oggi posti in territorio sloveno, materiali di confronto, modelli del terreno, epigrafi e manufatti stampati in 3D. Tra questi si possono vedere i modelli tridimensionali di una dedica al Timavo posta ad Aquileia dal console del 129 a.C. Gaio Sempronio Tuditano in occasione del trionfo sui Giapidi, celebrato a Roma a seguito delle campagne vittoriose contro diverse popolazioni dell’arco alpino orientale, tra cui i Taurisci.


Anfora vinaria dal relitto “Grado 2” (forma greco-italica tarda; seconda metà III-inizio II secolo a.C.) (foto di M. Raccar)
I siti triestini oggetto di studio e scavo includono un grande accampamento militare di oltre 13 ettari, identificato sul colle di San Rocco, posto nei pressi della linea di costa tra Muggia e Trieste, e un altro sito fortificato di dimensioni minori a Grociana piccola sull’altopiano carsico, in collegamento visivo con il grande accampamento costiero. Grazie al telerilevamento laser da aeromobile, una tecnologia rivoluzionaria per lo studio del paesaggio antico, è stato possibile rimuovere virtualmente la vegetazione di un vasto settore della provincia di Trieste permettendo l’identificazione di queste due antichissime basi militari romane. Agli occhi degli studiosi sono apparse vaste strutture di fortificazione rettangolari o di forma regolare ma anche divisioni del terreno, percorsi stradali e altro ancora. Questi elementi, investigati tramite ricognizioni e scavi e integrati dallo studio delle fonti antiche, consentono di rileggere sotto una nuova luce la storia del Carso e delle regioni limitrofe tra II e I secolo a.C. Lo studio degli accampamenti triestini è di grande importanza per ricostruire una fase di svolta nella storia del territorio e l’origine dell’architettura militare romana. Negli accampamenti sono state trovate armi, anfore, ceramiche, monete, picchetti da tenda e numerosissimi chiodi pertinenti ai sandali militari (le cosiddette calighe). Degno di nota, a testimonianza dell’antichità del sito, il ritrovamento di un numero relativamente elevato di anfore importate dalla zona tirrenica, da Lazio e Campania, che giungevano colme di vino per rifocillare i guerrieri impegnati nei territori altoadriatici.


Ipotesi ricostruttiva di un tratto della fortificazione esterna di San Rocco (disegno di G. Zanettini)
I siti fortificati triestini, in uso dal II fino a circa la metà del I secolo a.C., testimoniano i primi scontri su uno dei confini strategici della Repubblica Romana. Secondo le fonti antiche, all’inizio del II secolo a.C. gli Istri occupavano la fascia costiera triestina oltre che la penisola istriana. I primi scontri tra Romani e Istri avvennero già prima della fondazione di Aquileia, ma l’Istria venne sottomessa solo grazie a una guerra combattuta tra il 178 e 177 a.C. Lo storico romano Tito Livio ci ha lasciato una cronaca di quegli avvenimenti, raccontando che gli Istri nel primo anno di guerra sarebbero riusciti a occupare un accampamento romano costruito nell’area di Trieste, forse identificabile con i resti scoperti proprio sul colle di San Rocco. Tuttavia, i Romani lo avrebbero riconquistato con pochissime perdite perché gli Istri invece di difenderlo si sarebbero ubriacati con il vino trovato al suo interno. Tutta l’area carsica continuò tuttavia a essere territorio di confine politicamente instabile e terreno di battaglie fino alla metà del I secolo a.C. Oltre al percorso espositivo, gli studiosi hanno creato anche un sito internet oltreaquileia.it, dove è possibile reperire informazioni sull’evento, interagire con modelli 3D di manufatti archeologici e, soprattutto, accedere liberamente al catalogo trilingue dell’esposizione che sarà anche scaricabile.

Il 10 novembre 2021, al teatro France Prešeren, Bagnoli della Rosandra – Boljunec, si terrà il congresso internazionale “The Roman conquest beyond Aquileia (II-I century BC)”. L’incontro è dedicato allo studio dell’espansione militare romana nei territori a Est di Aquileia nel II e I secolo a.C. Studiosi italiani, sloveni, croati e austrici presenteranno e discuteranno i risultati dei loro recenti studi. I nuovi dati archeologici derivanti da ricerche condotte negli accampamenti triestini, sul colle di San Giusto (Trieste) e in siti prevalentemente militari posti in territorio sloveno e croato saranno confrontati con le informazioni fornite dalle fonti letterarie ed epigrafiche nel tentativo di approfondire la conoscenza di questa fase storica e dell’archeologia militare tardo-repubblicana. L’11 novembre 2021 si terrà invece un’escursione ai siti militari triestini e una visita guidata alla mostra “Oltre Aquileia. La conquista romana del Carso (II-I secolo a.C.)”.
Roma, Percorsi fuori dal PArCo. Nel primo appuntamento, nel nome dei divini gemelli Castore e Polluce, il viaggio parte dal tempio dei Dioscuri al Foro romano per arrivare al tempio che sorge a Cori nel Lazio

Quattordici appuntamenti per raccontare, con testi e immagini, il nesso antico che unisce la storia di un monumento o di un reperto del parco archeologico del Colosseo con un suo “gemello”, situato nel Lazio. È il progetto “Percorsi fuori dal PArCo – Distanti ma uniti dalla storia” che vuole portare i cittadini romani e tutti i visitatori a scoprire i legami profondi e ricchi di interesse, ma non sempre valorizzati, tra i monumenti del Parco e quelli del territorio circostante. Per il primo appuntamento il viaggio parte dal Foro romano e seguendo le tracce dei gemelli divini, figli di Zeus e di Leda, si arriva in una cittadina del Lazio, Cori, in cui si conserva un altro tempio a loro dedicato. Il racconto inizia con veri gemelli, i divini Castore e Polluce.

“I Dioscuri, figli di Zeus e di Leda, partecipi di imprese gloriose, tra cui quella degli Argonauti”, spiegano gli archeologi del PArCo, “furono legati secondo il mito da un affetto così forte che quando Castore fu ucciso, Polluce, il gemello immortale, scelse di condividere la propria immortalità, vivendo con il fratello un giorno nell’Olimpo e un giorno negli inferi. Il loro culto, nato probabilmente a Sparta, fu accolto a Roma già nei primi anni della Repubblica: secondo Tito Livio, infatti, nel 499 a.C., durante la battaglia del Lago Regillo contro la lega Latina, apparvero due cavalieri su cavalli bianchi, che guidarono i Romani alla vittoria; essi riapparvero poi nel Foro, dove lavarono i loro cavalli nella Fonte di Giuturna e scomparvero di nuovo. Proprio accanto alla fonte il console Aulo Postumio Albino, vincitore della battaglia, votò ai gemelli divini un tempio, inaugurato nel 484 a.C., di cui ancora oggi si conservano, su un alto podio, le tre imponenti colonne corinzie risalenti alla ricostruzione di Tiberio del 6 d.C. Il tempio fu sempre legato alla classe dei cavalieri, e probabilmente da qui partiva ogni 15 luglio, anniversario della battaglia, la transvectio equitum, processione commemorativa istituita nel 304 a.C. da Quinto Fabio Massimo Rulliano. Ma il culto dei Castori è radicato anche in molte città del Lazio, dove fu istituito probabilmente prima che a Roma, tanto che si è ipotizzato che il voto di Aulo Postumio sia da considerare una “evocatio”: un rito con cui si “invitava” la divinità protettrice dei nemici ad unirsi al pantheon romano”.

“Dei templi dedicati ai Dioscuri nel Lazio”, continuano gli archeologi del PArCo, “il meglio conservato è quello di Cori, in provincia di Latina, costruito all’estremità sud-orientale della terrazza del Foro della città. Del tempio, risalente anch’esso al V sec. a.C., si conoscono almeno tre fasi edilizie. Quella attualmente visibile, collocata intorno al 100 a.C., rappresenta una innovativa e raffinata sintesi tra un modello planimetrico di ispirazione arcaica (tempio “tuscanico” ad alae) ed un linguaggio architettonico e decorativo pienamente ellenistico. Come il tempio del Foro Romano, anche quello di Cori è di ordine corinzio, e si innalza su alto podio in opera quadrata di tufo. Gli scarsi resti dei rivestimenti consentono di ricostruire un pavimento in lastre di travertino negli ambienti laterali e un mosaico in bianco e nero con ricca bordatura in quello centrale, mentre le pareti della cella erano rivestite da un ricco intonaco imitante il marmo. Sul frontone dovevano essere collocate le statue dei gemelli divini, in marmo pario, rappresentati armati di lancia e recanti i cavalli alla briglia, secondo una iconografia creata tra la fine del II ed il I secolo a.C.

L’area del Tempio dei Dioscuri si trova nel Comune di Cori, nella città bassa, lungo via delle Colonne ed è sempre accessibile. Il museo della Città e del Territorio di Cori, che conserva frammenti della decorazione architettonica e del gruppo scultoreo dei Dioscuri, è visitabile ogni venerdì, sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18.
Parco archeologico del Colosseo presenta tre “Lezioni di archeologia” tenute dal prof. Andrea Carandini, che fa parte del comitato scientifico del PArCo. Nella prima “lezione” il grande archeologo spiega lo scavo stratigrafico

Tre “Lezioni di Archeologia” con il prof. Andrea Carandini promosse dal Parco archeologico del Colosseo, di cui l’eminente professore e famoso archeologo è membro del comitato scientifico. Le lezioni spazieranno dalla storia delle origini dello scavo stratigrafico, la cui definizione lo ha visto direttamente protagonista, alle indagini da lui stesso condotte sul Palatino, che hanno ampliato le conoscenze sulla storia della città di Roma e della sua fondazione, fino ad un approfondimento sul tema del “Natale di Roma“. Con la prima lezione, dunque, il prof. Carandini spiega lo scavo stratigrafico.
“Quando ero giovane”, spiega Carandini, “lo scavo archeologico era semplicemente una praticaccia dilettantistica. Ognuno se la cavava come poteva, e di fatto non faceva altro che sterrare con una certa attenzione magari per astratti livelli orizzontali, ma era sempre uno sterro. Grandi scavatori italiani nell’amministrazione e nell’accademia non sono mai esistiti. Giacomo Boni era un uomo molto semplice, Nino Lamboglia anche, erano persone semplici e abili in un qualcosa che va al di fuori delle pratiche normali. E io ho imparato da Lamboglia i primi rudimenti dello scavo. Che cos’è uno scavo stratigrafico? L’esempio più semplice è quello fornito dal gioco di Shanghai. Vince chi sposta un’asta senza smuoverne altre. Così è lo scavo archeologico. Bisogna togliere tutti gli strati che coprono altri strati, ma che non sono coperti e quindi sono gli ultimi, i più tardi. E così smontando il terreno esattamente nell’ordine inverso in cui si è formato, quindi andando indietro come i gamberi nel tempo, si riesce a dipanare questo che appare un caos complicato e che invece ha un ordine assolutamente certo purché lo si sappia riconoscere. Come si può distinguere uno scavo dall’altro? è come distinguere un volto da un altro, anche se gli scavi sono più difficili da distinguere. Gli scavi hanno la loro compattezza, il loro colore, le loro caratteristiche e quindi vanno ben puliti per poterli ben definire, delimitare, distinguere, documentare e poi togliere. Perché la terra fa parte di un monumento, fa parte di un’architettura. Gli strati non sono che pavimenti o strati di abbandono o strati di preparazione alla vita, e anche i muri verticali sono strati compatti. Gli strati – continua Carandini – sono di due tipi: positivi e negativi. Se si apporta del materiale è uno strato positivo che si può delimitare, prendere e togliere. Ma se è uno strato negativo come una buca non si può assolutamente toccare perché è un’assenza di strato, ma che ha una forma particolare molto significativa. Per esempio, le capanne sono fatte da pali e di essi rimangono soltanto i buchi nel terreno che formano una chiazza un po’ più scura di quella del terreno normale, per cui questi buchi sono appunto assenze di materiali e non presenze. Ma sono molto importanti per indicare la presenza un tempo, un dì, di pali che formavano una struttura capannicola. Quindi lo scavare non è semplicemente una pratica, è esattamente una filologia: la filologia è l’arte di ricostruire i testi antichi confrontando i vari codici che ci sono rimasti per avere un testo più fedele possibile di Omero, di Stesicoro, di Livio o di Cassiodoro. La filologia applicata alle cose è appunto la stratigrafia. Gli strati contengono dentro di loro della ceramica. La ceramica più tarda è quella che data lo strato, che dà un termine post quem allo strato. Quindi lo strato si data attraverso i suoi reperti se sono in una quantità sufficiente da non essere residui, cioè oggetti casualmente presenti e che non indicano chiaramente l’epoca. Per cui bisogna stare attenti a non farsi ingannare. Per imparare a scavare bisogna avere bene in testa il metodo dello scavo. Io, per esempio, ho scritto un manuale di scavo che si chiama “Storia dalla terra” pubblicato da Einaudi, e soprattutto bisogna avere avuto un bravissimo maestro che ti ha insegnato a farlo. Io, per esempio, ho un allievo, che si chiama Mattia Ippoliti, che è un virtuoso dello scavo. Naturalmente è più facile scavare un edificio costruito con dei grandi muri che non un edificio costruito con pali, con argilla: l’argilla si scioglie, i pali sono di legno e si corrompono- E quindi restano delle ombre, ma ombre sufficienti per chi le sa leggere, indizi sufficienti per ricostruire la capanna dell’VIII secolo. Sono come quegli indizi minimi, come una cicca di sigaretta, che possono aiutare un investigatore a individuare un criminale”.
Tito Livio superstar. Padova celebra il bimillenario della morte del grande storico latino col progetto Livius noster: convegni, incontri, spettacoli, musica, proiezioni, visite guidate, reading e molto altro ancora, dalla guida archeologica di Padova romana ai visori in realtà aumentata per il Patavium virtual tour. E in Prato della Valle si scava il teatro romano
Sono passati duemila anni dalla morte di Tito Livio, il grande storico latino vissuto tutta la vita nella romana Patavium, eppure a Padova è come se fosse ancora presente e i suoi concittadini lo vedessero passeggiare tra il foro e il teatro, o parlare della sua grande opera letteraria, Ab urbe condita libri, in 142 volumi, che narra in forma annalistica gli eventi dalla fondazione della Capitale (754-753 a.C.) alla morte di Druso (9 a.C.). “Lo stretto legame di Tito Livio con la terra d’origine”, spiegano i promotori di università e soprintendenza, “è un aspetto notevole della sua vita e della sua opera. Egli scelse infatti di aprire il proprio monumento storiografico nel nome della città natale, evocandone l’eroe fondatore Antenore, elevato al rango del mitico Enea. L’opera di Livio stabilisce così un rapporto complesso e duraturo tra Roma e Patavium, che si rivela vitale non solo per approfondire la visione storica dell’autore, ma anche per comprendere un’intera epoca, segnata da straordinari mutamenti politici, sociali, culturali”. Per il bimillenario della morte dello storico, Padova celebra Tito Livio con convegni, incontri, spettacoli, musica, proiezioni, visite guidate, reading e molto altro ancora: è il progetto Livius noster, un “progetto di lettura diffusa” lungo un anno che fa rivivere i fatti e la storia dell’antichità attraverso le forme più diverse del sapere, risultato di un complesso lavoro di sinergia tra università di Padova, Comune, soprintendenza Archeologica del Veneto, Regione, fondazioni, associazioni. Un video ben riassume questo notevole impegno di ricerca e divulgazione. Guarda il video di 7GoldTelePadova:
Ora le celebrazioni liviane entrano nel vivo: tra giugno e luglio 2017, con il prosciugamento temporaneo della canaletta dell’isola Memmia in Prato della Valle, sarà possibile ammirare i resti archeologici dell’antico teatro romano di epoca augustea. Si terranno invece tra settembre e ottobre, attività di geocaching a cui potranno prendere parte gli studenti delle scuole superiori e i cittadini mentre si svolgerà a novembre un convegno di studi liviani dedicato a scienziati ed esperti. E poi lezioni e ascolto di brani d’opera legati al mondo romano e alle storie narrate da Tito Livio, produzioni cinematografiche e letture teatrali che culmineranno con lo spettacolo “Gli Orazi e i Curiazi” di Bertold Brecht interpretato da Marco Paolini per la regia di Gabriele Vacis il primo ottobre al Palazzo della Ragione. Ecco l’intenso programma. ONE BOOK ONE CITY: fino a ottobre 2017, letture nelle scuole primarie del libro “Tito Livio. Storie di ieri e di oggi”. LECTURAE LIVI: Mercoledì 4 ottobre 2017, ore 15, sala delle Edicole, Arco Vallaresso, Alexandra Grigorieva (University of Helsinki) in “La cultura culinaria al tempo di Tito Livio”. Giovedì 26 ottobre 2017, ore 15, aula Diano, Palazzo Liviano, Francesca Cenerini (Università di Bologna) in “Assenza e presenza delle donne in Tito Livio”. INCONTRI LIVIANI AI MUSEI CIVICI, ciclo “Perìpatos – La Padova di Tito Livio”: giovedì 14 settembre 2017, ore 17.30, “Padova tra due fuochi: l’aggressione di Cleonimo”; giovedì 21 settembre, 17.30, “Livio e i segni fondanti della città”; giovedì 19 ottobre, convegno “Livio, Padova e l’universo veneto”. READING: venerdì 22 settembre 2017, ore 18, sala della Carità, via S. Francesco 61; venerdì 13 ottobre, 18, fondazione Antonveneta, Palazzo Montivecchi, via Verdi 15. RICERCHE ARCHEOLOGICHE AL TEATRO ROMANO: fino al 14 luglio 2017 visite al cantiere dal lunedì al venerdì, il mattino e il pomeriggio. Sabato mattina visita generale alle 10 e alle 11 (ritrovo davanti al civico 51, Prato della Valle). CINEMA: TITO LIVIO TRA HOLLYWOOD E CINECITTÀ: mercoledì 27 settembre 2017, ore 21, cinema MPX, via Bonporti 22, “Romani a banchetto”. GEOCACHING: sabato 30 settembre 2017 (evento per le scuole superiori), sabato 7 ottobre (evento per le scuole superiori), sabato 14 ottobre (evento per le scuole superiori), sabato 21 ottobre (evento per le scuole superiori), domenica 29 ottobre (evento aperto alla cittadinanza). TEATRO: domenica 1° ottobre 2017, ore 21, Palazzo della Ragione: Marco Paolini in “Gli Orazi e i Curiazi” di Bertolt Brecht, regia di Gabriele Vacis. CUCINA: A TAVOLA CON GLI ANTICHI: giovedì 5 ottobre 2017, ore 20, Bistrot Antenore, via S. Francesco 28. CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI LIVIANI: 6-10 novembre 2017: aula Magna di Palazzo Bo, via VIII febbraio 2 e Orto botanico, via Orto botanico 15. INIZIATIVE DELLE ASSOCIAZIONI CULTURALI: in occasione del bimillenario liviano le associazioni culturali di Padova propongono un’ampia rassegna di attività destinate ad adulti e bambini.
GUIDA ARCHEOLOGICA E VISORI Sono passati più di 2mila anni da quando Tito Livio percorreva le strade di Patavium. Com’era Padova all’epoca di Tito Livio? “A questa domanda”, spiega Jacopo Bonetto, direttore del dipartimento Beni culturali dell’università di Padova, “daranno risposta due nuovi strumenti, guida archeologica e visori. La guida archeologica su “Padova, la città di Tito Livio” (cura di Jacopo Bonetto, Elena Pettenò, Francesca Veronese, Cleup edizioni, Padova 2017) a carattere divulgativo, ma aggiornata nei contenuti, ha visto coinvolti studiosi appartenenti alle istituzioni culturali della città – università, soprintendenza, musei civici – e professionisti che da anni svolgono la loro attività indagando il sottosuolo urbano. Nella guida, la città antica è presentata attraverso una breve serie di saggi, a cui seguono schede descrittive di luoghi e monumenti, in alcuni casi visitabili. La guida, con saggi e schede sui luoghi e i monumenti di epoca romana, dalla tomba di Antenore alle aree archeologiche di Montegrotto Terme, passando per l’arena, il porto fluviale, l’acquedotto, il recinto funerario di Palazzo Maldura e le strade rinvenute nel sottosuolo della città, si configura quindi come un valido strumento per cittadini, turisti, insegnanti, giovani che intendano scoprire o riscoprire la storia antica di Padova”.
La guida, che sulla copertina riporta uno scavo in piazza Cavour, è articolata in due parti: la prima contiene i piccoli saggi, mentre la seconda le schede dedicate ai siti e ai monumenti degli anni di Tito Livio, luoghi che Elena Pettenò della soprintendenza articola in base alle loro caratteristiche: essi possono essere luoghi simbolo (ad es. la tomba di Antenore che è posteriore ma importante perché Antenore viene ricordato dallo storico come fondatore di Patavium), luoghi visibili (ad es. l’arena romana, il tratto di strada romana che si vede presso la sede della banca Antonveneta), e luoghi invisibili, conosciuti grazie agli scritti di chi ci ha preceduto (es. foro romano in piazzetta Pedrocchi), ovviamente distinti sulla cartina. “Si tratta di una guida per un pubblico non specializzato ma appassionato che vogliamo coinvolgere sempre di più nella conoscenza della Padova antica, la cosiddetta Patavium”, interviene Francesca Veronese dei musei civici – museo Archeologico del Comune di Padova, “che viene raccontata attraverso una serie di piccoli saggi non troppo tecnici che descrivono la città ai tempi di Tito Livio nelle sue varie articolazioni come la struttura urbana, il suo rapporto con il territorio circostante, i suoi assetti societari, economici, artigianali e culturali, con approfondimenti su come si viveva e su come si moriva, con un affondo nel mondo dei defunti (quello che raccontano le necropoli, che permettono di ricostruire la “vita”)”.
“Se la guida si pone come valido strumento di conoscenza”, riprende Bonetto, “un nuovo strumento permetterà di vedere Patavium come mai prima d’ora è stato possibile vederla. Grazie a un accurato lavoro di ricostruzione condotto dal dipartimento dei Beni culturali e ad appositi visori per la realtà aumentata, sarà possibile effettuare un salto nel tempo e ritrovarsi nella città di Tito Livio con un’esperienza fortemente immersiva e del tutto nuova. Un’esperienza dirompente, che si fonda su accurati studi scientifici e sull’elaborazione dei dati derivati dalla ricerca archeologica condotta a Padova dall’Ottocento a oggi”. Punti privilegiati del Patavium virtual tour, a cura di Jacopo Bonetto, Arturo Zara, Alberto Vigoni; dipartimento dei Beni culturali, musei civici, soprintendenza Archeologia Belle Arti Paesaggio di Padova, e Ikon srl di Staranzano (Go), saranno il teatro che si trova in corrispondenza di Prato della Valle, l’anfiteatro o anche il porto fluviale sul Meduacus. I visori saranno a disposizione nel cantiere archeologico attivo dal 3 luglio al 5 agosto in Prato della Valle (stanno effettuando le operazione di riemersione del teatro romano), poi saranno disponibili nella sede della soprintendenza (via Aquileia 7 Padova) in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio il 23 e 24 settembre, per poi trovarsi da ottobre ai musei civici agli Eremitani per il pubblico interessato a una visita museale completa ed entusiasmante.
RICERCHE ARCHEOLOGICHE: IL TEATRO ROMANO Il teatro della romana Patavium era ancora visibile nel XII secolo, per poi essere progressivamente demolito – sorte successa a gran parte dei monumenti romani nel Medioevo – per fornire pietre da costruzione a Padova e Venezia. Nel Settecento furono viste le sue tracce durante la sistemazione di Prato della Valle e sepolto tra l’isola Memmia, la canaletta che la circonda e le aree circostanti. “Di esso possediamo qualche rilievo e ricostruzioni di fantasia”, spiega Francesca Veronese, “per cui riuscire a riportare alla luce una parte del monumento assume in valore di conoscenza e di suggestione del tutto speciale per immaginare e ricostruire quello che fu uno dei luoghi che certamente videro Tito Livio in persona assistere agli spettacoli e, forse, alle letture delle sue Storie”. Il progetto prevede il prosciugamento di parte del canale che circonda l’isola Memmia così da poter studiare i resti dell’edificio teatrale visto l’ultima volta oltre trent’anni fa. A rilievi con stazioni laser scanner e con riprese fotografiche a tecnologia SFM (structure for motion), seguirà l’attenta analisi dei resti monumentali con prelievi per l’esame petrografico: sarà così possibile risalire alle cave dei colli Euganei e dei colli Berici da cui venne prelevato il materiale lapideo impiegato. “Saranno eseguiti saggi di scavo mirati e analisi dei sedimenti e delle malte con il metodo del radiocarbonio”, continua Veronese, “per definire la datazione dell’edificio. Il trasferimento dei rilievi su software CAD 2D e 3D porterà a ricostruzioni planimetriche e altimetriche dell’edificio e alla conoscenza dell’architettura del monumento che doveva accogliere la popolazione di una delle più importanti città dell’impero. Questo permetterà la ricostruzione effettiva delle dimensioni dell’edificio, dei posti a sedere e della capacità che poteva garantire: dati importanti da cui sarà possibile proporre proiezioni sull’effettiva popolazione della città antica. Tenendo della planimetria e delle caratteristiche strutturali del teatro, nonché dei materiali edilizi in esso impiegati, sarà inoltre possibile realizzare una ricostruzione virtuale dell’edificio, che sarà inserito nel contesto del suburbio meridionale della città antica”. Sarà possibile partecipare a visite guidate allo scavo dall’8 luglio 2017, ogni sabato, alle 10 e alle 11, con ritrovo in Prato della Valle davanti al civico 51. Invece dal 10 luglio al 4 agosto 2017 sarà possibile visitare il cantiere, dal lunedì al venerdì, ore 9-12 e 15-17.30.
Museo Archeologico nazionale di Adria: per la Festa e la Notte dei Musei speciale percorso archeologico-letterario sui gioielli e visite guidate alla mostra “Ornamenta. Gioielli tra storia e design” che fa dialogare monili antichi etruschi e romani inediti e gioielli contemporanei
Ad Adria nel segno dei gioielli. Sabato 20 maggio 2017 in occasione della Festa dei Musei, delle Celebrazioni Livianee e della Notte dei Musei, il museo Archeologico nazionale di Adria propone iniziative mirate collegate alla mostra “Ornamenta. Gioielli tra storia e design”, visitabile fino al 22 ottobre, promossa dal MiBACT – Polo Museale del Veneto e dall’associazione Venice Design Week, con il patrocinio della Provincia di Rovigo, dell’amministrazione comunale di Adria e del Comune di Rosolina, mostra in cui a gioielli antichi, solitamente conservati nei depositi del museo e di recente restauro, sono affiancati i lavori di giovani designer contemporanei selezionati da Venice Design Week. L’allestimento è stato infatti curato con l’obiettivo di mettere in dialogo i gioielli contemporanei con i monili dell’antichità: “Le relazioni che le varie sezioni della mostra stabiliscono con gli splendidi e rari reperti del museo”, spiega il direttore del museo adriese, Alberta Facchi, “contribuiscono alla lettura degli oggetti stessi e partecipano alla loro valorizzazione”. A rappresentare il mondo antico la direzione del museo ha scelto dai depositi alcuni splendidi orecchini d’oro a filo ritorto e granulazione di età etrusca, perle in pasta vitrea, pendenti in oro e anelli di età romana, mentre tra i designer contemporanei Venice Design Week ha selezionato i lavori di Rita Martinez (Costa Rica), Andrea D’Agostino, Alessandra Pasini, Alessandra Gardin, Giovanni Di Vito, Giuliana Di Franco, Anna Fanigina (Bulgaria), Marta Montesi, Yunjung Lee (Corea), Kalliope Theodoropoulou (Grecia), Wilson Quispe.
Il programma di sabato 20 maggio 2017 è molto interessante. Alle 16 verrà proposto Haec foeminarum insignia sunt (il titolo, “Questi sono gli ornamenti delle donne”, riprende una famosa frase dello storico latino Tito Livio), speciale percorso archeologico-letterario sui gioielli. Ci sarà anche un banchetto con materiale ludico – didattico a disposizione del pubblico adulto e dei bambini, a cura di Studio D. Più tardi, dalle 19.30 alle 22.30, grazie alla disponibilità del personale del museo, apertura straordinaria serale al museo Archeologico nazionale di Adria con ingresso simbolico ad 1 euro. Visite guidate alla mostra “Ornamenta” e ai gioielli esposti in museo. Turni: alle 19.30, alle 20.30 e alle 21.30, a cura della direzione del museo. Si potrà così vivere la bellezza dei gioielli come in occasione dell’inaugurazione quando la presentazione dei monili antichi e del loro restauro è stata curata dal direttore Alberta Facchi e dalla restauratrice Federica Santinon, mentre i gioielli contemporanei sono stati descritti da Lisa Balasso di Venice Design Week. “I gioielli non servono solo a renderci più belli”, concludono i promotori. “Ma i gioielli, nel corso della storia, sono stati ricoperti di molteplici significati: beneauguranti, magico-religiosi, status symbol. Hanno sempre accompagnato, e ancora accompagnano, donne e uomini nelle tappe più importanti della vita”.
Protostoria dei popoli latini. A Roma, nella nuova sezione al museo nazionale romano alle Terme di Diocleziano, prendono forma le sepolture delle principesse dell’antica Collatia

Il ricco corredo dalla Tomba 81 dalla necropoli dell’antica Collatia ora esposto nella nuova sala al museo nazionale Romano di Roma
Il nome di Collatia ai più dice poco. Era uno dei centri minori che si sviluppano nel Latium vetus intorno al IX sec. a.C., fiorito grazie alla sua posizione strategica su alcune delle principali vie di comunicazione e di scambio: la via Collatina e il fiume Aniene. Ne parlano le fonti storiche – è vero – per il suo collegamento con la storia più antica di Roma. Collatia infatti è ricordata da Tito Livio per la vicenda di Lucrezia, la virtuosa moglie di Lucio Tarquinio Collatino: dopo essere stata violentata da Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo, si uccise per l’oltraggio subito e, stando alle fonti, sarebbe stata proprio la sua morte a scatenare la rivolta contro la tirannia etrusca che portò alla istituzione della repubblica. Siamo nel V sec. a.C. e Collatino sarebbe stato eletto primo console insieme a Bruto. Ma come si vede siamo sempre a conoscenze molto specialistiche. Ma con l’apertura al primo piano del museo nazionale Romano alle terme di Diocleziano a Roma della nuova sala all’interno della sezione dedicata alla “Protostoria dei popoli latini”, l’antica Collatia con le sue principesse è destinata a diventare famosa.
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Principesse e principi dall’antica Collatia: è la nuova sala della sezione “Protostoria dei popoli latini”
Tre corredi principeschi, uno maschile e due femminili, risalenti al periodo tra l’VIII e il VII secolo a.C., di cui è stata appena concluso il restauro e lo studio, sono esposti per la prima volta nella nuova sala museo Nazionale Romano: la collezione permanente, che illustra lo sviluppo della cultura laziale tra il XI e il VI secolo a.C., si arricchisce così di uno dei più importanti ritrovamenti degli ultimi decenni, rimasto inedito fino a oggi. Sono stati gli scavi condotti dalla soprintendenza speciale per il Colosseo, il museo nazionale Romano e l’Area archeologica di Roma, a consentire di localizzare con certezza, in corrispondenza della borgata di La Rustica, l’antico centro di Collatia. La scoperta del sepolcreto e dell’abitato arcaici in corrispondenza di La Rustica risale al 1972, quando si stava costruendo il tratto di penetrazione urbana dell’autostrada Roma-L’Aquila. Tra il 2009 e il 2012 i lavori di archeologia preventiva per l’ampliamento di questo tratto autostradale hanno portato alla luce le tre tombe principesche esposte ora alle terme di Diocleziano insieme ad altre sepolture ancora in fase di studio e restauro. Alle indagini sul campo come al successivo lavoro in laboratorio sui reperti hanno partecipato studiosi di diverse discipline e specializzazioni. Questo lavoro interdisciplinare ha consentito di ricostruire il quadro dello stile di vita e dell’organizzazione della comunità dell’antica Collatia in epoca protostorica. L’apertura di questa nuova sala della sezione di “Protostoria dei popoli latini” arricchisce dunque la collezione permanente che illustra e valorizza lo sviluppo della cultura laziale, compreso tra la fine dell’età del Bronzo (XI secolo a.C.) e l’età del Ferro fino al cosiddetto periodo “orientalizzante” (X sec. a.C. – inizio del VI sec. a.C.). “La vicenda di Collatia è una vicenda particolare e significativa, perché riesce ad inquadrare la nascita e la crescita di Roma nell’ambiente in cui il seme della città ha germinato”, spiega il soprintendente dell’area archeologica di Roma, Francesco Prosperetti.
La scoperta del sito archeologico. “Il sito archeologico di La Rustica, oggi certamente identificabile con l’antico centro di Collatia”, riassumono gli archeologi della soprintendenza, “è stato individuato nel 1972, in seguito ai lavori per la costruzione del tratto di penetrazione urbana dell’autostrada Roma-L’Aquila. Collatia, situata lungo l’antica via Collatina, si trovava non lontano dall’Aniene e in posizione intermedia fra Roma e Gabii. Sorgeva su un’altura di forma allungata e dalle pareti ripide, immediatamente a sud di una seconda collina occupata dalla necropoli. Proprio i lavori per la costruzione della A24 sono stati determinanti per la scoperta del sito, ma al tempo stesso hanno causato la distruzione di un ampio settore della necropoli e la perdita di alcune centinaia di tombe”. In totale della necropoli di La Rustica fino a oggi sono state scavate 418 tombe, per la maggior parte databili fra l’VIII e gli inizi del VI sec. a.C. (III e IV periodo della cultura laziale). Circa 30 sepolture senza corredo possono probabilmente essere datate al VI-V secolo a.C.; le tombe più recenti, circa 10, si datano al III-II secolo a.C. Le tombe più antiche offrono la documentazione più ampia e completa per la fase avanzata del III periodo laziale (VIII secolo a.C.): un totale di 155 sepolture a inumazione in fossa, per la maggior parte femminili e con corredi molto ricchi. Al IV periodo (fine VIII-inizi VI secolo a.C.), che coincide con il momento di massimo sviluppo dell’insediamento, si data un gruppo di 224 tombe: sono fosse più larghe spesso con un loculo scavato al centro di uno dei lati lunghi per contenere il corredo. Le tombe più importanti sono a pseudo-camera (grandi fosse quadrangolari senza ingresso e con copertura di tavole di legno). In tutte le sepolture di questo periodo sono presenti vasi da rituale: olle di impasto rosso e soprattutto anfore di impasto bruno, rotte intenzionalmente e gettate nella fossa prima della deposizione del cadavere e del corredo, durante una cerimonia di libagione in onore del defunto.

Lo scettro trovato nella Tomba 3: un bastone di legno di corniolo con pomo sferico di bronzo decorato con animali fantastici, contenuto in una scatola di legno di faggio.
Le tombe principesche. La “tomba 3” appartiene a un principe che ha esercitato il potere politico sul centro di Collatia ed è databile alla metà del VII secolo a.C. (orientalizzante medio). La struttura a pseudo-camera ha conservato un ricco corredo che comprende oltre alla fibula, all’affibbiaglio (un prezioso ferma mantello in argento) e alla spada di ferro anche uno scettro, costituito da un bastone di legno di corniolo con pomo sferico di bronzo decorato con animali fantastici ottenuti con intarsi in ferro, contenuto in una scatola di legno di faggio. “Si tratta di un ritrovamento straordinario perché documenta per la prima volta la presenza sicura di uno scettro nel Latium vetus. Alla sinistra principe era posto un carro da guerra a due ruote. Il resto del corredo era composto da vasi di bronzo e di impasto, due coltelli, due spiedi e due lance di ferro”.
La “tomba 81” è invece riferibile a una giovane tra i 16 e i 18 anni. La defunta era collocata all’interno di un tronco di quercia avvolta in un sudario orlato con anellini di bronzo. Gli ornamenti personali, fra i quali un cinturone di lamina di bronzo, sono straordinari per la quantità e la fattura. Anche la ceramica mostra elementi non comuni: due vasi sono probabilmente importati dall’Etruria meridionale, forse da Veio, e sono presenti due vasetti da filtro. “Lo straordinario cinturone di bronzo compare solo in pochissimi importanti corredi della necropoli, ritrovati esclusivamente in tombe di giovani donne di età compresa fra 16 e 20 anni. Questo elemento specifico potrebbe indicare un ruolo collegato con attività di culto”.
La “tomba 238”: una grande fossa isolata in cui era deposta una donna adulta, avvolta in un sudario fermato ai lati da fibule di piccole dimensioni. Il corredo, ricchissimo di ornamenti personali, comprende una fascia di lamina di bronzo sulla fronte, fibule e collane di perle di pasta vitrea e ambra, cinque vasi di bronzo e cinque di impasto. Avvolti in una stoffa sono stati trovati anche un grande coltello e tre spiedi. In uno dei vasi di bronzo erano contenute alcune ghiande che potrebbero indicare che la morte è avvenuta nei mesi autunnali. La sepoltura è in fase di restauro. Infine la “tomba 64”, che ha restituito un principe. “L’ipotesi è data dal ritrovamento di un poggiapiedi di lamina di bronzo con decorazione a sbalzo che suggerisce la presenza di un trono di legno, materiale deteriorabile e per questo probabilmente non conservato”. Come nella tomba 3 era presente un carro a due ruote, adatto all’andatura veloce. Del carro si conservano solo le parti in ferro: i cerchioni e i morsetti fermagavelli delle ruote, le fasce copri-mozzo, gli acciarini. Gli altri elementi strutturali, costituiti da materiali organici come legno e cuoio, sono andati perduti quasi completamente.
“Lo studio sulle comunità protostoriche”, interviene Prosperetti, “è frutto di decenni di ricerche archeologiche, che hanno avuto l’opportunità di riconnettere tante informazioni sul momento in cui Roma comincia a nascere e sulla crescita del suo potere sui popoli del Lazio ad essa preesistenti. Di Collatia si sono perse le tracce durante i secoli e si sono susseguite ipotesi di dove fosse questa città. Le uniche tracce certe sono quelle lasciate dalle sepolture, riemerse dai lavori dell’A24. Non sono tombe qualsiasi – conclude – perché destinate a principesse e principi. I corredi ritrovati sono corredi speciali, unici per la loro importanza, a testimonianza di questa realtà che si potrebbe definire “feudale”, precedente all’egemonia di Roma. Erano luoghi in cui esistevano importanti personaggi che avevano forza e potere su limitate porzioni di territorio, spesso in lite tra loro. Per questo motivo troviamo, in due sepolture, veri carri da guerra di cui sono rimaste intatte le parti metalliche”.
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