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Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 7. Dedalo e l’ingegno etrusco, l’8. Fetonte e l’ambra, il 9. i Pelasgi e le origini di Spina e degli Etruschi

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Locandina della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo” al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia dal 10 novembre 2023 al 7 aprile 2024

Si sa che i Greci amavano metamorfosi e metafore e, probabilmente, gli Etruschi non erano da meno. Il mito offriva una materia quasi infinita da plasmare e una delle metafore miti-storiche più interessanti e seducenti riguarda l’archetipo stesso dell’uomo ingegnoso, Dedalo, l’inventore del labirinto, il primo uomo a volare, il costruttore di automi, in grado di competere per abilità e tecnica con il dio Efesto. Diverse fonti collocavano alcune sue imprese alla foce del Po, dove poi sarebbe nata Spina e, probabilmente, tali leggende hanno avuto origine proprio per via della presenza e dell’importanza acquisita nel tempo da Spina che seppe evidentemente manipolare e veicolare a proprio vantaggio l’immaginario di quei Greci che non potevano fare a meno di frequentarla per coltivare le proprie necessità e interessi commerciali. Di questo parla il settimo episodio del video-racconto in 19 puntate “Rasna. Una serie etrusca”, a cura e con Valentino Nizzo, fino a dicembre 2023 direttore del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, prodotto dal museo nazionale Etrusco di Villa Giulia, approfondimento della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Dopo aver conosciuto i primi sei episodi – 1. la Grande Etruria, 2. Ulisse ed Eracle, 3. Caere/Pyrgi e Delfi, il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina (per episodi 4, 5, 6 vedi Roma. Il museo nazionale Etrusco pubblica on line “Rasna. Una serie etrusca”, un video-racconto in 19 puntate, di e con Valentino Nizzo, a corollario della mostra “Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo”. Ecco altri tre episodi: il 4. sui Giganti, il 5. sul cratere dei Sette contro Tebe, e il 6. sulla scoperta di Spina | archeologiavocidalpassato) – ecco altri tre video: il 7, l’8 e il 9.

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Valle Fattibello, tipico paesaggio delle Valli di Comacchio (foto wikipedia)

Un paesaggio inospitale e paludoso, questo ci raccontano le fonti e così si presentava la foce del Po agli occhi degli Etruschi. Non possiamo certo dire che si persero d’animo. Viene loro riconosciuta una grande capacità organizzativa nel plasmare il paesaggio, domare il territorio, renderlo fertile e abitabile, ponendo le basi per espandere produzione e commerci. Da questa sistematica opera di bonifica e di riassetto idraulico vide la nascita Spina, fra il 530 e il 520 a.C. Il racconto di RASNA. UNA SERIE ETRUSCA riparte da qui, dalle Valli di Comacchio, unendo sapientemente mito e storia.

“7. DEDALO O DELL’INGEGNO”. “Gli Etruschi abitano una regione che produce di tutto e ingegnandosi nel lavoro hanno frutti con cui non solo possono nutrirsi a sufficienza ma anche concedersi una vita di piaceri e di lusso. Così Diodoro Siculo nel I sec. a.C. ricordava quella che è stata una delle prerogative degli Etruschi: la fertilità e la ricchezza dei luoghi nei quali scelsero di insediarsi. Questa ricchezza – spiega Valentino Nizzo – è diventata un motivo per criticarli da un certo momento in poi della loro storia. Agli occhi dei Greci e poi anche dei Romani, gli Etruschi erano proverbiali per la loro mollezza, per la loro oziosità. Orazio ha reso celeberrimo l’obesus etruscus, quello che noi vediamo e immaginiamo attraverso quei sarcofagi del III e II secolo a.C., in particolare da Tarquinia, dove si vedono uomini di grande stazza adagiati su un letto per l’eternità, così come facevano durante la vita quotidiana bevendo del buon vino o banchettando. Questa mollezza e questo lusso, però, sono frutto del lavoro, come diceva Diodoro, della loro capacità di plasmare il paesaggio e di renderlo adatto alla vita. Alle mie spalle si vede uno dei paesaggi più inospitali che gli Etruschi sono stati in grado di domare, quello delle valli di Comacchio.

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Le Valli di Comacchio che conservano le tracce dell’antica città etrusca di Spina (foto http://www.rivadelpo.it)

“Abbiamo dovuto aspettare il 1922 – continua Nizzo -, l’anno della scoperta di Spina e della bonifica di Valle Trebba, per raggiungere un’organizzazione, un livello tecnologico in grado di rendere nuovamente popolose terre che erano state per secoli malariche. Gli Etruschi hanno fatto lo stesso, lo hanno fatto oltre due millenni prima. E hanno dovuto raggiungere però quel livello organizzativo che nel VI secolo ha consentito a una federazione di città dell’Etruria padana con l’aiuto delle città tirreniche dell’Etruria interna di realizzare qualcosa di grandioso: un’opera sistematica di bonifica che ha consentito di fondare intorno al 530-520 a.C. la città di Spina, in un periodo di generale riassetto del territorio. Nei secoli precedenti queste zone non erano disabitate. Lo dimostra il transito di merci che ha sempre caratterizzato il Po con i suoi affluenti e la sua foce. Adria è stata una precorritrice di quelle che sono state poi le intenzioni concretizzatesi con la fondazione di Spina. Tuttavia ci vuole un impegno, una strategia, una capacità sociale per arrivare a risultati come questi.

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Un tratto della cloaca maxima a Roma ancora funzionante (foto sovrintendenza capitolina)

“Negli stessi anni in cui nasce Spina, a Roma gli Etruschi dell’ultimo dei Tarquini, il Superbo, realizzano opere grandiose come la Cloaca massima, una fognatura che ha consentito anche la bonifica della valle del Foro boario, dove gli Etruschi avevano il loro quartiere abitativo, il Vicus Tuscus. Negli stessi anni viene bonificata anche la valle Murcia, quella dove sarà realizzato il Circo massimo, una delle glorie della grande Roma dei Tarquini. Queste capacità organizzative, questa loro proverbiale capacità nell’ingegneria idraulica e nell’architettura sono delle prerogative che agli Etruschi sono state riconosciute dai Romani e dai Greci, che di solito non davano soddisfazione ai popoli considerati barbari. Siamo quindi in un contesto che rappresenta magnificamente quella che è stata una capacità concreta di domare la natura e renderla virtuosa, renderla ben soddisfacente alle esigenze di uomini che miravano a divenire grandi, al lusso, e a quel benessere che poi raggiunsero.

Nelle isole Elettridi, che si trovano nel golfo dell’Adriatico, dicono che ci siano due statue: una di stagno, una di bronzo, lavorate in stile arcaico. Si dice che sono opera di Dedalo, ricordo del passato, di quando egli fuggendo Minosse, dalla Sicilia e da Creta si spinse in questi luoghi. Dicono che il fiume Eridano abbia formato davanti alla sua foce queste isole. C’è anche una palude, secondo quanto si racconta, presso il fiume, la cui acqua è calda. Esala da essa un odore pesante e aspro. Gli animali non vi si abbeverano e gli uccelli non possono sorvolarlo perché cadono e muoiono. Le genti del luogo raccontano di Fetonte che cadde in questo lago, colpito dal fulmine, e che ci sono intorno molti pioppi dai quali cade il cosiddetto electron. Orbene, dicono che Dedalo sia giunto a queste isole, che se ne sia impadronito e che abbia dedicato in una di esse un’immagine sua e una di suo figlio Icaro. Poi essendo giunti per mare fino a loro i Pelasgi, profughi da Argo, Dedalo fuggì e raggiunse l’isola di Icaro. In questo passo, attribuito ad Aristotele, ma in realtà non è opera sua, un componimento nel quale vengono descritte le meraviglie del mondo, non solo quelle appartenenti all’orizzonte del mito, ma tutte le meraviglie naturali, abbiamo uno straordinario affresco di come doveva apparire ancora intorno al III secolo a.C. questa zona: la foce di un fiume mitico, l’Eridano, che noi identifichiamo con il Po, e che è documentato fin dall’epoca di Esiodo dalla fine dell’VIII secolo a.C., come luogo inospitale, paludoso, connesso – come dice Aristotele – al mito di Fetonte e alle lacrime delle Eliadi.

“Ma questa connessione di questi luoghi a Dedalo è rivelatrice di quanto ho detto poco fa – riprende Nizzo -. È una metafora che collega la capacità di vivere in questi luoghi alla foce del Po, dove erano le isole Elettridi, al più grande inventore del mito dell’antichità, Dedalo. Colui che aveva realizzato il labirinto, che aveva dotato se stesso e suo figlio Icaro di ali con le quali volare, che aveva realizzato automi e sculture straordinarie come quelle che li raffiguravano alla foce del Po, secondo questo passo.

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Olpe in bucchero (640 a.C.) dalla tomba 2 del tumulo in località San Paolo di Cerveteri, con Medea che ringiovanisce Giasone, gli argonauti che trasportano un drappo, due lottatori e Dedalo alato, conservata al museo nazionale Etrusco di Villa Giulia (foto etru)

“C’è un vaso al museo di Villa Giulia straordinario – ricorda Nizzo -: un’olpe in bucchero risalente al 640 a.C. che raffigura Medea, il mito degli Argonauti e raffigura anche, a una delle estremità, Dedalo con le ali, Taitale in etrusco. Non conosciamo nessi tra il mito degli Argonauti e quello di Dedalo, ma sappiamo che anche gli Argonauti si fermarono alla foce del Po, lungo l’Eridano. Quindi, chissà, forse quel vaso, che precede di oltre un secolo la nascita di Spina racconta una leggenda che si è persa, che non si è conservata, una leggenda che doveva unire gli Argonauti a Dedalo. Certamente quello che sappiamo attraverso oggetti come la bulla d’oro, emigrata purtroppo a Baltimora, che doveva comporre una collana probabilmente con ulteriori inserti d’ambra, e da altre raffigurazioni rinvenute a Felsina e in altre aree delle città etrusche della pianura Padana, Dedalo qui era particolarmente venerato. Questa venerazione non faceva altro che richiamare quanto gli Etruschi di sé sapevano: essere maestri dell’idraulica e l’orgoglio per essere riusciti a rendere non solo abitabili e fertili questi luoghi, ma a trasformare la pianura Padana in un motore economico per l’intera Etruria. Quelle pianure Padana e Campana che fecero grande l’Etruria, come ricordava Polibio ancora nel II secolo a.C. e che resero gli Etruschi in grado di dominare su quasi tutta l’Italia, come ricordavano Tito Livio e Catone. “Paene omnis Italia in Tuscorum iure fuerat (Quasi tutta l’Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi)”, dicevano. E questa è la grandezza degli Etruschi e un’eredità che ci hanno lasciato”.

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Collana in ambra, vetro e oro da Spina conservata nel museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Lacrime che diventano pietre”, spiega Nizzo. “Così i Greci spiegavano le origini dell’elektron, come chiamavano l’ambra e, in questo modo, davano un senso a quanto empiricamente potevano constatare semplicemente sfregandola. Le cariche elettriche che rilasciava non sembravano infatti lasciare dubbi in merito all’origine divina di quella sostanza, scaturita dalle lacrime delle Elettridi, le figlie del Sole disperate per la morte del fratello Fetonte, fulminato da Zeus, per la sua pericolosa incapacità di guidare il carro paterno. Il mito, non a caso, era ambientato dove i Greci da secoli erano soliti procurarsi quella preziosa resina fossile: la foce del Po, sull’Adriatico. Il terminale ideale per tutti quei beni e quelle merci che vi giungevano tramite la sua fitta rete di affluenti dall’area appenninica, da quella alpina e dalle più estreme propaggini dell’Europa centrale e settentrionale. Gli Etruschi avevano saputo a lungo nascondere la provenienza baltica dell’ambra, facendo credere che i pioppi in cui le Elettridi erano state pietosamente tramutate fossero proprio lì, dove Spina sarebbe sorta, intorno al 520 a.C., accentrando presso il suo porto anche quel redditizio traffico commerciale. Ne parliamo nell’ottavo episodio di “Rasna. Una serie etrusca”.

“8. FETONTE E L’AMBRA O DELLA CAPACITÀ ECONOMICA”. “La nave era corsa lontano a vela. Entrarono profondamente nel corso del fiume Eridano, laddove un tempo Fetonte, colpito al cuore dal fulmine ardente e bruciato a metà, cadde dal carro del Sole nelle acque di questa profonda palude. Ed essa ancora oggi esala dalla ferita bruciante un tremendo vapore. Nessun uccello può sorvolare quelle acque spiegando le ali leggere, ma spezza il suo volo e piomba in mezzo alle fiamme. In questo brano Apollonio Rodio, nel III secolo a.C., descrive il viaggio degli Argonauti verso Occidente. Ed è una tappa che non era prevista in tutte le versioni del mito. Una tappa che toccava il fiume Eridano che, al tempo, il mito e la fantasia geografica dei Greci univa al Danubio in un percorso continuo. Gli Argonauti si muovono in terre ancora non civilizzate, dominate da paesaggi selvaggi e spiegate dai Greci alla luce di miti come quello di Fetonte. Un mito straordinario che è perdurato a lungo nel corso dell’antichità. E il mito con il quale i Greci spiegavano l’origine dell’ambra. Il figlio del Sole, di Helios Apollo, Fetonte lo splendente, un giorno riesce a convincere il padre a prestargli il carro del sole. Si vuole cimentare in qualcosa più grande di lui, una corsa attraverso il cielo. Tuttavia non riesce a domare i cavalli alati. Arriva a sfiorare il cielo. Secondo una versione del mito producendo quella Via Lattea che ancora oggi vediamo e che sarebbe stata realizzata dall’avvicinamento del sole alle stelle. Poi avvicinandosi alla Terra la desertificò, e rese gli Etiopi del colore scuro della pelle. Desertificò l’Africa. Insomma, alla fine, indusse il padre degli dei, Zeus, a fulminarlo. E tutto questo avvenne, secondo il mito, alla foce del Po, dove dovevano aver constatato i Greci la presenza di sorgenti sulfuree termali, quelle che ancora oggi alimentano la zona dei colli Euganei, Montegrotto, Abano Terme, legate al culto di Aponos-Apollo. Tutto questo quindi aveva un collegamento con la realtà geografica. Il mito prosegue dicendo che appunto nel luogo in cui Fetonte cade, la sua ferita prodotta dal fulmine continua ad emanare sostanze che avvelenano tutti gli animali che passano nei dintorni. E tutto questo avviene in presenza delle sorelle di Fetonte, le Eliadi, cui erano consacrate alcune isole alla foce del fiume Po.

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Pendente di ambra a testa femminile con tutulus (prima metà del V secolo a.C.) proveniente da Spina, Valle Pega, Tomba 740 Dosso A, e conservato al museo Archeologico nazionale di Ferrara (foto drm-er)

“Le Eliadi, vedendo il fratello morente, colpito al corpo da Zeus – continua Nizzo -, cominciano a piangere. Ed è un pianto incessante, che non smette mai. E Zeus, impietosito per il loro dolore, le trasforma in pioppi e le loro lacrime si trasformano in quell’ambra, che vediamo magnificamente rappresentata in questa vetrina. Il termine greco per ambra era electron, un termine che significa anch’esso splendente come Phaeton, così come le Eliadi derivano il loro nome da Helios, il dio del sole. Il motivo è che già gli antichi conoscevano una delle caratteristiche, delle peculiarità dell’ambra che, se sfregata su un tessuto come la lana, produce delle cariche elettrostatiche che sono quelle che alla fine del Settecento hanno indotto a usare la parola greca per l’ambra per definire l’elettricità. Un fenomeno che poi sarebbe stato approfondito nel corso dell’Ottocento. Quindi idealmente questa materia, che non è altro che una resina fossile, quindi era giusto una parte del mito, si pensava che imprigionasse la potenza e i raggi del sole, che poi liberava in quelle cariche elettrostatiche che la rendevano così particolare. Si pensava che avesse delle facoltà curative, che non fosse quindi soltanto un ornamento ma qualcosa di più, anche un amuleto. E qui vediamo una rassegna della straordinaria quantità di ambre che a Spina sono state ritrovate nella necropoli, ma che da Spina venivano distribuite in tutto il Mediterraneo. Perché nessuno poteva fare a meno dell’ambra. Anzi, questa materia era commerciata fin dall’età del Bronzo, era molto ricercata in ambito miceneo. E veniva da molto lontano. Veniva dal Baltico, dal Nord Europa, e poi veniva smistata tra il Veneto e l’Emilia a quanti arrivavano alla foce del Po per procurarsi beni come queste. Prima ancora di Spina, Verucchio era stato uno dei centri di smistamento dell’ambra, poi la stessa Felsina. E poi naturalmente Spina diventa l’epicentro. E gli Etruschi di Spina molto probabilmente sono quelli che hanno fatto credere ai Greci la leggenda che l’ambra traesse origine dalle lacrime delle Eliadi e dalla morte di Fetonte, avvenuta in quest’area. Dobbiamo immaginare le Eliadi forse non diverse da queste donne, volti di donne, raffigurate in questa vetrina. O dobbiamo immaginare la passione degli Etruschi per questa materia prima, che li indusse a realizzare anche un dado in ambra, una pedina da gioco di quelle che gli Etruschi amavano, al punto che Erodoto attribuiva loro l’invenzione dei dadi.

“Ma la verità sull’ambra è un’altra – sottolinea Nizzo -, e la scoprirono ben presto i Greci. Ce lo racconta molto bene un passo di Luciano. Siamo nel II secolo d.C. Sono passati quasi 500 anni dall’epoca di Apollonio Rodio e quasi un millennio da quando Esiodo, per la prima volta, cita il fiume Eridano e la leggenda di Fetonte. Luciano ne parla in uno dei suoi Dialoghi ironici dal titolo l’Ambra o i cigni, che svela finalmente la verità sulle origini dell’ambra. Veramente anch’io, udendo queste cose dai poeti, speravo se mai capitasse sull’Eridano di andare sotto uno dei pioppi e, aprendo il seno della veste, raccogliere poche lacrime e così avere l’ambra. Finalmente, non è molto, capitai in quella contrada e risalendo in barca l’Eridano non ci vedevo pioppi, per guardare ch’io ci facessi d’intorno, né ambra. Anzi, neppure il nome di Fetonte sapevano quei paesani. Infatti io mi volli informare e domandai: quando verremo a quei pioppi che danno l’ambra? Mi risero in faccia. I barcaioli risposero dicessi più chiaro ciò che volevo. Ed io raccontai loro la favola, come Fetonte era un figliolo dl sole che, fattosi grandicello, chiese al padre di guidare il carro per una sola giornata. Il padre glielo diede, ma egli si ribaltò e morì. E le sorelle sue piangenti in qualche luogo di questi – dicevo io – perché egli cadde sull’Eridano, diventarono pioppi e piangono l’ambra sopra di lui. Qual bugiardo e falso ti ha raccontato questo? Risposero. Noi non vedemmo mai alcun cocchiere ribaltato. Né abbiamo i pioppi che tu dici. Se fosse una cosa simile, credi tu che noi per due oboli vorremo remare o tirare le barche contr’acqua potendo arricchirci raccogliendo le lacrime dei pioppi? Queste parole mi colpirono forte e tacqui, scornato. Che proprio come un fanciullo c’ero caduto a credere ai poeti che dicono le più sperticate bugie e non mai una verità. Probabilmente Luciano sta finalmente apprendendo una verità che forse già conosceva. Ha voluto fare dell’ironia sulla capacità degli Etruschi di nascondere la vera origine di una materia preziosissima, che ha fatto per secoli la loro fortuna”.

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Il tempietto di Alatri realizzato nel 1891 nel giardino del museo nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma (foto etru)

Dove non arriva la storia, si ricorre alla fantasia, costruendo tradizioni e leggende che attraversano il tempo e lo spazio. È il destino dei Pelasgi, il popolo che affonda le origini nel mito e ritenuto, secondo i Greci, artefice delle possenti, titaniche mura poligonali, diffuse nell’Italia centro- meridionale, in Grecia e in Anatolia. Ma cosa lega la città di Spina ai Pelasgi? “Parliamo dell’arrivo dei Pelasgi a Spina, ovvero il mito fondante dell’origine stessa degli Etruschi agli occhi dei Greci. Un complesso coagulo di racconti che hanno contribuito nei millenni ad alimentare il cosiddetto mistero degli Etruschi”, comincia così Valentino Nizzo nell’introdurre il nuovo tema che, spiega, “incredibilmente ancora oggi tocca corde identitarie tutt’altro che sopite nelle quali il mito si intreccia e si confonde con la storia o, sarebbe meglio dire, con la sua manipolazione ideologica. Ho dedicato molti articoli e una monografia a queste tematiche; ne ho parlato in molti video e conferenze, quasi sempre accompagnate da strascichi di sterili polemiche, non prive di interesse per quanti si occupano di storia della mentalità e di persistenza contemporanea della questione pelasgica. Nel video provo a riassumere il tutto in circa 10 minuti, girati volutamente davanti al tempio etrusco-italico di Alatri, un luogo quest’ultimo ancora oggi legato al falso mito delle città pelasgiche”.

“9. IL MITO DEI PELASGI E LE ORIGINI DI SPINA E DEGLI ETRUSCHI”. “È una sensazione unica – ammette Nizzo – quella di trovarsi all’interno di un tempio etrusco-italico del III sec. a.C. È probabilmente il risultato che ambivano ad ottenere Felice Barnabei, il fondatore del museo di Villa Giulia, e l’architetto Adolfo Cozza, quando realizzarono questa ricostruzione in scala 1:1 di un tempio scavato pochi anni prima, tra il 1888 e il 1889, ad Alatri, nel Lazio meridionale, non lontano da Frosinone. Alatri è famosa non tanto per questo tempio ricostruito, di cui gli archeologi portarono alla luce solo le fondamenta, quanto per la poderosa cinta in opera poligonale che ancora oggi desta ammirazione ed è all’origine di miti moderni su chi l’ha realizzata. Sono gli stessi miti che hanno posto al centro di tante città con mura possenti i Ciclopi, i Pelasgi, gli alieni… insomma quanti non hanno il nome di un popolo reale, ma sono considerati in grado di realizzare opere titaniche. I Pelasgi in realtà sono un popolo del mito – spiega Nizzo -. Omero li definiva i divini Pelasgi. Hanno preceduto i Greci nella Grecia stessa, prima dell’arrivo di quelle stirpi elleniche che hanno poi sviluppato la loro identità nella chiave greca che oggi conosciamo. I Pelasgi sono quindi il popolo del mito che precede l’acquisizione di una consapevolezza da parte dei Greci.

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Un tratto delle mura poligonali di Micene, nel Peloponneso, in Grecia (foto graziano tavan)

È il popolo dell’epoca micenea, minoica, quella delle grandi città costruite con possenti mura poligonali: Micene, Tirinto, Gla, Orcomeno, la Grecia ne è circondata e costellata. I Greci nell’interrogarsi sul loro passato più antico, dove la memoria non arrivava, arrivavano con la fantasia. Per questo i Pelasgi sono diventati un popolo migrante e dove si riscontravano città con possenti mura poligonali, spesso nascevano leggende che amplificavano l’irradiazione dei Pelasgi. E questa è una costruzione della tradizione che è durata fino all’impero romano. Si è alimentata laddove non c’era un uso filologico delle fonti e la fantasia costituiva il punto di riferimento principale per colmare quello che la storia non era in grado di recuperare. E quindi attraverso gli occhi e l’osservazione di queste possenti mura di cui non si conservava più il ricordo di quando erano state costruite, anche città più recenti che con i Pelasgi nulla avevano a che fare, sono state considerate costruite dai Pelasgi.

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Un tratto delle mura poligonali / pelasgiche di Alatri (Fr) (foto graziano tavan)

“Questo è il caso di Alatri – puntualizza Nizzo -. Oggi si discute se quelle mura poderose siano state opera dei romani, come quelle di Norba, un’altra città del Lazio cosiddetto pelasgico. E questo deve essere avvenuto anche riguardo Spina e le sue origini. Anche se a Spina non c’è nessuna traccia di mura poligonali, né potrebbe esserci, perché le mura poligonali caratterizzano prevalentemente paesaggi con connotazione calcarea. Sono mura che si prestano a essere realizzate dove vi è una pietra un po’ più difficile da squadrare, che richiede anche una complessa maestria nel gestirla. Il primo che ci parla di Pelasgi a Spina è un contemporaneo di Erodoto, Ellanico di Lesbo, e lo fa indirettamente attraverso un passo di Dionigi di Alicarnasso. Dice: Durante il regno di Anas, i Pelasgi furono scacciati dal loro paese dai Greci e, lasciate le loro navi presso il fiume Spines nel golfo Ionio, presero Crotone, una città dell’interno, e partiti di lì occuparono quella che noi ora chiamiamo Tirrenia. Poche frasi che Dionigi di Alicarnasso pone al principio di una lunga trattazione nella quale si interroga sulle origini degli Etruschi, sulle origini di Roma. Il suo scopo è dimostrare a tutti i costi che Rona è una città greca, una polis ellenis e non una polis tyrrenis, cioè una città etrusca. Per fare questo deve dimostrare che gli Etruschi non hanno a che fare nulla con i Greci. Sono autoctoni, sono indigeni. E quindi non possono avere nulla a che fare con i Pelasgi. Nel farlo però cita anche le fonti che collegano i Tirreni, cioè gli Etruschi, ai Pelasgi o ad altre popolazioni della Grecia. E Ellanico è una delle prime fonti che Dionigi di Alicarnasso pone alla base di quella che poi diverrà nei secoli la questione dell’origine degli Etruschi. Perché i Pelasgi venivano collegati a Spina che non ha testimonianza di mura pelasgiche? Perché Spina nel momento in cui Ellanico scrive, siamo nella metà del V secolo a.C., era senza ombra di dubbio la città etrusca più importante. Le città dell’Etruria tirrenica avevano cominciato a decadere per effetto delle sconfitte avute a Cuma nel 524 a.C. sulla terraferma, e poi sul mare di fronte a Cuma nel 474 a.C. L’asse politico, economico e commerciale degli Etruschi si era cominciato a spostare verso quell’Adriatico, dove intorno al 530-520 a.C. gli Etruschi, insieme, in coalizione, avevano dato vita a questa città portuale alla foce del Po e in posizione strategica sull’Adriatico.

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Mappa della diaspora – secondo Ellanico – della diaspora dei Pelasgi dalla Grecia a Spina e di qui a Cortona e in Etruria (foto etru)

“Gli Ateniesi guardavano a Spina come l’elemento di raffronto e di dialogo più importante in ambito etrusco. Non potevano farne a meno – annota Nizzo -, non potevano fare a meno del grano e delle risorse della pianura Padana che Spina consentiva di far arrivare in Grecia lungo l’Adriatico, un mare che gli Etruschi controllavano e si contendevano con i Greci. Per questo quindi Ellanico e, probabilmente ancora prima di lui, Ecateo, già alla fine del VI sec. a.C., collocarono la diaspora del popolo pre-ellenico per eccellenza dei Pelasgi, a metà strada tra il mito e la storia, subito dopo il diluvio universale, quello greco di Deucalione, proprio a Spina da cui poi si sarebbero irradiati verso il centro della penisola in quella città che chiamano erroneamente Crotone, ma che dobbiamo identificare con la città etrusca di Cortona. Per poi spingersi oltre, verso l’Etruria propria, verso le città di Caere, di Tarquinia, e la stessa Roma lungo le valli del Tevere, dunque verso l’Etruria che noi conosciamo con questo nome. In questo modo, tramite questa irradiazione, continuava Ellanico, dai Pelasgi avrebbero avuto origine gli Etruschi, i Tirreni. Dionigi nel commentare Ellanico, però, approfondisce la questione, e dice che in realtà questi Pelasgi, non avendo nulla a che fare con i Tirreni, sarebbero stati conquistati dai Tirreni stessi, ma prima ancora si sarebbero uniti con gli aborigeni, dando vita a quel seme dei Latini che, unitosi poi con i Troiani, avrebbero fatto scaturire Roma, secondo quella versione resa celeberrima dall’Eneide. Tutto questo per affermare che Roma è città greca, aborigena, troiana, pelasgica e nulla ha a che fare con i Tirreni.

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Mappa della diaspora dei Tirreni – secondo Erodoto – da Smirne (Lidia, in Anatolia) a Spina (foto etru)

“Ma a complicare le cose sulle origini di Spina e su questi racconti-miti storici – riprende Nizzo – si aggiunge lo storico per eccellenza, Erodoto, con un brano che è celebre per il problema dell’origine orientale degli Etruschi. Un brano nel quale ci dice che gli Etruschi, i Tirreni, sarebbero profughi dalla Lidia e si sarebbero diretti in Occidente dopo una lunga carestia durata circa 18 anni, durante i quali avevano anche provato a ingannare il tempo digiunando un giorno e inventandosi giochi come la palla o i dadi, e gli altri giorni mangiando. Alla fine, stressati, Tirreno, il loro comandante, guida una metà della popolazione verso Occidente. Dice Erodoto: questi scesero a Smirne dove costruirono navi e, dopo averle caricate delle vettovaglie necessarie al viaggio, partirono in cerca di nuove terre finché, oltrepassati molti popoli, giunsero presso gli Umbri e là fondarono città e tuttora vi abitano, e dal loro condottiero si chiamano Tirreni. Erodoto localizza la diaspora dei Tirreni della Lidia nel paese degli Umbri, esattamente dove le fonti collocano Spina, in una terra che è ancora umbra prima di diventare tirrenica. Quindi Erodoto sta immaginando una diaspora non pelasgica, ma dei Tirreni della Lidia verso lo stesso orizzonte, verso quella Spina che nel V sec. a.C. era un punto di riferimento imprescindibile.

“Su questi due filoni mitici – conclude Nizzo – si fonda una riflessione miti-storica che segna anche l’evoluzione dei rapporti tra mondo greco e mondo tirrenico. Rapporti positivi laddove gli Etruschi sono assimilati ai Greci e grazie a questa assimilazione avevano potuto avere, Cerveteri e Spina, un thesauros a Delfi, e le altre fonti di matrice dorica in virtù delle quali gli Etruschi sono dei barbari, vanno sconfitti e vanno eliminati per consentire ai Greci di essere liberi in quel mar Tirreno e Adriatico verso il quale da tempo avevano mostrato i loro interessi, in particolare quelli dei Siracusani”.

Agrigento. Nella Valle dei Templi, dopo vent’anni di studi, alzato uno dei telamoni del Tempio di Zeus Olimpio, l’Olympieion, che aveva dimensioni colossali (quasi il doppio del Partenone). Sarà il nuovo simbolo del parco, gemello di quello assemblato dentro il museo Archeologico “Pietro Griffo”. Prossima tappa la ricostruzione a terra di una parte della trabeazione e della cornice del tempio

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Il telamone del Tempio di Zeus Olimpio, l’Olympeion, rialzato nel parco archeologico della Valle dei Templi ad Agrigento (foto regione siciliana)

Dopo venti anni di studi, ricerche e restauri il “gigante di pietra” dell’antica Akragas si è rialzato. Il “telamone”, una delle colossali statue antropomorfe che sostenevano l’architrave del tempio di Zeus Olimpio, l’Olympieion, simbolo della Valle dei templi, è stato riportato in posizione eretta. Giovedì 29 febbraio 2024 la cerimonia di presentazione del telamone ricostruito con il presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani; l’assessore regionale ai Beni culturali, Francesco Paolo Scarpinato; il direttore del parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi, Roberto Sciarratta; il sindaco di Agrigento, Francesco Micciché; il curatore del progetto di musealizzazione, Carmelo Bennardo, e l’esperto scientifico del progetto, Alessandro Carlino. La statua, alta quasi 8 metri, è sostenuta da una struttura in acciaio di 12 metri alla quale sono ancorate delle mensole dove sono collocati i singoli pezzi del monumento assemblato. L’intero progetto di musealizzazione dell’area dell’Olympieion, che finora è costato 500mila euro di fondi del Parco, include la prossima ricostruzione a terra di una parte della trabeazione e della cornice del tempio, in modo da rendere un’idea più concreta delle dimensioni colossali e dell’unicità del monumento e, nello stesso tempo, proteggere i reperti.

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Un telamone del tempio di Zeus Olimpio, disteso, nel parco della Valle dei Templi ad Agrigento (foto regione siciliana)

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Il telamone assemblato all’interno del museo Archeologico regionale “Pietro Griffo” di Agrigento (foto regione siciliana)

Nel 2004, il parco della Valle dei Templi ha avviato un’estesa campagna di studi e ricerche sull’Olympieion affidata all’Istituto archeologico germanico di Roma (Dai Rome) e guidata da Heinz-Jürgen Beste. Lo studio, oltre a nuove conoscenze sul monumento, ha portato alla precisa catalogazione degli elementi ancora in situ. Sono stati così individuati più di 90 frammenti che appartenevano ad almeno otto diversi telamoni e, di uno di essi, si conservavano circa i due terzi degli elementi originari che lo componevano. Questo nucleo omogeneo di blocchi è stato utilizzato per la ricostruzione del telamone, “fratello” di quello già ricostruito a fine Ottocento, ospitato al museo Archeologico “Pietro Griffo” dove è tuttora. Il curatore del progetto è l’architetto Carmelo Bennardo, attuale direttore del parco archeologico di Siracusa, mentre l’esperto scientifico è l’architetto Alessandro Carlino.

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Presentazione del telamone rialzato del tempio di Zeus Olimpio ad Agrigento: il sindaco di Agrigento Francesco Miccichè e il presidente della Regione Siciliana Renato Schifani (foto regione siciliana)

“Oggi – dice il presidente Renato Schifani – è un giorno importante per Agrigento e per tutta la Sicilia. Certifica la grande attenzione del governo regionale per la tutela e la valorizzazione dell’immenso patrimonio artistico e culturale che la nostra Isola custodisce. Il telamone, che oggi consegniamo alla collettività nella sua straordinaria imponenza, rappresenta uno dei migliori biglietti da visita di Agrigento Capitale della cultura. Questo gigante di pietra dell’antica Akragas, che dopo tanti anni di studi e ricerche possiamo osservare nella sua posizione naturale, è il cuore di un importante progetto di musealizzazione dell’intera area del tempio di Zeus”.

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Lo scoprimento del telamone rialzato nel parco della Valle dei Templi ad Agrigento (foto regione siciliana)

“Tuttavia – sottolinea il presidente della Regione Siciliana – la giornata di oggi non va intesa come punto di arrivo, ma deve servire da stimolo a tutti gli addetti ai lavori, per fare di più e meglio. Occorre migliorare la capacità attrattiva e la fruizione del nostro inestimabile patrimonio culturale. Nonostante i dati sul turismo del 2022 e del 2023 ci dicano che la Sicilia è una delle mete turistiche più gettonate, il rapporto tra patrimonio culturale e flussi turistici non è ancora, a mio avviso, soddisfacente. Si può fare di più e meglio. Dobbiamo migliorare i servizi di accoglienza, soprattutto per le persone con disabilità, dobbiamo aumentare la capacità ricettiva nei confronti dei turisti stranieri, occorre lavorare per rendere attrattivi i nostri gioielli 365 giorni all’anno, nell’ottica di processo di destagionalizzazione dei flussi turistici”.

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Roberto Sciarratta, Alessandro Carlino e Francesco Paolo Scarpinato davanti al telamone rialzato (foto regione siciliana)

“Il telamone – osserva l’assessore regionale ai Beni culturali, Scarpinato – diventerà uno dei punti di attrazione della Valle dei Templi, un nuovo ambasciatore internazionale di un sito archeologico unico al mondo che, proprio lo scorso novembre, ha superato il milione di visitatori in un anno. Grazie a un progetto di valorizzazione che include visite guidate, un progetto di realtà aumentata e anche una particolare illuminazione per favorire le visite notturne, potremo far conoscere questa imponente opera alla comunità internazionale”.

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Il modellino del Tempio di Zeus Olimpio conservato all’interno del museo Archeologico regionale “Pietro Griffo” di Agrigento (foto regione siciliana)

Il tempio di Zeus Olimpio sorgeva a Sud della città antica, sulla parte occidentale della collina dei templi. Venne eretto in segno di ringraziamento per la vittoria di Akràgas sui Cartaginesi dopo il 480 a.C. per celebrare il prestigio del tiranno Terone. Furono escogitate soluzioni architettoniche mai viste prima, come le altissime semicolonne scanalate, in ognuna delle quali “poteva stare comodamente un uomo” (scrive Diodoro Siculo). Di dimensioni colossali, basti pensare che misurava circa 112 x 56 metri (il Partenone ad Atene misura 69,54 x 30,87 m.), occupava 6340 mq e fu realizzato in blocchi di calcarenite locale. A pianta inusuale (pseudoperipteroeptastilo, 7 semicolonne doriche sui lati corti e 14 sui lati lunghi), con l’architrave, composto da tre filari di blocchi, sormontato da un fregio dorico, dal geison e dalla sima. Negli spazi tra le colonne (intercolumni), a circa 11 metri d’altezza, erano posizionate le statue monumentali (telamoni) nell’atto di reggere con le braccia un gravoso carico. Il tempio fu irrimediabilmente compromesso da un terremoto nel 1401, poi depredato nel XVIII secolo e i suoi blocchi utilizzati per costruire il molo di Porto Empedocle.

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Il tempio della Concordia nella Valle dei Templi ad Agrigento (foto regione siciliana)

Con il tempio della Concordia e i templi di Paestum, l’Olympieion affascinò viaggiatori ed eruditi tra ‘700 e ‘800, soprattutto Winckelmann, padre della moderna storia dell’arte, che ne sottolineò le dimensioni enormi paragonando le sue colonne a quelle di San Pietro. Con il contributo delle incisioni e degli acquerelli di Jean Houel e Philipp Hackert, nacque il mito del misterioso Olympieion. Gli archeologi si interrogavano su dimensioni e struttura, ma fu un giovane architetto britannico, Charles R. Cockerell, nel 1812, a individuare per primo l’esistenza dei telamoni – riconobbe una testa rinvenuta durante scavi borbonici, erroneamente attribuita al frontone – e combinarli in una prima figura. Sarà poi Pirro Marconi, intorno al 1920, a portare alla luce i diversi reperti che oggi fanno parte dell’attuale progetto di musealizzazione; e fu l’allora sovrintendente Pietro Griffo nel 1965, a collocare nel neonato Museo archeologico (a lui oggi intitolato) il primo telamone ricostruito. Negli anni successivi, il crescente interesse per i resti dei misteriosi colossi mai menzionati nella descrizione del tempio fatta da Diodoro, ha visto proseguire un acceso dibattito internazionale tra gli archeologi, che prosegue tuttora.

agrigento_valle-dei-templi_tempio-di-zeus_caccia-al-tesoro_3-marzo_locandina“Il lavoro che abbiamo condotto sul telamone e sull’intera area dell’Olympeion – dice Roberto Sciarratta, direttore del Parco della Valle dei templi – risponde perfettamente alla nostra mission di tutela e valorizzazione della Valle dei Templi, insieme all’identificazione, alla conservazione, agli studi, alla ricerca e alla promozione di ogni intervento che porti lo sviluppo di risorse del territorio. Sin dal 2019, da quando sono alla guida del Parco, ho fatto mio il progetto del precedente direttore Pietro Meli, ma ho anche risposto al grande fascino esercitato da questi colossi di pietra, dal tempo antico ad oggi”. Il Parco Valle dei templi, con il supporto di CoopCulture, ha già annunciato eventi formativi per le guide turistiche a cui parteciperanno studiosi e archeologi coinvolti nel progetto di musealizzazione. È stata integrata, inoltre, l’app gratuita per i visitatori della Valle con notizie sul telamone e sull’antico Olympieion e sono stati realizzati cartelli esplicativi in italiano e inglese lungo il percorso che conduce all’area del tempio. È nata anche una linea di merchandising dedicata al telamone, in vendita nei bookshop della Valle dei Templi. Sempre a cura di CoopCulture, nella prima domenica del mese (3 marzo 2024, alle 16) a ingresso gratuito sarà invece organizzata una visita laboratorio “All’ombra del telamone”, quasi una caccia al tesoro tra i ruderi del tempio, per bambini tra 6 e 12 anni che potranno così scoprire le caratteristiche, i segreti e le curiosità dell’antica e colossale struttura. Altre iniziative coinvolgeranno gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Agrigento: si sta lavorando a un puzzle in 3D che resterà nel Parco e all’organizzazione di giornate di “disegno en plein air”, sullo stile degli acquerellisti del Grand Tour, usando le diverse tecniche artistiche.

Valle dei Templi (Ag). Scoperto negli scavi nella Casa VII b un ricchissimo deposito votivo con gli oggetti abbandonati dagli abitanti dell’antica Akragas nel 406 a.C. quando fu distrutta dai Cartaginesi

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Statuette, protomi e busti femminili in terracotta, lucerne e piccoli vasi emergono dallo scavo di un deposito votivo nella Casa VII b della Valle dei Templi (foto regione siciliana)

Dal terreno ecco emergere statuette, protomi e busti femminili in terracotta, lucerne e piccoli vasi, frammenti di bronzo, mescolati a un gran numero di ossa: un ricchissimo deposito votivo con almeno una sessantina di reperti è stato scoperto durante gli scavi nella Valle dei Templi, nella Casa VII b, che costituisce parte del complesso abitativo a nord del tempio di Giunone. La campagna è interamente finanziata e sostenuta dalla Regione Siciliana attraverso il parco archeologico, diretto da Roberto Sciarratta, ed è guidata dall’archeologa Maria Concetta Parello. I ritrovamenti permettono di comprendere le dinamiche della distruzione di Akragas del 406 a.C. ad opera dei Cartaginesi, quando gli abitanti dovettero fuggire in esodo verso Gela lasciando, come scrive Diodoro Siculo, “tutto quello che aveva costituito la loro felicità”, quindi i beni, l’ordinario, gli dei dinanzi a cui pregare.

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Busto femminile in terracotta emerso dallo scavo di un deposito votivo nella Casa VII b della Valle dei Templi (foto regione siciliana)

Il deposito votivo, che sembrerebbe sistemato sopra i livelli di distruzione della casa, potrebbe raccontare il momento in cui gli oggetti che lo compongono furono recuperati dagli akragantini dopo la distruzione. Per definire con certezza la funzione dell’interessante deposito occorrerà proseguire la ricerca, ponendo massima attenzione alle connessioni stratigrafiche tra il deposito e i livelli di vita e di abbandono della casa. Intanto è già stato programmato il restauro dei numerosissimi reperti recuperati in previsione di una loro immediata valorizzazione.

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Statuette, protomi e busti femminili in terracotta, lucerne e piccoli vasi emergono dallo scavo di un deposito votivo nella Casa VII b della Valle dei Templi (foto regione siciliana)

“Lavoriamo senza sosta per restituire alla Sicilia momenti di storia che le appartengono”, afferma l’assessore ai Beni culturali e all’identità siciliana, Francesco Paolo Scarpinato. “I ritrovamenti della Valle, che in questo momento sta vivendo una stagione straordinaria con gli oltre 23.400 visitatori soltanto nell’ultimo weekend, giungono durante una campagna di scavi avviata nel 2019 e poi bloccata dal Covid e questo rende ancor più significativo il ritrovamento. Sembra che ogni sito in questo momento abbia qualcosa da dirci”.

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Testa femminile in terracotta emersa dallo scavo di un deposito votivo nella Casa VII b della Valle dei Templi (foto regione siciliana)

“È un intervento scientifico che abbiamo sostenuto negli ultimi anni”, afferma il direttore del Parco Valle dei Templi Roberto Sciarratta, “e che ha dato da subito dei risultati importanti. Nell’area di scavo, che ci regala una lettura dettagliata degli avvenimenti storici, era già stato individuato un ampio settore di abitato, ovvero case di età greca, la cui fase principale termina con la conquista e la distruzione della città da parte dei Cartaginesi”.

Svelato giallo archeologico. In Kurdistan iracheno la missione dell’università di Udine ha scoperto il luogo della battaglia di Gaugamela (330 a.C.) dove Alessandro Magno sconfisse il re persiano Dario III. Evento cruciale che fece nascere l’Ellenismo. Col progetto “Terre di Ninive” in sette anni mappati 1100 siti archeologici

Il prof. Daniele Morandi Bonacossi sul campo presso il sito neo-assiro di Chamarash, sulla sponda orientale del lago artificiale di Eski Mosul

È una delle battaglie che hanno segnato la storia: Gaugamela, 331 a.C. In una piana della Mesopotamia settentrionale, le truppe guidate da Alessandro Magno sconfiggono l’esercito persiano del re dei re Dario III, aprendo le porte dell’Oriente ai macedoni dalla Mezzaluna fertile all’altopiano iranico fino alla valle dell’Indo. Fu un evento cruciale: un mondo finiva e iniziava una nuova era, l’Ellenismo, fecondissimo momento di incontro culturale tra Oriente e Occidente. Ma a quasi 23 secoli dall’evento il luogo della battaglia è ancora in discussione, con gli storici e gli archeologi dubbiosi sull’interpretazione dei dati disponibili. Un giallo archeologico che ora è stato svelato dalle ricerche multidisciplinari della missione archeologica nel Kurdistan iracheno dell’università di Udine, guidata dal professore Daniele Morandi Bonacossi, dove è presente dal 2012 con il progetto “Land of Nineveh / Terre di Ninive”. La spedizione, sostenuta da ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale; Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo; ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca; Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia; Fondazione Friuli, ha portato gli archeologi a una scoperta straordinaria: l’identificazione del sito di Gaugamela con l’attuale Tell Gomel, nei pressi dell’odierna Mosul – l’antica Ninive – nel Kurdistan iracheno. L’annuncio a Roma in un’affollatissima conferenza stampa, cui sono intervenuti Andrea Zannini, direttore del dipartimento di Studi umanistici e del Patrimonio culturale dell’università di Udine; Ettore Janulardo , ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale; Ahmad A.H. Bamarni, ambasciatore della Repubblica dell’Iraq in Italia; Alessia Rosolen, assessore Istruzione, Ricerca, Università della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia; Daniele Morandi Bonacossi , direttore del “Land of Nineveh Archaeological Project” e ordinario di Archeologia del Vicino Oriente antico all’università di Udine.

Progetto “Terre di Ninive” in Kurdistan iracheno: mappatura dei 1100 siti individuati dalla missione dell’università di Udine

La spedizione archeologica dell’università di Udine, che coinvolge ogni anno circa 25 specialisti (archeologi, topografi, restauratori, archeobotanici, palinologi, esperti GIS,…) e diversi studenti, indaga la trasformazione del territorio dal Paleolitico al periodo islamico (da un milione di anni fa ad oggi) grazie ad una concessione di ricerca che copre un’area di 3mila kmq, una delle più ampie mai rilasciate in Iraq, che ha consentito al team di scoprire e mappare ben 1100 siti archeologici. Grazie alle riprese con droni, a ortofoto, allo studio della ceramica e agli scavi stratigrafici, è stata ricostruita la storia dell’insediamento e della demografia della regione, che risulta essere una delle zone della Mesopotamia con la più alta densità di siti archeologici (0,7 per chilometro quadrato). E il team del prof. Morandi ha ricevuto l’apprezzamento dell’ambasciatore della Repubblica dell’Iraq Ahmed Bamarni che ha commentato: “La squadra del prof. Daniele Morandi Bonacossi sta svolgendo un considerevole lavoro nella Regione del Kurdistan, e apprezziamo il loro impegno nel recupero del patrimonio culturale iracheno, come la recente identificazione del sito originale della Battaglia di Gaugamela, che vide la vittoria di Alessandro Magno sull’esercito persiano di Dario, evento che rappresenta uno dei momenti storici più significativi della storia regionale e mondiale”. E allora vediamo meglio questa eccezionale scoperta archeologica.

Il grande mosaico pavimentale con Alessandro Magno dalla casa del Fauno di Pompei oggi al Mann

Cosa successe nella piana di Gaugamela nel 331 a.C.? Il re achemenide Dario III era già stato sconfitto da Alessandro Magno due anni prima, nel 333 a.C., a Isso, città costiera nell’Anatolia meridionale, al confine tra la Cilicia e la Siria, con la cattura della moglie, della madre e delle due figlie del re persiano che si era ritirato a Babilonia, per riorganizzare l’esercito. Di quella battaglia ci è rimasta una rappresentazione memorabile nel mosaico scoperto a Pompei nella Casa del Fauno, oggi conservato al museo Archeologico nazionale di Napoli. La vittoria di Isso aveva dato ad Alessandro il controllo dell’Asia Minore meridionale, e da lì aveva occupato la costa mediterranea dalla Fenicia fino all’Egitto, dove si era fatto consacrare faraone. E arriviamo all’autunno del 331 a.C. Le fonti disponibili sulla battaglia di Gaugamela non sono molte (Arriano con l’Anabasi di Alessandro; Quinto Curzio Rufo con Storie di Alessandro Magno; Diodoro Siculo con Biblioteca storica; Plutarco con Vita di Alessandro), e tutte di storici vissuti molti secoli dopo la spedizione di Alessandro in Asia. Non è quindi facile fare una ricostruzione fedele degli eventi, del numero di soldati e delle perdite della battaglia, ma almeno sul nome del luogo della battaglia sembrano concordare tutti: Gaugamela, nella Mesopotamia settentrionale.

Il percorso delle truppe di Alessandro Magno dalla Siria a Gaugamela, in Mesopotamia

Alessandro guada l’Eufrate senza trovare resistenza ed entra in Mesopotamia. Ma non punta direttamente su Babilonia. Sceglie la strada verso Nord che, una volta superate le colline, portava comunque alla città dove si era acquartierato Dario III. Ciò gli avrebbe reso più facile procurarsi foraggio e provviste, e non avrebbe fatto soffrire alle truppe il caldo estremo del percorso diretto. Alessandro passa anche il Tigri e si verifica un’eclisse lunare, ritenuto un presagio favorevole. E così decide di attaccare i persiani con la sua cavalleria. Alla vista del re macedone la cavalleria persiana fugge. I prigionieri riferiscono che Dario III non è lontano: è accampato a Gaugamela. Lo scontro è epocale. Alessandro riesce ad annullare il divario di forze in campo e a imporsi. Dario III riesce a fuggire ad Arbela (l’odierna Arbil), a un centinaio di chilometri a Est, convinto di poter ancora organizzare una resistenza che ormai appariva disperata anche agli occhi dei suoi più fedeli generali.

Progetto “Terre di Ninive”: la piana di Gaugamela (Kurdistan iracheno) ripresa con il drone

Lo scavo archeologico a Tell Gomel diretto da Daniele Morandi Bonacossi dell’università di Udine

La scoperta del sito di Gaugamela. Le fonti – come si diceva – non concordano sul luogo della battaglia. Ma, grazie a un mix di storia antica e nuove tecnologie, filologia e GIS, remote sensing e lavoro sul campo, il team diretto dal prof. Morandi Bonacossi ha raccolto evidenze scientifiche sufficienti per individuare il luogo in cui il condottiero macedone trionfa sull’armata persiana. “La prova regina è lo studio filologico del toponimo del sito di Tell Gomel, che stiamo scavando”, spiega Morandi Bonacossi. È un percorso a ritroso che ci porta dai giorni nostri all’impero assiro. “Proprio sull’acquedotto di Jeruan, monumentale sistema d’irrigazione costruito dal re assiro Sennacherib nel 700 a.C. per portare l’acqua a Ninive e irrigare la pianura circostante”, continua il direttore della missione friulana, “troviamo in un’iscrizione cuneiforme celebrativa dell’epoca del re assiro Sennacherib (704-681 a.C.) che ricorda il sito di epoca assira Gammagara/Gamgamara. Da questo toponimo assiro deriva la dizione greca: da Gamgamara in greco la m diventa u e la r una l che ci dà Gaugamela. Il toponimo si mantiene nei secoli. Così lo troviamo trascritto in epoca medievale (IX sec. d.C.) con una storpiatura dal greco che dà Gogemal, toponimo che a sua volta subisce una corruzione in Gomel che è il nome del sito che stiamo scavando”.

Il rilievo del cavaliere rifacimento di età ellenistica di un precedente monumento assiro del complesso di Khinnis (Kurdistan iracheno) per celebrare la vittoria nella vicina Gaugamela

Veduta aerea di Tell Gomel e della piana di Gaugamela nel Kurdistan iracheno

E poi ci sono i riscontri archeologici. “A ulteriore conferma, le nostre ricerche archeologiche hanno dimostrato che il sito di Gomel, dove si stanno concentrando le nostre ricerche, era solo un piccolissimo villaggio rurale poco prima dell’arrivo di Alessandro in Oriente, ma fu rifondato proprio alla fine del IV secolo a.C., quindi contemporaneamente alla battaglia, e da quel momento si sviluppò come un sito esteso e importante”. Ma non è tutto. Nelle vallate montuose circostanti, sono stati trovati alcuni monumenti rupestri con rilievi che potrebbero essere riconducibili alla presenza di Alessandro Magno. Due di questi potrebbero rappresentare proprio il condottiero a cavallo ed essere considerati monumenti celebrativi della vittoria di Gaugamela. Un rilievo si trova in una valletta della montagna che domina il sito di Gomel, nel complesso rupestre di Gali Zerdak, rilievo conosciuto, ma fortemente compromesso dal tempo e da recenti asportazioni vandaliche: si riesce a vedere una Nike alata che porge una corona a un cavaliere – che potrebbe essere Alessandro – proprio per la vicinanza all’iconografia che troviamo in pitture ellenistiche e tombe macedoni come a Kasta-Anfipoli. La rappresentazione di Gali Zerdak suggerisce agli archeologi friulani che questa potrebbe essere la montagna che, secondo le fonti, dopo la battaglia fu ribattezzata monte Nikatorion, “il monte della vittoria”. L’altro rilievo è ubicato a 20 chilometri di distanza dalla piana individuata come il campo della battaglia di Gaugamela: è il sito di Khinnis, noto dalla metà dell’Ottocento e leggibile ancora all’inizio del ‘900, danneggiato ancor prima dell’arrivo dell’Isis nella regione, più di recente studiato da Julian Reade, dove i re assiri avevano scolpito i loro volti. “Ma in periodo ellenistico”, riprende Morandi Bonacossi, “si interviene su questo rilievo celebrativo, un modo per dare continuità alla simbologia del monumento onorando il generale macedone: si cancella l’antica iscrizione in cuneiforme per aggiungere un cavaliere con la sarissa, la tipica picca macedone, molto simile a quella che vediamo impugnare ad Alessandro nel mosaico di Pompei”. C’è poi un terzo monumento, trovato nel raggio di pochi chilometri da Gomel: il rilievo di Nirok. “L’abbiamo scoperto nell’ambito del progetto Terre di Ninive, e riteniamo sia importantissimo per l’iconografia che rappresenta tre stelle o tre soli. È molto mal conservato, in gran parte distrutto in anni recenti, ma si riconosce il sole argeade o sole di Verghina, simbolo della dinastia macedone”.

Roma. Per i “Giovedì del Parco archeologico del Colosseo” incontro con Adriana Fresina, soprintendente del Mare, su “Una battaglia ritrovata nelle acque delle Egadi, in ricordo di Sebastiano Tusa”, scomparso nel recente disastro aereo in Etiopia

Il recupero del dodicesimo rostro dalle acque antistante Levanzo appartenuto a una nave coinvolta nella battaglia delle Egadi del 241 a.C.

L’archeologo Sebastiano Tusa

“Già negli anni Settanta del secolo scorso nacque in me l’interesse per la battaglia delle Egadi, l’evento che il 10 marzo del 241 a.C. pose fine alla prima guerra punica e cambiò la storia del Mediterraneo con la vittoria dei Romani sui Cartaginesi”. Inizia così l’articolo che Sebastiano Tusa, archeologo subacqueo, all’epoca soprintendente del Mare, scrisse per la rivista Archeologia Viva (n. 177, maggio-giugno 2016: “Battaglia delle Egadi. La storia ritrovata”). “Il racconto di vecchie scoperte fatte dal più leggendario dei pionieri delle immersioni in Sicilia, Cecè Paladino, nelle acque antistanti Levanzo attirò la mia attenzione. Durante un convegno a Favignana, Paladino raccontò di centinaia di ceppi d’ancora con le relative contromarre in piombo recuperati appunto lungo la costa orientale della piccola isola. Il collegamento con la battaglia delle Egadi fu inevitabile anche se era opinione diffusa tra gli studiosi di storia romana che lo scontro navale si fosse svolto più a sud, presso la Cala Rossa di Favignana, la principale isola dell’arcipelago. Rilessi le pagine dello storico greco Polibio (II sec. a.C.), che offre la migliore descrizione della battaglia e degli antefatti, ma anche Diodoro Siculo (I sec. a.C.), Eutropio (IV sec. d.C.) e il cronista bizantino Giovanni Zonara (XII sec.)”. E continua l’articolo di Tusa: “Studiammo con l’esperto Piero Ricordi il regime dei venti dominanti di quell’area. Con l’aiuto di Antonino Filippi, ottimo conoscitore del territorio, rivedemmo la topografia archeologica del monte San Giuliano sulla cui sommità sorge la cittadina medievale di Erice, antica sede di una città elima con un famoso tempio di Venere. Era lì che Amilcare, comandante dell’esercito cartaginese, assediato dai Romani, attendeva con ansia i rifornimenti. Mi apparve chiara, in seguito a tali studi, la logicità della presenza della flotta romana in agguato presso Levanzo, poiché mi resi conto che la rotta seguita dall’ammiraglio cartaginese Annone doveva essere a nord di Levanzo, sia per giungere più direttamente alla baia di Bonagia, piccola insenatura sulla costa siciliana a nord di Trapani, unico approdo da dove sarebbe stato possibile ascendere al monte e congiungersi con i compatrioti, sia per eludere il blocco navale romano che controllava la costa siciliana tra Lilibeo e Drepanum, l’antica Trapani”.

Lo studio del regime dei venti nella battaglia delle Egadi (vedi https://libreriainternazionaleilmare.blogspot.it/2015/11/egadi-241-ac-il-vento-cambio-il-corso.html)

Adriana Fresina, soprintendente del Mare

A poche settimane dalla tragica scomparsa di Sebastiano Tusa nel disastro aereo in Etiopia, per il ciclo “I giovedì del PArCo”, il Parco archeologico del Colosseo diretto da Alfonsina Russo giovedì 4 aprile 2019, alle 16.30, alla Curia Iulia, promuove la conferenza di Adriana Fresina, soprintendente del Mare, su “Una battaglia ritrovata nelle acque delle Egadi, in ricordo di Sebastiano Tusa”. Le ricerche archeologiche strumentali in alto fondale, iniziate nel 2004, hanno consentito fino a oggi l’individuazione e il recupero di 19 rostri, 22 elmi del tipo montefortino, oltre a un grande numero di anfore e dotazioni di bordo. “La ricerca nei fondali delle Egadi – aveva dichiarato nel 2018 Sebastiano Tusa, come assessore dei Beni culturali e dell’Identità siciliana – continua con grande successo, dimostrando ancora una volta la grande ricchezza dei fondali egadini e, in particolare, presso il luogo dove avvenne la Battaglia delle Egadi nel 241 a.C.”. Le ultime scoperte del 2018 (4 rostri) si aggiungono alle tante effettuate nel passato in questo tratto di mare tra Levanzo e Marettimo e che hanno permesso di localizzare esattamente il sito in cui si combatté una delle più grandi battaglie navali dell’antichità per numero di partecipanti, circa 200 mila, tra i Romani, guidati da Lutazio Catulo, e i Cartaginesi, capeggiati da Annone, e che, oltre a chiudere a favore dei primi la lunga e lacerante Prima Guerra Punica, sancì la supremazia di Roma su Cartagine.

Alla scoperta dei Brettii, antico popolo italico che popolò la Calabria dal IV sec. a.C.: incontro al museo della nazionale Archeologico della Sibaritide

La mappa degli insediamenti dei Brettii in Calabria (museo dei Brettii e degli Enotri, Cosenza)

A parlare dei Brettii, un popolo italico noto anche come Bruttii o Bruzi, sono alcuni storici antichi come Strabone, Diodoro Siculo e Giustino. Ricordano che i Brettii comparvero in Calabria intorno alla seconda metà del IV sec. a.C. espandendosi nella terra degli Enotri ai danni delle colonie greche della costa. Pare che essi fossero dei servi-pastori dei Lucani da cui si separarono in seguito ad una ribellione e, dedicatisi dapprima al brigantaggio e alle scorrerie, successivamente si riunirono in una Confederazione che elesse come capitale (metròpolis) Cosenza (circa 356 a.C.). Nonostante vari tentativi di resistenza all’espansione romana in Italia meridionale, che li videro anche alleati dei Cartaginesi durante la seconda guerra punica (219-202 a.C.), non ebbero la capacità di opporsi alla conquista definitiva del Bruzio (fine del III sec. a.C.).

Una sala del museo nazionale Archeologico della Sibaritide

Al tema “I Brettii: storia, cultura, evidenze archeologiche” è dedicato l’incontro di sabato 1° aprile 2017, alle 17, a Cassano allo Ionio (Cosenza), nella sala convegni del museo nazionale Archeologico della Sibaritide, diretto da Adele Bonofiglio. All’iniziativa, indetta dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni culturali (Sipbc onlus) sezione Calabria “Luigi De Luca” con il patrocinio della Deputazione di Storia patria per la Calabria e la collaborazione del museo nazionale Archeologico della Sibaritide, parteciperanno: Adele Bonofiglio, direttore museo nazionale Archeologico della Sibaritide, che relazionerà su “Note sul percorso espositivo del Museo Archeologico di Sibari”; Carmine Gesualdo, comandante Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale – Cosenza; Franco Liguori, presidente Sipbc onlus Calabria; Gian Piero Givigliano, docente università della Calabria, “Identità e vicende storiche dei Brettii attraverso le fonti letterarie”; Armando Taliano Grasso, docente università della Calabria, “Città fortificate brettie tra Thuri e Kroton”; Maria Cerzoso, direttore museo dei Brettii e degli Enotri, “Cosenza, metropoli dei Brettii”.

Così i Veneti Antichi respinsero l’incursione del principe spartano Cleonimo: a Dolo la ricostruzione-spettacolo della battaglia e la presentazione della trilogia di Federico Moro

A Dolo la ricostruzione-spettacolo gli “Antichi Veneti contro gli Spartani del Principe Cleonimo”

A Dolo la ricostruzione-spettacolo gli “Antichi Veneti contro gli Spartani del Principe Cleonimo”

Il manifesto della manifestazione "Cleonimo di Sparta contro i Veneti"

Il manifesto della manifestazione “Cleonimo di Sparta contro i Veneti”

Sabato 6 settembre 2014, alle 20.45 a Dolo (Ve), in piazza Cantiere, tornano gli “Antichi Veneti contro gli Spartani del Principe Cleonimo”: la ricostruzione-spettacolo della battaglia combattuta in terra veneta nel 301-302 a.C. sarà preceduta alle 19.30 dall’intervento di Federico Moro con il “racconto dei fatti”, sulla base del volume “Il coraggio degli Antichi Veneti” (Helvetia Editrice), che ha ispirato l’evento. Ingresso libero. Lungo via Cantiere, sarà ricostruito un villaggio dei Veneti antichi con banchi di ogni tipo (apertura alle 10; didattica e giochi per bambini alle 10.30 e 15.30).

Una fase della battaglia tra veneti e spartani nella ricostruzione-spettacolo

Una fase della battaglia tra veneti e spartani nella ricostruzione-spettacolo

Della battaglia le fonti antiche non ci danno certezze; ne parlano Tito Livio e Diodoro Siculo, e non sono neppure tra loro concordanti. Lo ha ben spiegato lo storico Lorenzo Braccesi qualche anno fa – L’ avventura di Cleonimo (a Venezia prima di Venezia), Padova 1990 – riportando alla ribalta la remota vicenda adriatica dello spartano Cleonimo, esautorato dalla successione al trono e venuto, nell’anno 302/301 a.C., a guerreggiare con i suoi prodi in terra italica (veneta in particolare). Braccesi racconta – seguendo soprattutto Livio – la sfortunata campagna italiota (probabilmente la seconda) del principe lacóne che, nella memoria dell’antica storiografia, sarebbe stato “il primo navigante che avvisti le acque di Venezia al di là di un esile cordone sabbioso delimitante la laguna (l’arenile del Lido?), il primo condottiero, inoltre, che trovi sicuro ormeggio per la flotta nel porto fluviale del Medóakos (l’approdo di Malamocco?), il primo aggressore straniero, infine, che di qui risalga il Brenta per predare in territorio patavino”.  Ma lo scontro in terra padana – per altro non attestato da ulteriori fonti né confermato da evidenze archeologiche – assume presso Livio (ma già forse nella sua fonte – magari un antico cantare popolare) i toni di un epico conflitto, culminante con la misera, ingloriosa fuga degli invasori sulle poche navi superstiti (appena un quinto della poderosa flotta) e la consacrazione delle armi sottratte al nemico nel tempio padovano di Reitia (in aede Iunonis veteri fixa). Un’operazione propagandistica, quella di Tito Livio, che ben s’inserisce nel contesto cultural-politico maturato sotto Augusto, allo scopo di accreditare una derivazione di Padova dalla Troia di Priamo sulla scorta del mitico sbarco, alle foci del Meduaco-Brenta, di Antenore fuggiasco assieme agli Enetoi di Paflagonia. Si crea così un parallelismo tra Padova e Roma: entrambe vantano nella tradizione una comune origine troiana, e se i romani, discendenti di Enea, hanno vendicato la distruzione di Troia sottomettendo le città dei re achei, i patavini, discendenti di Antenore, hanno lavato nel sangue l’antica offesa sconfiggendo il principe spartano Cleonimo già prima di essere romanizzati.

Lo studioso Federico Moro intervalla ricerca e scrittura letteraria, saggistica e teatrale

Lo studioso Federico Moro intervalla ricerca e scrittura letteraria, saggistica e teatrale

"Il coraggio degli Antichi Veneti" di Federico Moro

“Il coraggio degli Antichi Veneti” di Federico Moro

È in questo contesto storico (in cui nulla dimostra che la battaglia abbia davvero avuto luogo) che si muove la ricerca di Federico Moro, nato a Padova, ma che vive e lavora a Venezia. Di formazione classica e storica, Moro intervalla ricerca e scrittura letteraria, saggistica e teatrale. A Dolo presenta “Il coraggio degli Antichi Veneti: L’avventura. L’epopea. L’eredità perduta” (Collana Rosso Veneziano) che raccoglie la trilogia completa dei thriller storici ambientati nel Veneto del III sec. a.C., costruiti sulla misteriosa figura di Nerka Trostiaia, la Gran Sacerdotessa del Santuario di Pora-Reitia di Ateste, diventata punto di riferimento per i Veneti nella loro lotta contro i Celti grazie alle estasi mistiche che la rendono la “voce della Dea”. In questo romanzo Federico Moro sfrutta a pieno tutte le sue potenti armi di scrittore: la verosimiglianza nella ricostruzione storica e la velocità adrenalinica nei combattimenti. In “L’avventura” le nazioni dei Celti sono riunite con l’obbiettivo di distruggere l’Armata e le città dei Veneti. La flotta dello spartano Cleonimo risale il Medoacus verso il Santuario di Lova seminando dolore e devastazione, spetterà a Nerka Trostiaia assumere il comando della pericolosa missione per salvare il popolo veneto. In “L’epopea” la morte corre lungo il fiume Plavis, falciando guerrieri veneti e scompaginando l’avanzata delle centurie romane. Toccherà al giovane Lucio Decimo Mure svelare i retroscena dei delitti che si diramano dal Santuario di Trumusiate a Lagole. In “L’eredità perduta” siamo nell’anno 452 d.C.: gli Unni di Attila sono sotto le mura di Altino ed esigono la consegna del misterioso Tesoro di Reitia. Solo “l’uomo senza paura”, Orso Galbaio, può salvare la città dall’attacco risolvendo l’arcano che sta dietro alla scritta “In Altino occultus est”.

La rievocazione-spettacolo della battaglia contro Cleonimo all'interno del villaggio dei Veneti Antichi

La rievocazione-spettacolo della battaglia contro Cleonimo all’interno del villaggio dei Veneti Antichi

All’incontro con Federico Moro segue la rievocazione storica – spettacolo “Gli Antichi Veneti contro gli Spartani del Principe Cleonimo?” che – come detto – vuole ricordare i fatti accaduti nel 302 a.C., quando Cleonimo, spintosi con le sue navi nell’alto Adriatico, entrò nella laguna di Venezia e risalì il Brenta/Meduacus per predare in territorio patavino. Cleonimo però venne ricacciato in mare dai Patavini, che sconfissero le sue truppe e gli distrussero i quattro quinti della flotta. In scena in piazza Cantiere un centinaio di figuranti rappresentanti l’esercito venetico e i soldati spartani con combattimenti rituali preceduti dalla presentazione del procuratore. E nel villaggio dei Veneti Antichi sarà possibile immergersi nel clima culturale, economico, artistico dell’epoca, grazie alle accurate ricostruzioni storiche, che spaziano dall’abbigliamento, all’alimentazione, dalle arti ai mestieri, dalla musica alle armature.