Roma, Percorsi fuori dal PArCo. Nel quarto appuntamento, il viaggio parte ancora una volta dal Palatino per arrivare al parco archeologico dell’Appia Antica alla scoperta delle proprietà dei monaci benedettini: da Santa Maria Nova al Foro (nota come basilica di S. Francesca Romana) alla tenuta lungo la via Appia

Quarto appuntamento col progetto “Percorsi fuori dal PArCo – Distanti ma uniti dalla storia” che vuole portare i cittadini romani e tutti i visitatori a scoprire i legami profondi e ricchi di interesse, ma non sempre valorizzati, tra i monumenti del Parco e quelli del territorio circostante, raccontando, con testi e immagini, il nesso antico che unisce la storia di un monumento o di un reperto del parco archeologico del Colosseo con un suo “gemello”, situato nel Lazio. Dopo aver raggiunto il Comune di Cori (tempio dei Dioscuri), il parco archeologico di Ostia Antica (tempio della Magna Mater), Prima Porta (villa di Livia Drusilla), il viaggio virtuale – ma ricco di spunti per organizzare visite reali – promosso dal parco archeologico del Colosseo riparte ancora dal Palatino, precisamente dal monastero di Santa Maria Nova al Foro romano, conosciuto anche come Basilica di Santa Francesca Romana, per giungere alla tenuta di Santa Maria Nova lungo la via Appia.

Siamo a ridosso della Via Sacra, sul Palatino e più precisamente nel monastero di Santa Maria Nova costruito a partire dall’847 nel luogo dell’antico oratorio dei Santi Pietro e Paolo. “L’appellativo fu preso dalla chiesa – già esistente – di Santa Maria nel Foro che, da questo momento, diventerà Santa Maria Antiqua perché distrutta a causa di un terremoto”, spiegano gli archeologi del PArCo.

Basilica di Santa Francesca Romana, particolare della facciata vista dalla via Sacra (foto PArCo)
“Oggi il complesso, stratificato e ricco di storie, è conosciuto anche come Basilica di Santa Francesca Romana, poiché dal 1440 ospita la tomba della santa che proprio in questa chiesa si era offerta come oblata. Santa Francesca, da sempre ben voluta dai romani, assunse presto l’appellativo di Romana ed è particolarmente importante in questo periodo storico che stiamo attraversando perché considerata protettrice delle pestilenze. Non a caso, il restauro condotto sul soffitto ligneo seicentesco disegnato da C. Lambardi (vedi 9 marzo 2021: a un anno dall’inizio del lockdown e nel giorno di Santa Francesca Romana, protettrice dalle pestilenze, riaperta al culto la basilica di Santa Francesca Romana al Foro romano, dopo un delicato intervento di restauro al soffitto ligneo seicentesco promosso dal parco archeologico del Colosseo e dal Fondo Edifici per il Culto. Presentato il volume “Il restauro della Speranza” | archeologiavocidalpassato) si è concluso il 9 marzo 2021, giorno in cui si festeggia la Santa, come segno di buon auspicio”.

“La chiesa oggi presenta l’aspetto conferitole dai lavori seicenteschi”, continuano gli esperti del PArCo: “l’intervento di maggior pregio è la struttura sepolcrale che accoglie le spoglie della Santa, affidata a Gian Lorenzo Bernini tra il 1638 e 1649. Il pavimento invece risale al 1952 ma, in alcuni punti, conserva frammenti cosmateschi. Il complesso sorge sulle scale del tempio di Venere e Roma, tempio romano fatto costruire per volontà di Adriano a partire dal 121 d.C. e completato nel 140 d.C., sotto Antonino Pio”.

Ma cosa lega un monastero costruito sul Palatino ed un casale della campagna romana, sulla via Appia? I proprietari: i monaci olivetani benedettini di Santa Maria Nova. “Già officianti della chiesa collocata sul Palatino, che gestiscono ancora oggi, possedevano infatti, già dal XIV secolo, un vasto terreno sulla Via Appia”, ricordano gli archeologi del PArCo, “che da questo momento prenderà il nome di Santa Maria Nova. Il terreno, che era adibito a seminativo e pascolo, si trovava nell’area dell’antica Villa romana appartenuta ai fratelli Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo, membri di una famiglia senatoria e consoli nel 151 d.C. Nel 182-183 d.C. l’imperatore Commodo li aveva accusati di aver ordito una congiura contro di lui, facendoli uccidere ed impadronendosi della loro residenza”.

“Il nucleo del Casale, fulcro della tenuta, venne costruito tra la fine del medioevo e l’età moderna, riutilizzando i resti di un edificio romano del II secolo d.C., forse una cisterna a due piani, su cui era stata realizzata, in età tardoantica, una torre difensiva. Tra il XV secolo e il XVI secolo l’edificio prende le forme attuali: a questa fase risale l’elegante abside aggettante al primo piano, forse una garitta difensiva, oppure una piccola cappella edificata dai monaci della Congregazione Benedettina di Santa Maria del Monte Oliveto”.

“I monaci olivetani – continuano – manterranno la proprietà fino al 1873 quando fu messa all’asta e poi aggiudicata a Isidoro Marfori. Su due gradini della scala di accesso al primo piano, realizzati con elementi di recupero, si vede ancora il loro stemma. Nel 1876 fu realizzato un piccolo casaletto a uso stalla, su resti di strutture romane. In seguito la tenuta appartenne ai conti Marcello e al produttore cinematografico Evan Ewan Kimble, fu trasformata in dimora di lusso e usata come set cinematografico. Acquisita nel 2006 dallo Stato Italiano è stata oggetto di interventi di restauro e recupero funzionale che hanno consentito di aprirla al pubblico dal giugno del 2018”.

“L’area di Santa Maria Nova”, informano gli archeologi del PArCo, “fa parte del percorso di visita della Villa dei Quintili all’interno del parco archeologico dell’Appia Antica con accesso da via Appia Antica 251 oppure da via Appia Nuova. Il Casale attualmente ospita la mostra fotografica, documentaria e multimediale “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi” di Paolo Rumiz e compagni. Aperto dal martedì alla domenica dalle 9 alle 19 con ultimo ingresso un’ora prima della chiusura”.
All’auditorium di Roma “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi”: mostra, libro e film sull’esperienza di Paolo Rumiz e compagni che hanno percorso a piedi e documentato l’antico tracciato della “regina viarum”
Dal cuore di Roma alla porta dell’Oriente: la via Appia, voluta nel 312 a.C. dal censore Appio Claudio Cieco, collegava la Città eterna a Brundisium (Brindisi), uno tra i più importanti porti dell’Italia antica, da cui partivano le rotte commerciali per la Grecia e l’Oriente. La sua importanza strategica fu chiara fin dall’inizio. E non è un caso che proprio i romani la considerassero la “regina viarum” (regina delle strade), una delle più grandi opere di ingegneria del mondo antico, sia per l’epoca precoce in cui fu realizzata (fine IV – III sec. a.C.), sia per l’enorme impatto economico, militare e culturale che essa ebbe sulla società romana. Su quei 611 chilometri pregni di storia nell’estate del 2015 si sono incamminati Paolo Rumiz, Riccardo Carnovalini, Alessandro Scillitani e Irene Zambon per tracciare finalmente il percorso integrale della madre di tutte le vie, dimenticata in secoli di dilapidazione, incuria e ignoranza: 29 giorni di cammino e un milione di passi per il giornalista-scrittore, il fotografo, il regista, la promotrice di eventi hanno prodotto una mostra fotografica, un libro e un film.

Lo scrittore giornalista Paolo Rumiz ripercorre il tracciato della via Appia (foto Alessandro Scillitani)
Giovedì 9 giugno 2016, alle 18, all’auditorium Expo – Auditorium Parco della Musica di Roma, in concomitanza con l’edizione romana de “La Repubblica delle idee”, viene inaugurata la mostra fotografica, documentaria e multimediale “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi” che sancisce la riscoperta e la restituzione al Paese dell’intero percorso della prima grande via europea, da Roma a Brindisi (fino al 18 settembre 2016; ingresso gratuito nei tre giorni della Repubblica delle Idee dal 9 al 12 giugno). La mostra consente di rivivere questa affascinante riscoperta attraverso le fotografie di Riccardo Carnovalini integrate da un reportage di Antonio Politano realizzato per il National Geographic Italia (pubblicato sul numero di giugno 2016) e da istantanee estratte dai filmati “on the road” di Alessandro Scillitani. Nel percorso espositivo, curato da Irene Zambon con testi e didascalie di Paolo Rumiz, anche alcune immagini dei viaggi di Luigi Ottani sui confini dei migranti e dei sopralluoghi di Sante Cutecchia sulla Regina Viarum, oltre ai filmati di Alessandro Scillitani e le musiche e le installazioni audio di Alfredo Lacosegliaz. Completano il percorso un apparato cartografico curato da Riccardo Carnovalini e Cesare Tarabocchia e il materiale documentario conservato negli archivi della soprintendenza speciale per il Colosseo, il museo nazionale Romano e l’area archeologica di Roma – Capo di Bove e della Società Geografica Italiana, come fotografie, cartoline d’epoca, mappe antiche e moderne. Nell’occasione sarà presentato al pubblico anche il libro “Appia” di Paolo Rumiz edito da Giangiacomo Feltrinelli Editore e sarà disponibile il DVD in versione cinematografica di Alessandro Scillitani “Il Cammino dell’Appia Antica” prodotto da Artemide Film.
I quattro camminatori hanno voluto svolgere il viaggio sui muri della mostra come un rotolo di pergamena, capace di farci avanzare nel tempo e nello spazio allo stesso modo dei soldati di pietra sulla colonna traiana. “Non si tratta dunque di un portale per lettori frettolosi”, spiegano gli organizzatori, “ma di un atto fisico di attraversamento, dove l’Incipit, più che libro, è corridoio, vestibolo d’ingresso, varco semibuio che porta a una caverna rilucente di tesori”. Rumiz e compagni si augurano che un esercito di viaggiatori venga a prendere in mano il filo d’Arianna steso sulla mappa dello Stivale. “È compito di ciascuno di noi, come cittadini, restituire alla Res Publica questo bene scandalosamente abbandonato, ma ancora capace – dopo ventitré secoli – di riconnettere il Sud al resto del Paese e di indicare all’Italia il suo ruolo mediterraneo. Appia è anche un marchio, un “brand” di formidabile richiamo internazionale. Un portale di meraviglie nascoste decisamente più vario e di gran lunga più antico del Cammino di Santiago”.
La mostra ci accompagna sui Colli Albani, sotto i Monti Lepini con le fortezze preromane sugli strapiombi, lungo i boscosi Ausoni che hanno dato all’Italia il nome antico e ai piedi dei cavernosi Aurunci dalle spettacolari fioriture a picco sul mare. Ci guida nella Campania Felix, sui monti del Lupo e del Picchio e gli altri della costellazione sannitica, nell’Italia dimenticata degli Osci, degli Enotri e degli Japigi fino all’Apulia della grande sete. In questo itinerario, i quattro protagonisti non sono stati soli, ma hanno avuto altri compagni d’avventura, da citare in ordine di chilometri percorsi: Marco Ciriello, Sandra Lo Pilato, Michaela Molinari, Mari Moratti, Barsanofio Chiedi, Settimo Cecconi, Giulio e Giuseppe Cederna, Giovanni Iudicone, Franco Perrozzi, Cataldo Popolla, Andrea Goltara e Giuseppe Dodaro, con la partecipazione straordinaria di Vinicio Capossela.























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