Bolzano. Si è spento a 83 anni Lucio Rosa, regista, documentarista, giornalista: “Un veneziano con l’Africa nel cuore”. Nato a Venezia, dal 1975 aveva fondato Studio Film TV: oltre 250 produzioni tra documentari, reportage fotografici, programmi televisivi. E un desiderio che non ha potuto esaudire: tornare nell’amata Africa, off-limits dopo le primavere arabe

Il regista Lucio Rosa tra i Mursi in Etiopia (foto lucio rosa)
L’Africa perde un amante. Venezia un veneziano che non ha mai dimenticato la sua città natale. Il cinema archeologico, ma non solo, un grande regista. Io perdo un amico. Lucio Rosa, regista, documentarista, giornalista, si è spento il 2 novembre 2023 a Bolzano, dove dal 1975 aveva fondato STUDIO FILM TV, azienda di produzione cinematografica e televisiva. Ha compiuto 83 anni il 1° maggio: era nato a Venezia nel 1940. I funerali alle 14.25 martedì 7 novembre 2023 direttamente al cimitero di Bolzano. I primi allarmi sul suo stato di salute me li aveva confidati lui stesso poco più di un anno fa. “Caro Graziano, devo rallentare un po’ la mia attività. Mi si è aggravato un vecchio problema ai polmoni. Qualche volta l’ossigeno scarseggia, e ciò mi limita. Sono pieno di voglia di fare”. Mostre fotografiche, film, nuove esperienze: idee e progetti non gli sono mai venuti meno. Ma ce n’era uno che rimaneva il suo desiderio e il suo cruccio: tornare nella sua amata Africa, naturalmente con la sua altrettanto amata Anna, la moglie che lo ha accompagnato e sostenuto in tutti i suoi viaggi, e che ora lascia nel dolore. Se da più di dieci anni non aveva più messo piede in Libia, in Etiopia, in Mauritania, non era per l’età ma per la situazione geo-politica che si è creata in seguito alle primavere arabe.

Il regista Lucio Rosa accanto alle foto della sua mostra allestita all’interno del museo Etnografico di Licodia Eubea (foto Graziano Tavan)
Il materiale edito di Lucio Rosa è notevole, oltre 250 produzioni tra documentari, reportage fotografici, programmi televisivi, che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti a livello nazionale e internazionale. Da “Uomini di pietra. Statue stele e massi incisi dell’età del Rame nell’arco alpino meridionale” a “L’ultima cena di Oetzi”, da “Bilad Chinqit. Il paese di Cinguetti” a “Il segno sulla pietra. Il Sahara sconosciuto degli uomini senza nome”; da “Babinga. Piccoli uomini della foresta” a “Pokot. Un popolo della savana”: tanto per citare qualche titolo.

Il ritaglio dell’articolo sul Gazzettino su “Un veneziano con l’Africa nel cuore” che Lucio Risa gradì particolarmente

Il regista Lucio Rosa (a sinistra) intervistato da Beppe Mora (foto Upad)
C’è un filo conduttore che lega moltissimi dei lavori prodotti da Lucio (e Anna): l’Africa. E proprio un titolo a un mio articolo pubblicato nell’agosto 2004 sulla pagina della Cultura de Il Gazzettino “Un veneziano con l’Africa nel cuore” che annunciava il nuovo viaggio tra Libia e Algeria per girare immagini e testimonianze che avrebbero poi dato vita, due anni dopo, al film “Il segno sulla pietra. Il Sahara sconosciuto degli uomini senza nome”, sarebbe diventato per Lucio il suo refrain nel quale si identificava e che amava “citare” in ogni occasione, come nel 2021 nell’intervista di Beppe Mora per la serie “Uno dei nostri grandi”, ospite della Fondazione Upad di Bolzano (vedi Bolzano dedica un’intervista a Lucio Rosa (“Uno dei nostri grandi”): oltre 65 anni di carriera tra cinema e fotografia: “Il ragazzo con la Nikon” si racconta con l’entusiasmo e la passione di sempre. L’intervista è on line sui canali social di Upad | archeologiavocidalpassato).

Il regista Lucio Rosa, il “ragazzo con la Nikon (foto lucio rosa)
È il gennaio 2019 quando Lucio Rosa, assemblando migliaia di foto di antichi villaggi, antiche dimore, antichi magazzini berberi, realizza “Il ragazzo con la Nikon”, un film di 30 minuti, rigorosamente in bianco e nero, senza riprese ma montato con le fotografie da lui realizzate in Libia nel corso degli anni, omaggio d’amore alla Libia, per lui dal 2013 irraggiungibile. Dietro il grande obiettivo della sua Nikon fa capolino Lucio “un giovane” che lancia un messaggio di speranza all’inizio dell’anno: “Oggi sono giorni bui. Ma verrà la luce e ritornerò da te, cara Libia”. Il tempo non gliel’ha permesso (vedi Il regista Lucio Rosa regala un messaggio di speranza al 2019 con il nuovo film “Il ragazzo con la Nikon”, realizzato assemblando migliaia di foto di antichi villaggi, antiche dimore, antichi magazzini berberi: omaggio d’amore alla Libia che oggi per lui è “irraggiungibile” | archeologiavocidalpassato).

Vita in un accampamento Babinga (foto Lucio Rosa)
Non potendo tornare in Africa, le sue ultime produzioni hanno puntato a denunciare la grave situazione in cui versano alcune popolazioni dell’Africa a rischio estinzione nell’indifferenza generale. Nel 2019 a Bolzano la mostra-denuncia “Addio Babinga, piccoli uomini della foresta” su un popolo di pigmei dell’Africa centrale cancellato dalla storia (vedi “Addio Babinga, piccoli uomini della foresta”: a Bolzano mostra fotografica-denuncia di Lucio Rosa su un popolo di pigmei dell’Africa centrale cancellato dalla storia | archeologiavocidalpassato). E nel 2020, sempre a Bolzano, la mostra “ETIOPIA. Lontano, lungo il fiume”, reportage sui gruppi etnici (molti a rischio estinzione) che popolano la bassa valle del fiume Omo (vedi “ETIOPIA. “Lontano”, lungo il fiume”: a Bolzano la mostra fotografica di Lucio Rosa, reportage sui gruppi etnici (molti a rischio estinzione) che popolano la bassa valle del fiume Omo | archeologiavocidalpassato).

Uomini Karo lungo la riva orientale del fiume Omo (foto lucio rosa)
Da questo reportage nasce nel 2021 l’ultimo film di Lucio Rosa “Etiopia. Lontano lungo il fiume”, scelto per il RAM film festival, la rassegna cinematografica di Rovereto, e per la rassegna del Documentario e della Comunicazione archeologica di Licodia Eubea: foto e immagini, rese più potenti dal viraggio in B/N, raccontano un viaggio che testimonia l’agonia dei popoli indigeni della valle dell’Omo la cui esistenza è gravemente minacciata (vedi “Etiopia. Lontano lungo il fiume”: l’ultimo film di Lucio Rosa è stato scelto per la rassegna di Rovereto e per la rassegna di Licodia Eubea. Foto e immagini, rese più potenti dal viraggio in B/N, raccontano un viaggio che testimonia l’agonia dei popoli indigeni della valle dell’Omo la cui esistenza è gravemente minacciata | archeologiavocidalpassato).

Dario Di Blasi, direttore artistico di rassegne del cinema archeologico
Dario Di Blasi, curatore per anni della Rassegna del cinema archeologico di Rovereto e del Firenze Film Festival, esperto di cinema archeologico, ricorda così Lucio Rosa: “Ci ha lasciati oggi Lucio Rosa, veneziano residente a Bolzano. Un amico, fotografo, regista, produttore di coinvolgenti e interessanti filmati di archeologia arte ed etnografia ma soprattutto un uomo che nutriva un amore sconfinato per l’Africa presente in tante sue opere ambientate in Libia ed Etiopia. Ho appreso molte cose da Lucio in particolare rigore e professionalità. Ho imparato a riconoscere le opere cinematografiche fatte bene. Grazie Lucio”.
“Addio Babinga, piccoli uomini della foresta”: a Bolzano mostra fotografica-denuncia di Lucio Rosa su un popolo di pigmei dell’Africa centrale cancellato dalla storia

Locandina della mostra a Bolzano “Addio Babinga. Piccoli uomini della foresta”, foto-reportage di Lucio Rosa
Non solo fotografie, ma una testimonianza di vita, un appello per un popolo, i Babinga, che la storia sembra ormai aver dimenticato e abbandonato alla sua estinzione. E già il titolo della mostra fotografica in programma all’Espace-La Stanza di Bolzano dal 10 al 24 settembre 2019, “Addio Babinga, piccoli uomini della foresta Repubblica Popolare del Congo. Testimoni superstiti di epoche antichissime, un’immagine di quella che probabilmente era stata la vita dei cacciatori – raccoglitori della preistoria”, dà un’idea della drammaticità del momento. A regalarci questo momento di riflessione è ancora una volta lui, Lucio Rosa, “Il ragazzo con la Nikon”, il fotografo con l’Africa nel cuore, veneziano di nascita e bolzanino di adozione, che da oltre 45 anni è impegnato nella realizzazione di film documentari, reportages anche fotografici, programmi televisivi, per televisioni nazionali ed estere.
Sono forse 200mila i pigmei dell’Africa Centrale. Vivono distribuiti su una fascia della foresta pluviale africana, che si estende per 1800 chilometri a cavallo dell’equatore, a partire dal Camerun e Gabon per giungere fino al Lago Vittoria. “Sono, o meglio erano”, sottolinea Rosa, “gli unici ed indiscussi padroni di questa enorme foresta, ed esprimevano, probabilmente, la cultura più integra e più antica di tutto il continente nero. Tre sono le etnie predominanti: gli Mbuti, i Babinga, i Twa”. I 60 scatti – rigorosamente in bianco e nero – in mostra, che risalgono all’ottobre/novembre del 1988, hanno colto i Pigmei quando erano ancora gli unici ed indiscussi padroni della foresta. “Io, mia moglie Anna e l’amico giornalista Ermanno Ferriani Abbiamo trascorso 60 giorni in questo angolo di Africa profonda per effettuare questa documentazione fotografica e per la realizzazione del film/documento “Babinga, piccoli uomini della foresta”. Sono gli ultimi scatti possibili, le ultime testimonianze che documentano questo fragile microcosmo di cui ho voluto tentare di cogliere la sua anima originaria, oggi ormai perduta”.
I pigmei Babinga. Nella foresta del Nord della Repubblica Popolare del Congo e nel Sud-Est del Camerun vivono i pigmei Babinga. La buia ed impraticabile foresta equatoriale africana è stata da sempre un baluardo che ha protetto la vita e l’identità culturale di questa etnia. Entrare in questo mondo incuteva paura, se non terrore, e nessun estraneo osava infrangere questo confine naturale. Come altri pigmei dell’Africa equatoriale, i Babinga non conoscono l’agricoltura, né la metallurgia, non filano e non sanno lavorare l’argilla.
Vita all’accampamento. I pigmei, distribuiti nell’immensa foresta e costretti a spostarsi continuamente per la ricerca di cibo, non possono costituirsi in vere e proprie tribù organizzate, ma non vivono senza fondamentali regole sociali. Formano gruppi di poche famiglie, sotto l’autorità di un anziano o del più esperto in problemi di caccia. Il “capo”, tuttavia, non rappresenta una figura di autorità come generalmente questa viene intesa: nessuno, nel gruppo, è superiore agli altri per diritto, né dispone di un potere da trasmettere ai discendenti. Il legame nel gruppo è di tipo economico-sociale e ciascuna comunità risolve i propri problemi, esercita poteri giudiziari ed esecutivi, vigila sui matrimoni. Regola fondamentale è la subordinazione degli interessi del singolo a quelli del gruppo. La famiglia costituisce la base dell’organizzazione sociale dei pigmei; il matrimonio ne è il fondamento. Il pigmeo è monogamo. Tra i Babinga la donna occupa nella famiglia e nel gruppo, una posizione di rilievo, adoperandosi per ogni necessità non solo della famiglia ma di tutta la comunità.
La caccia. Le prime luci dell’alba trovano i Babinga già svegli. Hanno attizzato il fuoco accanto al quale si riscaldano prima di intraprendere le attività del giorno, la caccia in primis. Occupazione fondamentale è la caccia. La caccia non è per i Pigmei il semplice compito di procurarsi del cibo: è qualcosa di più. Essa rappresenta l’interesse primario della loro esistenza, la stessa loro ragione di vita. In una preghiera che i Babinga rivolgono a Komba, il loro dio, c’è tutta la loro considerazione per la madre foresta: “Komba è nostro Dio perché ci dà da mangiare – Komba è la foresta che ci dà da mangiare – noi amiamo la foresta che ci dà tutto per vivere”. La carne frutto della caccia, soprattutto di antilopi e facoceri, che eccede le necessità alimentari del gruppo, viene affumicata per la conservazione e diventa merce per il baratto con gli agricoltori Bantu. In cambio i Babinga ottengono il ferro per le asce o punte per le lance ed anche prodotti dell’agricoltura.
La raccolta in foresta. Alle donne spetta il compito della raccolta dei prodotti spontanei che la foresta offre. Lasciano l’accampamento, accompagnate dai figli, cantando a voce spiegata, sia per dare al lavoro un senso di gioia, sia per allontanare e quindi evitare brutti incontri con animali pericolosi. La foresta non offre soltanto selvaggina, ma anche una grande varietà di prodotti, come bacche, foglie commestibili, larve, radici, tuberi, funghi, con cui i Babinga arricchiscono la loro dieta alimentare. Le donne rimaste all’accampamento preparano un pasto che, in mancanza di selvaggina, è totalmente vegetariano, a base di manioca e foglie di djaboucà, una pianta che cresce spontanea nella foresta. Per la carne dovranno attendere il ritorno dei cacciatori.
La limatura dei denti incisivi risponde a tre aspetti della cultura Babinga: è una forma di abbellimento sia per i ragazzi che per le ragazze, è un segno di fierezza, ma ha anche una funzione pratica. I denti appuntiti possono essere “strumenti” utili in molte occasioni. Insostituibili anche nel mangiare la carne di facocero, di antilope o di scimmia che sia, aiutandosi con i denti a strappare “succulenti” bocconi. Antica tradizione dei Babinga, è l’abbellimento del volto e del corpo con disegni incisi in modo indelebile sulla pelle. Una usanza diffusa, comunque, a tutte le latitudini. Le scarificazioni vengono effettuate con mano esperta e sicura da una anziana del gruppo. Sono segni che distinguono i vari clan e permettono di riconoscere facilmente il clan di appartenenza di ogni pigmeo. Quando una ragazza si prepara al matrimonio, i segni vengono eseguiti per piacere di più al proprio uomo. Alla fine dell’intervento, le “ferite” vengono riempite con la cenere che servirà quale pigmento per dare maggior risalto ai segni ornamentali.
Deforestazione e conseguenze. Dagli anni ‘80 del secolo scorso, tutto è cambiato. Le abitudini di vita dei Babinga e la loro stessa esistenza sono state radicalmente e drammaticamente messe a repentaglio. Nella repubblica popolare del Congo si è evitata una deforestazione intensiva e selvaggia. Ma anche uno sfruttamento forestale limitato comporta l’apertura di numerose piste per il recupero ed il trasporto degli alberi abbattuti fino alle segherie poste lungo i fiumi. Queste piste hanno facilitato le comunicazioni ma hanno creato anche sempre più stretti rapporti tra la fragile cultura dei Babinga e quella più forte degli agricoltori Bantu, a tutto scapito della prima, destinata a soccombere. I villaggi Bantu si sono sviluppati anche grazie all’industria forestale, raggiungendo un certo benessere. I Pigmei, lusingati da una vita che può sembrare più agevole e abbagliati dal denaro di cui non afferrano il senso, sono usciti dalla foresta per vivere accanto e con i Bantu, in un rapporto che li vede sicuramente perdenti.








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