“On the road”: la mostra di Reggio Emilia propone una riflessione sulla storia della via Emilia e sul suo fondatore, sul significato della strada nella contemporaneità, in un itinerario che va dalle popolazioni preromane, ai romani, all’avvento del Cristianesimo e Medioevo. Oltre 400 reperti, molti inediti, “messi in scena” con la mediazione di spezzoni di celebri film peplum e il concorso della multimedialità e della tecnologia digitale
Immaginate di essere un centurione romano che marcia al fianco dei legionari agli ordini del console: loro stanno andando a consolidare la sicurezza della Gallia Cisalpina. I Boi sono stati gli ultimi a cadere nell’ultimo scorcio del III sec. a.C. A pochi decenni dalle decisive battaglie di Cremona (200 a.c.) e Mutina (194 a.C.) è ora più facile raggiungere velocemente la pianura Padana: c’è un’asse rettilineo che si incunea come una spada affilata nel cuore della Cisalpina, da Rimini a Piacenza. È la via Emilia, voluta dal console Marco Emilio Lepido nel 187 a.C. Da allora sono passati 2200 anni e noi, come gli antichi legionari, possiamo ancora percorrere fisicamente quella via consolare il cui nome e tracciato rimasti sono così peculiari da dare il nome all’intera regione, l’Emilia-Romagna. Ma possiamo scegliere anche un percorso virtuale che ci permette di conoscere i segreti della via Emilia, la sua costruzione, le sue strutture, i suoi servizi, ma anche le città sorte lungo il suo tracciato e le popolazioni che le abitavano. È quanto proposto dalla mostra “On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017” aperta fino al primo luglio 2018 in una città simbolo, Reggio Emilia, che ha preso il nome dal console che tracciò la via Emilia, Marco Emilio Lepido appunto, il quale giocò un ruolo da protagonista anche nel dare forma istituzionale al Forum che da lui prese il nome, Forum o Regium Lepidi.

Lo straordinario ritratto del console Marco Emilio Lepido proveniente dal museo Archeologico nazionale di Luni (foto Carlo Vannini)

La presentazione della mostra “On the road”: da sinistra, l’architetto Italo Rota, il soprintendente Luigi Malnati, il ministro Graziano Delrio, il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi, la vicepresidente dell’Emilia Romagna Ottavia Soncini, e il direttore dei civici musei Elisabetta Farioli
“On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017”, curata da Luigi Malnati, Roberto Macellari e Italo Rota, è promossa dai Musei Civici del Comune di Reggio Emilia, dal Segretariato regionale del ministero dei Beni e delle Attività culturali e Turismo (Mibact) per l’Emilia-Romagna unitamente alla stessa soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna e la Fondazione Pietro Manodori, con il contributo Art Bonus di Credem e Iren, il patrocinio di Anas, sponsor CarServer. Nell’ambito del progetto di promozione della cultura e del territorio “2200 anni lungo la Via Emilia”, Reggio Emilia – con la grande mostra “On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017” propone specificamente una riflessione sulla storia della via Emilia e sul suo fondatore, sul significato della strada nella contemporaneità, in un itinerario che include Età Romana, pre-Romana (Etruschi, Celti, Liguri), avvento del Cristianesimo e Medio Evo, Contemporaneità. Reggio è l’unica città emiliana che conserva nel proprio nome il ricordo del fondatore (eponimo), ma anche della strada su cui si impostava l’intero popolamento della regione che, a sua volta, da essa avrebbe preso nome. Particolare attenzione è dedicata perciò alla riscoperta della figura di Marco Emilio Lepido, il geniale costruttore che, sgominati i Celti e i Liguri, decise la costruzione di una lunghissima strada che collegava le colonie di Rimini e Piacenza, ma anche alla sua fortuna nel corso dei secoli.

Nella suggestiva immagine da satellite dell’Italia si riconosce subito il rettilineo della via Emilia
“C’è tanto di noi in questa On the road “, ha detto il sindaco Luca Vecchi all’inaugurazione, “mostra archeologica in chiave dichiaratamente contemporanea, dedicata a una strada nata come linea di confine tra la civiltà romana e altre popolazioni e divenuta ben presto sistema di connessione e integrazione fra persone, luoghi, città, merci, culture diverse. Edmondo Berselli, a millenni dalla loro fondazione, ha scritto delle città emiliane che sono tanto simili tra loro e quanto sono diverse le une dalle altre: è lo stesso effetto Via Emilia giunto intatto sino a noi, ovvero il saper convivere nelle diversità, connettendole”. E l’architetto Italo Rota, curatore dell’allestimento: “La Via Emilia è per me uno dei grandi gesti dell’umanità. Non a caso è uno dei pochi luoghi perfettamente distinti dai satelliti, e forse non a caso la sua direttrice coincide con tante rotte aeree. Le strade evolvono, possono scomparire senza lasciare traccia: non la Via Emilia, che esiste, vive nei territori che attraversa, si moltiplica senza cambiare percorso ed è nel contempo una miniera di antichi reperti. L’archeologia è materia difficile. Abbiamo pensato di proporre questo grande scenario, che rappresenta una cosa astratta quale la linea della Strada nello spazio e nel tempo, declinando accanto a essa in miniature i luoghi di vita, lavoro, viaggio, che raccontano ai visitatori un luogo antico, contemporaneo, molteplice”.

La statua 3D di Marco Emilio Lepido posta in piazza del Monte, sulla via Emilia, nel cuore di Reggio Emilia
“On the road – Via Emilia 187 a.C. – 2017” è articolata in più sedi: quella principale è al Palazzo dei Musei di Reggio Emilia, alla quale si affiancano il Palazzo Spalletti Trivelli del gruppo bancario Credem e il Museo Diocesano. Ma anche non si possono dimenticare altri luoghi pertinenti, fra cui la sede del Municipio, dove è stata restaurata la scultura settecentesca di Marco Emilio Lepido, che accoglie il visitatore ai piedi dello scalone d’onore. E una riproduzione 3D del monumento dedicato al console, realizzata con stampanti digitali e in polistilene è stata collocata nel cuore di Reggio Emilia, in piazza del Monte, sulla Via Emilia e da qui indica la sede espositiva di Palazzo dei Musei. Proprio al Palazzo dei Musei, l’allestimento su tre piani, a cura dello stesso architetto Italo Rota, si pone l’ambizioso obiettivo di restituire alla sensibilità contemporanea i preziosi reperti archeologici esposti – più di 400: della città, della regione e prestati da grandi istituzioni nazionali, quali il museo nazionale Romano e il museo della Civiltà romana di Roma, il museo Archeologico di Bologna e il museo Archeologico nazionale di Luni – nella ferma convinzione che l’antico non possa non essere oggi osservato se non con occhi contemporanei. Persone, vicende storiche, società romana vengono restituite in raffinati display che ricostruiscono in piccola scala i principali ambienti di vita dell’antica strada romana valorizzando e contestualizzando i materiali archeologici originali, “messi in scena” anche tramite la mediazione di spezzoni di celebri film peplum e il concorso della multimedialità e della tecnologia digitale.

Il prezioso bicchiere da Vicarello (Bracciano) con la più antica rappresentazione figurata di una strada (su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Museo Nazionale Romano)
Per tutta l’età romana e fino alla caduta dell’impero, la strada ha costituito un elemento fondamentale di coesione e collaborazione tra le città che attraversava, veicolo indispensabile per persone, merci e idee. Le diverse popolazioni che avevano abitato la regione dalla protostoria proprio attraverso la via Emilia vennero incluse via via nel modello culturale e civile portato da Roma, che successivamente poté essere adottato anche dalle popolazioni che da tutte le parti dell’impero e da oltre il limes confluirono in Emilia. La mostra è l’occasione per presentare le novità provenienti dagli scavi degli ultimi venti anni a Reggio Emilia e nel suo territorio, ma anche per illustrare col prestito di reperti molto significativi l’itinerario della strada. Tra le opere esposte, alcune hanno lasciato per la prima volta la loro sede originaria, come il bicchiere d’argento da Vicarello (Bracciano) del museo nazionale Romano, con la più antica rappresentazione figurata di una strada; il ritratto di Marco Emilio Lepido da Luni; la stele etrusca con la raffigurazione di un carro dal recente scavo di via Saffi a Bologna; o il fregio d’armi di età romana repubblicana di Piacenza. È tempo dunque di conoscere meglio la Via Emilia. “Camminiamo, idealmente e realmente, lungo la via Emilia: quale luogo migliore per avere consapevolezza di noi stessi e per farci conoscere?”, è l’invito del sindaco di Reggio Emilia, Vecchi. E allora mettiamoci in cammino… on the road.
(1 – continua)
2017, anno record per i musei italiani: superati i 50 milioni di visitatori, e un terzo ha scelto un museo o un sito archeologico. Il Colosseo con oltre 7 milioni di visitatori è in assoluto il monumento più visto, seguito dagli scavi di Pompei con 3,4 milioni. In crescita anche le piccole aree e collezioni archeologiche
L’archeologia si conferma vincente nell’anno dei record per i musei nazionali: nel 2017 superati i 50 milioni di visitatori, un risultato eccezionale per l’Italia, e di questi un terzo ha scelto un museo o un sito archeologico. E il monumento più visitato in assoluto si è confermato il Colosseo, ma con un incremento del 10% che ha fatto superare il tetto dei 7 milioni di visitatori. Alla presentazione dei dati finali dell’anno raccolti ed elaborati dal ministero dei Beni e della attività culturali e del turismo, il titolare del dicastero Dario Franceschini ha espresso tutta la sua soddisfazione: “I dati definitivi del 2017 segnano il nuovo record per i musei italiani: superata la soglia dei 50 milioni di visitatori e incassi che sfiorano i 200 milioni di euro, con un incremento rispetto al 2016 di circa +5 milioni di visitatori e di +20 milioni di euro”. E prosegue: “Il bilancio della riforma dei musei è davvero eccezionale: dai 38 milioni del 2013 ai 50 milioni del 2017, i visitatori sono aumentati in quattro anni di circa 12 milioni (+31%) e gli incassi di circa 70 milioni di euro (+53%). Risorse preziose che contribuiscono alla tutela del nostro patrimonio e che tornano regolarmente nelle casse dei musei attraverso un sistema che premia le migliori gestioni e garantisce le piccole realtà con un fondo di perequazione nazionale. I musei e i siti archeologici italiani stanno vivendo un momento di rinnovata vitalità e al successo dei visitatori e degli incassi corrisponde una nuova centralità nella vita culturale nazionale, un rafforzamento della ricerca e della produzione scientifica e un ritrovato legame con le scuole e con i territori”. Per il quarto anno consecutivo – sottolinea Franceschini- l’Italia viaggia in controtendenza rispetto al resto d’Europa con tassi di crescita a due cifre, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno che, anche nel 2017, hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione del trend nazionale. La Campania è ormai stabile al secondo posto della classifica delle regioni più virtuose: “La rinascita di Pompei è stata sicuramente da traino ma sono state molto positive anche le altre esperienze delle gestioni autonome dalla Reggia di Caserta, al Museo archeologico Nazionale di Napoli, a Capodimonte, a Paestum. Nel 2017 – conclude Franceschini – tutti i musei hanno registrato significativi tassi di crescita, ma il patrimonio archeologico è stato il più visitato: circa un terzo dei visitatori si sono concentrati tra Pompei, Paestum, Colosseo, Fori, Ostia Antica, Ercolano, l’Appia antica e i grandi musei nazionali come Napoli, Taranto, Venezia e Reggio Calabria e il Museo nazionale romano”.

Lo straordinario complesso della villa dell’imperatore Adriano a Tivoli: new entry nella “top 30” dei musei più visitati nel 2017
Non è un caso, quindi, che sul podio dei musei più visitati d’Italia, ben due “medaglie” siano andati a monumenti antichi e aree archeologiche: il primo posto è andato al Colosseo (oltre 7 milioni di visitatori) e il secondo a Pompei (3,4 milioni di visitatori), mentre il terzo è stato conquistato dagli Uffizi (2,2 milioni di visitatori), risultato che poi viene confermato anche dai visitatori complessivi delle tre regioni di appartenenza, con il Lazio (oltre 23 milioni di visitatori) davanti a alla Campania (quasi 9 milioni) e alla Toscana (poco più di 7 milioni). Nella “Top 30” i tassi di crescita più sostenuti sono stati registrati da Palazzo Pitti (+23%) e da quattro siti campani: la Reggia di Caserta (+23%), Ercolano (+17%), il museo Archeologico di Napoli (+16%) e Paestum (+15%). A seguire i musei reali di Torino (+15%) e il Castello di Miramare di Trieste (+14%). Importante infine segnalare la significativa crescita in classifica della Pinacoteca di Brera (+7 posizioni), di Palazzo Pitti (+5 posizioni) dei musei reali di Torino (+4 posizioni) e l’ingresso in classifica, per la prima volta, di Villa Adriana e del Museo di Capodimonte. Complessivamente nei primi trenta musei italiani ben 10 sono archeologici: Colosseo, 1° (posizione confermata), 7.036.000 visitatori, +10%; Pompei, 2° (posizione confermata), 3.382.240, +7,60%; museo Egizio di Torino, 8° (posizione confermata), 845.237, -0,80%; museo Archeologico di Napoli, 12° (persa una posizione), 525.687, +16,20%; Ercolano, 13° (posizione confermata), 470.123, +17,30%; Paestum, 15° (guadagnata una posizione), 441.037, +15,10%; museo Archeologico di Venezia, 19° (persa una posizione), 343.582, -0,40%; museo nazionale Romano, 21° (perse due posizioni), 333.555, -1,80%; Ostia antica, 24° (perse tre posizioni), 311.379, -1,60%; Villa Adriana, 28° (new entry), 242.964, +5,70.
Tra i luoghi della cultura tradizionalmente meno visitati notevole è l’aumento registrato dalla Villa Romana del Varignano a Porto Venere (La Spezia) +133% (dai 1.489 del 2016 ai 3.470 visitatori nel 2017), dal museo Archeologico di Volcei “Marcello Gigante” a Buccino (Salerno) +129% (dai 2.491 visitatori del 2016 ai 5.717 del 2017). Anche i siti archeologici meno integrati nei grandi flussi turistici hanno registrato forti incrementi in termini di visitatori come dimostrano il museo e parco Archeologico di Gioia del Colle (Bari) (+122%), il museo nazionale Archeologico di Altamura (Bari) (+108%), il museo Archeologico di Sepino (Campobasso) (+98%), il museo Archeologico di Vulci (Montalto di Castro) (+86%), il museo Archeologico di Venosa (Potenza) (+38%), il museo Archeologico statale di Ascoli Piceno (+35%), Villa Jovis a Capri (+33%) e l’anfiteatro e mitreo di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) (+30%). Infine, anche tra i luoghi della cultura con ingresso gratuito, si segnala il Pantheon, visitato da oltre 8 milioni di persone.
5 febbraio 2017: boom di ingressi nella domenica gratuita. L’Archeologico di Napoli il museo più visitato: superati Pompei e la Reggia di Caserta. Primato assoluto per il Colosseo e i fori finalmente unificati
Domenica da record per il museo Archeologico nazionale di Napoli: con 7773 presenze nella giornata ad ingresso gratuito (domenica 5 febbraio 2017) è stato il sito più visitato della Campania, davanti a Pompei ed alla Reggia di Caserta e secondo in Italia solo al Colosseo e all’area archeologica di Roma che, come annunciato nei giorni scorsi, è stata la vera novità con la visita unificata ai fori imperiali e al foro romano. “Essere il primo museo italiano in questa bellissima giornata è risultato eccezionale che premia il grande lavoro del personale del museo, a partire dai custodi, e che ci è di stimolo a continuare su questa strada”, commenta il direttore Paolo Giulierini, che ricorda come il Mann, uno dei musei che gode dell’autonomia della riforma Franceschini, nel 2016 abbia registrato un aumento del 30% dei visitatori rispetto al 2015. Bene al Mann, ma non solo. “Boom di visitatori”, annuncia il ministero, “anche in questa edizione di febbraio della #domenicalmuseo, la promozione introdotta nel luglio del 2014 dal ministro Franceschini che prevede l’ingresso gratuito nei musei e nei luoghi della cultura statali ogni prima domenica del mese. In tutta Italia, dalle prime ore del mattino, è stata registrata una grande affluenza di visitatori nei musei e nelle aree archeologiche statali e nei tanti musei civici che aderiscono. Si segnala che i musei romani, in particolare alla galleria nazionale d’Arte moderna e contemporanea, alle gallerie nazionali di Arte antica, al museo delle Civiltà e al museo Etrusco di Villa Giulia, hanno registrato numeri significativamente superiori rispetto alla media del passato. Un’edizione – ricorda ancora il ministero – che è stata “dedicata” al carnevale con una campagna digitale ad hoc sulle maschere e sui travestimenti nell’arte che sta riscuotendo grande successo sui social”.
Vediamo nel dettaglio gli ingressi nei principali musei e siti d’Italia: 22297 ingressi al Colosseo e Area Archeologica Centrale; 7773, museo Archeologico nazionale di Napoli; 7005, museo nazionale Romano; 6185, Pompei; 6110, gallerie degli Uffizi; 5858, museo di Capodimonte; 5763, Reggia di Caserta; 5533, galleria Palatina di Firenze; 5381, galleria nazionale d’Arte moderna e contemporanea di Roma; 5130, galleria dell’Accademia di Firenze; 5101, musei Reali di Torino; 4691, museo delle Civiltà di Roma; 4513, giardino di Boboli; 4161, gallerie nazionali di Arte antica di Roma; 3775, pinacoteca di Brera; 2320, gallerie dell’Accademia di Venezia; 2013, museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria; 2001, museo nazionale Etrusco di Villa Giulia; 1730, museo Archeologico nazionale di Taranto; 1638, palazzo Ducale di Mantova; 1360, Cappelle Medicee; 1340, Villa d’Este; 1305, Cenacolo Vinciano; 1222, museo del Bargello; 1198, Ercolano; 1040, Appia; 872, Paestum; 813, complesso monumentale della Pilotta; 787, Villa Adriana; 727, scavi di Ostia antica; 668, Castello di Miramare di Trieste; 649, galleria nazionale delle Marche; 617, galleria nazionale dell’Umbria; 493, museo Archeologico di Venezia; 419, galleria nazionale di Palazzo Spinola; 331, museo di Palazzo Reale di Genova.
L’Efebo torna a Sutri. Per due anni. Il capolavoro del primo periodo imperiale, copia romana di originale di Prassitele, ora dovrà essere valorizzato per poter restare dove fu trovato nel 1912
L’Efebo torna a Sutri. Per due anni. Ma se il capolavoro sarà valorizzato diventerà il simbolo della cittadina del Viterbese, per sempre. La statua di bronzo, alta 78 centimetri, del primo periodo imperiale, da lungo tempo conservata nel caveau di Palazzo Massimo del museo Nazionale Romano di Roma, è l’assoluta protagonista della mostra biennale inaugurata al museo del Patrimonium di Sutri alla presenza del sottosegretario uscente ai beni e alle attività culturali Antimo Cesaro e di Emmanuele Francesco Maria Emanuele, il mecenate che più di tutti si è speso per ottenere la restituzione dell’opera, presidente della Fondazione Terzo Pilastro, che da anni contribuisce al restauro e alla conservazione del patrimonio della cittadina. L’Efebo fu ritrovato nel 1912 a Sutri da due contadini, Giacomo Brigotti e Giuseppe Bomarsi, durante i lavori di dissodamento di un terreno che non presenta traccia di antico abitato e che fa presupporre la statua fosse stata portata e nascosta nel sito del ritrovamento. “È un capolavoro assoluto”, sottolinea Cesaro, “la scuola da cui deriva la copia potrebbe essere quella di Prassitele. L’Efebo è testimonianza di una civiltà millenaria che ancora oggi si rende attuale in un reperto che deve essere ospitato all’interno della comunità a cui appartiene, è anche occasione per creare economia della cultura e Sutri ha tutte le potenzialità per essere un centro di cultura e turismo a livello nazionale”.

L’Efebo di Sutri: figura maschile giovanile, con il braccio destro sul capo e il sinistro piegato per portare ad altezza del volto un oggetto ora mancante, forse uno specchio
La statua rappresenta una figura maschile giovanile, con il braccio destro sul capo e il sinistro piegato in modo da portare ad altezza del volto un oggetto ora mancante, forse uno specchio. Ha i capelli lunghi raccolti sopra la testa e stretti attorno alla nuca da un cercine, intorno al quale sono accolte le ciocche più lunghe. La gamba sinistra è spezzata perché probabilmente è stata strappata dal supporto originale, che è stato perduto. La somiglianza dell’Efebo con la maggior parte dei bronzi pompeiani lo vuole prodotto da un’officina nazionale, come si conveniva al gusto e al lusso dell’arricchita borghesia romana. “Moltiplicare l’idea di museo diffuso”, interviene Francesco Rutelli che, per primo, portò la statua da Roma a Sutri, “è un bene per l’Italia perché, a differenza del resto del mondo in cui i musei sono centralizzati, noi abbiamo circa 4400 piccoli musei: la sfida è trasformare gradualmente il nostro patrimonio diffuso in economia per il Paese”.
La mostra aperta a Sutri – come si diceva – ha una data di inizio, ma non ancora una data di chiusura. La soprintendenza romana ha infatti acconsentito a un prestito biennale dell’Efebo, che diventerà stabile se l’opera verrà valorizzata nel migliore dei modi. All’inaugurazione hanno preso parte, tra gli altri, anche il sindaco di Sutri, Guido Cianti e l’assessore alla cultura, Ercole Fabrizi. “Mi impegnerò”, assicura Emanuele, “a fare in modo che questo capolavoro da Sutri non si muova più, perché rimanga e dia gloria a questa meravigliosa città di cui è pregevole testimonianza. Vorrei far diventare Sutri la nuova Spoleto, perché ci sono indubbiamente i presupposti per farlo”.
Alla mostra “Archaeology and Me” a Palazzo Massimo a Roma per la prima volta insieme due dei tre pezzi trafugati del “Gladiatore che uccide un leone”, gruppo scultoreo della seicentesca Collezione Giustiniani

Il gruppo del “Gladiatore che uccide il leone” in un’incisione della seicentesca Collezione Giustiniani
Per la prima volta dopo 50 anni tornano insieme due dei tre pezzi del “Gladiatore che uccide un leone”, gruppo scultoreo della seicentesca Collezione Giustiniani, trafugati tra il 1966 e il 1971: sono la testa del leone, preso, ma ruggente. E il busto dell’atleta pronto a colpirlo a morte. Testa di leone e busto dell’atleta sono le star indiscusse della mostra “Archaelogy and Me – Pensare l’archeologia nell’Europa contemporanea”, aperta al museo nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma fino al 23 aprile 2017. Che cos’è l’archeologia? Come viene percepita dai cittadini europei? Quale ruolo ha nella società contemporanea? Sono le domande alle quali risponde la mostra a cura di Maria Pia Guermandi e Rita Paris, promossa dalla soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area centrale di Roma e dal museo nazionale Romano, in collaborazione con l’Istituto per i Beni Artistici Culturali e naturali dell’Emilia Romagna, con l’organizzazione di Electa.
Il gruppo del “Gladiatore che uccide un leone”, ritratto in una delle incisioni volute dal marchese Vincenzo Giustianiani nel 1631 per illustrare la sua collezione di antichità, era in realtà una composizione creata all’epoca intorno al frammento di un Mitra tauroctono di età romana. Rubato dalla Villa di Bassano Romano, il torso è stato restituito dal Getty Museum nel ’99 grazie al nucleo Tutela patrimonio culturale dei carabinieri dopo una lunga vicenda, ben riassunta sul sito “Archaelogy and me”, che dimostra come “l’archeologia non sia solo scavo, ma anche studio, conoscenza, collaborazione e tanta pazienza. E talora, come nel caso del “torso di Mitra”, l’archeologia un caso da risolvere!”. “Siamo al 1984”, raccontano gli esperti di Archaeology and me, “quando alcune foto di dettaglio del solo busto della statua apparvero in un articolo sui restauri del Paul Getty Museum di Malibu, in California. Non venivano forniti né una foto per intero della statua né indicazioni sulla provenienza! Ancora una volta fu un archeologo a riconoscere il pezzo: il tedesco Rainer Vollkommer, studioso dell’iconografia del dio Mitra. Evidentemente il torso del “Gladiatore-Mitra” era uscito illegalmente dal nostro Paese per essere venduto sul mercato antiquario. Grazie al reparto operativo del comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale nel 1999 l’opera ritornò in Italia e venne collocato a Ostia, accanto all’originale come avrebbe voluto Giovanni Becatti”.
La testa del leone è stata invece rinvenuta ad aprile scorso nel sito archeologico di Capo di Bove sulla Via Appia, in una villa privata acquistata dalla soprintendenza e oggi aperta al pubblico. “Per una strana coincidenza della sorte”, ci raccontano ancora gli archeologi di Archaeology and Me, “la testa, rubata nel 1966, era già rientrata a far parte delle collezioni dello Stato: era esposta nella Villa di Capo di Bove, al Parco Archeologico dell’Appia Antica! È possibile che la testa fosse stata acquistata sul mercato antiquario dal vecchio proprietario della villa, prima che la proprietà fosse venduta alla Soprintendenza Archeologica di Roma nel 2002. E ora, grazie al sapiente lavoro dei Carabinieri del Nucleo Tutela il pezzo è stato riconosciuto e, in occasione della mostra “Archaeology&ME”, è finalmente possibile rivedere riuniti due “protagonisti” di questa lunga storia!”.
Protostoria dei popoli latini. A Roma, nella nuova sezione al museo nazionale romano alle Terme di Diocleziano, prendono forma le sepolture delle principesse dell’antica Collatia

Il ricco corredo dalla Tomba 81 dalla necropoli dell’antica Collatia ora esposto nella nuova sala al museo nazionale Romano di Roma
Il nome di Collatia ai più dice poco. Era uno dei centri minori che si sviluppano nel Latium vetus intorno al IX sec. a.C., fiorito grazie alla sua posizione strategica su alcune delle principali vie di comunicazione e di scambio: la via Collatina e il fiume Aniene. Ne parlano le fonti storiche – è vero – per il suo collegamento con la storia più antica di Roma. Collatia infatti è ricordata da Tito Livio per la vicenda di Lucrezia, la virtuosa moglie di Lucio Tarquinio Collatino: dopo essere stata violentata da Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo, si uccise per l’oltraggio subito e, stando alle fonti, sarebbe stata proprio la sua morte a scatenare la rivolta contro la tirannia etrusca che portò alla istituzione della repubblica. Siamo nel V sec. a.C. e Collatino sarebbe stato eletto primo console insieme a Bruto. Ma come si vede siamo sempre a conoscenze molto specialistiche. Ma con l’apertura al primo piano del museo nazionale Romano alle terme di Diocleziano a Roma della nuova sala all’interno della sezione dedicata alla “Protostoria dei popoli latini”, l’antica Collatia con le sue principesse è destinata a diventare famosa.
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Principesse e principi dall’antica Collatia: è la nuova sala della sezione “Protostoria dei popoli latini”
Tre corredi principeschi, uno maschile e due femminili, risalenti al periodo tra l’VIII e il VII secolo a.C., di cui è stata appena concluso il restauro e lo studio, sono esposti per la prima volta nella nuova sala museo Nazionale Romano: la collezione permanente, che illustra lo sviluppo della cultura laziale tra il XI e il VI secolo a.C., si arricchisce così di uno dei più importanti ritrovamenti degli ultimi decenni, rimasto inedito fino a oggi. Sono stati gli scavi condotti dalla soprintendenza speciale per il Colosseo, il museo nazionale Romano e l’Area archeologica di Roma, a consentire di localizzare con certezza, in corrispondenza della borgata di La Rustica, l’antico centro di Collatia. La scoperta del sepolcreto e dell’abitato arcaici in corrispondenza di La Rustica risale al 1972, quando si stava costruendo il tratto di penetrazione urbana dell’autostrada Roma-L’Aquila. Tra il 2009 e il 2012 i lavori di archeologia preventiva per l’ampliamento di questo tratto autostradale hanno portato alla luce le tre tombe principesche esposte ora alle terme di Diocleziano insieme ad altre sepolture ancora in fase di studio e restauro. Alle indagini sul campo come al successivo lavoro in laboratorio sui reperti hanno partecipato studiosi di diverse discipline e specializzazioni. Questo lavoro interdisciplinare ha consentito di ricostruire il quadro dello stile di vita e dell’organizzazione della comunità dell’antica Collatia in epoca protostorica. L’apertura di questa nuova sala della sezione di “Protostoria dei popoli latini” arricchisce dunque la collezione permanente che illustra e valorizza lo sviluppo della cultura laziale, compreso tra la fine dell’età del Bronzo (XI secolo a.C.) e l’età del Ferro fino al cosiddetto periodo “orientalizzante” (X sec. a.C. – inizio del VI sec. a.C.). “La vicenda di Collatia è una vicenda particolare e significativa, perché riesce ad inquadrare la nascita e la crescita di Roma nell’ambiente in cui il seme della città ha germinato”, spiega il soprintendente dell’area archeologica di Roma, Francesco Prosperetti.
La scoperta del sito archeologico. “Il sito archeologico di La Rustica, oggi certamente identificabile con l’antico centro di Collatia”, riassumono gli archeologi della soprintendenza, “è stato individuato nel 1972, in seguito ai lavori per la costruzione del tratto di penetrazione urbana dell’autostrada Roma-L’Aquila. Collatia, situata lungo l’antica via Collatina, si trovava non lontano dall’Aniene e in posizione intermedia fra Roma e Gabii. Sorgeva su un’altura di forma allungata e dalle pareti ripide, immediatamente a sud di una seconda collina occupata dalla necropoli. Proprio i lavori per la costruzione della A24 sono stati determinanti per la scoperta del sito, ma al tempo stesso hanno causato la distruzione di un ampio settore della necropoli e la perdita di alcune centinaia di tombe”. In totale della necropoli di La Rustica fino a oggi sono state scavate 418 tombe, per la maggior parte databili fra l’VIII e gli inizi del VI sec. a.C. (III e IV periodo della cultura laziale). Circa 30 sepolture senza corredo possono probabilmente essere datate al VI-V secolo a.C.; le tombe più recenti, circa 10, si datano al III-II secolo a.C. Le tombe più antiche offrono la documentazione più ampia e completa per la fase avanzata del III periodo laziale (VIII secolo a.C.): un totale di 155 sepolture a inumazione in fossa, per la maggior parte femminili e con corredi molto ricchi. Al IV periodo (fine VIII-inizi VI secolo a.C.), che coincide con il momento di massimo sviluppo dell’insediamento, si data un gruppo di 224 tombe: sono fosse più larghe spesso con un loculo scavato al centro di uno dei lati lunghi per contenere il corredo. Le tombe più importanti sono a pseudo-camera (grandi fosse quadrangolari senza ingresso e con copertura di tavole di legno). In tutte le sepolture di questo periodo sono presenti vasi da rituale: olle di impasto rosso e soprattutto anfore di impasto bruno, rotte intenzionalmente e gettate nella fossa prima della deposizione del cadavere e del corredo, durante una cerimonia di libagione in onore del defunto.

Lo scettro trovato nella Tomba 3: un bastone di legno di corniolo con pomo sferico di bronzo decorato con animali fantastici, contenuto in una scatola di legno di faggio.
Le tombe principesche. La “tomba 3” appartiene a un principe che ha esercitato il potere politico sul centro di Collatia ed è databile alla metà del VII secolo a.C. (orientalizzante medio). La struttura a pseudo-camera ha conservato un ricco corredo che comprende oltre alla fibula, all’affibbiaglio (un prezioso ferma mantello in argento) e alla spada di ferro anche uno scettro, costituito da un bastone di legno di corniolo con pomo sferico di bronzo decorato con animali fantastici ottenuti con intarsi in ferro, contenuto in una scatola di legno di faggio. “Si tratta di un ritrovamento straordinario perché documenta per la prima volta la presenza sicura di uno scettro nel Latium vetus. Alla sinistra principe era posto un carro da guerra a due ruote. Il resto del corredo era composto da vasi di bronzo e di impasto, due coltelli, due spiedi e due lance di ferro”.
La “tomba 81” è invece riferibile a una giovane tra i 16 e i 18 anni. La defunta era collocata all’interno di un tronco di quercia avvolta in un sudario orlato con anellini di bronzo. Gli ornamenti personali, fra i quali un cinturone di lamina di bronzo, sono straordinari per la quantità e la fattura. Anche la ceramica mostra elementi non comuni: due vasi sono probabilmente importati dall’Etruria meridionale, forse da Veio, e sono presenti due vasetti da filtro. “Lo straordinario cinturone di bronzo compare solo in pochissimi importanti corredi della necropoli, ritrovati esclusivamente in tombe di giovani donne di età compresa fra 16 e 20 anni. Questo elemento specifico potrebbe indicare un ruolo collegato con attività di culto”.
La “tomba 238”: una grande fossa isolata in cui era deposta una donna adulta, avvolta in un sudario fermato ai lati da fibule di piccole dimensioni. Il corredo, ricchissimo di ornamenti personali, comprende una fascia di lamina di bronzo sulla fronte, fibule e collane di perle di pasta vitrea e ambra, cinque vasi di bronzo e cinque di impasto. Avvolti in una stoffa sono stati trovati anche un grande coltello e tre spiedi. In uno dei vasi di bronzo erano contenute alcune ghiande che potrebbero indicare che la morte è avvenuta nei mesi autunnali. La sepoltura è in fase di restauro. Infine la “tomba 64”, che ha restituito un principe. “L’ipotesi è data dal ritrovamento di un poggiapiedi di lamina di bronzo con decorazione a sbalzo che suggerisce la presenza di un trono di legno, materiale deteriorabile e per questo probabilmente non conservato”. Come nella tomba 3 era presente un carro a due ruote, adatto all’andatura veloce. Del carro si conservano solo le parti in ferro: i cerchioni e i morsetti fermagavelli delle ruote, le fasce copri-mozzo, gli acciarini. Gli altri elementi strutturali, costituiti da materiali organici come legno e cuoio, sono andati perduti quasi completamente.
“Lo studio sulle comunità protostoriche”, interviene Prosperetti, “è frutto di decenni di ricerche archeologiche, che hanno avuto l’opportunità di riconnettere tante informazioni sul momento in cui Roma comincia a nascere e sulla crescita del suo potere sui popoli del Lazio ad essa preesistenti. Di Collatia si sono perse le tracce durante i secoli e si sono susseguite ipotesi di dove fosse questa città. Le uniche tracce certe sono quelle lasciate dalle sepolture, riemerse dai lavori dell’A24. Non sono tombe qualsiasi – conclude – perché destinate a principesse e principi. I corredi ritrovati sono corredi speciali, unici per la loro importanza, a testimonianza di questa realtà che si potrebbe definire “feudale”, precedente all’egemonia di Roma. Erano luoghi in cui esistevano importanti personaggi che avevano forza e potere su limitate porzioni di territorio, spesso in lite tra loro. Per questo motivo troviamo, in due sepolture, veri carri da guerra di cui sono rimaste intatte le parti metalliche”.
Dopo otto anni di mostre in giro per il mondo, torna a casa al museo nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma il Pugilatore, o Pugile a riposo, scultura in bronzo capolavoro dell’arte greca
Otto anni di viaggi ed esposizioni per il mondo, ma ora è finalmente tornato a casa. Definitivamente. Il Pugilatore, capolavoro assoluto dell’arte greca, è di nuovo nella sua sede di Palazzo Massimo a Roma dopo essere stato nel 2008 a Berlino, nel 2013 a New York e a Francoforte, e nel 2015 a Firenze (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2015/03/13/mostra-kolossal-a-firenze-potere-e-pathos-bronzi-del-mondo-ellenistico-capolavori-per-la-prima-volta-insieme-poi-andranno-a-los-angeles-e-washington/) e Los Angeles, star della mostra “Power and Pathos: Bronze Sculpture of the Hellenistic World” al Getty Museum dove è stata visitata da oltre 170mila persone. Ad accoglierlo nella sala del museo nazionale Romano, il soprintendente Francesco Prosperetti, il direttore del museo Rita Paris e il pugile Nino Benvenuti (campione olimpico e campione mondiale dei pesi medi) il quale, dopo essersi inginocchiato di fronte a quello che è uno dei rarissimi bronzi dell’antichità pervenutici, si è detto ”estasiato ed emozionato”. Durante la delicata fase di sballaggio ecco emergere per primo il volto, l’espressione stupita e interrogante, che lo ha reso famoso nel mondo, poi dalla cassa che lo ha protetto nel viaggio di ritorno da Los Angeles esce anche il corpo possente liberato dalle imbracature usate per tenerlo fermo. I tecnici della società Montenovi (addetta al movimentazione del capolavoro) abilmente rimuovono i piani di legno che hanno tenuto bloccato il bronzo ellenistico durante gli spostamenti, seguiti attraverso sensori capaci di riportare continuamente ai restauratori della soprintendenza i dati delle condizioni microclimatiche o delle inclinazioni eventuali della cassa. Del resto, a proteggerlo ulteriormente, nei tre mesi di esposizione al Getty Museum, c’era una base antisismica, mentre anche lì venivano rispettate tutte le procedure di salvaguardia. Un capolavoro comunque in buone condizioni, restaurato da Olimpia Colicicchi negli anni ’80 e sottoposto a un intervento di manutenzione nel 2005. L’attrazione della statua, spiegato Prosperetti, “deriva non solo dalla sua bellezza, ma da quest’aura di mistero che lo circonda. Il mistero che avvolge i Bronzi di Riace è stato sempre un motivo di grandissimo interesse per il pubblico. Questo non è successo per il Pugilatore, ma le circostanze del ritrovamento e la mancanza di notizie ne fanno veramente un mistero”.
La statua bronzea del Pugile in riposo, conosciuta anche come Pugile delle Terme o Pugile del Quirinale, scultura greca alta 128 cm, datata alla seconda metà del IV secolo a.C. e attribuita a Lisippo o alla sua immediata cerchia, fu rinvenuta nel 1885 a Roma alle pendici del Quirinale nell’area del convento di San Silvestro, insieme al cosiddetto Principe ellenistico, altro bronzo però non faceva parte dello stesso gruppo, probabilmente sculture che abbellivano le Terme di Costantino. L’opera, realizzata con la tecnica della fusione a cera persa e con il metodo indiretto, è un insieme di otto segmenti. Le labbra, le ferite e le cicatrici del volto erano fuse separatamente in una lega più scura o in rame massiccio. Separatamente erano fuse anche le dita centrali dei piedi (un aspetto tecnico già riscontrato nei bronzi di Riace) per permettere una più accurata modellazione degli spazi interdigitali. Lo stesso si dica per la calotta cranica che doveva permettere l’inserimento degli occhi policromi dall’interno.
La scultura rappresenta un pugile seduto, colto probabilmente in un momento di riposo dopo un incontro; le mani sono protette dai cesti (dal latino: caestus), grossi e complessi guantoni introdotti nella pratica pugilistica dal IV secolo a.C.: le quattro dita sono infilate in un pesante anello costituito da tre fasce di cuoio tenute insieme da borchie metalliche. “La forze di quest’opera”, spiegano gli storici dell’arte antica, “sta nel contrasto fra la quiete e il contenimento geometrico espressi dalle braccia appoggiate sulle gambe, e l’improvviso scatto della testa che si volta verso destra aprendo all’estetica lisippea del kairos”. Gli inserti in rame, sulla spalla destra, sull’avambraccio, sui guanti e sulla coscia, rappresentano gocce di sangue colate dalle ferite nell’atto del volgersi della testa.
Il corpo è muscoloso, reso con un trattamento non dissimile da quello riscontrabile nell’Eracle a riposo della versione Pitti-Farnese (Ercole Farnese); il viso, di cui si notano la cura della barba e della pettinatura, è di un uomo maturo e presenta i segni del tempo e dei numerosi incontri passati. Le tumefazioni sulle orecchie, in particolare, anche oggi riscontrabili negli atleti dediti alla lotta greco-romana o al Judo senza pregiudicarne le funzioni uditive, rimarcando le innumerevoli lotte passate sembrano indicare in una sordità traumatica la ragione di quel volgersi repentino e teso della testa, in contrasto con la spossatezza del corpo contribuendo all’impatto realistico dell’opera. Alcune estremità della statua si presentano leggermente più lucide a causa dello sfregamento di antichi ammiratori, ciò dimostra quanto l’opera fosse tenuta in considerazione. L’enfasi sulle ferite da combattimento ha portato a identificare il pugile con quel Mys di Taranto che vinse per la prima volta nel 336 a Olimpia al termine di una carriera coronata da sconfitte.
“Giocare in termini di comunicazione sulla grande attrattiva proposta da pezzi di questa importanza”, prosegue il soprintendente Prosperetti, “è fondamentale in una prospettiva in cui i beni culturali devono diventare la molla di un rinnovamento di questa città”. Più in generale, riferendosi al museo nazionale Romano di Palazzo Massimo, Prosperetti sottolinea che “merita un ripensamento perché lo straordinario valore dei pezzi che sono stati portati qui dentro merita un ambiente più al passo con i tempi. Stiamo studiando un progetto, ne parleremo quando sarà pronto”.
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