Roma. Con gli esperti del parco archeologico del Colosseo alla scoperta dei mosaici presenti tra Foro Romano e Palatino: con la settima tappa si va alla scoperta degli straordinari rivestimenti pavimentali del Palatino partendo dagli Horrea Agrippiana

Horrea Agrippiana sul Palatino: mosaico con raffigurazione del dio Oceano. Veduta d’insieme del sacello dedicato al genius horreorum (foto Archivi PArCo)
Il parco archeologico del Colosseo propone un nuovo itinerario on line tra Foro Romano e Palatino, a cura di Federica Rinaldi, Alessandro Lugari e Francesca Sposito, per scoprire che cosa state si sta calpestando in una visita, per capire in quale edificio e ambiente vi state muovendo, per riconoscere i pavimenti antichi in marmi policromi e in mosaico che decoravano gli edifici pubblici, ma anche e soprattutto le case private e i palazzi. In questo settimo appuntamento, la passeggiata virtuale lascia il Foro Romano alla scoperta degli straordinari rivestimenti pavimentali del Palatino partendo dagli Horrea Agrippiana, un complesso di magazzini edificati da Marco Vipsanio Agrippa che da lui prese il nome. “L’edificio, accessibile dal vicus Tuscus lungo il lato nord-occidentale del colle”, ricordano gli archeologi del PArCo, “era originariamente a tre piani con pianta rettangolare e presenta, lungo tutti e quattro i lati, tabernae affacciate su un cortile centrale. La prima fase degli Horrea è da comprendere tra il 33 e il 12 a.C., con ristrutturazioni successive documentabili alla fine del II d.C., epoca a cui risale la risistemazione del sacello centrale, e ancora fino al IV-V secolo d.C. Al centro della corte si imposta un’edicola centrale con il sacello dedicato al genius horreorum, come documenta l’iscrizione sul piedistallo che si è conservato. Il pavimento è in tessellato con raffigurazione del volto del dio Oceano”.

Horrea Agrippiana sul Palatino: mosaico con raffigurazione del dio Oceano, particolare in una foto d’Archivio. Da notare le corna e le chele sulla sommità del capo e la barba terminante con due teste a forma di pesce (foto Archivi PArCo, 30 FR-HA-asf015459)
“Il mosaico a tessere bianche e nere dell’edicola centrale”, continuano gli archeologi del PArCo, “raffigura una maschera maschile inserita entro un ottagono curvilineo i cui vertici sono generati da sei candelabri filiformi e due vasi panciuti. I candelabri a loro volta si sviluppano a partire da elementi vegetalizzati che danno all’insieme un effetto arabescante. Il punto focale del disegno è il volto maschile al centro della composizione: spiccano le corna e le chele sulla sommità del capo e la folta barba terminante con due teste a forma di pesce. Gli attributi caratterizzano inequivocabilmente il volto come quello del dio Oceano, presentato frontalmente e con fattezze piuttosto giovani. È importante sottolineare che la rappresentazione del dio non ha alcuna relazione con il decoro vegetale del pavimento ma ha sola funzione decorativa e di riempimento dell’intero disegno”.

Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme: mosaico con raffigurazione del dio Oceano tra pesci ed uccelli acquatici (foto da Cercone G., Mosaico da via delle Mura Portuensi, in Museo Nazionale Romano. Palazzo Massimo alle Terme. I mosaici, a cura di R. Paris e M.T. Di Sarcina, Milano 2012, n. 26 p. 289)
“Il soggetto non è diffusissimo e compare solo a partire dall’età adrianeo-antonina (seconda metà del II secolo d.C.), sia nella versione in bianco e nero, attestata qui negli Horrea Agrippiana e in un mosaico di via delle Mura Portuensi a Roma, sia nella versione policroma, come nel celebre esempio della villa di Baccano. Tutti i confronti citati sono conservati presso il museo nazionale Romano nella sede di Palazzo Massimo. L’iconografia – concludono – conosce ampia attestazione nel corso del III secolo d.C., soprattutto in ambito nord-africano e la sua presenza all’interno del complesso degli Horrea può essere riconducibile al legame con il mare e genericamente con il commercio, anche se non sono mancate altre interpretazioni”.
Cosa ci lascia il 2021? “100 opere tornano a casa”: nel progetto del Mic, due provengono dai depositi del museo nazionale Romano. Al museo Archeologico nazionale di Civitavecchia la polena in bronzo dalla darsena del porto di Traiano. Al museo delle Navi romane di Nemi la testata di baglio dalla nave di Caligola
Provengono entrambi dai depositi del museo nazionale Romano. La polena bronzea a testa femminile che decorava la prua di un’imbarcazione, rinvenuta a metà del XIX secolo nella darsena romana del porto di Traiano di Civitavecchia, è tornata finalmente visibile al pubblico al museo Archeologico nazionale di Civitavecchia. E la testata di trave bronzea, parte dei più pregiati arredi della stupefacente nave di Caligola, è ora possibile ammirarla al museo delle Navi Romane di Nemi. È questo uno dei lasciti del 2021, grazie al progetto del ministero della Cultura “100 opere tornano a casa”, voluto dal ministro Dario Franceschini per promuovere e valorizzare il patrimonio storico artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali. “Questo progetto – dichiara il ministro Franceschini – restituisce nuova vita a opere d’arte di fatto poco visibili, di artisti più o meno conosciuti, e promuove i musei più piccoli, periferici e meno frequentati. Nell’intero sistema museale dello Stato sono esposte circa 480mila opere, il resto – circa 4 milioni – è custodito nei depositi, da cui proviene la totalità dei dipinti e dei reperti coinvolti in questa iniziativa. Queste cento opere sono soltanto le prime di un progetto a lungo termine che mira a valorizzare l’immenso patrimonio culturale di proprietà dello Stato. Un obiettivo che sarà raggiunto anche attraverso un forte investimento nella digitalizzazione e nella definizione di nuove modalità di fruizione prevedendo nuove collaborazioni come la realizzazione di una serie di documentari insieme alla RAI, che ha anche il merito di rafforzare il legame tra il territorio e l’opera d’arte. Le opere verranno concesse in prestito decennale, continuamente rinnovabile, ai musei di destinazione”.
La valorizzazione del progetto “100 opere tornano a casa” prevede la collaborazione con la Rai che, attraverso Rai Doc, realizzerà un nuovo format, composto da un documentario breve e una serie di tredici episodi in presa diretta che saranno trasmessi dalle reti generaliste. Verranno raccontati la restituzione e il restauro delle opere d’arte partendo dai musei delle grandi città italiane, dai depositi dove l’opera è stata custodita e dai laboratori dove le sapienti mani dei restauratori l’hanno riportata a nuova vita. I direttori dei musei di provenienza e di quelli riceventi, i restauratori, gli storici dell’arte e gli esperti spiegheranno agli spettatori la storia dell’opera e le ragioni per cui è finita lontano dai luoghi che l’hanno vista nascere, offrendo anche spunti sulle attività dei professionisti dei beni culturali. Il format seguirà il viaggio delle opere d’arte che, una volta messe in sicurezza, saranno trasportate a bordo di pulmini speciali brandizzati con il logo “100 opere tornano a casa”, per raggiungere il museo che le accoglierà. Questo percorso, ripreso anche con i droni, diventa l’occasione per raccontare la diversità dei territori e dei luoghi d’Italia, per scoprire meglio le radici, la cornice storica, geografica, il paesaggio che ha ispirato gli artisti.

Polena in bronzo dalla darsena romana del porto di Traiano di Civitavecchia, ora al museo Archeologico nazionale di Civitavecchia (foto mic)
Polena di Civitavecchia. La polena in bronzo di Civitavecchia, opera pregevole e rara del II secolo d.C., fu rinvenuta a metà del XIX secolo nella darsena romana relativa al porto di Traiano di Civitavecchia e venne donata dall’allora ispettore onorario Giacomo D’Ardia Caracciolo al museo nazionale Romano. La polena di ridotte dimensioni raffigura un busto femminile con il velo che copre la nuca e scende sulla spalla sinistra, lasciando scoperto il panneggio sul petto. Sulla fronte sono disposte morbide ciocche ondulate. Potrebbe trattarsi di una divinità tutelare, forse la dea Cerere, e doveva decorare la prua di un’imbarcazione di modeste dimensioni, forse l’imbarcazione ausiliaria di una nave di tipo militare. Era fissata alla base minore di una scatola di forma trapezoidale nella quale è inserita la punta della prua.

La testata di baglio con protome leonina. Questa opera è stata ritrovata durante il tentativo di recupero delle navi condotto da Eliseo Borghi nel 1895, a seguito dell’autorizzazione della famiglia Orsini di Nemi, con il consenso del ministero della Pubblica istruzione. Grazie alle immersioni di un palombaro nell’ottobre del 1895 viene individuata la prima nave e recuperati i primi elementi decorativi, tra cui l’opera tornata in esposizione. I bronzi decorativi rinvenuti durante le ricerche del 1895 e dei recuperi del 1929-1931 sono stati esposti nel museo delle Navi Romane a Nemi dall’inaugurazione del 21 aprile del 1939 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Durante la guerra tutti gli elementi decorativi più importanti delle navi di Caligola vengono trasferiti al museo nazionale Romano, per preservarli durante il periodo bellico, salvandosi così dalla distruzione dell’incendio del 1944. Mentre una parte dei materiali era già rientrata al Museo negli anni passati, le bellissime decorazione in bronzo erano rimaste in esposizione a Roma. La testata con protome di leone in bronzo proviene dalla prima nave e decorava l’estremità di uno dei bagli. La testa è realizzata in fusione a cera persa, con particolari resi a bulino e cesello, ed è applicata su una cassetta quadrangolare che serviva per il montaggio sulla testata del baglio. Bagli in gergo navale sono le travi che uniscono i due lati della nave, collegando perpendicolarmente le estremità superiori delle assi che costituiscono l’ossatura dell’imbarcazione. Queste travature avevano la funzione di sostenere il ponte e di mantenere equidistanti le due murate della nave. Durante il recupero delle navi alcune di queste travi sono state rinvenute ancora con le testate in bronzo nella loro posizione originaria, che oggi si può ammirare nella ricostruzione dell’aposticcio realizzata in scala 1:1 esposta nel museo di Nemi.

Il museo delle Navi Romane di Nemi. Il Museo venne costruito tra il 1933 e il 1939 per ospitare due gigantesche navi appartenute all’imperatore Caligola (37-41 d.C.) recuperate nelle acque del lago tra il 1929 e il 1931. È stato quindi il primo Museo in Italia ad essere costruito in funzione del contenuto, due scafi dalle misure rispettivamente di m. 71,30 x 20 e m. 73 x 24, purtroppo distrutti durante un incendio nel 1944. Riaperto nel 1953, il Museo venne nuovamente chiuso nel 1962 e infine definitivamente riaperto nel 1988. Nel nuovo allestimento, l’ala sinistra è dedicata alle navi, delle quali sono esposti alcuni materiali, come la ricostruzione del tetto con tegole di bronzo, due ancore, il rivestimento della ruota di prua, alcune attrezzerie di bordo originali o ricostruite (una noria, una pompa a stantuffo, un bozzello, una piattaforma su cuscinetti a sfera). Sono inoltre visibili due modelli delle navi in scala 1:5 e la ricostruzione in scala al vero dell’aposticcio di poppa della prima nave, su cui sono state posizionate le copie bronzee delle cassette con protomi ferine. L’ala destra è invece dedicata al popolamento del territorio albano in età repubblicana e imperiale, con particolare riguardo ai luoghi di culto; vi sono esposti materiali votivi provenienti da Velletri (S. Clemente), da Campoverde (Latina) da Genzano (stipe di Pantanacci) e dal Santuario di Diana a Nemi, oltre ai materiali provenienti dalla Collezione Ruspoli. All’interno di quest’ala è inoltre possibile ammirare un tratto musealizzato del basolato romano del clivus Virbii, che da Ariccia conduceva al Santuario di Diana.
Roma, Percorsi fuori dal PArCo. Nel terzo appuntamento, il viaggio parte ancora una volta dal Palatino per arrivare virtualmente a Prima Porta alla scoperta delle proprietà di Livia Drusilla: la casa di città e la villa in campagna

Terzo appuntamento col progetto “Percorsi fuori dal PArCo – Distanti ma uniti dalla storia” che vuole portare i cittadini romani e tutti i visitatori a scoprire i legami profondi e ricchi di interesse, ma non sempre valorizzati, tra i monumenti del Parco e quelli del territorio circostante, raccontando, con testi e immagini, il nesso antico che unisce la storia di un monumento o di un reperto del parco archeologico del Colosseo con un suo “gemello”, situato nel Lazio. Dopo aver raggiunto il Comune di Cori (tempio dei Dioscuri) e il parco archeologico di Ostia Antica (tempio della Magna Mater) il viaggio virtuale – ma ricco di spunti per organizzare visite reali – promosso dal parco archeologico del Colosseo riparte ancora una volta dal Palatino, precisamente dalla Casa (di città) di Livia Drusilla, terza e ultima carismatica moglie di Augusto, e seguendo la via Flaminia si arriva idealmente a Prima Porta, dove sorgeva la sua villa in campagna.

La Casa di Livia sul Palatino. Iuliae Augustae: queste parole scritte su una tubatura di piombo rinvenuta durante gli scavi ottocenteschi hanno permesso di attribuire a Livia, terza e ultima moglie di Augusto, una ricca domus situata sulla sommità Palatino. “Costruita all’inizio del I sec a.C., quando il colle era disseminato di abitazioni private dell’aristocrazia senatoria”, spiegano gli archeologi del PArCo, “la casa fu ristrutturata intorno al 30 a.C. e decorata con gli affreschi ancora oggi in parte conservati; in quell’occasione fu probabilmente trasformata in un appartamento riservato a Livia all’interno del complesso abitativo augusteo”.

“A colpirci, oltre alle semplici e raffinate pavimentazioni a mosaico bianco-nero, è la decorazione dipinta di secondo stile pompeiano: nel tablino, ambiente di ricevimento che si affaccia sull’atrio, ammiriamo un podio sormontato da colonne, tra cui si aprono vedute immaginarie. Tra le scene mitologiche si riconoscono Polifemo e Galatea e la ninfa Io sorvegliata da Argo. Ai lati dei quadri centrali aperture spaziano su paesaggi immaginari e architetture fantastiche, arricchite da sfingi, figure alate e candelabri”.

“Nell’ala destra la decorazione – continuano – invece è organizzata intorno a un portico aggettante: tra le colonne sono dipinti festoni vegetali ornati con bende e oggetti di culto. In alto corre un singolare fregio monocromo su fondo giallo, con rappresentazioni di vita reale alternate a scene di ambiente egizio, rese in modo “impressionistico” con rapide pennellate”.

La Villa di Livia a Prima Porta. “Ma Livia, discendente di una delle più note famiglie della Roma repubblicana”, ricordano ancora gli archeologi del PArCo, “famiglia che vantava tra i suoi membri consoli e generali, ed ex moglie di un esponente dell’illustre gens Claudia, aveva certamente molte altre proprietà. Tra queste c’era, come sappiamo dagli storici antichi, una villa sulla Via Flaminia, detta ad gallinas albas (alle galline bianche) a causa di un prodigio che vi si era verificato: un’aquila aveva lasciato cadere in grembo a Livia una gallina bianca che aveva nel becco un ramo di alloro. Su consiglio degli aruspici la gallina venne allevata, e intorno alla villa fu piantato un bosco di allori, da cui si coglievano i rami utilizzati nei trionfi”.

“Questa villa è stata identificata, grazie a numerosi indizi, con un complesso antico scavato presso Prima Porta, che conservava un ambiente sotterraneo con straordinarie pitture di giardino, oggi al museo nazionale Romano a Palazzo Massimo. Tale è il realismo di queste pitture – assicurano al PArCo -, che abbiamo l’illusione di trovarci davvero in un giardino disseminato di fiori e di arbusti: riconosciamo allori, rose, margherite, papaveri, cespi di camomilla, cotogni, melograni, mirti, oleandri, pini domestici, abeti, querce, lecci; tra gli uccelli lo zimbello ed il merlo. La raffigurazione degli elementi in scale diverse e le cime degli alberi piegate dal vento rendono ancora più realistica la rappresentazione”.

“Questa straordinaria decorazione, realizzata più o meno negli stessi anni delle pitture del Palatino, è il primo esempio noto di pittura di giardino, un genere che avrà grande fortuna nel mondo romano, non solo nelle abitazioni ma anche, in forme diverse, nella pittura funeraria: in essa il giardino – concludono – diventa infatti simbolo del piacere di vivere, che neanche nella morte i romani rinunciano a celebrare”. Orari di ingresso e informazioni sulla visita nelle quattro sedi del museo nazionale Romano sono disponibili sul sito ufficiale https://museonazionaleromano.beniculturali.it/.
Il museo nazionale Romano riapre le porte ai visitatori: si inizia il 1° febbraio con Crypta Balbi, poi l’8 febbraio Terme di Diocleziano, Palazzo Massimo e Palazzo Altemps. Il direttore Stéphane Verger racconta i lavori fatti in lockdown e annuncia le novità per il 2021

Il museo nazionale Romano torna ad aprire le porte ai suoi visitatori. Si comincia con la Crypta Balbi lunedì 1° febbraio 2021, un sito tutto da esplorare e ancora da scoprire: stanno infatti per iniziare nuovi lavori di restauro che consentiranno un ulteriore ampliamento del percorso espositivo. I nuovi orari di visita sono: lunedì-venerdì, dalle 14 alle 19.45. Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria a 2 euro. Le visite di gruppo, accompagnate e non, sono consentite fino a un massimo di 14 partecipanti, comprensivi dell’accompagnatore/guida turistica. Da lunedì 8 febbraio 2021 riapriranno le loro porte anche le altre sedi: Terme di Diocleziano, Palazzo Massimo e Palazzo Altemps.

La Crypta Balbi è un complesso collegato all’antico teatro Balbo. Prezioso e raffinato, il più piccolo dei tre teatri dell’antica Roma fu costruito nel 13 a.C. da Lucio Cornelio Balbo, spagnolo di Cadice, con il bottino delle vittorie riportate sulle popolazioni libiche. Al teatro era annesso un vasto cortile porticato, piuttosto angusto, chiamato crypta. Era qui che gli spettatori trovavano riparo in caso di pioggia o si radunavano durante le pause degli spettacoli, ed è proprio qui che duemila anni dopo, in quelle stesse strutture, sorge il Museo. La specificità della Crypta Balbi, nel contesto del Museo nazionale romano, è di essere un museo di archeologia urbana, che ricerca e documenta l’evoluzione di quello spazio, dei suoi insediamenti e delle sue destinazioni d’uso lungo i secoli.
Il direttore Stéphane Verger racconta l’esperienza del museo nazionale Romano durante la fase epidemiologica del Covid 19 e le attività messe in campo in occasione della chiusura al pubblico. “Durante questo periodo di chiusura”, racconta, “si lavora molto al museo nazionale Romano. Si lavora già per inventare nuovi modi per presentare le collezioni del museo. Per il pubblico ovviamente è difficile seguire queste chiusure e riaperture, e quindi noi diamo una continuità col nuovo sito web e dei social che permettono ogni giorno di avere un appuntamento per il pubblico che può rivisitare virtualmente un’ala del museo, un oggetto rivederlo, sia quelli più famosi come il Pugile di Palazzo Massimo sia quelli meno noti. Il museo nazionale Romano è costituito da quattro sedi: le Terme di Diocleziano sono una sede immensa, quindi dobbiamo lavorare per riaprire. Ma c’è poi Crypta Balbi: adesso se ne vede solo un decimo. Poi ci sono anche lavori a Palazzo Altemps dove c’è un nuovo cortile che sarà aperto nel 2021. E a Palazzo Massimo c’è tanto da fare nei magazzini che sono un patrimonio enorme e che pure in questo caso lo si deve far vedere di più. Si lavora anche per preparare la riapertura. Nel 2021 ci sarà una grande mostra e quindi il pubblico deve vedere che si è arricchito il museo, e che si arricchirà la visita. C’è stato veramente un lavoro molto importante e fatto a porte chiuse. E quindi si deve far vedere al pubblico qual è la ricchezza delle competenze della squadra; e quel lavoro deve essere valorizzato nelle visite che permettono di mostrare tutto quello che c’è dietro le quinte”.
#iorestoacasa. “Passeggiata archeologica” da Nord a Sud con i video promossi dal Mibact per portare il patrimonio culturale nella casa degli italiani in piena emergenza da coronavirus: “La cultura non si ferma”
#iorestoacasa è l’invito che da qualche settimana è chiesto a tutti noi, un mantra che ci accompagna in ogni comunicazione ufficiale. Lo ha recepito molto bene il ministero per i Beni e le Attività culturali che però assicura: “La cultura non si ferma”. E lancia una serie di brevi video promozionali per far conoscere, stando a casa, le bellezze del nostro patrimonio culturale. Ecco una breve carrellata di immagini, da Nord a Sud, che diventa una vera e propria “passeggiata archeologica”.
Il museo Archeologico nazionale di Aquileia è tra le principali e più antiche istituzioni museali del Friuli Venezia Giulia. Inaugurato il 3 agosto del 1882, e rinnovato il 3 agosto 2018, è parte del Polo museale del Friuli Venezia Giulia e conferito in uso alla Fomdazione Aquileia. Il complesso museale, con la sua notevole estensione e l’ingente ed eccezionale collezione archeologica, fortemente legata al territorio e alle indagini archeologiche effettuate nel sito, rappresenta una delle più importanti istituzioni museali dell’Italia settentrionale.
Museo Archeologico nazionale del Mare di Caorle. La visita inizia con “TERREDACQUE da mostra a museo”, allestita già nel 2014 dall’allora Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto. In queste sale, situate al primo piano del Museo, sono stati esposti i reperti più significativi rinvenuti a Caorle e in siti limitrofi, databili in un ampio arco cronologico che va dall’età del Bronzo recente (XIII—prima metà XII secolo a.C.) all’epoca moderna. Nelle sale al piano terra è invece raccontata la storia del brick Mercurio, un’imbarcazione da guerra a due alberi, armata con due vele quadre e una vela trapezoidale con un solo ponte, costruita in età napoleonica e ceduta dai Francesi alla flotta italiana. Il vascello saltò in aria il 22 febbraio del 1812, perché colpito al Santa Barbara, cioè nelle polveri poste a poppa, durante la battaglia di Grado, combattuta dagli Italo-francesi contro gli Inglesi.
Museo Archeologico nazionale di Ferrara. Allestito nel cinquecentesco palazzo tradizionalmente attribuito a Ludovico Sforza detto il Moro, Duca di Milano, appartenne in realtà ad Antonio Costabili, segretario di Ludovico e personalità di spicco della corte del Duca Ercole I d’Este, palazzo progettato da Biagio Rossetti per Antonio Costabili, il museo conserva le testimonianze della necropoli e dell’abitato di Spina, il fiorente porto commerciale etrusco che tra il VI e il III sec. a.C. rappresentò uno dei centri focali della regione. Sono esposti alcuni dei corredi ritrovati nelle oltre 4.000 tombe, reperti di impressionante bellezza tra cui spicca un’imponente raccolta di vasi attici a figure rosse del V sec. a.C. Recentemente ampliato e riallestito con apparati all’avanguardia, il museo vanta una Sala del Tesoro affrescata dal Garofalo, la Sala delle Piroghe, imbarcazioni monossili di età tardo romana (III-IV secolo d.C.), e la Sala degli Ori con gioielli d’oro, argento, ambra e pasta vitrea risalenti al V e IV sec. a.C. Al piano terra, quattro sale – di cui due affrescate dal Garofalo e dalla sua scuola – sono dedicate “alla città dei vivi”, all’abitato di Spina, ai culti e ai miti, ai popoli e alle scritture. Chiude il percorso una delle “biblioteche virtuali” che introduce alla necropoli. Il piano nobile, in consonanza con l’originario allestimento degli anni Trenta, è dedicato alla necropoli della città etrusca e annovera capolavori della pittura vascolare attica, bronzi etruschi, preziosi oggetti di importazione da tutto il Mediterraneo.
Il Colosseo, il Foro e il Palatino risplendono in questo video realizzato in piena emergenza coronavirus per permettere alle persone di continuare a godere del patrimonio culturale nazionale. Dall’attenzione alle famiglie con le numerose attività e laboratori per bambini e ragazzi alle attività di studio e ricerca, con la possibilità di ammirare luoghi meno noti come la domus di Scauro; dagli scavi realizzati insieme a studenti e specializzandi per la formazione specialistica sul campo ai percorsi multimediali attraverso i luoghi di Nerone, Augusto e Livia; dalle opere di manutenzione e restauro all’Arco di Tito, con l’inconsueto accesso a una scala interna al monumento trionfale, al lavoro quotidiano del personale nel Parco Archeologico del Colosseo. Questo e molto altro è visibile nel video che illustra uno dei luoghi iconici del patrimonio culturale mondiale, pronto ad accogliere nuovamente appena possibile chi vorrà godere dal vivo dei suoni e delle luci che animano le memorie più preziose della nostra storia.
“Classico pop”: curioso video con i tesori del museo nazionale Romano. Nato nel 1889 come uno dei principali centri di cultura storica ed artistica dell’Italia unita, oltre ad accogliere ed esporre le opere di collezioni storiche passate allo Stato e le numerose antichità che emergevano dai lavori di adeguamento di Roma al suo nuovo ruolo di Capitale del Regno d’Italia, il Museo era destinato ad accrescere il patrimonio storico ed artistico della città e contribuire con esso nel modo più efficace all’incremento della cultura. Circa un secolo dopo la sua istituzione nelle Terme di Diocleziano, il Museo è stato riorganizzato in quattro sedi distinte: alle Terme si sono aggiunti Palazzo Massimo, Palazzo Altemps e la Crypta Balbi.
Le Terme di Diocleziano, che fanno parte del museo nazionale Romano, rivivono in questa ricostruzione 3D, che mostra gli straordinari resti del grande impianto d’età imperiale come appariva ai Romani del IV secolo d.C.
Il Parco Archeologico dell’Appia Antica si sviluppa da Porta Capena sino alla località di Frattocchie nel comune di Marino, tra la via Ardeatina e l’Appia Nuova, includendo la Valle della Caffarella e l’area di Tormarancia. Il Parco Archeologico ha in consegna un ampio tratto dell’antica via Appia, di proprietà del Demanio dello Stato, dal civico n. 195 fino alla località di Frattocchie, con i monumenti sui lati, e i siti di Cecilia Metella e Castrum Caetani, Capo di Bove, Villa dei Quintili e Santa Maria Nova, il Parco delle Tombe della via Latina, il complesso degli Acquedotti, la Villa dei Sette Bassi, l’Antiquarium di Lucrezia Romana.
Museo e parco archeologico Nazionale di Egnazia. Il museo, intitolato a Giuseppe Andreassi, direttore del museo e dell’area archeologica dal 1976 al 1985 e Soprintendente Archeologo della Puglia dal 1990 al 2009, sorge all’esterno delle mura di cinta dell’antica Gnathia, nell’area della necropoli messapica. La città, citata dagli autori classici per la sua posizione geografica privilegiata, fu scalo commerciale strategico nel collegamento tra Occidente e Oriente. Della fase messapica di Egnazia restano le poderose mura di difesa e le necropoli, con tombe a fossa, a semicamera e le monumentali tombe a camera. Della città romana si possono ammirare i resti della Via Traiana, della Basilica Civile con l’aula delle Tre Grazie, del Sacello delle divinità orientali, della piazza porticata, del criptoportico e delle terme. Tra gli edifici di culto cristiano, sorti tra il IV ed il VI sec. d.C., si segnalano la Basilica Episcopale con il battistero e la Basilica Meridionale, originariamente pavimentate con mosaici. Il nuovo museo è stato inaugurato nel luglio 2013. Il percorso espositivo, diviso in 7 sezioni, narra le vicende che hanno caratterizzato la ricerca archeologica ad Egnazia e l’evoluzione storica del sito dal XVI sec. a.C. fino al XIII secolo d.C., epoca dell’abbandono.
Anfiteatro Romano di Lecce. Collocato nel cuore di Lecce, in piazza S. Oronzo, l’Anfiteatro romano testimonia l’importanza raggiunta dall’antica Lupiae in epoca imperiale. Scoperto agli inizi del Novecento, dell’edificio originario è oggi visibile circa un terzo, con parte dell’arena e della cavea, mentre la restante porzione è celata al di sotto della piazza e dei fabbricati prospicenti.
Museo Archeologico Nazionale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia è stato istituito nel 1969 e intitolato al conte Vito Capialbi (1790-1853). Erudito del luogo animato da spirito antiquario, per primo raccolse e custodì le testimonianze della vita della città, ricostruendone la storia dalla fondazione della colonia locrese di Hipponion alla costituzione della colonia romana di Valentia. Dal 1995 il Museo ha sede nel Castello Normanno-Svevo della città che, nella sua struttura originaria e più antica, risale all’epoca di Federico II. I materiali esposti provengono dagli scavi effettuati nella città e nel suo territorio a partire dalle prime ricerche effettuate da Paolo Orsi nel 1921. Accanto ai reperti rinvenuti nelle indagini archeologiche, sono presenti quelli provenienti dalle prestigiose raccolte Capialbi, Cordopatri e Albanese. Le collezioni del Museo illustrano la storia e l’archeologia del territorio, dalla preistoria (primo piano) all’età greca (piano terra e primo piano) e a quella romana e medioevale (piano terra). L’allestimento, basato su criteri cronologici e topografici, ha inizio con manufatti di età protostorica e con reperti provenienti dagli scavi condotti nelle aree sacre della città magnogreca. L’area sacra di Scrimbia ha restituito manufatti databili tra la fine del VII e la fine del V secolo a.C. Il piano terra espone reperti ritrovati nelle necropoli di Hipponion (fine VII – IV secolo a.C.), tra i quali spicca una laminetta aurea attestante il culto orfico con un’iscrizione in dialetto dorico-ionico che fornisce consigli per il passaggio del defunto nel mondo dei morti. L’itinerario prosegue con i materiali di età romana. All’archeologia subacquea è dedicata ampia attenzione: tra i vari reperti viene presentata la ricostruzione parziale della chiglia di un’imbarcazione e alcune anfore e ancore di diverse epoche rinvenute in buona parte nei fondali vibonesi.
Con i bronzetti nuragici del museo Archeologico nazionale “Giorgio Asproni” di Nuoro alcuni consigli per chi è costretto a stare a casa. Il museo è stato inaugurato nel 2002, nel palazzo ottocentesco appartenuto a Giorgio Asproni, intellettuale e uomo politico sardo del XIX secolo. L’esposizione offre un’intensa testimonianza del ricco patrimonio paleontologico e archeologico proveniente dalla provincia di Nuoro: dalle testimonianze di vertebrati del Monte Tuttavista e della Grotta Corbeddu, ai reperti del Paleolitico di Ottana ed alla collezione di oggetti di vita quotidiana del Neolitico. Seguono i materiali delle culture dell’Età del Rame di Filigosa, Abealzu, Monte Claro, del vaso Campaniforme e della cultura di Bonnanaro, a cui si data lo scheletro di Sisaia, ritrovato nell’omonima grotta. Gli oggetti del periodo nuragico, l’età del Bronzo e del Ferro provengono da importanti siti quali Su Tempiesu ad Orune, Sa Sedda ‘e Sos Carros, ad Oliena; la collezione include inoltre la ricostruzione della fonte sacra di Oliena.
Roma. A Palazzo Altemps i capolavori scultorei dell’antichità classica dialogano con le opere del grande artista del Novecento, Medardo Rosso, con la prima mostra monografica a lui dedicata, che mette in luce una delle specificità del percorso artistico di Rosso: la citazione dell’antico e il tema della copia
“Quanti ‘grandi maestri’ sarebbero sconosciuti e non avrebbero prodotto nulla, se gli antichi non li avessero preceduti?”, scriveva Medardo Rosso. E proprio a questo grande artista del Novecento italiano il museo nazionale Romano apre le rinascimentali sale di Palazzo Altemps di Roma, dove sono esposti capolavori scultorei dell’antichità classica, dopo aver consolidato negli anni recenti l’accoglienza di progetti che hanno messo in relazione l’arte contemporanea con gli spazi del museo. Fino al 2 febbraio 2020 è aperta a Palazzo Altemps la mostra “Medardo Rosso”, la prima mostra monografica dell’artista a Roma, organizzata con il Polo Museale di Milano per l’arte moderna e contemporanea, che documenta come il grande artista abbia posto le basi, tra il 1890 e il 1910, al pensiero moderno sull’idea di copia non più intesa come riproduzione, ma come interpretazione: anticipando le avanguardie artistiche del Novecento. Il confronto con le opere della collezione di sculture antiche di Palazzo Altemps ha consentito ai curatori – Paola Zatti, conservatrice della Galleria d’Arte Moderna di Milano, e Francesco Stocchi, curatore del Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam – di mettere in luce una delle specificità del percorso artistico di Rosso: la citazione dell’antico e il tema della copia. “Le opere in cera, gesso e bronzo”, scrive Daniela Porro, direttore del museo nazionale Romano, “i materiali più congeniali a Rosso nella rappresentazione di quello che egli stesso definì “spazio fuggitivo della frazione di un secondo” vengono esposte accanto alle fotografie realizzate dall’artista. A partire soprattutto dalla fine dell’Ottocento, la fotografia assume per Rosso il senso di una ricerca autonoma e compiuta, occasione di uno studio sulla materia e sulla luce, ormai svincolato dal confronto con il vero. Ma il carattere originale dell’esposizione è conferito dal tema del dialogo con l’antichità”.
“Nel primi cinque anni del Novecento, viaggiando per l’Europa (Lipsia, Berlino, Dresda)”, continua Porro, “il Maestro scopre collezioni da cui attinge ed esegue copie dall’antico seguendo i costumi dell’epoca, secondo una pratica che ha origini secolari. L’artista riproduce copie da più di venticinque modelli, realizzando oltre cento sculture, prevalentemente in cera e bronzo, a testimonianza dell’attenzione che portava nei confronti dell’antichità e di quei caratteri moderni inviolabili nei secoli. Il problema della copia rappresenta infatti un carattere centrale nella storia dell’arte classica, al punto che per buona parte della sua storia si è identificato con essa”. Nell’Ottocento nacque proprio in Germania una vera e propria scienza nella scienza che prese il nome di Kopienkritik, diventato presto l’approccio metodologico dominante rispetto allo studio di sculture romane classiche. La pratica di Rosso nei confronti dell’antico si iscrive in questo clima storico, in cui l’artista è consapevole di eseguire per lo più copie di copie di opere dell’antichità fino al Rinascimento, inserendole in contesti innovativi. La mostra intende approfondire questi aspetti, dimostrando al tempo stesso come la citazione di Rosso dell’antico non si limiti a un esercizio di mera copia: la sua è piuttosto da intendersi come opera autonoma e consapevole, posta di sovente a confronto diretto con l’originale antico, o più spesso proponendo innovative forme di presentazione di sue opere affiancate a copie dall’antico da lui stesso realizzate. Tali soluzioni allestitive, oltre a rispondere a specifiche esigenze di “miseen-scène” tipicamente appartenenti al concetto di scultura di Rosso, avevano come fine ultimo di creare un confronto serio tra le sue opere e quelle di artisti antichi e contemporanei, dimostrando come il lavoro di alcuni di essi fosse realmente radicato nei canoni dell’arte antica. Ciò a testimonianza, come affermava Rosso stesso, che “le opere della seconda Grecia, sua succursale, del Rinascimento, sottosuccursale di questa (senza parlare della sotto-sottosuccursale di queste catalogata giustamente come “Impero”, completamente fermacarte del signor Antonio Canova) sono tra le epoche più chiuse nell’oggettivismo”.
Bambina ridente – Rieuse – Grande rieuse – Enfant au soleil – Enfant juif – Enfant malade – Uomo che legge – Ecce puer sono i modelli selezionati per seguire l’elaborazione del soggetto che con Medardo Rosso prende vita, in rapporto con la luce e con la materia, divenendo ogni volta un’opera a se stante: un originale. I soggetti dall’antico Antioco III – Niccolò da Uzzano – Memnone – Vitellio – San Francesco, creano invece un rimando incrociato con le antiche sculture custodite a Palazzo Altemps, portando anche su queste nuova luce. Le opere di Rosso spingono a una rilettura della pratica della copia in epoca antica e della storia del collezionismo nel Rinascimento e nell’età barocca, narrata dalla raccolta del Museo. Come avviene per alcuni grandi pittori e scultori tra Otto e Novecento (si pensi in particolare a Degas e Brancusi), esporre le fotografie di Rosso accanto alle sue opere in bronzo, cera o gesso non ha solo un valore documentario ma rappresenta un supporto alla comprensione della sua idea di scultura. La fotografia era per Rosso occasione di manipolazione della materia e della luce, ormai svincolata dal confronto col reale: Rosso fotografa le sue opere per intervenire poi con viraggi, ingrandimenti, scontornature, collages, tracce di materia pittorica, tagli e abrasioni, fino ad accettare l’intervento del caso e dell’errore. Esposte nelle sue mostre accanto alle sculture e pubblicate in libri e riviste, le fotografie devono essere considerate a tutti gli effetti vere e proprie opere di Rosso, e consegnano alla storia un artista che ha saputo vedere ben al di là del suo tempo, verso le manipolazioni dell’immagine che caratterizzano la nostra contemporaneità.
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