Passeggiata virtuale nella Roma antica: primo tour immersivo con la ricostruzione animata e interattiva del Colosseo in 3D. Testi del prof. Filippo Coarelli
Passeggiata nella Roma antica con il Colosseo che rinasce in 3D, come in una vera macchina del tempo. Ecco sulla piazza l’enorme statua dell’imperatore Nerone, il cui nome sarebbe stato associato per sempre all’anfiteatro Flavio, e la folla che accorre festante, nei sotterranei tra le segrete e i gladiatori che provano le loro mosse letali, nell’arena il leone che gira vorticosamente legato alla catena e poi lo sguardo in alto a vedere l’enorme velario che si chiude a fare ombra al popolo romano pronto per lo spettacolo circense. Dopo l’Ara Pacis e la Domus Aurea arriva il primo tour immersivo in 3D anche al Colosseo. Il progetto, ideato dal tour operator Ancient & Recent, permette ai visitatori del Colosseo, accompagnati da guide turistiche autorizzate iscritte al primo sistema di booking online Evolved Guide, di usufruire durante la visita culturale di un’esperienza completamente immersiva virtuale, multimediale e multisensoriale: si scopriranno la cultura, la religione e la vita quotidiana; dagli insediamenti dei primi abitanti della città eterna agli spettacoli del Colosseo.
Attraverso la ricostruzione in 3D del Colosseo, integrata di una accurata descrizione audio, riproduzioni e animazioni storiche di combattimenti, si cammina in modalità “live” all’interno del Colosseo (ingresso, arena, sotterranei), come se si fosse realmente nel I sec. d.C. I visitatori, indossando dei visori VR che grazie a un software multilingue integra una ricostruzione storica 3D animata e interattiva con contenuti audio curati dal professor Filippo Coarelli, verranno letteralmente trasportati indietro nel tempo. “Studi scientifici”, spiegano Guido Germano Gerace e Cristina Antal, gli ideatori di Live Ancient Rome Tour, “dimostrano che dopo due settimane, il cervello umano tende a ricordare il 10% di ciò che si legge, il 20% di quello che sente, ma il 90% di ciò che fa o simula. Applicando questo concetto di learning VR, Ancient & Recent permette ai suoi turisti di poter ricordare molto di più e per maggior tempo. L’opera realizzata, finanziata anche dalla Regione Lazio, ha richiesto oltre un anno di lavoro tra storici, assistenti e programmatori game 3D ed è stata anche apprezzata dal ministro Dario Franceschini che ha avuto occasione di provarlo al salone di Ferrara”. Completata l’esperienza virtuale, la guida accompagna i visitatori all’interno del monumento antico più famoso e meglio conservato al mondo, il Colosseo, simbolo di Roma e tutta Italia, costruito per ospitare dalle 50mila alle 75mila persone.
Una volta finita “l’avventura” all’interno del Colosseo, la guida turistica ti accompagna tra il trionfo degli imperatori: ai Fori Romani, costruiti per glorificare il loro potere. Passando direttamente dai Fori Romani si arriva al Palatino, la casa di Romulus, fondatore di Roma, un vero e proprio museo a cielo aperto, e uno dei sette colli di Roma, che conserva, stratificato, la storia degli insediamenti romani: case, templi e molti altri luoghi della vita quotidiana. Partenza ogni giorno alle 9 eccetto 1° gennaio, 1° maggio e Natale. Sul sito http://www.ancientandrecent.com è possibile trovare tutte le informazioni: il tour immersivo dura una ventina di minuti ed è inserito in una visita di oltre 3 ore tra Colosseo, Foro e Palatino che si può effettuare a piedi o in Segway in gruppi di 12 persone al massimo.
“Passeggiate nel cuore di Roma antica tra Romolo e Costantino”: Andrea Carandini racconta l’antica Roma al Piccolo Eliseo di Roma
Quattro passi nell’Antica Roma: l’archeologo Andrea Carandini, uno dei massimi conoscitori del Palatino e delle origini di Roma, oggi presidente del Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano), sarà il protagonista al Piccolo Eliseo di Roma di un ciclo di incontri dedicati allo straordinario patrimonio artistico, archeologico e monumentale di Roma antica dal titolo “Passeggiate nel cuore di Roma antica tra Romolo e Costantino”. Quattro appuntamenti a cadenza mensile che ripercorrono la storia dei luoghi e degli eventi che vi si svolsero. Una sintesi (fino al 21 aprile) storico, topografica e archeologica del cuore dell’Urbe, tra l’VIII secolo a.C. e il IV secolo d.C., con le sue meraviglie e i suoi monumenti. Il Palatino e, in particolare, la sua pendice settentrionale erano il cuore di Roma antica. Qui, attorno alla metà dell’VIII secolo a.C., vengono edificati edifici sacri e pubblici che erano il fulcro della città stato. Col passare del tempo il paesaggio del monte e della pendice mutano: prima accogliendo le dimore dell’aristocrazia e poi i palazzi degli imperatori e grandi edifici funzionali. “L’archeologo è come Freud”, ricorda Carandini. “Sono trent’anni che scavo dentro. Anche lì si porta alla luce, si cercano radici, fondamenta”.
Si comincia giovedì 21 gennaio 2016 alle 17.30 con “Il tempo dei primi re: tra Romolo e Tarquinio Prisco (750-530 a.C.)”. Si prosegue poi giovedì 18 febbraio alle 17.30 con “Dagli ultimi re alla tarda repubblica: tra Servio Tullio e Giulio Cesare (530-44 a.C.)” sulla storia di Servio Tullio che dà inizio a un lungo processo che porterà sulla pendice del Palatino le splendide dimore dei più illustri uomini della città e che giungerà al culmine in età tardo-repubblicana. Sempre alle 17.30 giovedì 17 marzo ci sarà “Dalla fine della repubblica a Nerone: tra il triumvirato e il grande incendio (44 a.C.-64 d.C.)” che racconta come, dopo le guerre civili e la fine della Repubblica, Augusto rifonda, ingrandisce e abbellisce la città. Sotto i suoi successori le dimore palatine dell’aristocrazia senatoria vengono sostituite dai palazzi imperiali. Tutto sarà interrotto dalla distruzione causata dall’incendio neroniano. Infine l’ultimo incontro dal titolo “L’età imperiale: tra l’incendio di Nerone e Costantino (64 d.C.-IV secolo d.C.)” che si svolgerà giovedì 21 aprile e che racconta la nuova rivoluzione urbanistica, quella neroniana, iniziata dopo l’incendio. Il tiranno puntava a trasformare Roma in una grande e regolare capitale ellenistica incentrata sulla sua sconfinata reggia, la Domus Aurea. L’assolutismo di Nerone e la sua sconfinata dimora falliscono e vengono sepolti dalle opere degli imperatori successivi, ma il tessuto cittadino rimarrà lo stesso fino alla fine dell’impero.
“Nutrire l’impero”: nella mostra all’Ara Pacis di Roma si racconta la prima “globalizzazione dei consumi”, cosa e come mangiavano gli antichi romani e come si approvvigionavano
Cosa e come mangiavano gli antichi romani? Come trasportavano migliaia di tonnellate di provviste dai più remoti angoli della terra? Come facevano a farle risalire lungo il Tevere fin nel cuore della città? E come le conservavano durante tutto l’anno? A queste e a tante altre curiosità risponde la mostra “Nutrire l’Impero. Storie di alimentazione da Roma e Pompei”, al museo dell’Ara Pacis di Roma fino al 15 novembre 2015, che traccia un affresco complessivo sull’alimentazione nel mondo romano grazie a rari e prestigiosi reperti archeologici, plastici, apparati multimediali e ricostruzioni. L’esposizione, ideata in occasione di Expo 2015, è promossa dall’assessorato alla Cultura e al Turismo di Roma – soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali, dall’assessorato a Roma produttiva e Città Metropolitana e da Expo con la cura scientifica della soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali e della soprintendenza speciale per Pompei, Ercolano e Stabia, di nuovo insieme a 25 anni di distanza dalla fortunata esperienza della mostra “Riscoprire Pompei” (1993). L’ideazione e il coordinamento scientifico sono di Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini. Ricostruzioni multimediali e catalogo (con testi di C. Parisi Presicce, M. Osanna, E. Lo Cascio, F. Coarelli, P.Arnaud, C. Virlouvet, S. Keay, P. Braconi, C. Cerchiai, G. Stefani, M. Borgongino, M.P. Guidobaldi, A. Lagi) sono a cura di l’Erma di Bretschneider.
A seguito della pax romana, intorno al bacino del Mediterraneo si determinò quella che oggi chiameremmo la prima “globalizzazione dei consumi” con relativa “delocalizzazione della produzione” dei beni primari. In età imperiale i romani bevevano in grandi quantità vini prodotti in Gallia, a Creta e a Cipro, oppure, se ricchi, i costosi vini campani; consumavano olio che giungeva per mare dall’odierna Andalusia; amavano il miele greco e soprattutto il garum, il condimento che facevano venire dall’Africa, dall’Oriente mediterraneo, dal lontano Portogallo, ma anche dalla vicina Pompei. Ma, soprattutto, il pane che mangiavano ogni giorno era un prodotto d’importazione, fatto con grano trasportato via mare su grandi navi dall’Africa e dall’Egitto. “Nell’arco di tempo che va da Augusto a Costantino (27 a.C. – 337 d.C. )”, spiegano i curatori Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini, “Roma è stata una metropoli di circa 1 milione di abitanti, alla testa di un impero che, secondo le stime correnti, ne contava 50/60 milioni. Nessuna città raggiunse più questa grandezza fino alle soglie della rivoluzione industriale. Nutrire Roma, alimentare una tale concentrazione umana, soprattutto di grano, costituì un’ impresa di cui furono diretti responsabili gli imperatori. Facendosi carico dell’annona di Roma, ovvero del suo fabbisogno alimentare, il principe stabiliva un rapporto diretto e personale con il suo popolo. Soprattutto con i cittadini romani, maschi, adulti e residenti – la plebs urbana et romana, detta anche “plebe frumentaria” – che ogni mese ricevevano dallo stato, a titolo gratuito, 5 moggi di grano a testa, circa 35 Kg di frumento, una quantità che, trasformata in pane, risultava più che sufficiente per il sostentamento individuale. Si trattava – continuano – di un diritto/privilegio, a seconda dei punti di vista, del “popolo dominante”, riconosciuto ad un massimo di 200mila beneficiari, limite fissato da Augusto. Traducendo in cifre, vediamo che le sole distribuzioni gratuite di grano, le frumentationes, comportavano l’importazione di quantità di frumento oscillanti tra i 9 e i 12 milioni di moggi l’anno, vale a dire fino a 84mila tonnellate. Se poi si considera il rifornimento alimentare necessario all’intera città, la quantità di grano importata sale a cifre che gli storici, non concordi per carenza di fonti, stimano tra i 50 milioni di moggi, ovvero 350mila tonnellate, e i 60 milioni di moggi, ovvero 420mila tonnellate ogni anno. Alla fine della Repubblica il grano consumato a Roma veniva dall’Africa, dalla Sicilia e dalla Sardegna, come ricorda Cicerone. Le cose mutarono con la conquista dell’Egitto e la politica di espansione agricola che Roma attuò in Africa: durante l’alto impero, il tributo granario venne prodotto e pagato per 1/3 dall’Egitto e per i restanti 2/3 dall’Africa, soprattutto le province corrispondenti alle odierne Tunisia, Algeria e Libia. Il risultato – concludono – fu una produzione “delocalizzata” e monoculture estensive specializzate. Nonché forme di consumo che, forse per la prima volta nella storia, possiamo considerare “globalizzate”. Tutto ciò fu realizzato grazie all’efficienza della macchina amministrativa statale, che da una parte favoriva il libero commercio e dall’altra riscuoteva il grano quale imposta in natura (ma anche il vino, l’olio e altri alimenti), garantiva il suo trasporto su grandi navi mercantili che attraversavano il Mediterraneo, e ne seguiva il percorso fino ai monumentali magazzini (gli horrea) del grande Emporium romano, nell’odierno quartiere di Testaccio”.

La gran parte delle derrate alimentari viaggiava per nave all’interno delle anfore la cui forma variava a seconda del contenuto
Il percorso espositivo ripercorre le soluzioni adottate dai romani per il rifornimento e la distribuzione del cibo, con i mezzi di trasporto via terra e soprattutto lungo le rotte marine. Si affrontano, inoltre, i temi della distribuzione “di massa” e del consumo alimentare nei diversi ceti sociali in due luoghi per molti versi emblematici: Roma, la più vasta e popolosa metropoli dell’antichità, e l’area vesuviana, con particolare riguardo a Pompei, Ercolano e Oplontis, fiorenti centri campani. Il visitatore è introdotto al tema del movimento delle merci da una grande carta del Mediterraneo realizzata con tecnica cinematografica. Qui si animeranno i principali flussi alimentari dei beni a lunga conservazione – grano, olio, vino e garum – e si visualizzano le rotte marine dai porti più grandi del Mediterraneo, Alessandria e Cartagine. In questa prima sezione è anche affrontato il problema della lavorazione degli alimenti primari, della loro confezione in anfore caratteristiche per ogni prodotto, dell’immagazzinamento e della distribuzione del cibo. “Diversamente dagli alimenti solidi, come il grano, il trasporto delle derrate liquide o semiliquide come il vino, l’olio e le salse di pesce, è affidato a contenitori in terracotta, spiegano ancora Parisi Presicce e Rossini, “in particolare alle anfore (dal termine greco amphìphèro, porto da entrambe le parti, riferito alle due anse dei contenitori). Questo genere di recipienti rappresenta il mezzo più efficace per garantire la conservazione e la spedizione di grandi quantitativi di merci per via marittima o fluviale. Nelle navi lo stivaggio delle anfore avveniva impilandole le une sulle altre con un sistema “a scacchiera”, in modo che quelle dello strato superiore si inserissero fra tre colli delle anfore sottostanti. I contenitori si adeguavano alla forma della carena e venivano fissati e protetti dagli urti con ramaglie di ginepro, di erica, giunchi, paglia ed altro. Le anfore venivano fabbricate nelle regioni di produzione delle merci, con forme diverse a seconda della provenienza, della cronologia e del contenuto. In età romana circolavano in tutto il Mediterraneo, spingendosi fino alla Britannia e al Bosforo, testimoniando l’unificazione commerciale, oltre che politica, dell’impero”.

Il porto di Traiano nella ricostruzione della soprintendenza di Ostia e dell’Università di Southampton
Nella seconda sezione le merci arrivano a Roma e a Pompei attraverso i porti di Pozzuoli e di Ostia. Qui è presentata la ricostruzione in grafica digitale del porto di Traiano, con i risultati inediti degli scavi recentissimi condotti dalla soprintendenza di Ostia e dall’Università di Southampton per la ricostruzione del complesso portuale romano. Chiude questa parte della mostra il tema della grande distribuzione gratuita dei beni principali di sostentamento ai cittadini romani adulti, la plebe urbana e romana alla quale era riconosciuto un privilegio unico: quello di condividere i beni della conquista, dapprima solo grano, ma dal III secolo d.C. anche olio, vino e carne. “Nell’anno 42 l’imperatore Claudio – ricordano i curatori – volle dare a Roma un porto alla sua altezza, che ovviasse alla complicata logistica dei trasporti da Pozzuoli. Diede perciò il via alla realizzazione di un’imponente “opera pubblica”, forse la più grande del tempo. Il Porto di Claudio fu scavato 3 km a nord di Ostia, in parte nella terra ferma, in parte chiudendo un bacino di 200 ettari con due moli convergenti. L’ingresso era segnalato da un faro paragonabile per dimensioni a quello di Alessandria d’Egitto. Ma si vide che la stessa vastità del bacino ne minacciava la sicurezza e le correnti che portavano il limo dalla foce del Tevere al nuovo porto ne provocavano l’insabbiamento. Fu Traiano a ridisegnare, tra il 100 e il 113 d.C., l’assetto definitivo del porto di Claudio, inaugurato appena quarant’anni prima, aggiungendo un bacino esagonale interno. Traiano faceva anche scavare un nuovo canale largo 40 metri, il Canale Romano, che univa il suo bacino esagonale al canale di Fiumicino e quindi al Tevere”.
La terza sezione illustra il consumo delle merci e dei prodotti alimentari che poteva avvenire sia in luoghi pubblici, come le popinae e i thermopolia, gli antichi “bar” o “tavole calde” in cui romani e pompeiani consumavano il “cibo di strada”, sia nei raffinati triclinia (sale da pranzo in cui i commensali mangiavano stando semidistesi su tipici lettini da banchetto) del ceto abbiente. Esposizioni di resti di cibo da Ercolano aiuterano a comprendere la qualità dei consumi in un ricco centro campano. Grazie al contributo scientifico e ai prestiti provenienti da Pompei, Ercolano e Oplontis, è possibile ammirare corredi da tavola provenienti sia da contesti di estrema ricchezza – come il cosiddetto “tesoro di Moregine”, un completo da tavola in argento di ritorno da cinque anni di esposizione al Metropolitan Museum di New York – sia raffinate suppellettili in ceramica, in vetro e in bronzo, sia infine il vasellame utilizzato in contesti quotidiani più popolari. Sono proprio i curatori a ricostruire l’eccezionale ritrovamento.
“Nell’ottobre del 2000, durante la realizzazione della terza corsia dell’autostrada A3, in località Moregine, nel comune di Pompei, è stata rinvenuta una gerla di vimini. Si trovava in una latrina posta nell’area di passaggio tra il nucleo neroniano di un edificio e le sue terme. La gerla appariva riposta da qualche fuggitivo, nelle ore convulse che precedettero l’eruzione, sotto altri oggetti di uso comune. Era ben conservata, chiusa da un coperchio e ricolma di terra e cenere compattata. Portata in laboratorio fu oggetto di analisi radiografiche quindi svuotata con un’operazione di microscavo. Al suo interno, stipato con accuratezza, un piccolo ma completo servizio di argenti da tavola di 20 pezzi: è infatti rappresentato sia l’argento da portata (escarium) che quello per i liquidi (potorium). I pezzi erano riposti impilati, in modo da sfruttare al massimo lo spazio disponibile e forse avvolti in un panno, così da rivelarsi in ottimo stato di conservazione, fatta eccezione per la lanx usata come contro chiusura della gerla. Con un peso complessivo di 3850 grammi, il servizio rappresenta l’ultimo del genere rinvenuto in area vesuviana. I grafiti sul fondo degli argenti ci restituiscono, tra altre informazioni, il nome del proprietario: Erastus (Erasti sum). La maggior parte dei pezzi sembra databile all’età augustea, mentre i due canthari e la lanx paiono attribuibili ad un periodo antecedente: essi potrebbero rappresentare l’argentum vetus di famiglia”.
Due approfondimenti concludono la mostra: uno dedicato ai diversi alimenti consumati in epoca romana con la loro diffusione e il relativo prezzo (esemplificato dalla preziosa testimonianza dell’Edictum de pretiis rerum venalium dell’imperatore Diocleziano, il più famoso dei “calmieri” dell’antichità) e uno dedicato alla “filosofia del banchetto”, laddove l’amore profondo per la vita e la festa alimentare che la celebra si mescola con la malinconica consapevolezza della fugacità di ogni piacere.
Più di 300mila visitatori a Ostia Antica ma il mitreo è inaccessibile: l’entrata è coperta dal fango. Molte zone degli scavi sono transennate
Se volete ammirare il dio Mitra che uccide il toro conservato nell’area archeologica di Ostia Antica dovrete accontentarvi di una fotografia. Quello che è uno tra i luoghi di culto antichi più belli e affascinanti del sito laziale, il mitreo delle terme di Mitra, costruito nella prima metà del III secolo, è off limits: l’entrata è infatti coperta dal fango e poter arrivare ad ammirare da vicino la statua del dio che uccide il toro è davvero una missione da Indiana Jones. Ma non è il solo tesoro inaccessibile degli scavi. Una situazione analoga c’è infatti nella parte di via della Foce interna all’area: passeggiando lungo la strada si deve fare attenzione a non finire in acquitrini e fango. Non solo. Il Decumano, quella che era la strada commerciale della città antica, a un certo punto è interrotta da transenne perché la fanghiglia sta conquistando sempre più spazio. E per il pantano è chiusa la zona che ospita gli edifici sacri, i quartieri popolari, abitazioni e impianti termali. Qualche turista non si arrende e scavalca le barriere, deciso a non perdersi nulla dell’area archeologica celebre in tutto il mondo e che raccoglie la cifra record di 330mila visitatori l’anno. In molti però sono costretti a fare dietrofront.

Il fango impedisce l’accesso al mitreo delle terme di Mitra a Ostia antica: colpa della falda acquifera
“Acqua e fango non dipendono da incuria e degrado ma dalla falda d’acqua dolce che si trova proprio in quell’area”, spiega Cinzia Morelli, direttore dell’area archeologica di Ostia Antica, evidenziando con forza che “si tratta di un problema endemico di innalzamenti repentini della falda in coincidenza con le piogge. Tre settimane fa ha piovuto e la pioggia ha provocato appunto un innalzamento della falda e gli allagamenti dell’area». Tra l’altro, sottolinea, le idrovore non aiutano: “Qualsiasi tentativo di pompare via l’acqua è inutile perché dopo neanche mezz’ora torna e si allaga tutto di nuovo”. Il direttore dell’area archeologica spiega: “Da quasi un anno stiamo monitorando questa falda per capire come risolvere il problema. La stiamo osservando e studiando attraverso una serie di pozzi, stiamo anche effettuando una serie di analisi dell’acqua per capire come governare la falda e rendere l’area accessibile. Abbiamo interpellato geologi e tecnici idraulici che stanno osservando e analizzando la situazione, ma trovare soluzioni non è facile perché sono fenomeni repentini, vanno studiati i minimi e i massimi dell’acqua, il tipo di acqua, il collegamento con il Tevere, e, se da una parte c’è un discorso tecnico da affrontare anche con un potenziamento dei tratti fognari, dall’altra sarà necessario individuare nuovi percorsi per il pubblico”.
Con il fango, la melma e le zone completamente allagate per ragioni di sicurezza sono state posizionate transenne e reti per impedire il passaggio dei visitatori che potrebbero scivolare e cadere. “La presenza dell’acqua nel Mitreo delle Terme del Mitra è dovuta alla falda”, continua Morelli. “Sarebbe degrado e incuria se non ci fossero le reti e le transenne a tutelare i visitatori”. Ma intanto il mitreo resta inaccessibile. Costruito nella prima metà del III secolo in ambienti voltati di servizio nei sotterranei delle Terme di Mitra, il mitreo ospita una statua in marmo del dio che si accinge ad uccidere il toro, del II secolo. Sul petto del toro è l’iscrizione in greco “Kriton di Atene fece”, che si riferirebbe allo scultore, oppure al donatore. La statua è disposta scenograficamente su un basamento obliquo, illuminato dalla luce diurna che arriva da un lucernario superiore. Vi furono rinvenute anche delle piccole piramidi in tufo che simboleggiavano la nascita del dio dalla roccia e tracce di pitture sulle pareti.
Con oltre 330mila visitatori, gli scavi di Ostia sono tra le aree archeologiche italiane più frequentate, nella top 30 dei siti dei beni culturali italiani più visitati. Quest’anno purtroppo non possiamo fare paragoni, perché il sito è stato chiuso quasi un mese, dal 31 gennaio al 17 febbraio, a causa del maltempo. “Nel gennaio di quest’anno, rispetto allo stesso mese dello scorso anno, abbiamo registrato un incremento del 30%: un vero e proprio “boom” probabilmente dovuto alle nuove scoperte a Isola Sacra e all’allargamento dell’area al di là del Tevere, dato che dall’altra parte del fiume Ostia continua: esiste una ”Trastevere ostiense”. Scoperte che hanno avuto una certa risonanza e hanno risvegliato la curiosità di addetti ai lavori e di tanti appassionati. “Abbiamo allargato l’offerta al pubblico anche creando dei percorsi ad hoc per i diversamente abili e utilizzando la “golf car” per chi non riesce a camminare a lungo. Poi ci sono i nuovi percorsi: ora si può arrivare fino alla piazza del Foro e anche fino alle case signorili vicino al mare. E le prenotazioni sono tantissime, possiamo dire che siamo sempre pieni”.
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