Rovereto. Sta per avere un volto il bambino di 10 anni morto più di 4mila anni fa nelle grotte di castel Corno (Tn) e trovato nella campagna di scavo del museo civico di Rovereto nel 1998. Presto una pubblicazione sul sito preistorico delle grotte di Castel Corno

Sta prendendo forma il volto del bambino di Castel Corno di più di quattromila anni fa. Nel 1998 il museo civico di Rovereto ha realizzato uno scavo nelle grotte di Castel Corno, a circa 800 metri di altitudine tra i paesi di Patone e Lenzima, nel comune di Isera (Trento), dove è stata rinvenuta una necropoli del Bronzo Antico le cui prime sepolture risalgono addirittura all’Età del Rame. Sono stati trovati anche i resti di un bambino sepolto all’età di 10 anni.

Nelle immediate vicinanze del castello medievale di Castel Corno un intricato labirinto di grotte formate da una frana fu infatti utilizzato nell’età del Bronzo antico (2200-1650 a.C.) a scopo cultuale e funerario. Il sito è stato oggetto di numerose campagne di scavo dal 1960 ad oggi; le ultime ricerche, condotte nel 1998-‘99 da parte del museo civico di Rovereto, hanno messo in luce numerosi reperti (vasellame, strumenti in pietra e in osso, resti di ossa umane e animali ed elementi d’ornamento, fra cui un “brassard” in pietra verde), oggi conservati ed esposti nelle sale museali.

Viviana Conti, che sta seguendo un progetto di WeScup – il servizio civile trentino al museo di Rovereto nell’area Archeologia, sta ricostruendo il volto di questo bambino grazie all’esperienza acquisita con la Laurea Magistrale in Arti Forensi in Gran Bretagna. Partendo dal teschio ritrovato ne è stata fatta una riproduzione digitale e una prima ricostruzione del volto in 2 dimensioni con Photoshop. Poi il modello di teschio è stato stampato con una stampante 3D e ricoperto prima ricostruendo i muscoli e poi con una finta pelle, fatta di un materiale utilizzato anche per le protesi cinematografiche che renderà l’effetto finale molto realistico anche al tatto.


Sezione delle grotte di Castel Corno e localizzazione dei sondaggi eseguiti, rielaborata da Regola (foto fmcr)
È in fase di preparazione una pubblicazione sul sito preistorico delle grotte di Castel Corno a cura di Maurizio Battisti della Fondazione museo civico di Rovereto e Umberto Tecchiati dell’università di Milano che comprende anche questo interessante progetto. Ma a breve verrà pubblicato anche un approfondimento sul sito del museo. “Le sepolture, purtroppo depredate da scavi abusivi”, scrivono Battisti e Tecchiati, “sono databili tra la fine dell’Età del Rame e la prima Età del Bronzo. Quasi tutte le ossa provengono dalla Grotta 3. Le ossa e i denti, in numero di 190, rinvenuti in questa grotta, sono di almeno 1 feto, 3 subadulti rispettivamente di circa 8 anni e 2 di circa 11 anni, e 2 adulti di sesso indeterminato. L’unico reperto scoperto nella Grotta 1 è una vertebra di un adulto. Solo un radio e un’ulna retti, e il loro controlaterale, sono stati trovati in connessione e così tante ossa rimangono non attribuite. Sono presenti ipoplasia dello smalto e cribra orbitali, carie, tartaro e abrasione dentale. In generale, la situazione dentale mostra molte anomalie di crescita, magari di carattere ereditario o di aspetto endemico della popolazione. Inoltre, le ossa mostrano un ritardo di crescita per quanto riguarda l’invecchiamento dentale. L’unico teschio e il frammento di fibula mostrano aree carbonizzate probabilmente dovute ad eventi tafonomici (fossilizzazione) o a rituali post-deposizionali”.
A Reggio Emilia convegno internazionale nel 200° della nascita del concittadino don Gaetano Chierici, scienziato, sacerdote, patriota, insegnante, ma soprattutto il fondatore e il padre della paletnologia italiana

Don Gaetano Chierici, scienziato, sacerdote, patriota, insegnante, ma soprattutto il fondatore e il padre della paletnologia italiana
Fu sacerdote per scelta e vocazione e, pur subendo negli anni ostracismi e punizioni, non abbandonò mai la Chiesa né la fede. Fu patriota, monarchico, liberale e antitemporalista. Fu insegnante di vasta cultura, sia nelle discipline umanistiche sia in quelle matematiche. Fu impegnato nel sorgere delle prime istituzioni cattoliche a carattere sociale. Fu animatore dell’associazionismo culturale, come testimoniano gli incarichi ricoperti nella Deputazione di Storia Patria e nel Cai. Fu soprattutto un archeologo, in rapporto con gli ambienti più avanzati di questa disciplina, che partendo da studi classici approdò alla Paletnologia e contribuì a gettare le basi in Italia di questa “novissima scienza”. Don Gaetano Chierici fu tutto questo. Ma soprattutto con Luigi Pigorini e Pellegrino Strobel è stato il fondatore e il padre della paletnologia italiana. La sua città natale Reggio Emilia è pronta a ricordarlo alla grande l’anno prossimo, 2019, nel 200° anniversario della nascita. Gaetano Chierici nacque infatti a Reggio Emilia da Nicola e Laura Gallinari il 24 settembre 1819. E sempre a Reggio Emilia morì il 9 gennaio 1886.

Ricostruzione di una terramara realizzata da Gaetano Chierici (Archivi del musei civici di Reggio Emilia)
Il Comitato scientifico d’accordo con il Comitato promotore delle Celebrazioni per il bicentenario della nascita di don Gaetano Chierici ha deciso così di promuovere un Convegno sulla figura dello scienziato, del sacerdote, del patriota, dell’insegnante. Il convegno si terrà a Reggio Emilia nei giorni 19, 20, 21 settembre 2019. Sono previste escursioni in provincia di Reggio Emilia nei luoghi delle ricerche paletnologiche ed archeologiche di Gaetano Chierici. Fu proprio Chierici a introdurre nello studio della preistoria il metodo dello scavo stratigrafico. Scoprì i primi villaggi dell’Età della Pietra nell’Appennino Reggiano e contribuì notevolmente allo studio delle terramare e all’identificazione dell’Età del Rame come periodo compreso tra Neolitico ed Età del Bronzo. Inoltre fondò e diresse il Bullettino di paletnologia italiana ed istituì il museo di Storia patria di Reggio Emilia, di cui fu direttore.
Museo “Gaetano Chierici” di Paletnologia Diretta espressione del lavoro culturale del fondatore, il sacerdote Gaetano Chierici, il museo reggiano è preziosa testimonianza della scienza e della museologia del tardo Ottocento. Nel 1862 Chierici ordina il Gabinetto di Antichità Patrie, ampliato nel 1870 come museo di Storia Patria, il cui nucleo fondamentale è la Collezione di Paletnologia. Conservata negli arredi e con l’ordinamento originari, essa rappresenta la più diretta espressione del lavoro di un paletnologo nell’età in cui la ricerca preistorica si afferma anche in Italia. L’esposizione si articola in tre serie. La prima riunisce i materiali archeologici della provincia di Reggio Emilia. Rimangono ad essa subordinate le due serie con materiali extraprovinciali, che illustrano rispettivamente l’archeologia di altre regioni d’Italia, e con quelli pertinenti a culture archeologiche ed etnologiche di altri Paesi europei e di altri continenti. Una quarta sezione espone “sepolcri” trasportati intatti in museo. Nella serie locale i materiali, esposti integralmente, sono ordinati entro sequenze cronologiche e suddivisi per provenienza, per materia, per tecnologia, per tipologia. In questo metodo di lavoro, di impronta positivistica, si valorizzano gli apporti della Geologia, delle Scienze Naturali, dell’Antropologia. Alla morte del suo fondatore (1886) la Collezione fu ribattezzata museo “Gaetano Chierici” di Paletnologia.

Ricostruzione deal tomba di Cenisola nell’allestimento ottocentesco del museo Chierici (archivi dei musei civici di Reggio Emilia)
Il convegno scientifico internazionale “Don Gaetano Chierici a 200 anni dalla nascita” si articolerà in tre sessioni: 1 : il paletnologo e l’archeologo; 2 : il museologo, la tutela dei beni culturali nella seconda metà del XIX sec.; 3: il sacerdote, l’insegnante, il patriota, l’animatore dell’associazionismo culturale. Per ciascuna sessione sono previste relazioni, comunicazioni e posters. Le relazioni, a cura dei componenti il Comitato scientifico, avranno la durata di 20′. Si prevedono i seguenti titoli provvisori delle singole sessioni: 1: il paletnologo e l’archeologo: Gaetano Chierici nella Storia della Paletnologia, Gaetano Chierici e Luigi Pigorini, Gaetano Chierici e il metodo multidisciplinare, Gaetano Chierici e l’archeologia del territorio, Gaetano Chierici e il comparativismo etnografico, Gaetano Chierici e il Neolitico, Gaetano Chierici e l’Eneolitico, Gaetano Chierici e l’Età del bronzo, Gaetano Chierici archeologo classico, Gaetano Chierici e l’Età del ferro, Gaetano Chierici e l’Archeologia medievale. 2 : il museologo, la tutela dei beni culturali nella seconda metà del XIX sec.: Gaetano Chierici museologo, Gaetano Chierici e la politica degli scambi fra musei, Gaetano Chierici ispettore dei monumenti e scavi. 3: il sacerdote, l’insegnante, il patriota, l’animatore dell’associazionismo culturale: Gaetano Chierici sacerdote, Gaetano Chierici insegnante, Gaetano Chierici patriota, Il fondo “Don Gaetano Chierici” nella Biblioteca “Panizzi” di Reggio Emilia, Gaetano Chierici e la Deputazione di Storia Patria, Gaetano Chierici e il Club Alpino Italiano, Gaetano Chierici: l’uomo e la famiglia. Ogni comunicazione non potrà superare la durata di 15′. I riassunti delle comunicazioni e dei posters (non più di 1000 battute) dovranno essere inviati entro e non oltre il 30 settembre 2018 alla segreteria della Deputazione di Storia Patria Sezione di Reggio Emilia (deputazionereggioemilia@gmail.com), che le sottoporrà all’esame del Comitato Scientifico, cui è demandata la loro accettazione e la scelta se tradurle in comunicazioni orali o in posters.
Preistoria. Scoperto in Valle d’Aosta alle pendici del monte Fallère il più antico pascolo in quota dell’arco alpino: le ricerche di Idpa-cnr, soprintendenza, università di Ferrara, Milano-Bicocca e New York conquistano la copertina della rivista scientifica Journal of Ecology
Dalla vetta del Monte Fallere a tremila metri di quota lo sguardo apre sul Monte Bianco, il Gran Combin, la Grivola e altre cime delle Alpi Graie e della Alpi Pennine. Le sue pendici, tra la valle del Gran San Bernardo e la Valdigne, erano già frequentate dall’uomo nel Tardo Neolitico, 5600 anni fa. È qui che le ricerche, coordinate dall’Istituto per la Dinamica dei Processi Ambientali di Milano (IDPA-CNR), e svolte in collaborazione con la soprintendenza per i Beni e le attività culturali della Regione autonoma Valle d’Aosta, le università di Ferrara, di Milano-Bicocca e di New York, hanno individuato il più antico pascolo di alta quota finora documentato sulle Alpi, mantenuto attivo per millenni. Un risultato eccezionale riconosciuto a livello internazionale dalla rivista scientifica Journal of Ecology che dedica alle ricerche sul Monte Fallère la copertina del numero di novembre 2017. “Siamo particolarmente lieti di apprendere questa notizia”, dichiara l’assessore regionale alla Cultura, Emily Rini, “che dà valore a una ricerca così importante per la conoscenza della storia del paesaggio valdostano sia sotto l’aspetto di valorizzazione sia di fruizione in ambito didattico e turistico. L’importante scoperta è frutto di uno studio multidisciplinare condotto al Mont Fallère dall’assessorato e dall’università degli Studi di Ferrara, grazie a un accordo tra gli enti nel settore della ricerca archeologica preistorica sul territorio valdostano”.

La torbiera di Crotte Basse a 2350 metri di quota dove sono stati trovati i sedimenti più interessanti
Il pascolo, il più antico dell’arco alpino finora documentato, è stato mantenuto attivo . si diceva – per millenni; le attività umane hanno favorito la diffusione di nuove specie vegetali. “Dati archeologici indicano la presenza di gruppi umani sull’altopiano del Fallère dal Tardo Neolitico, in corrispondenza con la fase di maggiore trasformazione del paesaggio”, spiega Roberta Pini, ricercatrice di Idpa-Cnr. “Mentre le attività dei gruppi mesolitici avevano effetti limitati sugli ecosistemi naturali, a partire dal Neolitico sorgono sui fondovalle abitati stabili e si accresce l’interesse dell’uomo per lo sfruttamento delle alte quote e la creazione di paesaggi antropici. Polline, spore fossili, frammenti di carbone e nutrienti, estratti dai sedimenti delle Crotte Basse, una torbiera a 2350 m di quota, testimoniano la distruzione di foreste millenarie di pino cembro e abete bianco, e la presenza di insediamenti stagionali preistorici. Infatti, a poca distanza dalla torbiera, il sito di maggior interesse ha restituito le vestigia di una capanna dell’Età del Rame, con tracce di focolari, un accumulo di pietre interpretato come un muro a secco, un’ascia in pietra verde levigata e industrie in cristallo di rocca. I risultati delle indagini – conclude – sono di grande interesse per la conoscenza della storia del paesaggio aostano, per la sua valorizzazione e fruizione didattica e turistica”.
TourismA 2017. Alla scoperta del santuario megalitico di Pat in Valcamonica tra massi-menhir, stele istoriate, allineamenti, recinti sacri
Sulle orme dei nostri lontani antenati di 6-7mila anni fa. È stata una passeggiata alla scoperta dei santuari megalitici della Valcamonica quella che Raffaella Poggiani Keller, specialista in Preistoria, già soprintendente ai Beni archeologici della Lombardia, ha presentato a TourismA 2017, il salone internazionale dell’Archeologia, portando per mano il numeroso pubblico presente al palazzo dei congressi di Firenze alla scoperta di “Culti e cerimonie dell’età del Rame in Valcamonica”, e focalizzando l’attenzione sul santuario megalitico di Pat. “Per megaliti”, introduce l’archeologa preistorica, “si intendono le stele e i menhir che troviamo distribuiti pressoché contemporaneamente in molte regioni d’Europa, e con caratteristiche molto simili”. Particolarmente ricche le aree alpine. Famosi i siti megalitici di Sion, Aosta, Val d’Adige, Riva-Alto Garda, Valtellina e Valcamonica: queste ultime collegate tra loro attraverso il passo dell’Aprica. “Negli ultimi trent’anni”, ricorda, “sono stati catalogati una trentina si siti megalitici, 12 in Valtellina, 20 in Valcamonica, tra santuari e siti con singoli monoliti istoriati”. Tra i santuari, abbiamo quelli sugli altopiani (soprattutto in Valtellina) e quelli di fondovalle, spesso collegati ad abitati: questo si riscontra tra la fine del Neolitico (II metà del V millennio a.C.) e la romanizzazione (età del Ferro).

Un mosaico di immagini con il paesaggio in cui è stato fondato il santuario megalitico di Pat e dettagli dei circoli votivi a nord e dei tumuli a sud
Particolarmente interessante il santuario megalitico di Ossimo-Pat, una struttura molto articolata che si estende su una superficie di 4mila mq., frequentato dalla metà del IV millennio per tutto il III millennio, con una persistenza nel I millennio a.C. quando nei pressi sorge un abitato dei camuni che dialoga ancora con il santuario. Fu un appassionato del posto, Giancarlo Zerla, che nel 1994 individuò la prima stele istoriata, scivolata a valle tra gli alberi del bosco, dando il via alle ricerche che continuano tuttora. Il santuario di Ossimo-Pat fa parte di un singolare complesso di luoghi di culto dell’età del Rame (Pat, Anvòia, Passagròp e Ceresolo- Bagnolo), posti alla distanza di circa 400 m l’uno dall’altro e in relazione visiva tra di loro, ad una altezza di 800 metri. I pianori su cui si trovano i siti furono “ritagliati” tra i boschi con incendi, all’atto dell’impianto dei santuari calcolitici.
“Il sito”, spiega Poggiani Keller, “inserito in un paesaggio rituale di grande suggestione presenta due distinti contesti: un santuario calcolitico (metà IV-III-inizi II millennio a.C.) nel quale si rinnovano attività di culto sul finire dell’età del Bronzo e per tutto il I millennio a.C.; un abitato dei camuni, formato da sette case a pianta rettangolare, costruito nell’avanzata età del Ferro appena a monte. Il santuario, esteso per oltre 4000 mq all’estremità orientale del terrazzo di Pat affacciato sulla Valle dell’Inferno, comprende un’area con allineamenti di monoliti, posta al centro di due aree con tumuli e recinti. Il primo ciclo di vita (fondazione, frequentazione con varie fasi d’uso e di ristrutturazione, abbandono) inizia tra tardo Neolitico ed età del Rame, verso la metà del IV millennio a.C., e si conclude con il Bronzo Antico. Per ora si è raggiunto il livello di impianto del santuario solo nell’area cerimoniale posta a Sud dell’allineamento megalitico, dove si sono evidenziati tre tumuli circolari (diametro tra 5 e 6.40 m) in pietre originariamente coperte da terra e con perimetro in sassi, in alcuni tratti su più corsi”. Si tratta di tumuli-cenotafio perché, anche se all’interno si riproduce una struttura funeraria, non hanno mai ospitato sepolture ma solo offerte votive: collane, vasi, punte di freccia. In questi tumuli, databili 3700-3500 a.C. (età del Rame), erano poste delle stele incise, capovolte ritualmente, con cosiddette “figure topografiche”, vere e proprie raffigurazioni del territorio. “È proprio in questo periodo”, sottolinea l’ex soprintendente, “che l’uomo preistorico inizia a costruire il paesaggio”. L’area dei tumuli Sud fu abbandonata con il Bronzo Antico: il focolare, acceso tra piattaforma A e B, data la conclusione del primo ciclo di frequentazione al 1890-1520 a.C. L’area torna ad essere frequentata nel corso del I millennio a.C. quando sopra i tumuli calcolitici, ormai coperti dal colluvio, furono accesi piccoli fuochi. “Ne abbiamo scavato una trentina. La scansione cronologica di questa nuova frequentazione del santuario, sul finire della tarda età del Bronzo e per l’intera età del Ferro fino al II-I secolo a.C., è basata, oltre che su frammenti ceramici significativi, seppur rari, su una serie di datazioni radiometriche, effettuate sui carboni dei numerosi focolari accesi accanto e sopra monumenti e strutture. Lo studio paleobotanico chiarisce il contenuto di alcuni fuochi rituali e la stagione di accensione: piccoli fiori o boccioli fiorali di crataegus monogyna, misti a gusci e rami di corylus avellana e di coniferae (focolare acceso in primavera); bacche e semi di Rosa canina con rami di Fagus sylvatica e corylus avellana (fcoolare acceso sul finire dell’estate). Rituali che ricordano i floralia di epoca storica”.
A Nord dei tumuli-cenotafi c’è un allineamento di stele istoriate e massi-menhir, databili all’inizio del IV millennio, che si protrae per una cinquantina di metri: finora 27 monumenti, integri e frammentari, con andamento N-S in direzione della montagna Cimon della Bagozza, con le facce principali istoriate nella parte apicale con il motivo del sole e rivolte verso oriente. Sono contenuti in fosse con un alloggiamento di pietre o poggiano su piattaforme rettangolari, anch’esse con orientamento costante Nord-Sud. “Lo scavo ha raggiunto i livelli di frequentazione dell’avanzata età del Rame, ma non ancora quelli di impianto dell’allineamento, che risulta più volte ristrutturato; la stratigrafia mostra che il santuario è il risultato di più fasi di costruzione e di distruzione, con abbattimento di alcuni monumenti e innalzamento di nuovi, e che si sviluppa almeno in tre differenti fasi. Nella fase finale di frequentazione, tra tardo Calcolitico e Bronzo Antico, alcuni monumenti risultano ormai caduti a terra e parzialmente coperti, oppure spezzati. Dopo l’abbandono, strati di colluvio seppelliscono via via lentamente i pochi massi e stele ancora ritti nel terreno, senza che si perda nel tempo la cognizione del luogo sacro”.
A Nord dell’allineamento si estende un’area priva di monoliti e occupata da una tomba a cista e da recinti circolari. “La tomba a cista”, sottolinea Poggiani Keller, “conteneva le spoglie di un individuo adulto che, dopo 3-4 secoli dalla deposizione, vengono raccolte e ammucchiate per lasciar posto ai resti di un infante, che così è in collegamento con l’antenato. I due recinti finora scavati mostrano all’interno di un doppio cerchio concentrico di pietre (alcune delle quali sono frammenti di stele riutilizzati) una struttura rettangolare con perimetro in sassi, in forma di sepoltura, ma contenente solo offerte (in una, nove cuspidi di freccia in selce, nell’altra un vaso e una collana di perle, secondo un rituale già praticato nell’area Sud)”.

Le stele e i menhir del santuario megalitico di Pat allineati nel museo nazionale della Preistoria della Valcamonica (Mupre)
Antenati o dei? “Sono riconoscibili varie fasi di incisione nel corso dell’età del Rame, ben scandita, oltre che dalle sovrapposizioni, dalla tipologia delle armi raffigurate (asce, asce-martello; pugnali tipo Remedello, tipo Ciempozuelos; alabarde tipo Villafranca). La sequenza iconografica connessa alla sequenza stratigrafica ci fa intravvedere la possibilità di definire anche una articolazione molto più dettagliata delle fasi di istoriazione dei monumenti nel corso del IV e del III millennio a.C. Le raffigurazioni presenti sulle stele e sui massi-menhir suggeriscono che si possano distinguere due tipi di composizioni monumentali: una mostra attributi più propriamente antropomorfi, maschili e femminili, organizzati in schemi araldici; la seconda, in genere costituita da imponenti massi- menhir, presenta associazioni più complesse dove le incisioni sono fittamente distribuite su tutta la superficie, con frequenti interventi di sovrapposizione a indicare successive fasi di istoriazione. La presenza di tumuli e di circoli con offerte, induce ad attribuire al sito cerimoniale anche una valenza di culto degli antenati ed a considerare, perciò, alcuni dei monumenti incisi come raffigurazioni degli antenati”.
Sicilia centro-meridionale. Scoperto a Case Bastione di Villarosa di Enna un villaggio preistorico di 5-6mila anni fa
È uno dei principali insediamenti preistorici di tutta la Sicilia centro-meridionale: l’importanza del villaggio di età preistorica di Case Bastione, nel territorio di Villarosa di Enna, lungo la valle del fiume Morello, è confermata dai risultati della quinta campagna di scavi archeologici che si è appena conclusa dopo quattro settimane. “Le ricerche di questi ultimi anni”, sottolineano gli archeologi Enrico Giannitrapani e Filippo Iannì della cooperativa Arkeos di Enna, “testimoniano come, tra il IV millennio e la prima parte del II millennio a.C., il villaggio di Case Bastione sia stato abitato da una ricca comunità di pastori e agricoltori, capaci anche di sfruttare le ricche risorse minerarie presenti in questa parte della Sicilia centrale, quali zolfo e salgemma, instaurando rapporti commerciali e scambi con tutto il Mediterraneo centro-occidentale”. A questa campagna, inserita nell’ambito della quarta edizione della Summer School Internazionale “Archeologia nella Sicilia centrale: la preistoria degli Erei”, hanno partecipato oltre 30 studenti provenienti da diverse università, principalmente inglesi, quali Newcastle, Sheffield, Liverpool, Nottingham.
Il sito di Case Bastione è situato lungo la statale 290, a metà strada circa tra Villarosa e Calascibetta, immediatamente sotto il piccolo altipiano di contrada Lago Stelo. L’area, costituita, da terreni argillosi oggi coltivati principalmente a cereali, è posta in posizione dominante rispetto alla valle del fiume Morello. La quantità e la qualità dei reperti ceramici e litici ritrovati permette di inquadrare tale insediamento in un periodo compreso tra il IV ed l’inizio del II millennio a.C. Tra i materiali ceramici più antichi è stato possibile individuare vari frammenti di vasi databili al Neolitico tardo (fine IV millennio a.C.), caratterizzati dalla superficie esterna ingubbiata rossa e dalla presenza delle tipiche anse a “rocchetto”. “Questi frammenti”, spiegano gli archeologi, “costituiscono un elemento importante per la conoscenza delle fasi neolitiche della Sicilia centrale, periodo ancora quasi del tutto sconosciuto in questa parte dell’isola”. Nell’area sono stati rinvenuti anche alcuni frammenti dipinti in nero su fondo rosso evanescente, databili alla media età del Rame (prima metà del III millennio a.C.).
Sicuramente le fasi meglio rappresentate a Case Bastione sono quelle di Malpasso e Castelluccio. La prima, così chiamata dal sito eponimo di Malpasso in territorio di Calascibetta, è databile alla metà del III millennio a.C. (recente età del Rame) ed è caratterizzata da vasi non decorati con la superficie di colore rosso lucidata e lisciata. I frammenti attribuibili alla seconda fase, quella di Castelluccio (antica età del Bronzo, fine del III ed inizio del II mill. a.C.), sono dipinti in nero su fondo rosso con motivi geometrici caratteristici dell’epoca. “Al contrario delle fasi precedenti”, continuano gli esperti, “queste due facies sono ben conosciute in tutta la Sicilia, compresa la zona centrale, anche se i motivi della grande diffusione demografica, testimoniata principalmente dalla grande abbondanza di insediamenti databili a questa fase, devono ancora essere compresi nelle loro dinamiche sociali, culturali ed economiche. L’industria litica è caratterizzata da lame, grattatoi, raschiatoi e schegge ritoccate in selce e quarzarenite. È presente anche una certa quantità di lame e schegge in ossidiana sicuramente proveniente da Lipari. Sono stati rinvenuti anche alcuni macinelli e pestelli, probabilmente utilizzati nella lavorazione dei cereali, e alcune asce in pietra”.
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