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Trento. Al Castello del Buonconsiglio presentazione al pubblico della scoperta della necropoli monumentale di epoca preromana messa in luce dagli archeologi in via Santa Croce, nel centro storico. Ecco il programma

L’assessore provinciale alla Cultura Francesca Gerosa in visita allo scavo di via S. Croce a Trento (foto provincia tn)

La scoperta della necropoli monumentale di epoca preromana messa in luce dagli archeologi in via Santa Croce, nel centro storico di Trento, è uno dei ritrovamenti più significativi effettuati negli ultimi decenni nel nostro territorio. L’eccezionale sito sarà presentato al pubblico mercoledì 27 agosto 2025, alle 18, al Castello del Buonconsiglio, in sala Gerola. All’incontro interverrà l’assessore alla cultura della Provincia autonoma di Trento Francesca Gerosa.

Ad illustrare le particolarità e il valore della scoperta saranno il soprintendente Franco Marzatico, dirigente generale dell’UMSt soprintendenza per i Beni e le Attività culturali della Provincia autonoma di Trento, con un intervento dal titolo “Oltre la vita, nel cuore delle Alpi”, ed Elisabetta Mottes, sostituta direttrice dell’Ufficio beni archeologici provinciale con un intervento dal titolo “Trento via Santa Croce. La necropoli monumentale della prima età del Ferro”.

Trento. Al Castello del Buonconsiglio il convegno di studi “LONGOBARDI NEL CASSETTO. Nuovi dati dalle ricerche sulle collezioni storiche museali”: due giorni di confronto in occasione della mostra “Con Spada e Croce. Longobardi a Civezzano”

trento_buonconsiglio_convegno-longobardi-nel-cassetto_locandinaIn occasione della mostra “Con Spada e Croce. Longobardi a Civezzano”, in programma fino al 12 gennaio 2025 al Castello del Buonconsiglio di Trento (vedi Trento. Al Castello del Buonconsiglio la mostra “Con Spada e Croce. Longobardi a Civezzano” racconta la storia dei Longobardi in Trentino attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della “principessa” – conservata a Trento – e del “principe” di Civezzano – conservata a Innsbruck – esposti assieme per la prima volta. Gli interventi dei curatori Annamaria Azzolini, Veronica Barbacovi e Wolfgang Sölder per archeologiavocidalpassato.com | archeologiavocidalpassato), il museo ha condotto una revisione dei materiali di cultura longobarda rinvenuti in Trentino, custoditi nei propri depositi e in quelli del Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, partner dell’iniziativa espositiva. Un excursus nelle collezioni storiche che ha portato a nuove conoscenze grazie anche a innovative metodologie di indagine, condotte sui reperti. Appuntamento venerdì 22 e sabato 23 novembre 2024 al Castello del Buonconsiglio di Trento col convegno di studi “LONGOBARDI NEL CASSETTO. Nuovi dati dalle ricerche sulle collezioni storiche museali”. Partendo dunque da questo recente “scavo nel museo”, il convegno vuole mettere a fattor comune le esperienze maturate da altre importanti realtà museali italiane, condividendo idee, progetti e criticità incontrate nel corso degli anni, per promuovere in maniera forte ed incisiva anche attraverso forme di collaborazione la conoscenza e la valorizzazione di collezioni che ancora rimangono chiuse “nel cassetto”.

PROGRAMMA VENERDÌ 22 NOVEMBRE 2024. Alle 9.30, in sala G. Gerola, registrazione partecipanti. Coffee Break. Alle 10.30, saluti istituzionali; 11.30, presentazione delle giornate di studi a cura di Annamaria Azzolini, responsabile scientifico; 11.45, inizio lavori, modera Katia Fortarel, Comune di Civezzano, Trento; 11.45, Veronica Barbacovi, TIROLER LANDESMUSEUM FERDINANDEUM, INNSBRUCK, “Rileggendo una scoperta: la tomba del Principe di Civezzano alla luce delle nuove ricerche”; 12.15, Annamaria Azzolini, MUSEO CASTELLO DEL BUONCONSIGLIO DI TRENTO, “Esplorando le collezioni del Museo Castello del Buonconsiglio: il caso dei Longobardi di Civezzano”; 12.45, Elisa Possenti, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI, TRENTO, “La presenza longobarda in Trentino alla luce di recenti scavi nei musei e scavi sul campo”; pausa pranzo. Alle 14.30, inizio lavori, modera Veronica Barbacovi, Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum, Innsbruck; 14.30, Francesca Morandini, Lucia Durjava, FONDAZIONE BRESCIA MUSEI, BRESCIA, “Longobardi nei musei di Brescia tra storia e innovazione”; 15.10, Stefano Papetti, MUSEO DELL’ALTO MEDIOEVO, ASCOLI PICENO, “Il Museo dell’Alto Medioevo di Ascoli Piceno: il ritorno dei reperti Longobardi”; 15.40, Angela Borzacconi, MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, CIVIDALE DEL FRIULI, “Il Ducato longobardo del Friuli. Prospettive di ricerca e di valorizzazione”; discussione; 17, visita alla mostra “Con Spada e Croce. Longobardi a Civezzano” per i relatori.

PROGRAMMA SABATO 23 NOVEMBRE 2024. Alle 9, inizio lavori, modera Annamaria Azzolini, MUSEO CASTELLO DEL BUONCONSIGLIO, TRENTO; 9, Rosanina Invernizzi, MUSEI CIVICI, PAVIA, “I materiali longobardi dei Musei Civici di Pavia”; 9.30, Armando Bernardelli, MUSEO NATURALISTICO ARCHEOLOGICO, VICENZA, “Longobardi e dintorni. Materiali di epoca longobarda al Museo Naturalistico Archeologico di Vicenza”; 10, Anna Provenzali, MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO, MILANO, “La sezione altomedievale del Civico Museo Archeologico di Milano: l’allestimento attuale e le prospettive future”; coffe break; 11, Ilaria Negretti, MUSEI CIVICI, BOLOGNA, “Dal Museo Civico al Museo Medievale: la collezioni di metalli e oreficerie altomedievali”; 11.30, Elisa Panero, Patrizia Petitti, MUSEI REALI, TORINO, “Dalla “necropoli barbarica scoperta a Testona” alle tombe longobarde di Borgo d’Ale: appunti per il riallestimento del Settore del Territorio piemontese del Museo di Antichità — Musei Reali di Torino”; 12.10, conclusioni dei lavori; pausa pranzo; 14.30, visita alla mostra “Con Spada e Croce. Longobardi a Civezzano” per tutti.

Trento. Al Castello del Buonconsiglio la mostra “Con Spada e Croce. Longobardi a Civezzano” racconta la storia dei Longobardi in Trentino attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della “principessa” – conservata a Trento – e del “principe” di Civezzano – conservata a Innsbruck – esposti assieme per la prima volta. Gli interventi dei curatori Annamaria Azzolini, Veronica Barbacovi e Wolfgang Sölder per archeologiavocidalpassato.com

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Mostra “Con spada e croce. Longobardi a Civezzano” al Castello del Buonconsiglio di Trento: da sinistra, Veronica Barbacovi, Annamaria Azzolini, Laura Dal Prà e Wolfgang Sölder (foto graziano tavan)

“Nell’età di mezzo Civezzano grossa terra ad oriente di Trento era tenuta dai Longobardi”: scriveva così nel 1909 Luigi de Campi, studioso e cultore dell’archeologia trentina, originario di Cles (Val di Non, Tn), nonché corrispondente e poi conservatore della Imperial Regia Commissione Centrale per la conservazione dei monumenti di Vienna. La citazione campeggia nella sala che introduce alla mostra “Con Spada e Croce. Longobardi a Civezzano”, curata da Annamaria Azzolini, Veronica Barbacovi e Wolfgang Sölder, dal 23 marzo al 20 ottobre 2024 al Castello del Buonconsiglio di Trento, che racconta   la storia dei Longobardi in Trentino attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della “principessa” – conservata a Trento – e del “principe” di Civezzano – conservata a Innsbruck – esposti assieme per la prima volta grazie alla collaborazione tra il Castello del Buonconsiglio e il Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, l’importante istituzione enipontana che custodisce molti manufatti di provenienza trentina e con la quale si è mantenuto e consolidato negli anni un rapporto di grande collaborazione.

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Coppia di orecchini a cestello emisferico traforato, in oro (ultimo terzo VI – prima metà VII secolo), proveniente da Vervò in Val di Non (Tn) e conservato al museo Ferdinandeum di Innsbruck (foto buonconsiglio)

Luigi de Campi fa riferimento ai rinvenimenti avvenuti nell’area di Civezzano, ai margini della piana di Pergine, all’imbocco della Valsugana, attraversata dal ramo Altinate della Via Claudia Augusta, un’importante via di comunicazione che collegava l’Adriatico (Altino) con il centro Europa (Augusta Vindelicum, oggi Augsburg in Baviera). Nel 1885 in località al Foss a Civezzano era stata infatti scoperta una necropoli seguita nel 1902 da quella di sepolture nel fondo Alessandrini, che avevano attirato l’interesse degli studiosi soprattutto per i corredi “principeschi”, che ne individuano un carattere ‘barbarico’, che solo nel 1888 sarà definito longobardo da Jean de Baye. Ma l’intera area trentina era stata interessata da altri ritrovamenti, per lo più occasionali, di reperti archeologici, non solo di epoca romana, ma anche “barbarici”, di cui una parte significativa di appartenenza longobarda.

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Allestimento della mostra “Con spada e croce. Longobardi a Civezzano” al Buonconsiglio: corredo funerario da Lavis con croce in lamina d’oro, fibbia con placca e puntali di cintura in bronzo, borchia di fodero, scramasax, coltello, umbone e cuspide di lancia, conservato al museo del Buonconsiglio (foto graziano tavan)

Corredi funerari, che comprendono soprattutto armamenti ed elementi di ornamento personale – tra cui spiccano per pregio e ricchezza quelli scoperti nell’area di Civezzano – approdano così ad alcune delle più importanti istituzioni museali dell’Impero Austro-ungarico, a cui all’epoca il Trentino apparteneva. È così che una parte di questo patrimonio è tuttora custodita sia al Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, sia al Castello del Buonconsiglio. Ciò che venne infatti ritrovato a Civezzano nell’Ottocento, quando il Trentino era parte dell’Impero Asburgico, è conservato al Ferdinandeum di Innsbruck; ciò che venne invece rinvenuto all’inizio del secolo successivo e acquistato dal museo imperiale di Vienna, è giunto al Castello del Buonconsiglio, dopo l’istituzione del Museo trentino. La mostra, grazie alla collaborazione tra i due enti museali, costituisce un’occasione straordinaria per poter apprezzare molti di questi reperti, finalmente riuniti – tra cui i corredi della “Tomba del principe” di Civezzano e quella della sepoltura femminile di Castel Telvana – e offre un’occasione per riesaminare i dati storici e i materiali inediti custoditi nei depositi di entrambi i musei alla luce delle conoscenze incrementate grazie agli scavi condotti dalla soprintendenza per i beni e le attività culturali di Trento, ma anche di approfondire tematiche emerse già nell’Ottocento con la nascita dell’archeologia “barbarica”, fornendo anche nuovi contributi per ricostruire la storia della presenza longobarda in Trentino.

trento_buonconsiglio_centenario_logoLa mostra unisce idealmente i due musei proprio nel momento in cui quello trentino festeggia il primo Centenario della sua istituzione (1924 – 2024) e il Ferdinandeum ha appena concluso le celebrazioni del bicentenario (1823 – 2023). Una ricerca che parte dalla scoperta nella località piemontese di Testona sul finire dell’800 di una necropoli i cui reperti furono attribuiti a popolazioni germaniche, oggetti che servirono a identificare quelli rinvenuti a Civezzano nella tomba “principesca” nel 1885. Dal museo di Innsbruck ma anche dai musei reali di Torino, arrivano in Trentino, al Castello del Buonconsiglio, reperti davvero straordinari, testimonianze rarissime di alte manifatture dei primi insediamenti longobardi in questi territori.

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Alcune croci in oro longobarde provenienti dal territorio trentino esposte nella mostra al Buonconsiglio “Con spada e croce. Longobardi a Civezzano” (foto graziano tavan)

“È una mostra che scrive per la prima volta la storia dei Longobardi in Trentino”, afferma Laura Dal Prà, direttore del Castello del Buonconsiglio. “E lo fa offrendo al pubblico un racconto emozionante, lungo un percorso punteggiato da autentici capolavori. Ciascun oggetto racconta una storia. A partire da un unicum assoluto: il sontuoso sarcofago del “Principe di Civezzano”, impreziosito da raffinate decorazioni con animali stilizzati in ferro battuto. Gli strepitosi monili in oro della “Principessa di Civezzano” raccontano di contatti bizantini, ma anche di un legame forte con le proprie tradizioni germaniche. Se di “Stile Civezzano” si parla per descrivere i noti motivi “longobardi” presenti su fibbie e puntali di cinture in argento e ferro, nell’esposizione spade, crocette, fibule, e monili in oro vengono presentati così come erano utilizzati un tempo, grazie alle ricostruzioni grafiche. La preziosità e la raffinata fattura di questi reperti – conclude Dal Prà – fanno capire come i Longobardi di Civezzano fossero una élite potente nella società del tempo, capace di accedere ai beni suntuari. Il fatto che la necropoli fosse collocata ben discosta dall’antica pieve porta a pensare che si trattasse di un nucleo di famiglie di religione ariana”.

“Questa mostra”, spiega Annamaria Azzolini (Castello del Buonconsiglio) ad archeologiavocidalpassato.com vuole fare il punto sulla presenza longobarda nel territorio trentino. Naturalmente riscrive una parte di storia di questo territorio. Teniamo presente che i longobardi sono un popolo che cambia la storia italiana, e con questa piccola mostra, che in realtà racconta una presenza che spesso è sotto traccia in territorio trentino, vogliano ridefinire quindi questa presenza e riscrivere una parte di storia relativa a questo territorio. Gli oggetti da vedere sono numerosi, prestigiosi, riferibili soprattutto a un’élite, quindi una classe che a un certo punto ha una forte capacità di accesso ai beni suntuari presenti utilizzando tutti quegli elementi che sono proprio delle alte aristocrazie”.

“L’idea progettuale della mostra – continua Azzolini per archeologiavocidalpassato.com – nasce da uno scambio di informazioni con i colleghi del Ferdinandeum e dalla suggestione di poter appunto presentare per la prima volta insieme questi corredi rinvenuti a Civezzano a partire dal 1885, definiti in letteratura come principeschi. Si tratta di un’occasione che ha tutta una serie di elementi di novità. La prima è proprio la proposta di queste sepolture principesche, la seconda è riproporre moltissimi oggetti riferibili a cultura materiale longobarda, custoditi e al Ferdinandeum e al Castello del Buonconsiglio, soprattutto nei depositi, per cui molti sono inediti e sono esposti per la prima volta in questa occasione. E poi, sempre per la prima volta arriva dai musei Reali di Torino una selezione di oggetti dalla necropoli di Testona (Moncalieri, To), oggetti che nel 1885 erano serviti agli studiosi come Luigi di Campi a identificare come appartenenti a una cultura longobarda o franca gli oggetti rinvenuti a Civezzano”.

“L’importanza di questa mostra”, ribadisce Veronica Barbacovi (Ferdinandeum) ad archeologiavocdalpassato.com, “innanzitutto è quella di ribadire e consolidare ancora di più la collaborazione tra due istituzioni storiche importantissime come quella del Castello del Buonconsiglio di Trento e il museo Ferdinandeum di Innsbruck. Entrambi sono delle istituzioni che festeggiano l’una i 100 anni della sua fondazione come museo, il Ferdinandeum i 200 anni proprio tra 2023 e 2024. Quindi è un’occasione per lavorare insieme anche per festeggiare queste due tappe importanti. La mostra nasce appunto dall’idea del Ferdinandeum di portare extra muros degli oggetti di particolare importanza, rilevanza, soprattutto legati al territorio trentino e portarli appunto qua dove sono stati scoperti. La scelta della Tomba “del principe” di Civezzano cade soprattutto per la sontuosità, l’importanza di questo reperto che da quando è stato scoperto nel 1885 e acquistato dall’allora direttore Franz Ritter von Wieser è sempre stato esposto al Ferdinandeum e non ha mai lasciato il suolo austriaco. Quindi è stata l’occasione di portarlo di nuovo nella sua terra di scoperta e porlo in relazione, in dialogo anche con altre tombe come quella appunto “della principessa” di grande valore storico, proveniente sempre da Civezzano, e con altri oggetti e reperti conservati qui al Buonconsiglio, ma che creano un pendant appunto con quanto conservato da noi”.

Se oggi possiamo ammirare integro il corredo della Tomba “del principe” di Civezzano lo dobbiamo al fatto che nel 1885 l’allora direttore del museo di Innsbruck decise di acquisirlo in toto, evitandone la dispersione nei musei d’Europa, come spiega ad archeologiavocidalpassato.com Wolfgang Sölder del Ferdinandem, qui gentilmente tradotto da Veronica Barbacovi. “L’acquisto di importanti complessi archeologici da parte del Ferdinandeum – sintetizza Sölder  – è stato visto allora anche come una salvaguardia dei beni archeologici provenienti e rinvenuti nel Trentino dalla dispersione sul mercato antiquario al di fuori dei confini della monarchia. Ricordiamo che non è strano che dei reperti archeologici fossero acquistati e venissero esposti in Austria, in Tirolo, perché si faceva parte allora dello stesso territorio. Tra l’altro negli anni Ottanta dell’Ottocento il mercato antiquario era floridissimo. Moltissimi reperti, che venivano trovati casualmente dai contadini durante i lavori nei campi, venivano raccolti e portati appunto dagli antiquari per guadagnare qualcosa. L’importanza quindi di questo acquisto è stata proprio quella di mantenere innanzitutto il complesso unito, evitare che venisse dispersa una parte del corredo della Tomba 2, venisse venduta in Francia e l’altra parte magari a un altro museo, a Monaco, e quindi si è cercato – con i fondi dell’associazione (Museum Verein) del museo Ferdinandeum di Innsbruck di acquistare in blocco questi reperti per mantenerli appunto uniti e raccontare la storia del Tirolo cui il Trentino chiaramente apparteneva”.

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Il corredo longobardo della Tomba della Principessa da Castel Telvana (Borgo Valsugana, Tn) (foto graziano tavan)

La Tomba “della principessa”. Il 9 marzo 1902 nelle vicinanze di Castel Telvana (Borgo Valsugana, Tn), durante i lavori alle fondazioni di un nuovo edificio a uso della Società Agricolo Operaia Cattolica, viene alla luce una piccola necropoli con sette tombe. Tra queste spicca una sepoltura femminile, con l’inumata deposta nella nuda terra, circondata da ciottoli e con il capo appoggiato su una pietra in porfido. Il ricco corredo funerario, che comprende anche un paio di straordinari orecchini in oro, presenta fili d’oro delle vesti in broccato, confermando l’appartenenza della donna all’élite longobarda. I preziosi monili testimoniano il perdurare di tradizioni proprie del mondo transalpino e allo stesso tempo l’assimilazione di costumi romano-bizantini. Sul finire dell’Ottocento, l’area su cui sorge Castel Telvana, era già stata oggetto di rinvenimento di sepolture, ma non è possibile stabilire si vi fosse una relazione tra le due aree cimiteriali.

“La sepoltura di Castel Telvana”, spiega Azzolini ad archeologavocidalpassato.com, “restituisce degli oggetti straordinari

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Dettaglio del corredo longobardo della Tomba della Principessa da Castel Telvana: crocetta aurea, orecchini in oro e ametista, spillone in argento, vaghi di collana in pasta vitrea (foto graziano tavan)

riferibili a una donna di altissimo rango identificabile e nota soprattutto per la presenza di questi orecchini in oro e ametista ma anche per una giarrettiera, un reggicalze a doppio pendente che rimanda a una cultura germanica sicuramente, ma anche a contatti con un mondo transalpino. Questa sepoltura in realtà è il sunto di tutta una serie di elementi non solo pertinenti alla cultura germanica – e mi riferisco a quella non esclusivamente longobarda -, ma denota anche contatti con il mondo bizantino, con un’oreficeria di pregio, di lusso e di prestigio”.

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Mostra “Con spada e croce. Longobardi a Civezzano”: la tomba 2 del principe, da Civezzano. Il corredo e il sarcofago (foto graziano tavan)

La Tomba “del principe” di Civezzano.  Il 13 febbraio 1885, Giulio Dorigoni e i suoi fratelli, lavorando nella vigna in località “al Foss” a Civezzano, rinvengono due sepolture con corredo funerario. La tomba 2 rivela oggetti di eccezionale ricchezza che denotano l’appartenenza a un personaggio di alto rango. La scoperta divulgata da Luigi de Campi attira l’attenzione degli studiosi; nel frattempo gli scopritori, consapevoli dell’importanza del ritrovamento, avevano già cercato possibili acquirenti. In questa occasione, il Museo Civico di Trento “perse gli avanzi di una tomba”, acquistati invece dall’antiquario altoatesino Alois Überbacher. Nell’autunno dello stesso anno, altre due sepolture vengono alla luce nella medesima necropoli: la tomba 3 e la tomba 4. È Franz von Wieser, allora direttore del Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, a comperare proprio da Überbacher tutti e quattro i corredi per il museo austriaco, dove tutt’ora sono conservati.

“La Tomba numero 2 cosiddetta Tomba “del principe”, come l’ha denominata Franz Ritter von Wieser sulla base proprio della ricchezza del corredo dell’uomo inumato”, spiega Barbacovi ad archeologiavocidalpassato.com, “si tratta di un individuo maschile, è stata rinvenuta nel 1885 nel fondo Dorigoni nella zona al Foss di Civezzano. Questa zona rimane dietro all’odierno CRM, a sinistra della strada provinciale per chi scende verso Trento. In questa zona quindi, che rimane discosta dal centro di Civezzano circa 500 metri a sud, è venuta alla luce una piccola necropoli nel corso di lavori agricoli il 13 febbraio 1885: quattro tombe, le prime due scoperte nel febbraio, e le altre due nell’autunno dello stesso anno. La prima tomba, anch’essa di un individuo maschile, con spata e alcune parti di una cintura a cinque pezzi, è stata rinvenuta a 1 metro e 60 di profondità. E a soli 2 metri di distanza da questa prima tomba, lo stesso giorno è venuta alla luce la seconda sepoltura, molto più ricca, con un corredo cosiddetto principesco, proprio per la ricchezza e la quantità degli elementi in esso contenuti.

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Tomba 2 del principe di Civezzano: il sarcofago in legno ricostruito da Franz von Wieser (foto graziano tavan)

L’inumato inizialmente era stato deposto in un sarcofago in legno. Il legno si è decomposto nel corso del tempo, ma sono rimaste tutte le guarnizioni metalliche appartenenti a questo sarcofago. Un unicum anche solo il sarcofago che fa spiccare questa tomba all’interno del panorama di tutte le tombe longobarde dell’epoca. Infatti non ha finora confronti questo sarcofago. Le parti metalliche sono state recuperate, studiate. Franz von Wieser dopo l’acquisto ha subito lavorato affinché questo sarcofago venisse ricostruito anche con le parti lignee. Infatti il sarcofago che oggi vediamo e ammiriamo è frutto della ricostruzione di Franz von Wieser che lo ha ricostruito sulla base di osservazioni fatte all’epoca, e anche da altri studiosi come Karl Atz, sud-tirolese che aveva avuto a suo modo opportunità di avere alcuni ragguagli su questo importante rinvenimento, e che era anch’esso corrispondente per la commissione centrale dei Beni monumentali di Vienna. Ecco proprio in base alla disposizione di queste bande metalliche, si era pensato che la copertura del sarcofago avesse questa forma a capanna. Diversa era stata la ricostruzione proposta da Luigi de Campi il quale – è noto – aveva proposto una ricostruzione con una copertura piana del sarcofago. L’inumato: secondo appunto i racconti dei fratelli Dorigoni, che fanno probabilmente subito dopo la scoperta al momento di proporre l’acquisto di questo corredo proprio all’allora museo civico di Trento, all’interno del sarcofago si trovavano i resti perfettamente conservati dello scheletro del defunto. Questi però non sono stati ahimè conservati, tramandati, non sono stati raccolti. Probabilmente sono stati nuovamente interrati. Abbiamo fatto ricerche anche per capire se non fossero magari stati nuovamente inumati in terra consacrata, ma anche negli archivi della parrocchia di Civezzano purtroppo non abbiamo avuto esito positivo in questo senso. Comunque sia si è conservata una parte della calotta cranica che è stata studiata dal nostro antropologo George McGlynn dell’università di Monaco, il quale ha dedotto che si trattasse di un uomo sui 60 anni, quindi un’età per allora abbastanza avanzata. E la forma del cranio sembrerebbe corrispondere a una forma di tipo nordico europeo. Al di là di questo resto purtroppo non abbiamo altro.

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Corredo Tomba 2 del principe di Civezzano: la croce in lamina d’oro (VII sec. d.C.), conservata al museo Ferdinandeum di Innsbruck (foto Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum)

Ma il corredo, che era ciò che allora interessava nel XIX secolo – si mantenevano soprattutto le parti ricche delle tombe, dei rinvenimenti -, ci parla di un personaggio vissuto sicuramente nel primo ventennio-venticinquennio del VII secolo, in base appunto ai confronti con i materiali del corredo, tra cui la croce aurea. Questa croce in foglia d’oro è a quattro bracci tutti uguali di tipo greco che ricorda chiaramente anche delle tradizioni di tipo orientale; e al centro di questa croce si vede un’aquila rivolta verso sinistra che ricorda anche in questo caso sia simboli salvifici cristiani sia anche l’aquila di Odino. E quindi si può leggere anche all’interno di questa simbologia ancora un sincretismo religioso tra elementi pagani precedenti la conversione all’arianesimo dei popoli germanici sia la presenza cristiana, della religione nuova che erano andati ad abbracciare dopo il loro arrivo nei territori romani.

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Tomba 2 del principe di Civezzano: la croce con le corna sulla copertura del sarcofago (foto graziano tavan)

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Tomba 2 del principe di Civezzano: le protomi con le corna sulla copertura del sarcofago (foto graziano tavan)

Oltretutto questo sincretismo lo troviamo sempre nella decorazione del sarcofago: c’è la croce che però ha delle corna, e le corna ritornano anche alle protomi, sui due timpani della copertura del sarcofago, animali con le corna che ricordano degli arieti anche ai quattro lati del sarcofago. Quindi questa presenza dell’elemento apotropaico che viene ribadita più volte a protezione del defunto. Abbiamo poi l’umbone dello scudo, tutta la panoplia del guerriero, e i fili d’oro appartenenti a un broccato, tessuti forse anche importati da altri luoghi di produzione, o comunque realizzati secondo uno stile che rimanda assolutamente all’ambito romano-bizantino; broccati che andavano a decorare sia bordure di vesti sia probabilmente anche delle cinture.

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Tomba 2 del principe di Civezzano: il bacile posto ai piedi del defunto (foto graziano tavan)

Poi abbiamo il bacile che viene posto ai piedi del defunto, rovesciato per defunzionalizzarlo e quindi renderlo – diciamo così – tabù, elemento che viene quindi destinato solo al morto, e poi – conclude – importanti elementi della cintura a cinque pezzi ageminata in argento e ottone che saranno gli elementi che daranno il nome allo “stile civezzano”. Si tratta appunto di una fibbia e contro placca di cintura. E oltre a questi anche una fibbia realizzata in “stile punto e virgola” che rimanda nella forma con scudetto apicato all’ambito bizantino”.

#buonconsiglioadomicilio. Maddalena Ferrari parla della Madonna del Canton, gruppo scultoreo in legno del XVII secolo, oggi al Castello del Buonconsiglio, ma fino al 1978 si trovava a Casa Zelgher tra via S. Pietro e via Manci a Trento

La sala al secondo piano di Castelvecchio con sculture e rilievi a soggetto sacro (foto buonconsiglio)

Nuovo appuntamento, è il 34.mo, con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Maddalena Ferrari, del settore storico-artistico del museo del Buonconsiglio, parla della Madonna del Canton, parola che in dialetto locale indica un angolo creato da due muri: la bella scultura lignea che rappresenta l’Annunciazione, oggi esposta al Castello del Buonconsiglio, ma che un tempo si trovava a Casa Zelgher tra via S. Pietro e via Manci. Risalente al XVII secolo è stata scolpita da uno scultore nordico che utilizzò legno di tiglio. Nel 1982 venne collocata nel medesimo posto una fedele copia.

“Ci troviamo al secondo piano di Castelvecchio”, spiega Maddalena Ferrari, “in una sala oggi unitaria ma che un tempo era divisa in due ambienti. La parte orientale era la cappella vecchia, uno dei più antichi luoghi di culto della residenza vescovile. Ce lo ricordano ancora le aperture presenti sulle pareti e in particolare gli affreschi trecenteschi con figure di sante tra cui Maria Maddalena vestita dei suoi capelli che ornano gli sguinci di una delle finestre. All’altra estremità della sala altri affreschi ci parlano di decorazioni successive, quattrocentesche e cinquecentesche. Riconosciamo in particolare una delle più famose imprese di Bernardo Cles: le sette verghe legate da un nastro con la scritta UNITAS e, sulla parete contigua, uno stemma principesco vescovile Madruzzo sopra il caminetto. Sono esposte in questa sala una preziosa serie di sculture e i rilievi in legno a tema sacro provenienti da varie aree del Trentino, di vari maestri sia di cultura italiana che di cultura tedesca di grande impatto dal punto di vista storico-artistico. Tra queste una in particolare dovrebbe colpire l’attenzione dei trentini o gli ospiti più attenti: la Madonna del Cantone, così chiamata per la sua posizione originaria. Stava infatti dal 1733 fino al 1978 sul cantone, appunto, l’angolo tra quattro strade importanti del centro storico di Trento, un luogo ancora adesso molto pittoresco. Stiamo parlando di via San Pietro, via San Marco, via del Suffragio e via Manci,, un tempo contrada Lunga. Se passeggiamo e alziamo lo sguardo su casa Zelgher, dove oggi c’è una gioielleria, vediamo la copia fedele dell’originale”.

Maddalena Ferrari davanti alla Madonna del Cantone, gruppo ligneo del XVII secolo, esposta al Castello del Buonconsiglio a Trento (foto buonconsiglio)

“La Madonna del Cantone – continua Ferrari – è in realtà di un gruppo scultoreo di un artista tedesco della seconda metà del Seicento in legno di tiglio che ancora conserva le tracce della policromia e della sua doratura. L’arcangelo Gabriele scende dall’alto a portare l’annuncio alla Vergine e doveva indicare con il braccio destro la sua provenienza divina. La Madonna invece è accolta mentre si volta di scatto all’arrivo del messaggero e interrompe la sua preghiera. I due protagonisti sono poi separati da altre due piccole sculture: in alto, la colomba raggiante, simbolo dello Spirito Santo; in basso, un vaso di fiori. In origine queste sculture stavano sull’antico altare della Confraternita dell’Annunziata, un’associazione di laici nata nella prima metà Seicento e che inizialmente era ospitata presso la chiesa di Santa Margherita alla Prepositura. Nel primo quarto del Settecento la Confraternita nel pieno della sua fortuna fece erigere una sua propria chiesa all’imbocco di via Belenzani. A quel punto – conclude Ferrari – la famiglia Augenthaler decise comunque di valorizzare le sculture antiche apponendole sulla parete esterna della propria abitazione a protezione dei passanti e del luogo”.

#buonconsiglioadomicilio. Morena Dallemule racconta la storia dell’antico mosaico della chiesa paleocristiana del Doss Trento

Nuovo appuntamento, è il 32.mo, con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Morena Dallemule, del settore Archeologia del Buonconsiglio, racconta la storia dell’antico mosaico della chiesa paleocristiana del Doss Trento, conservato nelle collezioni archeologiche del Castello del Buonconsiglio e ne svela alcune curiosità.

“Oggi andiamo fuori dalle mura del castello”, annuncia Morena Dallemule, “e raggiungiamo la cima del rilievo che più di ogni altro ha intrecciato la sua storia con quella della città: il Doss Trento. Ci soffermeremo su una pagina particolare del suo passato, torneremo al VI secolo quando sulla sua sommità sorgeva un’antica chiesa paleocristiana. Ma per arrivare a questo dobbiamo fare una tappa intermedia. È l’ottobre del 1900 e gli addetti del genio militare austriaco stanno lavorando sulla cima del rilievo, stanno semplicemente fissando un parafulmine che doveva proteggere una vicina polveriera. Durante gli scavi intercettano una superficie a mosaico che si rivela essere la pavimentazione di un’antica chiesa cristiana. Per garantire la conservazione del mosaico le autorità austriache ne dispongono il distacco. Questo viene quindi asportato dalla sua sede, viene restaurato e infine consegnato al museo civico di Trento, le cui collezioni qualche anno più tardi sarebbero transitate in quelle del nuovo museo nazionale con sede al castello del Buonconsiglio. Negli anni successivi ulteriori scavi porteranno alla luce le fondazioni della chiesa permettendoci di tracciarne a grandi linee la pianta. È costituita da due edifici affiancati, entrambi absidati, e da una serie di vani più piccoli che probabilmente avevano una funzione accessoria rispetto alla pratica liturgica”.

Il mosaico proveniente dalla chiesa paleocristiana del Doss Trento ed esposto al Castello del Buonconsiglio (foto buonconsiglio)

“Il mosaico era collocato nell’edificio settentrionale, quello di dimensioni minori, dove costituiva una sorta di soglia che separava lo spazio presbiteriale dove il sacerdote celebrava la liturgia e l’aula riservata ai fedeli”, spiega l’archeologa. “È un frammento piuttosto ampio, e anche se presenta molte lacune ci dice diverse cose sulla chiesa a cui apparteneva. Vediamo che una lunga iscrizione orizzontale posta su un’unica linea divide lo spazio della superficie in due quadri figurativi. Quello superiore è dominato da un kantharos, un recipiente biansato da cui fuoriesce un petalo e dei tralci di vite. Ai suoi lati abbiamo due riquadri con delle decorazioni a nastri intrecciati. A noi oggi possono sembrare puramente geometriche. In realtà per un fedele di VI secolo dovevano essere molto familiari, perché visivamente richiamano quegli elementi lapidei che costituivano la recinzione presbiteriale, ossia quell’elemento architettonico che divideva il presbiterio dove stavano i celebranti dall’aula in cui stava l’assemblea. La parte inferiore doveva presentare una composizione speculare. Il riquadro centrale oggi è andato perduto. Ne rimane una piccola traccia in un tratto di cornice nel settore destro. Sopravvivono invece le decorazioni geometriche fatte da quadrati ed esagoni che vanno a combinarsi formando degli ottagoni policromi. I temi e la composizione di questo mosaico trovano moltissimi riscontri nelle chiese paleocristiane, tuttavia i collegamenti più diretti e forse per noi più interessanti sono quelli con i mosaici che nello stesso periodo, V-VI secolo, venivano realizzati nei maggiori poli religiosi della città di Trento. L’ecclesia che sorgeva nell’area dove ora c’è la chiesa di Santa Maria Maggiore e la basilica di Giuliana, tuttora visibile sotto la chiesa cattedrale. Va detto che il mosaico del Doss Trento si pone a un livello qualitativo inferiore rispetto a quanto realizzato in ambito urbano. Il disegno più grossolano e alcune imprecisioni sono particolarmente evidenti guardando l’iscrizione i cui caratteri sono tracciati in maniera un po’ irregolare e vano infittendosi via via che si procede verso destra con la lettura, come se l’artigiano non avesse ben calcolato lo spazio a disposizione per il testo. L’iscrizione si apre con la formula tipica “de donis dei” che sta a significare come l’offerente, grato a Dio per le ricchezze materiali che questi ha voluto donargli, intende mostrare la propria riconoscenza restituendo parte di questi beni materiali sotto forma di finanziamento, finanziamento a un’opera che possa risultare a lui gradita. In questo mosaico a Dio sono associati i santi Cosma e Damiano. È molto importante trovare questi due martiri citati nel nostro mosaico – continua -. Il loro culto è di origine orientale ed era sostenuto e promosso dalla casa imperiale bizantina, e soprattutto dall’imperatore Giustiniano. Se noi pensiamo che nel VI secolo il territorio trentino è stato conteso tra goti, franchi, bizantini e longobardi, capiamo come dedicare un mosaico, se non un’intera chiesa, ai santi protettori dell’imperatore Giustiniano avesse una precisa valenza politica. L’iscrizione prosegue informandoci che l’opera è stata realizzata al tempo del vescovo Eugippio il cui episcopato sappiamo collocarsi tra 530 e 570 d.C.”.

Particolare del mosaico dal Doss Trento con la citazione di Laurentius cantore (foto buonconsiglio)

“L’ultimo dei personaggi che il mosaico riporta in vita è l’offerente, Laurentius il cantore, colui che ha pagato per questo mosaico. Di lui conosciamo soltanto il nome e il ruolo che ricopriva nell’organizzazione ecclesiastica”, sottolinea Dallemule. “Ma quest’ultimo aspetto è comunque molto interessante perché ci dà un’ulteriore aggancio per la datazione cronologica del mosaico. Il ruolo di cantore viene infatti introdotto in occidente solo nella seconda metà del VI secolo. Prima esisteva un’unica figura, quella del lettore, che durante la liturgia era incaricato sia di richiamare le Scritture che di intonare gli inni e i salmi. Nel VI secolo questi due compiti vengono separati non tanto perché si intendesse affidare la parte musicale a un individuo dalle spiccate doti vocali, ma perché era necessaria una persona dedicata che memorizzasse, eseguisse e tramandasse tutto il repertorio musicale che doveva coprire l’anno liturgico in un’epoca in cui non si aveva ancora un sistema codificato di notazione musicale. Se per il ruolo di lettore nei primi anni dell’età cristiana abbiamo numerose attestazioni, numerose testimonianze, le citazioni dei cantori sono rarissime, e Laurentius è a tutt’oggi uno dei pochi cantori di cui conosciamo”.

Plutei e pilastrini dalla chiesa paleocristiana del Doss Trento (foto buonconsiglio)

“Sono ancora molti gli aspetti da chiarire sul significato e sulla funzione che la chiesa rivestiva nell’ambito della Trento cristiana dei primi secoli e altrettanto oscuro rimane il suo destino. Sappiamo che era ancora in uso nell’VIII secolo. Ce lo dicono alcuni frammenti di pilastrini e di plutei che sono stati rinvenuti tra i resti della chiesa e che sono tutt’oggi esposti al castello del Buonconsiglio. Dopo questo piccolo squarcio – conclude Dallemule – l’edificio scompare dalla fonti e non ne sappiamo più niente. Forse perduto, forse trasformato in quella chiesa di San Biagio che le fonti ci segnalano sullo Spento del XIII-XIV secolo. Ma questa è un’altra storia”.

#buonconsiglioadomicilio. Anna Paola Mosca presenta preziosi ornamenti di Età romana provenienti dal sito di Mechel in val di Non (Trento)

La sala del castello del Buonconsiglio che ospita i reperti di età romana dal sito di Mechel in val di Non (foto buonconsiglio)

Nuovo appuntamento, è il 31.mo, con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Anna Paola Mosca dei Servizi Educativi ci svela alcuni magnifici gioielli di epoca romana conservati nelle collezioni archeologiche del museo del Castello del Buonconsiglio provenienti dal sito di Mechel in val di Non.

Diverse collezioni archeologiche che sono conservate nel museo sono collegate al territorio trentino e documentano la storia dell’archeologia locale collegata alla macrostoria e permettono di delineare un quadro dell’organizzazione insediativa nelle vallate del Trentino. “Oggi analizziamo oggetti d’ornamento, splendidi gioielli che provengono dal distretto territoriale di Cles in Val di Non”, spiega Anna Paola Mosca. “Queste splendide fibule, cioè spille destinate a sostenere, a chiudere, abbellire vari capi d’abbigliamento, sono state recuperate a Mechel (Meclo) nel corso di scavi effettuati alla fine dell’Ottocento. Provengono dalla località Valle Importa ubicata poco a monte dell’attuale paese di Mechel alla periferia di Cles. Il sito era stato individuato da Luigi de Campi, avvocato politico e anche archeologo, originario della valle di Non. La portata delle scoperte effettuate da Luigi de Campi fu eccezionale in quanto gli scavi hanno permesso di documentare una continuità di vita dell’area archeologica dal Bronzo recente fino all’età romana. Luigi de Campi era convinto di avere individuato una necropoli, a causa degli strati di ceneri e della presenza di ossa combuste, mentre ora generalmente si ritiene che il sito fosse destinato a luogo di culto sulla base delle ossa di animali rinvenute, e a causa della presenza di oggetti di piccole dimensioni”.

Alcune fibule di età romana esposte al castello del Buonconsiglio provenienti dal sito di Mechel in val di Non (foto buonconsiglio)

“Le fibule in argento o in bronzo, conservate al Buonconsiglio”, continua Anna Paola Mosca, “sono nella maggior parte lavorate con la tecnica con alveoli o cavità che vengono scavati sulla superficie dell’oggetto metallico con l’uso del bulino o del punzone e vengono riempiti di smalto vitreo. Le fibule vengono poi riscaldate fino a quando lo smalto si scioglie e una volta raffreddate vengono levigate e lucidate. Queste fibule possono essere finite con particolari di vetro o di pietre preziose. Dovevano essere oggetti di ornamento raffinati, allegri e colorati, ispirati alle forme e ai colori della natura ma erano anche prodotti di lusso e indicatori di prestigio sociale. Nella cerniera di queste fibule possiamo ritrovare il motivo della losanga con decorazione a cerchielli decorati o del quadrato con appendici circolari con lavorazioni a smalto di vari colori. Sono presenti anche fibule a cerniera discoidale piatta con bande concentriche con bottone centrale sporgente decorato a smalto arancio, nero, bianco, blu. Deliziose sono le fibule con gli animali ritratti con naturalismo – continua Anna Paola Mosca -, come quella con la cerniera raffigurante una lepre in corsa, o quella a cavallo marino con tracce di smalto rosso bruno sul corpo. In alcuni esemplari di fibule la cerniera è conformata a civetta che risalta nei grandi occhi resi a incisione con funzione apotropaica. Sulla coda una decorazione realizzata a punzone e delle graffiature suggeriscono la presenza di piume. Dall’area di Mechel provengono anche 169 perle in pasta vitrea. Sono perle sferiche, costolate, di colore azzurro turchese: 57 di queste si trovano riunite a formare una collana esposta in vetrina. Sempre dall’area di Mechel proviene la fibula a tenaglia pure esposta nelle vetrine del museo”.

Anello d’oro con castone da Mechel in val di Non (foto buonconsiglio)

Nella zona di Cles sono attestate anche delle necropoli dislocate principalmente lungo la viabilità che prosegue verso i passi alpini. “Da una di queste necropoli, scoperta nel 1847, proviene lo splendido anello d’oro con castone inciso con scena di pesca. La verga anulare si allarga a forma di foglia in prossimità del castone ovale dove è inserita della pasta vitrea stratificata azzurro blu ad imitazione del più prezioso calcedonio. Vi è incisa la figura seduta di un pescatore con la canna e un pesce all’amo. Questa tipologia di anello ricorre nell’oreficeria tarda soprattutto nel II e III sec. d.C. Il distretto territoriale di Mechel – conclude Anna Paola Mosca – doveva la sua fortuna nell’antichità al fatto di essere collegato sia alla viabilità alpina che a quella di fondovalle. Manufatti potevano arrivare tramite le idrovie padane e il lago di Garda e la viabilità antica”.

Trento. “A tu per tu” con la mostra di Natale “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio: negli ultimi tre video scopriamo il collezionismo erudito, l’etimologia della parola bronzo, e la tecnica fusoria a cera persa

La locandina della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio dal 22 dicembre 2020 al 5 aprile 2021

Ultimi tre contributi video “A tu per tu” del Castello del Buonconsiglio per illustrare i contenuti della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi”, curata da Giuseppe Sava, inaugurata il 22 dicembre 2020 (quando il museo era chiuso per emergenza sanitaria),  e programmata fino al 5 aprile 2021 nella sala del Torrion da Basso al Castello del Buonconsiglio a Trento. La mostra, organizzata dal museo con l’aiuto della soprintendenza per i Beni culturali, racconta l’affascinante storia di un fortunato ritrovamento di due magnifiche sculture seicentesche in bronzo dorato molto probabilmente commissionate dal principe vescovo e fino al 1803 conservate nella dimora del principe vescovo al Castello del Buonconsiglio. In questi nuovi contributi introdotti da Alessandro Casagrande, per la regia di Alessandro Ferrini, Francesca Jurman ci racconta di un collezionismo molto erudito e legato all’amore per l’antico; Tiziana Gatti ci parla proprio della parola bronzo, la sua etimologia e alcuni modi di dire legati a questa parola; infine Mirco Longhi si sofferma sulla complessa tecnica utilizzata da Niccolò Roccatagliata per realizzare i due magnifici bronzetti esposti in mostra, ovvero la tecnica della fusione a cera persa.

Il collezionismo erudito tra XV e XVI secolo. “Tra Quattro e Cinquecento il diffuso interesse per l’antico da parte di umanisti o di intenditori d’arte, sostenuto anche dal ritrovamento di molti reperti di epoca romana”, spiega Francesca Jurman, “determina una forma molto raffinata di collezionismo. Possedere una raccolta di antichità diventa un segno di prestigio, un’ostentazione di raffinatezza e di agio economico. All’interno delle dimore signorili, delle gallerie, degli studioli vengono quindi esibiti questi reperti tra sculture in marmo, medaglie e monete, ceramiche, epigrafi, accanto però a delle creazioni di epoca moderna che devono rievocare il gusto per l’antichità. Sono frequentemente dei bronzetti, delle piccole sculture in bronzo che si ispirano proprio ai modelli dell’antichità nelle forme e anche nelle scelte iconografiche, privilegiando le forme più bizzarre anche cercando di recuperare un repertorio di creature fantastiche o di sculture antiche. Questi oggetti vengono soprattutto realizzati per essere d’arredo e d’uso sullo scrittoio degli umanisti, che quindi si attorniano di questo gusto, di questa evocazione della classicità”.

Le parole del bronzo. “L’utilizzo di una parola e dei suoi derivati all’interno di una lingua”, interviene Tiziana Gatti, “è collegato strettamente all’importanza dell’oggetto che essa definisce. Ciò vale naturalmente anche per la parola bronzo, un termine che definisce un materiale di larghissimo uso nei secoli: una lega di rame e stagno. Non si conosce l’origine della parola. Forse è giunta nel latino medievale e poi nell’italiano da una parola persiana che aveva valore di rame. Nella lingua latina si usava invece una parola del tutto diversa, aes, che indicava sia il bronzo, sia poi successivamente anche la moneta. La voce bronzo è usata oggi anche per indicare un oggetto realizzato con tale materiale. Si parla di bronzo per una scultura oppure per una medaglia assegnata al terzo classificato. Poi infine sono detti bronzi anche le campane tuttora realizzate in questo materiale. Nel linguaggio dell’arte bronzetti sono detti sculture di dimensione minore, mentre bronzino è un recipiente in bronzo oppure anche un campanello usato soprattutto per gli animali. L’espressione che forse ci è più familiare è faccia di bronzo, una forma figurata che si riferisce in generale a una persona che non si vergogna di nulla. Quindi il suo viso resta impassibile come fosse realizzato in bronzo. Ovviamente non è il caso dei volti espressivi in bronzo dorato dei due apostoli esposti in mostra”.

La tecnica fusoria a cera persa. “I due bronzetti raffiguranti San Filippo e San Paolo”, sottolinea Mirco Longhi, “sono l’evidente riflesso dell’abilità raggiunta da Roccatagliata nel sapersi destreggiare in tecniche di fusione e di rifinitura conosciute fin dall’antichità, come la tecnica di fusione per antonomasia: a cera persa. Il metodo classico prevedeva che su un modello in argilla o comunque in materiale refrattario l’artista riprendesse minuziosamente le forme sottostanti con uno strato di cera, appunto. Il tutto a sua volta veniva racchiuso in un involucro, sempre refrattario al calore: la cera appunto si perdeva all’interno dei canali realizzati in questo involucro – chiamato anche tonaca – alle alte temperature cui veniva sottoposto il tutto. La sottilissima intercapedine che si otteneva veniva poi riempita con il metallo, la lega in bronzo, che doveva rivestire uniformemente in maniera omogenea l’intero involucro. All’epoca Roccatagliata, dalla seconda metà del Cinquecento, in particolare sul finire e agli inizi del Seicento, riprese invece il metodo che permetteva un grado di perfezione elevatissimo, il cosiddetto metodo indiretto, molto simile al precedente solo – potremmo dire – quasi inverso. Questa volta dal modello in argilla originale si otteneva un calco in gesso che si staccava poi dal modello. Si spalmava lo strato di cera sull’involucro all’interno del calco in gesso mentre la parte esterna, una volta tolto il calco in gesso, veniva ricoperta dalla tonaca appunto, e attraversata – come dicevo prima – da tutta una serie di canali che permettono al bronzo fuso di ricoprire interamente l’involucro e allo stesso tempo fungono anche da sfiati per l’alta pressione della temperatura della lega in bronzo fuso. Il metodo indiretto permetteva un vantaggio impensato prima del Cinquecento, quello che preservando il modello originale si può portare avanti una produzione seriale. È chiaro allora che vi è discrimine per capire l’intervento del maestro. In questo caso di Roccatagliata la fa la qualità dell’opera. E in particolare di fronte ai due bronzetti dorati è evidente che l’intervento del maestro non è solo nella fase di modellazione del modello in argilla e in cera, ma è anche successivo come nella fase di rifinitura. Ecco quindi che anche la doratura fa la differenza, e soprattutto in tutti quei lavori diciamo di attenzione minuziosa, quasi da miniatore della scultura, in cui vediamo questa resa dei panneggi che rendono le opere estremamente realistiche e dinamiche, tali da fare di questi due bronzetti due opere di un’eccellenza unica”.

#buonconsiglioadomicilio. Claudio Strocchi ci conduce nella elegante Sala Specchi per svelarci alcuni capolavori della collezione di bronzetti, tra cui “Venere che castiga Amore”

La Sala Specchi al Castello del Buonconsiglio ospita una collezione di bronzetti (foto buonconsiglio)

Nuovo appuntamento con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Claudio Strocchi del settore storico-artistico del museo del Castello del Buonconsiglio (Tn) ci conduce nella elegante Sala Specchi per svelarci alcuni capolavori della collezione di bronzetti, raccolta esposta in questa sala dal 2012. Tra queste opere spicca la magnifica Venere che castiga Amore opera di Niccolò Roccatagliata scultore che trovò fama a Venezia nei primi anni del Seicento come valente bronzista.

Siamo in Sala Specchi al castello del Buonconsiglio di Trento. L’ambiente è anche detto Camerone del Torrione, perché si trova all’ultima piano del Torrione, costruito per volontà di Giovanni Hinderbach alla fine del ‘400, che venne inglobato nel Magno Palazzo durante i lavori del cardinale Bernardo Cles. “L’ambiente – spiega Strocchi – oggi si presenta in una veste completamente diversa da quella originaria. I restauri dell’inizio degli anni Trenta, promossi dal soprintendente Giuseppe Gerola, hanno consentito il recupero dell’aspetto settecentesco della sala, quell’aspetto che era stato voluto dal principe vescovo Francesco Felice Alberti di Enno nel 1759, che aveva fatto eseguire le cornici in stucco all’interno delle quali erano posizionati dei dipinti di carattere biblico eseguiti dal pittore veneziano Francesco Fontebasso. A testimonianza dei lavori promossi nel 1759 dal principe vescovo Francesco Felice Alberti di Enno è ancora oggi visibile il suo stemma al centro della sala nel pavimento eseguito a intarsio di marmi policromi”.

Testa di giovane moro, bronzetto di Severo Calzetta (foto buonconsiglio)

Dal 2012 la sala Specchi ospita la collezione dei bronzetti. La raccolta si è formata nella seconda metà dell’Ottocento e nel 1921 è passata in deposito al museo nazionale, oggi museo del Castello del Buonconsiglio. “Tra i suoi capolavori – ricorda Strocchi – sono da annoverare la testa di giovane moro di Severo Calzetta da Ravenna, la testa di fanciullo, poi ancora il calamaio a forma di granchio così come i secchielli, il picchiotto con amorino che doma il leone, eseguiti dai fratelli Grandi, e il torso della Venus pudica capolavoro della bronzistica veneziana. Di grande interesse sono anche gli elementi di fontana rappresentati da un delfino e da un fanciullo che cavalca il delfino: appartenevano a fontane, l’una cinquecentesca e l’altra seicentesca”.

“Venere castiga Amore”, bronzetto di Nicolò Roccatagliata (foto buonconsiglio)

“Venere castiga Amore è un gruppo scultoreo composto da una figura femminile ignuda, eretta, che sostiene con la mano destra un flagello e nella sinistra ha un libro”, descrive Strocchi. “In basso, due puttini che si stanno coprendo l’un l’altro per difendersi. La figura femminile, caratterizzata da una linea serpentinata, ha un corpo dalle forme arrotondate. L’ispirazione del gruppo è derivata da una incisione eseguita da Agostino Carracci nel 1595, dove però uno dei putti è bendato e quindi simboleggia Amore mentre nel nostro gruppo bronzeo nessuno dei puttini è bendato. È possibile quindi che l’interpretazione possa essere diversa. Potrebbe trattarsi infatti della raffigurazione di Grammatica, una delle arti liberali, anzi la prima arte del trivio. Grammatica con il suo flagello sta infatti punendo i fanciulli che sono indisciplinati e li corregge bacchettandoli sulla bocca. L’autore del gruppo è Nicolò Roccatagliata, un artista nato a Genova nel 1560 circa, che ben presto si traferì a Venezia dove divenne molto celebre come bronzista e dove morì nel 1633. Allo stesso autore è riconducibile anche un gruppo raffigurante l’Astronomia oggi conservato in una collezione statunitense che presenta affinità stilistiche al gruppo conservato al Castello del Buonconsiglio. Un’altra raffigurazione di Grammatica sempre visibile al Castello del Buonconsiglio è l’affresco dipinto da Dosso Dossi del 1532 nella camera del Camino Nero dove la Grammatica è rappresentata da una donna vecchia che insegna a leggere a un giovane bambino e vicino a lei è presente anche la frusta o flagello che serve per punire gli indisciplinati”.

Trento. “A tu per tu” con la mostra di Natale “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio: nei tre nuovi video scopriamo gli attributi che fanno riconoscere San Filippo e San Paolo, la foto storica che ha fatto riconoscere i bronzetti, e i dettagli morelliani per l’attribuzione a Roccatagliata

La locandina della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei principi vescovi” al Castello del Buonconsiglio dal 22 dicembre 2020 al 5 aprile 2021

Tre nuovi contributi video “A tu per tu” del Castello del Buonconsiglio illustrano i contenuti della mostra “Gli apostoli ritrovati. Capolavori dall’antica residenza dei Principi vescovi”, curata da Giuseppe Sava, inaugurata il 22 dicembre 2020 (quando il museo era chiuso per emergenza sanitaria),  e programmata fino al 5 aprile 2021 nella sala del Torrion da Basso al Castello del Buonconsiglio a Trento. La mostra, organizzata dal museo con l’aiuto della soprintendenza per i Beni culturali, racconta l’affascinante storia di un fortunato ritrovamento di due magnifiche sculture seicentesche in bronzo dorato molto probabilmente commissionate dal principe vescovo e fino al 1803 conservate nella dimora del principe vescovo al Castello del Buonconsiglio. In questi nuovi contributi introdotti da Alessandro Casagrande, per la regia di Alessandro Ferrini, la direttrice del museo Laura Dal Prà ci parla di iconografia e ci svela quali sono i dettagli utilizzati da Nicolò Roccatagliata per far riconoscere facilmente alla gente i due apostoli San Filippo e San Paolo. Invece Roberta Zuech sottolinea l’importante ruolo che ricopre la fotografia nel ritrovamento di opere d’arte che si pensavano perdute, e come proprio la riscoperta dei due bronzetti la si deve soprattutto a una fotografia di inizio Novecento di Giuseppe Brunner che si conserva negli archivi del Buonconsiglio. Infine Denis Ton ci svela uno dei più importanti criteri utilizzati dagli storici dell’arte per attribuire la paternità di un’opera d’arte: il metodo morelliano.

L’iconografia dei Santi Filippo e Paolo. “Tutta l’arte sacra occidentale si poggia su un codice figurativo molto preciso che permette di identificare i singoli personaggi”, spiega Laura Dal Pra. “È fatto di segni, di simboli e di attributi. Nel caso di San Filippo è evidente la particolarità del vestiario, una veste all’antica, ma soprattutto l’attributo della croce, simbolo del suo martirio nel corso del suo apostolato presso i pagani. Quindi ha un attributo abbastanza evidente, che si ritrova anche nel secondo apostolo, in realtà San Paolo: l’apostolo delle genti, che si trovò a sostituire nell’iconografia cristiana la figura dell’apostolo traditore, ossia Giuda. Quindi l’apostolo delle genti, anch’esso raffigurato in veste all’antica, porta in mano il volume, il simbolo della religione del Libro, cioè del Cristianesimo. L’altro attributo, ormai perso, era molto probabilmente la spada, ovvero lo strumento del suo martirio, la decapitazione, che era la pena capitale riservata ai cittadini romani. Un altro elemento fondamentale nell’iconografia di San Paolo, che la si scopre soprattutto se la si pone a confronto con San Pietro, è quello della barba fluente e dell’inizio di un po’ di calvizie, fatto che invece nelle iconografie di San Pietro non è presente”.

Il ruolo cruciale delle foto storiche. “Le nostre vite sono nelle fotografie, come le fotografie sono nelle nostre vite”: così scriveva Lucia Moholy nel 1939 al termine del suo saggio sui Cento anni della fotografia. “E ancora oggi”, sottolinea Roberta Zuech, “è assolutamente attuale questa interconnessione tra fotografia e vita. Ne abbiamo un esempio con la fotografia che ha permesso la scoperta dei due bronzetti. È una fotografia scattata nei primi anni del Novecento dal fotografo Brunner, noto ritrattista, che rappresenta otto sculture, otto statuette bronzee di casa Consolati. Questa fotografia, scattata probabilmente nel momento in cui veniva apposto il vincolo sulle statuette, è stata per anni conservata nell’archivio fotografico del museo del Buonconsiglio. Lì è stata studiata, catalogata, insieme a tutto il fondo fotografico, e questo ha permesso agli studiosi di scoprirla, di rivederla e di pubblicarla all’interno di un saggio proprio sulle collezioni della famiglia Consolati. Lì ulteriormente è stata vista, studiata, notata, apprezzata da uno studioso, Giuseppe Sava, che ha avuto il merito di riconoscere fuori contesto, inaspettatamente, due delle otto sculture rappresentate in foto e permettere così alla Provincia autonoma di Trento di acquisirle e al museo di esporle e quindi di renderle fruibili al pubblico trentino riportandole sostanzialmente a casa. Ecco un esempio di connessione tra vita e fotografia”.

La paternità delle opere d’arte: il metodo morelliano. “Nel corso degli anni la storia dell’arte ha realizzato una serie di strumenti e metodi con cui giungere all’attribuzione”, interviene Denis Ton. “Strumenti di analisi visiva, documentaria, tecnologica, ma molto è affidato ancora all’occhio del conoscitore. Alla fine dell’Ottocento uno studioso di origine svizzera, Giovanni Morelli, realizzò un metodo basato sui cosiddetti motivi sigla, motivi firma o – da lui – dettagli morelliani. Sono motivi, come i dettagli dei lobi delle orecchie, delle sopracciglia, delle palpebre, che si ripetono costantemente nell’artista e consentono di arrivare a un orientamento stilistico e a un’attribuzione. Sebbene questo metodo sia oggi considerato in parte superato consente un primo riferimento per quanto riguarda la paternità delle opere, e si può applicare anche nell’ambito della scultura. Questo ha consentito al curatore Giuseppe Sava di giungere all’attribuzione dei bronzetti degli apostoli tornati al castello del Buonconsiglio a Nicolò Roccatagliata”.

#buonconsiglioadomicilio. Denis Ton ci parla della Fama e di come è cambiato il concetto di notorietà nei secoli, attraverso due Allegorie della Fama conservate al Castello

Nel disegno la Giunta Albertiana tra il Magno Palazzo e il Castelvecchio (foto buonconsiglio)

Nuovo appuntamento con i video #buonconsiglioadomicilio per la regia di Alessandro Ferrini: Denis Ton, storico dell’arte entrato a far parte dello staff del museo pochi mesi fa, ci parlerà della Fama e di come è cambiata il concetto di notorietà nel corso dei secoli, raccontandoci la storia di due celebri dipinti seicenteschi, Allegoria della Fama, di Pietro Liberi e Pietro Ricchi, esposti nella pinacoteca del Castello del Buonconsiglio, allestita nella Giunta Albertiana, quel corpo di fabbrica aggiunto nel Seicento per riunire il Magno Palazzo con il Castelvecchio.

“Le due opere, di Liberi e di Ricchi”, spiega Ton, “sono legate a un’ossessione che contagiò molti dei grandi committenti di quest’epoca, vale a dire l’ossessione per la Fama. La Fama è un concetto molto diverso dalla popolarità a cui siamo abituati oggi, in cui si può dire si sia avverata la profezia di Andy Warhol per cui ognuno di noi ha diritto al suo quarto d’ora di celebrità, non si misura nei follower ma è una prospettiva eterna. La Fama per l’uomo del Seicento e anche del Settecento è l’ambizione di durare nel tempo, che il proprio nome risuoni oltre la vita. Francesco Alberti Poja, il principe vescovo che realizzo la Giunta Albertiana, non fa eccezione. E commissionò a un artista veneto, Pietro Liberi, un importante ciclo di dipinti che, secondo le fonti, ornava due ambienti al secondo piano del palazzo. Purtroppo la decorazione che le fonti, in particolare Daniele Bartoli nel 1780, ci descrivono come rappresentanti soggetti dell’Antico Testamento e varie allegorie, è quasi del tutto scomparsa”.

“L’Allegoria della Fama” di Pietro Liberi conservata nelle collezioni del Castello del Buonconsiglio (foto buonconsiglio)

“Di questo ciclo disperso, realizzato tra il 1686 e il 1687 da Pietro Liberi in collaborazione col figlio Marco”, continua Ton, “si conserva tuttavia al castello un dipinto, acquisito all’inizio del Novecento, che rappresenta la Fama con il consueto attributo della tromba e insieme l’allegoria della Giustizia perché, come si vede, nell’altra mano tiene la spada. Utilizzando quindi gli attributi tipici scritti nel celebre manuale di iconologia di Cesare Ripa, Pietro Liberi combina insieme elementi differenti, e insieme allude anche alla sconfitta del Vizio. Come si vede sullo sfondo del dipinto, quasi un monocromo, i toni molto più scuri, Minerva con l’elmo, lo scudo e la lancia caccia alcune figure. L’allusione quindi che attraverso l’esercizio della Giustizia il principe vescovo ottiene la Fama. In questo modo Pietro Liberi si qualifica, come descritto anche dalle fonti, come un artista intellettuale, capace di parlare per allusioni, per geroglifici – come dicevano i contemporanei – perfettamente sintonizzato su un clima culturale che è quello delle Accademie, popolari a Venezia quanto anche a Trento come l’Accademia degli Accesi sostenuta dallo stesso principe vescovo”.

“L’Allegoria della Fama” di Pietro Ricchi conservata nelle collezioni del Castello del Buonconsiglio (foto buonconsiglio)

“Naturalmente sta all’abilità degli artisti trasformare queste allegorie, questi concetti che possono suonare un po’ cerebrali, in creature vive. E l’opera di Pietro Ricchi, sempre delle collezioni del Castello del Buonconsiglio, lo testimonia perfettamente. Ricchi è un artista lucchese che però ha molto viaggiato, si è fermato a Bologna e poi è stato in Francia via Milano, a Brescia, a Venezia. E ha lavorato molto anche in Trentino. Sua è ad esempio l’Assunzione della Vergine nella chiesa di Santa Maria. Pietro Ricchi concepisce un dipinto, probabilmente per una collezione privata, un quadro da portego, essendo un’opera del periodo veneziano degli anni ’50-’60 del Seicento, in cui la Fama giace addormentata. Questa meravigliosa creatura dall’incarnato quasi opalescente il viso incorporato nel sonno, mentre la Lascivia, rappresentata da un satiro, è intenta a tagliarle le ali. Alcuni amorini invece le sottraggono gli attributi tipici: la tromba con cui lei dovrebbe propagare il nome del committente. Quindi ci troviamo di fronte a una libera invenzione che ricombina insieme elementi diversi per creare un monito intellettuale, invece che una celebrazione tout court: la Lascivia sottrae gli attributi alla Fama. E l’invito quindi è quello di non cedere alla Lussuria perché questo tarpa le ali alla Fama e alla celebrità. Che cosa sta concependo Pietro Ricchi? Una sorta di poesia per immagini secondo il principio prettamente seicentesco ut pictura poesis (come nella pittura così nella poesia): l’ambizione – conclude Ton – è quella di creare delle rappresentazioni che possono rivaleggiare con la letteratura nel concetto della poesia barocca, ma soprattutto è la qualità di una pittura che sa giostrare molto bene tra una situazione di luminosità contrastata, ben rappresentata dalle figure che contornano l’allegoria, a quella invece di una Fama che diagonalmente imbastisce tutta la composizione della scena”.