“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nell’ultima clip del museo Egizio protagonista Torino e Bernardino Drovetti (1776-1852), l’avventuroso diplomatico che raccolse la ricca collezione di antichità egizie, ammirata all’apertura del museo Egizio nel 1824
Ultima tappa, Torino. Il viaggio proposto dal museo Egizio tocca Torino con l’ultima delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Toccheremo tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”. L’ottava puntata è dedicata a Torino e Bernardino Drovetti (1776-1852), l’avventuroso diplomatico che raccolse una ricca collezione di antichità egizie, e all’apertura del museo Egizio nel 1824. La tappa è raccontata in piemontese da Albina Malerba, direttrice del Centro studi piemontesi.

A Torino, nel 1824, viene inaugurato il museo Egizio. La domanda sorge spontanea: come arriva in Piemonte tanta ricchezza? Perché la capitale sabauda diventa custode di una collezione di antichità egizie che ancora oggi è considerata tra le più importanti al mondo? La storia è lunga, potremmo intrattenere nipoti e pronipoti, perché inizia nel ‘600 e attraversa il ‘700 con i primi viaggiatori che anche dal Piemonte partono alla scoperta dell’Egitto, terra dei faraoni e di mistero di cui si fantasticano le meraviglie. Ma il culmine del racconto è nell’800, con l’arrivo di oltre 8mila oggetti: statue monumentali, bronzi, papiri, stele, sarcofagi, mummie, vasi, amuleti e monete, un immenso tesoro acquistato da un re, Carlo Felice, appassionato di arte e di cultura, ma più di tutto impegnato a risollevare il prestigio del casato e della capitale sabauda. Ma chi aveva raccolto una collezione così vasta in Egitto? Il merito è di un altro piemontese, Bernardino Drovetti, nato a Barbania (To). Sedotto dalle idee illuministe che arrivano d’Oltralpe, nel 1796 entra nelle fila dell’esercito francese al seguito di Napoleone Bonaparte. È intraprendente e fa carriera fino a sbarcare in Egitto come console generale di Francia. Consapevole del crescente interesse europeo per le antichità egizie, Drovetti ne raccoglie in gran quantità e qualità, dedicandosi a ricerche e scavi, convinto che saranno molto apprezzate in Europa. La vicenda dell’acquisto della collezione è tutt’altro che semplice. Drovetti considera l’interesse della Francia, dell’Inghilterra, del Regno di Baviera e della Russia ma in cuor suo desidera che queste ricchezze che ha faticosamente raccolto trovino dimora in Piemonte, la sua terra natale. Nel 1823, dopo lunghe trattative, Drovetti riesce nel suo intento. Il re Carlo Felice di Savoia firma il contratto e l’intera collezione viene ceduta per la cifra di 400mila lire piemontesi. Il viaggio dall’Egitto è un’avventura da romanzo d’appendice (feuilleton). Nell’inverno del 1823 gli oggetti raggiungono Genova via mare, poi varcano le Alpi per arrivare finalmente a Torino su carri trainati da decine di cavalli e di buoi. L’antico Egitto giunse così nella capitale sabauda e i faraoni trovarono casa nel palazzo barocco che ospitava già la Reale Accademia delle Scienze, ancora oggi sede del museo Egizio. Nei primi giorni di novembre del 1824, il museo Egizio apre le porte al pubblico, dapprima solo agli studiosi e otto anni più tardi a tutti i cittadini siano essi nobili, borghesi o semplici curiosi, visitatori di ogni età che ora come allora scelgono Torino sedotti dal fascino irresistibile dell’antico Egitto.
“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nella settima clip del museo Egizio protagonista Vercelli e Virginio Rosa, giovane archeologo cui si devono molte scoperte importanti per il museo Egizio
Settima tappa, Vercelli. Il viaggio proposto dal museo Egizio di Torino tocca Vercelli con la settima delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Toccheremo tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”. La settima puntata è dedicata a Vercelli e Virginio Rosa (1886-1912), giovane archeologo cui si devono molte scoperte importanti per il Museo Egizio, raccontata in piemontese da Giovanni Tesio dell’università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Nel 1910 partì da Genova per la sua prima ed unica spedizione archeologica in Egitto. Le ricerche si svilupperanno nei siti di Gebelein e Assiut, consentendo il ritrovamento di molto materiale archeologico, tra cui le tombe di Iti e Neferu, di Ini e degli Ignoti. Virginio Rosa morirà a soli 26 anni poco tempo dopo il suo rientro in Italia, il 20 febbraio del 1912.

1894, Varallo Sesia, provincia di Vercelli. Un bambino dall’aria disorientata si aggira nelle sale del museo di Scienze Naturali, fondato quasi trent’anni prima da Pietro Calderini, un sacerdote naturalista. Il (fiolin) è Virginio Rosa (1886-1912) che ha perso da poco il papà e con la mamma e suo fratello ha dovuto lasciare la bella casa di Pinerolo, vicino a Torino, per ritornare nella modesta dimora della madre, originaria della Val Sesia. L’unico svago lo trova qui, circondato da migliaia di coleotteri ben ordinati, con un formidabile erbario di oltre mille esemplari di piante e centinaia di reperti archeologici che gli consentono di fantasticare sulla vita in età preistorica, greca e romana. Ed è in una saletta appartata che si accende la passione per l’antico Egitto: il piccolo Virginio è attratto da una mummia di gatto con lo sguardo dolce e da numerosi oggetti che portano la sua immaginazione verso Oriente. È un ragazzo curioso e di talento, torna a Torino per studiare. Si laurea in chimica, scrive di scienza e di storia e si dedica alla botanica, ma la civiltà egizia continua a essere la sua grande passione che coltiva al museo Egizio, diretto da Ernesto Schiaparelli. E sarà proprio l’egittologo a dare una svolta alla sua vita. Virginio Rosa diventa suo collaboratore e nel 1910 parte per l’Egitto, perché è proprio il direttore del museo ad affidargli gli scavi di Gebelein e Assiut: nonostante la sua scarsa esperienza, l’anziano egittologo ha in stima la sua solida formazione scientifica e la sua abilità di fotografo, che sarà preziosa sul campo. È grazie al patrigno Secondo Pia, primo professionista ad aver fotografato la Sindone, che Virginio Rosa è in grado di documentare ogni giornata di scavo e ciascuna scoperta, come la tomba monumentale di Iti e Neferu, decorata con magnifiche pitture. Ai suoi occhi sono come fotografie a colori che raccontano nei particolari la vita e alcuni riti degli antichi egizi. Scoprendo quella tomba pensa al padre e all’aldilà, da cui di certo il genitore veglia su di lui. Lo sente vicino. Virginio è un giovane uomo, con occhi intensi e pieni di meraviglia. Il ritmo dei lavori è estenuante, ma l’entusiasmo e la responsabilità che vive non gli consentono di rallentare, di riposarsi, di prendersi cura di sé. “Vento freddissimo, cielo coperto, di notte piove e di giorno pioviggina”, scrive in una lettera a Schiaparelli confermandogli che comunque gli scavi vanno avanti. Ed è proprio quell’incapacità di sentire la stanchezza che gli toglie la vita. Rientra in Italia già malato e, a soli 26 anni, Virginio Rosa muore, lasciando un’eredità di pochi oggetti ma testimonianze straordinarie, che raccontano ancora oggi le sue imprese e la grandezza di una civiltà immortale.
“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nella sesta clip del museo Egizio protagonista Verbano Cusio Ossola e Giuseppe Botti, papirologo e primo esperto di scrittura demotica in Italia
Sesta tappa, Verbano Cusio Ossola. Il viaggio proposto dal museo Egizio di Torino tocca Verbano Cusio Ossola con la sesta delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Toccheremo tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”. La sesta puntata è dedicata a Verbano Cusio Ossola e Giuseppe Botti (1889-1968), papirologo e primo esperto di scrittura demotica in Italia, raccontata in piemontese da Albina Malerba, direttrice Centro studi piemontesi.

1914, Vanzone con San Carlo, provincia di Verbano Cusio Ossola. Seduto sulla scalinata della chiesa, un giovane tiene la testa tra le mani, una lacrima gli riga il volto mentre continua a sussurrare: “Non è vero, non è vero niente”. La leggenda narrava che Vanzone dovesse il suo nome alla capacità di essere sempre “avanzato”, risparmiato dalle epidemie e così era sempre stato. Eppure la sua amata Peppina non ce l’aveva fatta, a soli 24 anni era morta di spagnola proprio a Vanzone, il paese in cui erano nati entrambi, dove facevano ritorno ogni estate e dove si erano promessi amore eterno fin dall’infanzia. Quel giovane inconsolabile è Giuseppe Botti (1889-1968), si è formato in ambienti religiosi e si è appena laureato all’università di Torino con una tesi sulla letteratura cristiana. Ed è proprio per quel dolore lacerante che decide che nel suo cuore ci sarà solo più posto per una grande passione, l’unica che non lo abbandonerà mai e a cui dedicherà l’intera vita: gli studi e la ricerca umanistica. “Isepon”, come lo chiamano in famiglia, torna a Vanzone ogni estate, ma vive a Torino dove insegna in vari licei e continua a studiare, ottenendo anche il diploma in Filologia Classica. Anche la civiltà faraonica lo appassiona e diventa un assiduo frequentatore del museo Egizio, dove scopre che questa affascinante civiltà ha sviluppato tre tipi di scrittura: geroglifica, ieratica e demotica. Siamo negli anni ’20 del Novecento. Apprende che il geroglifico, già decifrato da Champollion quasi 100 anni prima, era utilizzato sui monumenti e sugli oggetti per riportare parole sacre. Lo ieratico veniva invece usato dagli antichi egizi alfabetizzati ed era usato per semplificare i geroglifici. Ma è il demotico a sedurlo, una scrittura che sembra fatta per scrivere velocemente, così come usano la stenografia negli uffici. Ed effettivamente scopre che gli egizi la usavano per i documenti amministrativi. Ernesto Schiaparelli, direttore del museo torinese, è molto colpito dall’intuito e dal rigore del Botti, lo incoraggia nello studio del demotico e lo guida nell’ordinamento dei papiri torinesi. E lui non si risparmia, frequenta corsi di specializzazione e intrattiene scambi con egittologi stranieri che ne apprezzano la vivacità intellettuale e la competenza. Nel 1939 esce un suo studio che la consacra come primo demotista nella storia dell’Egittologia italiana. Con l’umiltà e la sobrietà che gli è propria, pubblica altri studi di rilievo che gli consentono una rapida ascesa nel mondo accademico. Giuseppe Botti inizia a insegnare all’università di Firenze, poi vince il concorso per la prima cattedra italiana di Egittologia presso l’università di Milano. E infine, a 67 anni, viene chiamato all’università La Sapienza di Roma dove appassiona e forma generazioni di egittologi. Si dedica a loro come fossero suoi figli, quella famiglia a cui ha dovuto rinunciare in gioventù perdendo la sua Peppina. Dal 1968 riposano insieme a Vanzone, il loro paese natale all’ombra del Monte Rosa.
“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nella quinta clip del museo Egizio protagonista Novara e Stefano Molli, l’architetto che servì la causa dell’egittologia italiana dopo l’incontro con Ernesto Schiaparelli
Quinta tappa, Biella. Il viaggio proposto dal museo Egizio di Torino tocca Asti con la terza delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Toccheremo tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”. La quinta puntata è dedicata a Novara e Stefano Molli, l’architetto che servì la causa dell’egittologia italiana, raccontata in piemontese da Giovanni Tesio dell’università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. L’architetto Stefano Molli nasce a Borgomanero nel 1858. A legarlo alla storia del museo Egizio fu l’incontro con Ernesto Schiaparelli, dal quale nacque una stretta e proficua collaborazione che si concretizzò nella realizzazione di edifici per l’ANSMI, l’Associazione Nazionale per Soccorrere i Missionari Italiani in Egitto e in altri paesi dell’Africa settentrionale.

Novara, primi mesi del 1887. Intorno alla basilica di San Gaudenzio c’è una grande folla. Tengono tutti il naso all’insù per ammirare la magnifica cupola che l’architetto Alessandro Antonelli ha finalmente ultimato e che il vescovo si appresta a inaugurare. Stefano Molli (1858 – 1916) si è alzato all’alba per arrivare puntuale e quei 121 metri d’altezza lo lasciano senza fiato: quell’inno alla verticalità lo mette in soggezione, è una struttura tra le più ardite mai concepite che, sopra ad ogni altra cosa, gli fa desiderare di diventare un bravo architetto. A 4 anni, il suo primo gioco è stata una scatola di tocchetti di legno per le costruzioni: a Borgomanero, dove è nato ed è rimasto fino al ginnasio, ci passava i pomeriggi componendo città immaginarie, fatte di tanti piccoli edifici: case, scuole, ospedali e chiese con gli immancabili e altissimi campanili. Per lui è naturale e appassionante laurearsi in Ingegneria civile a Torino, dove rimane per studiare anche ornato e figura presso l’Accademia di Belle Arti. Molli è un uomo curioso e a Torino visita il museo Egizio dove incontra il suo direttore, un uomo schivo ma dalla progettualità travolgente. L’egittologo Ernesto Schiaparelli è anche un illuminato filantropo che, da meno di un anno, ha fondato l’ANSMI, associazione per soccorrere i missionari italiani all’estero. I due scoprono di avere punti di interesse comuni: Schiaparelli racconta della necessità di ristrutturare le sedi delle opere assistenziali, della mancanza di scuole, ospedali e ospizi in Egitto e in tutta l’Africa Settentrionale e in Medio Oriente, e Molli inizia a fantasticare di progetti. Ha la competenza e l’entusiasmo che servono. Dal 1890 l’Ansmi diventa il più importante promotore italiano di attività costruttive all’estero. Molli riceve numerosi incarichi che lo portano in Terrasanta, Siria, Libano ed Egitto, dove a Luxor realizza una scuola maschile e una femminile. Un progetto replicato ad Assiut due anni più tardi. Questi edifici e altri destinati ai missionari sono vicini agli scavi archeologici diretti da Schiaparelli, e talvolta ospitano i reperti per ricoverarli e imballarli nelle casse prima del trasporto in Italia. Dei sette figli di Stefano Molli, il secondogenito Piero ha la stessa passione del padre per l’architettura e nel 1906, appena laureato in Ingegneria a Torino, partecipa con Ernesto Schiaparelli alla Missione Archeologica Italiana ad Assiut. Nel 1920, quattro anni dopo la morte dell’adorato padre, Piero Molli è già uno stimato progettista: in Egitto valuta le strutture esistenti, individua terreni edificabili, costruisce scuole e ospedali. Ma un altro lutto lo colpisce. Il caro amico di famiglia Ernesto Schiaparelli muore nel 1928. L’ANSMI gli sopravvive e prosegue la sua attività ed è proprio Piero Molli a realizzare un seminario francescano a Giza, dove Schiaparelli aveva iniziato i suoi scavi.
“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nella quarta clip del museo Egizio protagonista a Biella ed Ernesto Schiaparelli direttore del museo Egizio. Sotto la sua direzione la collezione si arricchì di molti reperti, tra i quali il prezioso corredo della tomba di Kha e Merit, frutto di campagne di scavo durate circa 20 anni
Quarta tappa, Biella. Il viaggio proposto dal museo Egizio di Torino tocca Asti con la terza delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Toccheremo tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”. La quarta puntata è dedicata a Biella ed Ernesto Schiaparelli, raccontata in piemontese da Albina Malerba, direttrice del Centro Studi Piemontesi. Ernesto Schiaparelli, il fondatore della Missione Archeologica Italiana in Egitto, nasce a Occhieppo Inferiore (Biella) il 12 luglio 1856 e muore a Torino il 17 febbraio 1928. Dal 1881 al 1894 fu direttore della sezione egizia del Museo Archeologico di Firenze, per poi essere nominato direttore del museo Egizio a Torino, carica che resse fino alla morte. Sotto la sua direzione la collezione si arricchì di molti reperti, tra i quali il prezioso corredo della tomba di Kha e Merit, frutto di campagne di scavo durate circa 20 anni.

Occhieppo Inferiore, provincia di Biella, primi di dicembre 1905. Ernesto Schiaparelli sta risalendo il viale acciottolato che va verso la chiesa. Quando riesce a passare qualche giorno nella casa dove è nato, ritrova la tranquillità che serve a chi progetta grandi imprese. Non sente l’aria gelida del tardo pomeriggio invernale perché la sua mente è in Egitto. Con quell’aspetto severo e con lo sguardo che scruta, da quando è direttore del museo Egizio si dedica anima e corpo ad arricchire la collezione torinese. Ma è convinto che la strada non sia più quella di acquistare le antichità bensì di trovarle con gli scavi archeologici. Per questa ragione e con il sostegno di Vittorio Emanuele III, da un paio di anni ha avviato la prima Missione Archeologica Italiana, che ha già portato grandi frutti. In Egitto è di casa, al Cairo ha maestri e amici importanti che gli danno consigli preziosi ma è molto preoccupato: l’ultima campagna di scavo finanziata dal re in persona è terminata nel 1905, or ai fondi scarseggiano, le spese crescono e l’unica speranza è che il ministero dell’Istruzione pubblica conceda una copertura finanziaria. Schiaparelli, che è un fervente cattolico, non sa più a che santo votarsi per raggiungere il suo scopo. E ha ragione da vendere perché una grande scoperta è vicina. Sono mesi che dall’arida e deserta terra egiziana non emerge più nulla, la fortuna pare essere contraria e gli operai continuano a imbattersi in tombe dove i saccheggiatori hanno già fatto man bassa di oggetti preziosi. Eppure a Deir el Medina, dove stanno scavando senza sosta, lo raggiunge una notizia che gli fa drizzare le orecchie. A metà dicembre 1905, l’egittologo biellese riparte per l’Egitto, intende spronare collaboratori e operai a non perdersi d’animo. Rievoca il racconto di Giacobbe che attese sette anni per trovare la sua Rachele: “E così sarà per noi” va ripetendo l’archeologo. “La nostra attenzione è stata attirata da una valletta che sbocca al centro della valle maggiore”, gli scrivono dallo scavo. “In alto si vede una struttura a piramide che racchiude una cappella dipinta di grande bellezza. Quale segreto si cela?”. Verso la metà di febbraio 1906, una porta in legno al fondo di un angusto corridoio sotterraneo svela una delle più grandi scoperte dell’egittologia mondiale: la tomba intatta di Kha e della sua sposa Merit, un magnifico corredo intatto di oltre 500 oggetti rimasti sepolti per oltre 3000 anni. Degli oltre 30mila reperti che dal 1903 al 1920 giungono a Torino grazie alla Missione Archeologica Italiana, questo tesoro rimane tra i capolavori più ammirati del museo Egizio, dove ancora oggi impera lo spirito di questo nostro scienziato che ha regalato lustro al Piemonte e all’Italia tutta.
“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nella terza clip del museo Egizio protagonista Asti e Leonetto Ottolenghi, illustre mecenate e raffinato collezionista. Donò la sua collezione egizia alla città, tra cui la Signora delle Ninfee
Terza tappa, Asti. Il viaggio proposto dal museo Egizio di Torino tocca Asti con la terza delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Toccheremo tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”. La terza puntata è dedicata ad Asti e Leonetto Ottolenghi, raccontata in piemontese da Giovanni Tesio dell’università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Esponente di una delle più famose e influenti famiglie della città, il conte Leonetto Ottolenghi fu un illustre mecenate e un raffinato collezionista. Decise di donare la sua collezione alla città contribuendo così alla costituzione del locale Museo Civico. A comporre la raccolta anche una serie di oggetti provenienti dall’Egitto, tra i quali ricordiamo la cosiddetta Signora delle Ninfee.

Asti, metà dell’Ottocento. In città c’è una famiglia che si sta guadagnando notevole prestigio per l’impegno e la lungimiranza negli affari: sono gli Ottolenghi, una famiglia ebrea che sta accumulando una fortuna economica con il commercio e le attività finanziarie, ma che si dedica anche alla filantropia e al mecenatismo, nella convinzione che la cultura sia un potente strumento di trasformazione sociale. Amano l’arte e le antichità, sostengono artisti e acquistano pitture, sculture e oggetti archeologici che testimoniano la storia della civiltà. Gli Ottolenghi sono l’espressione migliore di quel gusto per il collezionismo che si sta espandendo in Europa e che ora non è più appannaggio dell’aristocrazia e della nobiltà ma annovera anche banchieri, mercanti, imprenditori e industriali. La famiglia Ottolenghi acquista al centro di Asti un palazzo di grande pregio, frutto dell’opera dell’architetto Benedetto Alfieri: è una dimora sontuosa. Leonetto Ottolenghi (1846-1904), intellettuale e collezionista, una delle più eminenti e illuminate personalità della vita culturale della città, mentre ammira i saloni della nuova dimora, sogna che le sue magnifiche raccolte di oggetti preziosi possano essere ammirate da tutti. Non per vanto, ma perché sente la responsabilità di condividere la sua fortuna: desidera che i suoi concittadini possano godere di tanta bellezza e possano conoscere culture di paesi lontani. La Campagna d’Egitto guidata da Napoleone Bonaparte, ha acceso un vivace interesse e molta curiosità per la civiltà faraonica e, da oltre mezzo secolo, le antichità egizie sono assai contese sul mercato antiquario. Leonetto Ottolenghi, che per la sua munificenza riceverà il titolo di conte, ne subisce il fascino e acquista un centinaio di oggetti: scarabei, amuleti, statuine funerarie e bronzetti di divinità. L’emozione più grande la prova dinnanzi a due sarcofagi finemente decorati. Uno di essi contiene una mummia che il benefattore astigiano battezza Signora delle Ninfee per quella donna raffigurata sul coperchio ornata da una corona di fiori che scendono sui capelli e sul vestito. Ci sono uomini che hanno la capacità di arricchire il patrimonio culturale dei luoghi in cui vivono. È grazie al conte Leonardo Ottolenghi, al suo spirito filantropico e illuminato, se Asti può vantare una collezione egizia considerata tra le più importanti del Piemonte. Una testimonianza di collezionismo privato che diventa patrimonio di tutti.
“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nella seconda clip del museo Egizio protagonista Alessandria e Carlo Vidua conte di Conzano, grande viaggiatore, che convinse il re Carlo Felice ad assicurarsi la collezione che costituì il nucleo fondante del museo Egizio di Torino
Dopo Cuneo, Alessandria. Il viaggio proposto dal museo Egizio di Torino tocca Alessandria con la seconda delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Toccheremo tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”. La seconda puntata è dedicata ad Alessandria e a Carlo Vidua raccontata in piemontese da Giovanni Tesio dell’università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Il conte, originario di Casale Monferrato, fu uno dei più intrepidi viaggiatori dell’Ottocento! Grazie alla sua opera di persuasione, il re Carlo Felice di Savoia si assicurò la collezione che costituì il nucleo fondante del museo Egizio di Torino.

Talvolta il destino di un uomo si può intuire dai suoi giochi d’infanzia. Siamo in provincia di Alessandria verso la fine del ‘700, a pochi chilometri da Casale Monferrato. Nel giardino di una elegante dimora nobiliare, c’è un bambino intento a scavare, convinto che così raggiungerà gli antipodi della terra: è Carlo Fabrizio Vidua, Conte di Conzano (1785-1830). Bibliofilo, collezionista e archeologo, spinto da una insaziabile fame di conoscenza, Vidua diventerà il più intrepido viaggiatore dell’800. E sarà grazie alla sua caparbietà e alla sua opera persuasiva che il re Carlo Felice di Savoia si aggiudicherà la collezione che costituisce il nucleo fondante del museo Egizio. “Il gusto di viaggiare è il più bello di tutti i gusti, soprattutto nei paesi ricchi di ruine e di memorie grandi” scrisse Vidua poco prima di partire per l’Egitto, un paese che accende la sua curiosità grazie alle descrizioni dello zar Alessandro I, conosciuto durante un viaggio in Russia e con cui intrattiene un vivace scambio intellettuale. Nella terra dei faraoni rimane un anno e mezzo, viaggiando dalla foce del Nilo alla Nubia; descrive la grandiosità dell’Egitto con parole e disegni e, desideroso di non separarsi più da tanta meraviglia, raccoglie una piccola collezione da portare in Italia a testimonianza della civiltà più affascinante che abbia mai visto. Al Cairo incontra monsieur Drovetti, console generale di Francia, che gli illustra la sua ineguagliabile collezione di antichità egizie. Ne comprende immediatamente l’importanza. Con il supporto di un gruppo di nobili eruditi e progressisti piemontesi, si spende affinché la capitale sabauda si assicuri tanta ricchezza di storia, di arte, di archeologia, di bellezza. “Questo patrimonio mi sta moltissimo a cuore”, scrive Vidua. “Desidero che i forestieri non possano più dire: Torino è una città forte, regolare… ma non c’è quasi niente da vedere”. Nel 1824, il Conte di Conzano vede avverarsi il suo sogno, la felice intuizione di un coltissimo visionario che assicura a Torino milioni di visitatori che da allora non smettono di affollare le sale del museo Egizio.
“Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: nella prima clip del museo Egizio protagonista Cuneo e Giulio Cordero di San Quintino, lo studioso che trasferì e ordinò la collezione a Torino
Parte da Cuneo il viaggio proposto dal museo Egizio di Torino con la prima delle otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e il patrocinio della Regione Piemonte. “Vi porteremo in giro per il Piemonte per raccontarvi storie di uomini audaci e appassionati di antico Egitto”, spiegano al museo. “Partiremo da Cuneo per toccare tutte le province piemontesi, incontreremo le storie di personaggi vissuti tanto tempo fa: numismatici, viaggiatori, archeologi, architetti e collezionisti che, “parlando” in piemontese (sottotitolata in italiano), racconteranno perché c’è un museo Egizio proprio a Torino!”.

Cuneo è legata alla figura di Giulio Cordero di San Quintino (1778-1857), lo studioso che trasferì e ordinò la collezione a Torino. A raccontare in piemontese letterario la storia e la vita di Giulio Cordero (“e anche le sue emozioni, almeno verosimili, non essendoci testimonianze a riguardo”, ricorda il direttore Christian Greco) è Albina Malerba, direttrice del Centro Studi Piemontesi. Originario di Mondovì, dove nasce nel 1778, è tra i protagonisti della nascita del museo Egizio e della sua apertura al pubblico. Nel 1823 il Cordero fu chiamato a far parte di una commissione di accademici incaricati di redigere l’inventario della raccolta di antichità egiziane di Bernardino Drovetti, acquistata da re Carlo Felice di Savoia, e di curarne il trasporto e il trasferimento da Livorno a Torino: erano più di 300 casse colme di reperti insieme alla colossale statua di Seti II, alta più di 5 metri per cinque tonnellate di peso, che giunse nella capitale sabauda su due carri di artiglieria trainati da 16 cavalli. Giulio Cordero fu incaricato anche di trovare una sede adatta all’esposizione della ricca collezione. Nel 1824 aveva già catalogato più di 8mila oggetti posti nell’ex Collegio dei Nobili, dove era stato da studente, ora Reale Accademia delle Scienze. Lì nello stesso anno, il 1824, aprì il museo Egizio, il primo di antichità egizi del mondo, sotto lo sguardo soddisfatto di Giulio Cordero di San Quintino che, in occasione della visita a Torino di Jean François Champollion, che da poco aveva decifrato i geroglifici, respinse la richiesta dello studioso francese di tagliare i lunghi papiri per facilitarne la lettura. Grazie a lui i preziosi papiri sono ancora a Torino, integri.
Torino. Il museo Egizio si racconta in piemontese (la lingua dei suoi ideatori) nel progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri”: otto clip (una per ogni provincia) realizzate col Centro Studi Piemontesi e patrocinate dalla Regione Piemonte. Greco: “Ricerca e comunicazione non si fermano neppure con la pandemia”. Christillin: “Torino e il Piemonte: un rapporto antico con l’Egizio”. Cirio: “Egitto e Piemonte insieme contro la desertificazione linguistica”


Christian Greco, direttore del museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)
Il museo Egizio non si ferma, nel rispetto delle regole. E si racconta in piemontese, la lingua dei suoi ideatori. Così mentre l’emergenza sanitaria non molla la presa, ed è imminente un nuovo Dpcm con ulteriori misure restrittive per contenere il contagio, come la chiusura di musei e mostre (e per il museo Egizio sarebbe la terza in questo horribilis anno 2020, dopo quella del 24 febbraio e dell’8 marzo), il direttore Christian Greco ne è certo: “In tempi di pandemia siamo tutti chiamati a fare la nostra parte, a seguire quanto ci viene chiesto. Ma non verremo meno alla missione del museo. Continueremo a curare, studiare, restaurare, custodire le collezioni egizie; e anche a comunicare, a mantenere il dialogo con il pubblico – locale, nazionale, globale -, perché il museo è la casa di tutti. E quando questa casa è chiusa, siamo noi ad andarli a trovare nella loro”. È in questa filosofia – di ricerca e comunicazione – che si inserisce il nuovo progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” otto clip realizzate in collaborazione col Centro Studi Piemontesi e patrocinate dalla Regione Piemonte in cui il museo Egizio di Torino si racconta in piemontese. Il progetto è stato presentato in un’inedita sala conferenze dell’Egizio priva di pubblico, con la presidente Evelina Christillin, il direttore Christian Greco, il governatore della Regione Piemonte Alberto Cirio e la direttrice del Centro Studi Piemontesi Albina Malerba a parlare davanti alla telecamera.

Il cammino di riscoperta delle proprie radici intrapreso dal museo Egizio in vista della celebrazione dei suoi 200 anni di vita nel 2024, avviato nell’autunno scorso con il riallestimento delle cosiddette “sale storiche” dedicate alla genesi della collezione egittologica torinese, vive oggi una nuova e inedita tappa. Un’operazione culturale vede protagonista la “lingua” della Torino dell’800, il tempo in cui l’istituzione vide la luce: il piemontese è infatti stato scelto come strumento per un viaggio narrativo sul filo della memoria che racconta la storia del museo Egizio e dei personaggi che l’hanno reso grande. Nascono così le otto clip del progetto “Dalle Alpi alle Piramidi. Piccole storie di piemontesi illustri” che, nel vero senso della parola, ridà voce, con la parlata del loro tempo (ma con sottotitoli in italiano), ad alcune delle più autorevoli figure del passato del Museo, ciascuna legata a una provincia della nostra regione. Sarà quindi possibile ascoltare in perfetto piemontese le vicende di Bernardino Drovetti nel video dedicato alla provincia di Torino, quelle del casalese Carlo Vidua per la provincia di Alessandria, conoscere l’astigiano Leonetto Ottolenghi, il biellese Ernesto Schiapparelli, per la provincia di Cuneo il monregalese Giulio Cordero di San Quintino, per quella di Novara Stefano Molli, natio di Borgomanero, mentre la provincia di Vercelli sarà rappresentata da Virginio Rosa e quella del Verbano Cusio Ossola da Giuseppe Botti.

Evelina Christillin, presidente del museo Egizio di Torino (foto Graziano Tavan)
“Nell’assolvere al nostro ruolo di custodi di un patrimonio culturale che appartiene all’umanità intera”, spiega la presidente del museo Egizio, Evelina Christillin, “abbiamo al contempo il dovere e l’onore di valorizzare il legame che ci unisce a Torino e alla Regione Piemonte, di cui siamo ambasciatori nel mondo. Un rapporto antico in cui affondano le origini di questa storica istituzione, in virtù del quale la comunità regionale vive con orgoglio la presenza del museo Egizio sul proprio territorio, così come noi siamo orgogliosi di far parte della storia del Piemonte e di rappresentare un punto di riferimento per la sua gente. Raccontando nel nostro dialetto le vicende dei personaggi provenienti dalle otto Province del territorio, desideriamo dedicarle al 50esimo anniversario della fondazione delle Regioni italiane, e a tutti coloro che ne hanno costruito la storia”.

Il Centro Studi Piemontesi è attivo da mezzo secolo a Torino
“Il Centro Studi Piemontesi”, spiega la direttrice, Albina Malerba, “da sempre ha a cuore la collaborazione con chi è impegnato nella valorizzazione dell’immagine e della storia del Piemonte e ha accolto con entusiasmo l’invito del museo Egizio, una bella e ghiotta occasione – dovremmo dire galupa in piemontese – per raggiungere un pubblico più ampio e probabilmente meno avvezzo alle parlate della nostra terra, ma che ci auguriamo possa affezionarsi a questa lingua di lunga e ricca tradizione letteraria nonché glottologico-linguistica. Come Centro Studi siamo depositari e promotori di una lingua capace di indiscutibile forza espressiva e creativa, e dunque non diminutivamente confinabile nell’esercizio di un quotidiano e purtroppo sempre più povero parlare. Per i testi del progetto del Museo abbiamo optato per il piemontese di koinè, cioè quello della tradizione letteraria scritta (e anche parlata nel capoluogo), che tuttavia non rinuncia ad accogliere apporti di altre realtà più periferiche. Una soluzione ragionevolmente obbligata, che certo non sottovaluta le singole e plurime parlate del Piemonte, ma consente una più ampia e comune comprensibilità”.
Nel corso dei mesi di novembre e dicembre, ogni martedì con cadenza settimanale, il canale YouTube del museo Egizio proporrà queste otto storie esclusive, offrendo al pubblico non soltanto l’opportunità di riscoprire il dialetto piemontese quale patrimonio linguistico accessibile, ridando vigore e dignità alla cultura regionale, ma anche l’occasione per dare un volto ai protagonisti di grandi imprese e guardare da una nuova prospettiva al legame fra questa regione e l’antico Egitto. Ciascuno degli otto racconti si fonda su notizie documentate ed accertate seppur restituite da una narrazione creativa, non inverosimile, con l’intento di accompagnare i fatti reali ai sentimenti, alle ambizioni e allo spirito di uomini che guardarono allo studio, alla scoperta e alla cultura come uniche vie di arricchimento e crescita della società. Il medesimo approccio ha inoltre guidato la scelta della colonna sonora che caratterizza i video: si tratta della Danza Piemontese op. 31 di Leone Sinigaglia (1868-1944) nell’esecuzione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino. Anche Sinigaglia è un illustre figlio del Piemonte, formatosi fra Torino, Vienna e Praga, la cui produzione musicale comprende opere sinfoniche, da camera e vocali. Molti dei suoi lavori, e quello che accompagna i racconti del Museo Egizio ne è un esempio, traggono spunto dal patrimonio della musica popolare piemontese e si fondono con gli schemi formali del romanticismo tedesco.


Il logo della Regione Piemonte nel 50.mo dell’istituzione
Il progetto ha raccolto l’attenzione della Regione Piemonte, che l’ha patrocinato quale omaggio del museo Egizio ai piemontesi e alla loro terra nell’anno in cui si celebrano i 50 anni della costituzione delle Regioni a statuto ordinario. Un omaggio realizzato grazie alla collaborazione e alla piena condivisione dell’iniziativa con il Centro Studi Piemontesi, la cui attività istituzionale si fonda proprio sull’impegno scientifico volto a promuovere lo studio della vita e della cultura piemontese in ogni sua manifestazione, nella convinzione che un’identità affonda le sue radici più vere e profonde nel proprio patrimonio storico e culturale. “Non è un paradosso parlare la lingua piemontese dentro al più grande museo egizio del mondo”, interviene Alberto Cirio, governatore della Regione Piemonte, che non è voluto mancare alla presentazione del progetto, nonostante questo difficile momento. “La storia si incarica sempre, prima o poi, di scuotere la scatola della memoria per disvelare arcani misteri. Erano Piemontesi e parlavano piemontese i collezionisti del tempo quando fu pensato e costruito il secondo più grande museo dedicato alle antichità egizie dopo quello del Cairo. A queste persone, la cui storia è pressoché sconosciuta se non per gli addetti ai lavori, gli organizzatori hanno dedicato l’omaggio più grande, quello di farli parlare in video attraverso i loro manoscritti trasformandoli così da nomi stampati sui libri in personaggi che raccontano le loro scoperte nella lingua del loro tempo. Nel 50esimo anniversario delle identità regionali siamo orgogliosi di aver sostenuto questa iniziativa geniale nella sua «intuizione scenica», e allo stesso tempo pedagogica quando ricorda che la nostra terra custodisce beni materiali di inestimabile valore ma anche immateriali come quello dell’antico idioma che parlavano i nostri antenati. Spesso parliamo per acronimi che condensano meccanismi complessi in poche letterine che testimoniano la dolorosa rinuncia ai nostri idiomi, da quello nazionale a quelli dialettali. Egitto e Piemonte – chi l’avrebbe detto – uniscono oggi le forze per resistere alla tempesta della desertificazione linguistica, ma anche per omaggiare personaggi illustri della nostra regione che parlavano piemontese anche nelle terre d’Oriente. C’è, tuttavia, un significato ulteriore – conclude – che segna il passo di iniziative come questa che coincidono con il «senso della continuità» e la voglia di «proseguire» per portare a termine un progetto, un’idea un programma che non si fermano neppure di fronte alla pandemia trasformando così le insidie della condizione umana in opportunità”.
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