Roma. Il parco archeologico del Colosseo per celebrare il compleanno dell’imperatore Adriano (24 gennaio) ha prodotto un video che “restituisce” il meraviglioso tempio di Venere e Roma, il più grande edificio sacro dell’impero, progettato da Adriano

Il 24 gennaio del 76 d.C. nasceva a Italica, in Hispania Baetica, Publius Aelius Traianus Hadrianus, l’imperatore Adriano. Il parco archeologico del Colosseo ha deciso di celebrare questo giorno con un video (creative director Flaviano Pizzardi, immagini e droni Invidio srl) che racconta e restituisce alla comprensione di tutti il meraviglioso tempio che proprio Adriano progettò, dedicato alla dea Roma Aeterna e alla dea Venus Felix. La pianta del Tempio di Venere e Roma è caratterizzata da due celle orientate in senso opposto e precedute da un vestibolo. Della cella rivolta verso il Colosseo, dedicata a Venere, rimane solo l’abside, mentre nella cella opposta, dedicata a Roma, venne costruito già nel secolo VIII un oratorio in onore dei Santi Pietro e Paolo, poi trasformato nella chiesa di Santa Maria Nova, e dal XV secolo in Santa Francesca Romana. Tra settembre 2020 e luglio 2021 il Tempio è stato interessato da importanti interventi di restauro conservativo, realizzati dal Parco archeologico del Colosseo con una sponsorizzazione tecnica della Maison Fendi, in virtù dei quali l’iconico monumento è tornato interamente accessibile al pubblico.
Su un alto basamento che affaccia sulla Valle del Colosseo si erge il tempio che Adriano volle dedicare alla dea Roma Aeterna e alla dea Venus Felix. Si tratta del più grande edificio sacro costruito dai romani, uno dei più grandi dell’antichità. Il tempio fu costruito a partire dal 121 d.C. su progetto dello stesso imperatore che, come racconta l’Historia Augusta (Hist. Aug. Hadr., 19.12), dovette per prima cosa rimuovere dall’area il celebre Colosso neroniano, operazione per cui impiegò ben 24 elefanti, traslando la statua nella posizione in cui è ancora oggi ricordata nei pressi dell’Anfiteatro Flavio. L’imperatore inaugurò l’edificio nel 136 o 137 d.C. al rientro dalla Giudea, ma a completarlo fu Antonino Pio nel 141 d.C. Oltre alle dimensioni straordinarie (oltre 100 m x 50 in pianta e circa 30 metri in altezza) il monumento era caratterizzato da un disegno del tutto originale, secondo quello stile eclettico tipico delle architetture adrianee che combinavano le proporzioni e la spazialità ellenistica con l’urbanistica e la tecnica costruttiva romana. Le colonne del tempio, tra quelle in marmo proconnesio dei portici e quelle in granito grigio del peristilio, dovevano essere oltre duecento.

Ciò che resta oggi del tempio è il frutto di restauri eseguiti da Massenzio a seguito del disastroso incendio del 307 d.C. Egli apportò alcune modifiche alla struttura, come l’inserimento delle colonne in porfido e la creazione di due absidi con copertura a volta e decorazione a cassettoni. I lacunari erano decorati con stucchi che, come i recenti restauri hanno dimostrato, erano almeno in parte rivestiti a foglia d’oro, mentre sulle pareti rifulgevano incrostazioni variopinte realizzate in alabastro, cipollino e serpentino. Sia l’anastilosi delle colonne in porfido, sia il restauro del pavimento marmoreo sono frutto di interventi realizzati tra il 1932 e il 1935 sotto la direzione di Alfonso Bartoli. La pavimentazione della cella di Roma costituisce uno dei maggiori esempi di opus sectile a grande modulo che ornavano gli edifici pubblici e di culto dell’Urbe e i restauri di epoca fascista ne hanno ricomposto, secondo il gusto e le conoscenze dell’epoca, la pregiata decorazione in marmo pavonazzetto e porfido rosso. Le parti mancanti vennero integrate con pezzame degli stessi litotipi antichi e le lacune vennero ricostruite per ripristinare la visione d’insieme della pavimentazione.
Roma. Il parco archeologico del Colosseo lancia il reportage “Depositi inVisibili” in quattro puntate, al sabato sui canali social del PArCo, dedicato al racconto delle collezioni conservate negli oltre cento magazzini e depositi distribuiti tra Domus Aurea, Palatino e Colosseo
Il parco archeologico del Colosseo lancia il reportage “Depositi inVisibili” dedicato al racconto delle collezioni conservate negli oltre cento magazzini e depositi distribuiti tra Domus Aurea, Palatino e Colosseo. Un immenso patrimonio di reperti che diventa oggi, a partire dall’idea e dalla curatela delle archeologhe Federica Rinaldi e Roberta Alteri, un lungo racconto sulla pagina Facebook e sul canale YouTube del PArCo: 4 puntate per altrettanti sabati, alle 21, in cui archeologi, architetti e restauratori danno voce ai reperti mobili svelando le storie celate dietro di essi e rendendoli finalmente visibili e accessibili a tutti.

Alfonsina Russo, direttore del parco archeologico del Colosseo (foto PArCo)
“Il documentario corredato di immagini e interviste si inserisce all’interno del più ampio progetto di tutela e valorizzazione delle collezioni custodite nei magazzini e depositi dei musei italiani, fortemente voluto dal ministero della Cultura e dal direttore generale Musei Massimo Osanna sin dal momento di avvio della sua direzione”, commenta Alfonsina Russo, direttore del parco archeologico del Colosseo. “Il lavoro scrupoloso e appassionato, che il servizio Catalogo e il personale del PArCo conducono quotidianamente, viene svelato al pubblico, reale e digitale, in un lungo racconto in quattro puntate che rende accessibile a tutti il processo di conservazione, schedatura, studio, restauro e musealizzazione dei beni mobili. Il reportage, che ha impegnato per tutto il 2021 i funzionari, gli assistenti tecnici e il personale di custodia del PArCo – prosegue il direttore – aspira a rafforzare il legame del pubblico con il patrimonio culturale dei siti del PArCo, in attesa che i reperti normalmente non visibili, perché custoditi nei magazzini, prendano nuova vita nei futuri allestimenti in progetto, nell’ottica del programma del Museo Diffuso e come già fatto la scorsa estate con i materiali restituiti al contesto della Casa delle Vestali”, conclude il direttore.

La prima puntata – in onda sabato 13 novembre 2021 – è dedicata alla Domus Aurea e ai reperti restaurati ed esposti nel nuovo percorso aperto al pubblico lo scorso giugno 2021. Amazzoni, Muse e capitelli trovano una nuova vita nelle sale del palazzo neroniano, animati da luci che esaltano i recenti interventi di restauro.

Il secondo appuntamento della rassegna – in programma per sabato 27 novembre 2021 – è dedicato ai materiali provenienti dagli scavi “storici” condotti sul Palatino e realizzati a partire dall’Ottocento da figure di spicco dell’archeologia romana e italiana quali Pietro Rosa, Rodolfo Lanciani, Giacomo Boni, Alfonso Bartoli: un percorso attraverso i depositi della Casa di Augusto e non solo che conservano i reperti provenienti dagli scavi dei palazzi imperiali del Palatino.

Con il terzo appuntamento – che sarà disponibile sabato 4 dicembre 2021 – si approfondiscono alcuni contesti di interesse eccezionale, esito di recenti indagini archeologiche sul Palatino: lo scavo delle pendici nord-orientali del Palatino, in collaborazione con la Sapienza Università di Roma sotto la direzione della prof. Clementina Panella, con gli straordinari ritratti riutilizzati nelle fondazioni di strutture tardoantiche nelle cd. terme di Elagabalo, e lo scavo in corso della Domus Tiberiana, condotto dal PArCo contestualmente agli interventi di restauro che interessano il monumento.

Il quarto episodio – che conclude il reportage sabato 18 dicembre 2021 – conduce infine nel cuore dell’Anfiteatro Flavio per conoscere lo straordinario patrimonio di reperti mobili custodito nei magazzini e nei depositi diffusi lungo il percorso di visita, fotografia della storia bi-millenaria del monumento – dai fasti degli spettacoli gladiatori, alla rovina nei secoli bui del Medioevo, alla riscoperta archeologica degli ultimi due secoli, fino alle attuali attività di ricerca, catalogazione, conservazione e manutenzione.
Roma. Il 18 febbraio ha riaperto il museo Palatino, scrigno della storia del colle che ha visto la nascita di Roma e la formazione del potere imperiale

Un’altra buona notizia. Da oggi, giovedì 18 febbraio 2021, ha riaperto il museo Palatino, scrigno della storia del colle che ha visto la nascita di Roma e la formazione del potere imperiale. È visitabile dalle 10.30 alle 16.30 (ultimo ingresso, alle 15.30) con il biglietto ordinario 24h – Colosseo, Foro Romano, Palatino https://parcocolosseo.it/…/24h-colosseo-foro-romano…/. Il museo Palatino è allestito nell’ex convento delle Monache della Visitazione, costruito nel 1868 sui resti del palazzo di Domiziano sul colle Palatino. Qui l’archeologo Alfonso Bartoli, negli anni Trenta del Novecento, allestì il nuovo Antiquario Palatino. Bartoli, per consentire l’ampliamento degli scavi archeologici allora in corso sul colle, fece demolire l’edificio in stile neogotico che lo scozzese Carlo Mills aveva fatto costruire sulla sua sommità. Nel 1882 e poi durante la Seconda Guerra Mondiale, molti dei materiali rinvenuti nei numerosi scavi che dalla seconda metà dell’Ottocento interessarono il colle Palatino furono trasferiti al museo delle Terme (di Diocleziano). Al termine del conflitto, solo una minima parte della collezione fece definitivamente ritorno al Palatino. Negli anni Novanta del secolo scorso il museo fu riorganizzato e in occasione del Bimillenario Augusteo è stato riallestito migliorandone la fruibilità grazie anche a installazioni multimediali. Il percorso si articola su due piani. Al pian terreno, in ambienti che conservano le strutture originarie delle domus preesistenti, è narrata la storia del colle dalle origini di Roma fino all’avvento del Principato (I secolo a.C.). Al primo piano, fra le molte opere esposte, da non perdere, nella sala VI, i reperti dell’epoca di Augusto, l’imperatore che per primo modificò l’aspetto del Palatino, e, nella sala VII, i mosaici e le preziose pitture provenienti dalla neroniana Domus Transitoria.
Roma. Archeologi e restauratori del parco archeologico del Colosseo raccontano il cantiere di restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano. E a primavera giornata di studi internazionali sull’Aedes Vestae

Un arcobaleno ha salutato la fine dei lavori di restauro del Tempio di Vesta nel Foro Romano. “Mentre si smontano i ponteggi e il monumento torna pian piano completamente visibile”, raccontano archeologi e restauratori del parco archeologico del Colosseo che hanno seguito i tre mesi di lavori, e annunciano una buona notizia: “Stiamo organizzando una giornata internazionale di studi dedicata proprio all’Aedes Vestae che, con i buoni auspici della Dea (leggi Covid permettendo), sì terra il 1º Marzo 2021”.

Il tempio di Vesta, nel Foro romano, è il fulcro del complesso monumentale legato al culto di Vesta, culto antichissimo e risalente già al secondo re di Roma Numa Pompilio, più volte ricostruito a causa dei numerosi incendi e infine restaurato, nelle forme visibili ancora oggi, dall’imperatrice Giulia Domna verso la fine del II secolo d.C. Dal podio circolare in opera cementizia rivestito in marmo, si innalzavano colonne con capitelli corinzi. L’interno accoglieva il braciere con il fuoco sacro, che non doveva mai spegnersi, simbolo dell’eternità di Roma e del suo destino di impero universale. La forma circolare era forse ispirata a quella delle capanne di epoca arcaica, con un foro al centro del tetto conico per far uscire il fumo. All’interno del tempio era anche conservato il Palladio, piccolo simulacro di Atena-Minerva, portato a Roma, secondo la leggenda, da Enea e simbolo della nobiltà della stirpe romana. Accanto al tempio è la casa delle Vestali, sacerdotesse dedicate al culto di Vesta e alla sorveglianza del fuoco sacro, l’unico sacerdozio femminile di Roma. In numero di sei e provenienti da famiglie patrizie, dovevano osservare il loro servizio per 30 anni, conservando la verginità, pena la morte. In cambio godevano di molti privilegi (si spostavano in carro in città e disponevano di posti riservati negli spettacoli).
Tutto è iniziato il 30 settembre 2020. E non è stato un caso. Il 30 settembre 1930 a seguito dei numerosi incendi, crolli e spoliazioni che ne avevano compromesso l’intera struttura, Alfonso Bartoli, direttore dell’Ufficio Scavi del Palatino e del Foro Romano, ordinò la ricostruzione del Tempio sulla base di un modello in gesso al vero, poi smontato. A distanza di 90 anni, il 30 settembre 2020, l’archeologa Federica Rinaldi insieme a tutto lo staff del cantiere inizia il racconto dei lavori di restauro avviati alla riapertura, in giugno 2020, del parco archeologico del Colosseo dopo il lockdown.

Immagini d’archivio dei restauri e ricostruzione per anastilosi del Tempio di Vesta negli anni 1929-30 (foto PArCo)
La funzionaria archeologa del PArCo Giulia Giovanetti e Dimosthenis Kosmopoulos, archeologo e collaboratore del PArCo, ci raccontano le ricerche che hanno accompagnato il cantiere di restauro del Tempio di Vesta, iniziato nel 2019, per conoscere meglio il monumento e la sua storia. “Oggi ci troviamo di fronte al monumento che non è come ci è stato trasmesso dal mondo antico”, spiega Giovanetti. “Infatti noi operiamo un restauro su un monumento che è stato completamente ricostruito all’inizio del ‘900, tra gli anni Venti e gli anni Trenta. Questa ricostruzione utilizzò una serie di elementi antichi che erano stati rinvenuti nei dintorni del tempio del quale si conservava esclusivamente il basamento circolare e nulla degli elevati. Dalle foto di archivio del primo Novecento si vede bene che molti dei frammenti architettonici che erano stati disposti tra Otto e Novecento nell’area del tempio in realtà erano già stati studiati, catalogati e posizionati per tentare di ricostruire l’elevato del tempio. Il tempio di Vesta è uno dei monumento del Foro romano che aveva restituito e conservato tantissimi elementi architettonici, e quindi già Rodolfo Lanciani alla fine dell’Ottocento e lo stesso Giacomo Boni decisero di studiarne gli elementi. A quel tempo tuttavia si decise che c’erano troppe incertezze per proporre una ricostruzione completa e quindi si accantonò il progetto di ricostruzione. In un’altra foto d’archivio si vede che è già stato realizzato il restauro, ma gli elementi ricostruiti sono posizionati in modo differente da come li vediamo attualmente. Si vede infatti che il tempio dei Dioscuri si trova a lato delle colonne del tempio di Vesta. E un’altra foto ci rivela che fu realizzato un modello in gesso al naturale preliminarmente al restauro e alla ricostruzione vera e propria. Quindi da una collazione delle fonti scritte e fotografiche ricostruiamo che il modello in gesso fu realizzato in una certa posizione, ma che poi una volta demolito la ricomposizione del tempio fu fatta rivolgendo le colonne verso la piazza del Foro, quindi nella posizione attuale.

Le impalcature per il restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano nel 2020 (foto PArCo)
“Questa ricomposizione, ritenuta importante fin dall’Ottocento ma poi accantonata, fu realizzata in periodo fascista sostenuta da motivazioni ideologiche, di propaganda politica, di connessione con l’antichità, in particolare con Vesta: perciò – conclude Giovanetti – si decise di recuperare e portare avanti il progetto. E ne parlarono diffusamente i quotidiani dell’epoca. E il 21 ottobre 1929 il grande architetto Gustavo Giovannoni fu chiamato a seguire questo restauro e il cantiere vero e proprio”. Dalla ricerca d’archivio al di fuori del parco archeologico del Colosseo Dimosthenis Kosmopoulos ha scovato un documento in cui si dice che si consigliava proprio ai giovani architetti lo studio dei molti frammenti a terra. “C’è stato anche un lungo dibattito sull’orientamento del tempio di Vesta, e alla fine ha prevalso la scelta verso il Campidoglio per una situazione più ottimale dal punto di vista altimetrico del terreno. E si scopre anche – una curiosità – che i lavori furono sospesi per un periodo per consentire al direttore dei lavori di allestire il matrimonio del principe ereditario. Comunque lo studio d’archivio ci permette di essere più precisi sulle scelte e sull’uso dei materiali per il restauro”.
Nel terzo appuntamento l’archeologa Federica Rinaldi, direttrice del Colosseo, è in compagnia dell’archeologa Francesca Caprioli (PhD, ricercatrice e docente in collaborazione con Sapienza Università di Roma e UCLA), esperta del tempio di Vesta, che focalizza soprattutto la funzione simbolica del tempio che molto dipende dalla sua forma. “La forma architettonica del tempio di Vesta rimane invariata fin dalla sua origine”, spiega Caprioli. “Ovidio ci dice nelle Metamorfosi che è legata alla forma della terra. L’Aedes Vestae si caratterizza fin da subito per essere non un tempio ma un aedes vero e proprio, un sacrarium, quindi una custodia dell’ignis aeternus, del fuoco sacro che poi nella propaganda augustea si dice venisse direttamente da Enea, dalla città di Troia, proprio per garantire questo imperium sine fine che da allora per tutta la durata dell’impero romano doveva ardere all’interno di questo sacrario. La forma quindi rotonda e anche la sua caratteristica di custodire il fuoco sono testimoniati sia dall’elevato architettonico (il decor) sia dal nome stesso, aedes, che ha la stessa radice di edificio, viene dal verbo greco che significa bruciare, ha la stessa etimologia di aestas (estate), e della stessa Vesta (la greca Estia), e ancora di ustionare: quindi è la casa del fuoco. Questa casa del fuoco era quindi prima una capanna dalla forma circolare, e poi piano piano è stata monumentalizzata mantenendo sempre la forma rotonda e, anche nell’elevato, il concetto di capanna e di contenitore (del fuoco). Le monete ci testimoniano la conservazione della forma dei secoli. E si arriva all’incendio del 14 a.C. quando Augusto ricostruisce il sacrario di Vesta dandogli un aspetto leggermente diverso. Compare un podio sagomato su cui si impostavano le colonne. Questa iconografia augustea, di cui non abbiamo testimonianza, viene reiterata dopo l’incendio del 64 d.C. con l’intervento di Tito e Domiziano, e verrà in qualche modo fissata dalla metà del I sec. d.C. Com’era dunque il tempio di Vesta? Un edificio rotondo con 20/22 colonne con fusto rudentato, cioè riempite per un terzo dell’altezza del fusto (ricorderebbe – secondo alcuni studiosi – il gusto dell’incannucciata della capanna). Probabilmente si vuole dare l’idea di uno spazio chiuso, protetto. Le colonne esterne hanno due lati scalpellati proprio per l’introduzione delle transenne. I capitelli sono a foglie d’acanto, che simboleggiano il trionfo sulla morte, secondo l’iconografia scelta da Augusto dal linguaggio ellenistico per celebrare anche il suo trionfo sulla morte di Cesare. Questi capitelli mostrano un respiro di epoca flavia, e attraverso i confronti tipologici, è stato possibile attribuirli a un’officina corrente che in qualche modo restaura il tempio anche nella seconda metà del II sec. d.C. Il materiale del tempio è fortemente restaurato anche in antico: quindi è un materiale che reitera l’iconografia flavia per almeno tutto il II sec. d.C. in un’officina di stile corrente non particolarmente brillante per la qualità e che però in qualche modo porta avanti l’aspetto del tempio dell’inizio I sec. d.C.”

Federica Rinaldi, con una restauratrice, sui ponteggi del cantiere del Tempio di Vesta nel Foro romano (foto PArCo)
“Quello che non sembra essere stato restaurato in antico”, continua Caprioli, “sono i soffitti e anche il fregio che mostra gli instrumenta sacra: si vede il bucranio con le infulae (bende di lana bianca con cui si cingeva il capo dei sacerdoti, delle vestali e delle vittime sacrificali), l’urceulus (piccola brocca), il culter (coltello), la securis (ascia), la scatola dove si contenevano gli incensi. E si vede anche una patera, un altro culter, un ramo d’olivo con le drupe, e un’idria che era fondamentale nel culto curato dalle Vestali. Questo fregio sembra contestuale con un periodo che viene definito di stile proto-severiano, quindi simile al linguaggio architettonico del Pantheon: quindi anche questo aspetto potrebbe essere ascritto al restauro del tardo II sec. d.C. L’aedes Vestae guarda il tempio della diva Faustina, eretto nel 141 d.C. dall’imperatore Antonino Pio e dedicato alla moglie Faustina, e solo nel 161 d.C., alla morte dell’imperatore, dedicato a entrambi. Antonino Pio si è caratterizzato molto per la pietas, virtù che in qualche modo legava l’uomo attraverso la religio con le divinità, ed era anche ricordato come restitutum aedum sacrum: ciò è importante, perché Antonino Pio scelse per la costruzione del suo tempio, l’ultimo del Foro romano, la posizione proprio davanti l’antico tempio di Vesta. Ci sono due testimonianza che possono far pensare agli Antonini per il restauro del tempio di Vesta. Una è un medaglione in bronzo di Faustina che riproduce l’imperatrice come vestale maxima che sacrifica davanti a un tempio rotondo, sicuramente il tempio di Vesta. L’altra è il famoso medaglione d’argento di Iulia Domna che mantiene la stessa iconografia, su cui si basa la vulgata proprio per l’ultimo restauro del tempio che è quello che vediamo. Quindi dallo studio degli elementi architettonici del tempio di Vesta cogliamo un linguaggio di II secolo. Nel 191 d.C. fu danneggiato da un altro incendio, e fu di nuovo restaurato e ci sono dei frammenti che confermano questo rapporto modello-copia: quindi si perpetua in qualche modo un modello iniziato in età augustea. Era un simbolo, e questo simbolo appunto fu conservato vivo perché doveva essere come una sorta di miracolo sempre in piedi, sempre uguale, sempre del medesimo aspetto dall’epoca augustea fino, per lo meno, al 396, quando abbiamo l’ultima testimonianza dell’aedes Vestae: monumento della stabilità e dell’aeternitas dell’impero”.

Il cantiere di restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano (foto PArCo)

Smontaggio dei ponteggi del cantiere di restauro del Tempio di Vesta (foto PArCo)
Nel quarto appuntamento, avviandosi ormai il cantiere alla conclusione dei lavori, Federica Rinaldi, funzionario archeologo e Angelica Pujia, funzionario restauratore, illustrano le attività di restauro fino qui condotte. “Siamo di nuovo sui ponteggi. Stesso tempio, stesso tempio, diverse condizioni delle superfici”, inizia a spiegare Angelica Pujia. “Siamo arrivati quasi alla fine dei lavori, grazie a Irene Giuliani e al team di restauratrici che ha guidato. Come tutti gli interventi di restauro, anche questo è stata un po’ una sfida. Abbiamo avuto la possibilità di osservare il tempio dal basso, e quindi abbiamo ipotizzato alcune forme di degrado. Salire sul ponteggio però ci ha permesso di confrontare quello che era stato il degrado che noi avevamo individuato con la reale condizione di questo manufatto. Manufatto che è composto da materiali differenti con storie conservative estremamente diverse. L’anastilosi del tempio risale a circa novant’anni fa. Abbiamo materiali che sono stati preparati per la ricostruzione del tempio, come il travertino, e materiali invece come il marmo che hanno avuto un storia conservativa ben più lunga, perché fanno parte del monumento originale. Questo intervento ci ha permesso di verificare lo stato delle superfici rispetto a uno stato di partenza molto differente, e quindi materiali in opera da poco tempo rispetto a quelli antichi. E poi è stato interessante vedere il modo in cui i vari materiali sono stati rimontati, quali sono stati i metodi per la ricostruzione, e in che modo i materiali originali hanno reagito a queste sollecitazioni. Sono stati quindi elaborati metodi di pulitura, di consolidamento differenti non solo per i diversi materiali, ma anche per i diversi stati di conservazione che gli stessi materiali avevano nelle parti alte e nelle parti basse, e quindi sottoposti a fattori di degrado differenti. Abbiamo cercato di intervenire senza modificare più di tanto l’impostazione degli anni Trenta, ma restituendo l’idea filologica di un tempio nella sua forma architettonica.

Lo staff che ha seguito il cantiere di restauro del Tempio di Vesta nel Foro romano (foto PArCo)
“Il restauro, oltre ad allungare la vita del bene culturale, è anche un momento di conoscenza. E quindi alla fine di ogni restauro le nostre conoscenze sono ampliate, e questo anche grazie al dialogo delle diverse figure professionali coinvolte, che hanno messo in relazione le notizie storico-artistiche con i risultati delle indagini scientifiche ma anche le informazioni sul sistema di ancoraggio dei singoli elementi. E abbiamo potuto anche fare il punto sulle condizioni strutturali del monumento. Abbiamo dovuto fare i conti con il travertino, usato nella ricostruzione, e con il marmo, usato dagli antichi, ma anche con i materiali usati per mettere insieme marmo e travertino, come il cemento: materiali che ora non utilizziamo più perché hanno proprietà meccaniche troppo differenti dai materiali antichi. Ma ormai sono interventi storicizzati che fanno parte del monumento”.
“Palatium. Abitare sul Palatino dalla fondazione di Roma all’età moderna”: il parco archeologico del Colosseo propone un viaggio alla scoperta delle abitazioni succedutesi sul colle nel corso dei secoli. Nona puntata: il Palatino neogotico con Villa Mills

Dall’età arcaica e ancora in parte fino alla fine del XIX secolo il colle su cui nacque Roma fu una zona prevalentemente “residenziale”. La vocazione abitativa del Palatino culminò nel I secolo d.C. con la costruzione dei palazzi imperiali: essi si identificarono così strettamente con il colle su cui sorgevano, che il suo nome latino, Palatium, è ancora oggi utilizzato in molte lingue moderne con il significato di “edificio residenziale”. Il parco archeologico del Colosseo propone “Palatium. Abitare sul Palatino dalla fondazione di Roma all’età moderna”, viaggio alla scoperta delle abitazioni – e dei loro abitanti – che nel corso dei secoli si sono succedute sul colle Palatino. In questa nona puntata scopriamo il Palatino neogotico con Villa Mills.


Operai impegnati nel lavori di demolizione di Villa Mills sul Palatino (foto PArCo)
Nel corso dei secoli il Palatino si era trasformato in un luogo signorile dove le importanti famiglie romane stabilirono le loro dimore. Già a partire dal XIV secolo, tra la Domus Flavia e lo Stadio, era sorta la villa fatta costruire dalla famiglia Stati e poi acquistata nel Cinquecento dai Mattei. Su questa, secoli dopo, si impostò Villa Mills così chiamata dallo scozzese Charles Mills, che la acquistò e la modificò eliminando le precedenti strutture rinascimentali e donandole il caratteristico aspetto neogotico, che oggi conosciamo solamente grazie alla documentazione fotografica: la villa infatti fu quasi interamente demolita tra gli anni ’20 e ’30 del ‘900 da Alfonso Bartoli, quando iniziarono gli scavi sistematici volti a riportare alla luce le rovine imperiali.


L’interno di Villa Mills durante i lavori di demolizione (foto PArCo)
L’unica sezione che rimane della Villa rinascimentale è la piccola loggia conosciuta come Loggia Mattei, ancora visitabile, che fu decorata da Baldassarre Peruzzi o dalla sua bottega. L’edificio che oggi ospita il Museo Palatino è parte della più recente struttura fatta costruire dalle monache della Visitazione nel 1868 come convento e poi trasformato in Museo da Bartoli per conservare i materiali che gli scavi man mano stavano riportando alla luce. Probabilmente uno degli ultimi che ebbe il piacere di vedere la Villa fu Stendhal che la visitò nel primo quarto del XIX secolo e la citò nella sua celebre opera “Passeggiate romane”, definendola una delle cose notevoli da vedere a Roma.
2773° Natale di Roma. Ecco la cronaca degli eventi on-line promossi il 21 aprile dal Parco archeologico del Colosseo: dai restauri dell’arco di Tito e di quello di Settimio Severo, agli studi sul tempio di Vesta e la Colonna Traiana, con i saluti di Alfonsina Russo e l’intervento dell’archeologo Andrea Carandini
“Ogni 21 aprile, a mezzogiorno, il sole entra nell’oculus del Pantheon con un’inclinazione tale da creare un fascio di luce che centra perfettamente il portale d’ingresso. A quell’ora esatta, quando l’Imperatore varcava la soglia del tempio, tutto il suo corpo era immerso nella luce. Uno dei primi grandi effetti speciali della Storia”. Così il ministero per i Beni e le Attività e il Turismo apriva ufficialmente le celebrazioni del 2773.mo Natale di Roma, martedì 21 aprile 2020. Cui seguiva a ruota quello del ministero per gli Affari Esteri.
“Oggi Roma festeggia il suo compleanno sottovoce. Ma non ci scoraggiamo: ammirata da secoli in tutto il mondo, nulla l’ha mai piegata. Dall’occhio di un drone, ecco un assaggio di ciò che la rende la Città Eterna. Buon 2773° compleanno alla Capitale d’Italia. Ringraziamo per la gentile concessione del video Nils Astrologo, Gianmarco Gabriele e Mauro Pagliacci: https://www.youtube.com/channel/UCu6H…“. E poi è cominciata la ricca programmazione del Parco archeologico del Colosseo, che quest’anno, causa emergenza coronavirus, ha dovuto rinunciare agli eventi esterni, concentrandosi sui canali social: Roma 753 a.C..
Ha aperto la giornata il benvenuto di Alfonsina Russo, direttrice del Parco archeologico del Colosseo. “Sono passati 2773 anni dalla fondazione di Roma. Roma ha visto e conosciuto di tutto, ha superato tutto ciò che di bello e di meno bello il tempo le ha riservato, ma Roma non si è mai persa d’animo. Anche in questo momento tormentato del 2020 in cui il silenzio è calato sulla città abituata al frastuono e alle mille voci dei visitatori che quotidianamente visitano la città, i mille sorrisi che ogni giorno animano questo luogo, però Roma rinasce e ci lascia la sua testimonianza di grandezza e di splendore. Il Parco archeologico del Colosseo è proprio il custode delle sue origini e ha il compito e la missione di trasmettere la storia di Roma. In questo Natale così silenzioso abbiamo scelto di dare voce direttamente ai monumenti e raccontare come ci prendiamo cura di loro. I nostri canali social offriranno a tutti il racconto dei restauri, della manutenzione, che garantiscono la tutela e la trasmissione della storia. Video, con spettacolari riprese da drone, ci accompagneranno a scoprire la Colonna Traiana, l’arco di Settimio Severo, e vi faranno camminare sui pavimenti musivi del Palatino, vi faranno scoprire le tecniche di anastilosi degli anni Trenta al tempio di Vesta. Tutto questo tornerà nuovamente a essere realtà, non appena l’emergenza sarà finalmente superata. I cantieri riapriranno e la storia tornerà a scorrere. Siate numerosi in questa festa di Roma”. Un augurio che si è tradotto in realtà. Tanto che a fine giornata sono arrivati i ringraziamenti della direzione: “Grazie per averci seguito così numerosi nel #Natale di Roma!”.
L’arco di Tito. “Abbiamo approfittato dei lavori di restauro per dare un’occhiata all’interno dell’Arco di Tito, uno dei tre grandi archi del Parco archeologico del Colosseo: ecco cosa abbiamo scoperto”. Il video è di Mario Cristofaro.

Pannello in opus sectile dalla Domus Tiberiana, conservato nel museo del Palatino (foto parco archeologico del Colosseo)
Dopo aver sbirciato dentro l’arco di Tito, si fa un salto al museo del Palatino, allestito nell’ex convento delle Monache della Visitazione, costruito nel 1868 sui resti del palazzo di Domiziano. Qui l’archeologo Alfonso Bartoli, negli anni Trenta del Novecento, allestì il nuovo Antiquario Palatino. Negli anni Novanta del secolo scorso il museo fu riorganizzato e in occasione del Bimillenario Augusteo è stato riallestito migliorandone la fruibilità grazie anche a installazioni multimediali. Al primo piano, nella sala VI, i reperti dell’epoca di Augusto, l’imperatore che per primo modificò l’aspetto del Palatino, e, nella sala VII, i mosaici e le preziose pitture provenienti dalla neroniana Domus Transitoria. Da non perdere un pannello in opus sectile rinvenuto da Pietro Rosa negli scavi effettuati, fra il 1865 e il 1867, in alcuni ambienti della Domus Tiberiana. Ispirato a modelli tessili e realizzato con diverse tipologie di marmi e frammenti lapidei, presenta un campo centrale inquadrato da tre cornici. Al centro è visibile un fiore di loto aperto formato da quattro quadrati con i lati concavi, ornati da un motivo a croce composto da quattro dischi disposti intorno ad uno, minore, centrale. Ai lati, invece, ad una prima cornice non decorata segue un motivo a spina di pesce con stella angolare a quattro punte e, a chiudere la decorazione, un motivo ad ovuli con una foglia trilobata posta nell’angolo.
Il Tempio di Vesta che oggi ammiriamo nel Foro Romano è il frutto di una ricostruzione “più scenografica che filologica” operata nel 1930 da Alfonso Bartoli a partire da un modello in gesso in scala reale! Tutto questo e molto altro sarà presto disponibile nella nuova pannellistica di cantiere pronta per raccontare la storia e il restauro del Tempio che il Parco archeologico del Colosseo ha in programma a partire dal mese di giugno. Il video di Mario Cristofaro è un’anteprima. Il Gruppo di lavoro per il restauro del Tempio di Vesta è coordinato e diretto da Federica Rinaldi e Maria Maddalena Scoccianti con Angelica Pujia, Maria Bartoli e Giulia Giovanetti. La grafica di cantiere è opera di Marika Cirigliano e Simonetta Massimi. Il rilievo del Tempio è della società NADIR.
Il Tempio di Vesta è uno dei più antichi luoghi di culto dell’area del Foro Romano. All’interno era custodito il “fuoco sacro dello Stato” che doveva rimanere sempre acceso. Per questa importante funzione, esattamente come le capanne che costituirono il primo abitato della città sul Palatino tra VIII e VII sec. a.C. e che custodivano il focolare domestico, aveva forma circolare e una copertura con foro centrale che permetteva la fuoriuscita del fumo. A sorvegliare il fuoco erano preposte le Vestali, l’unico sacerdozio femminile di Roma. Stiamo ovviamente parlando del Tempio di Vesta al Foro Romano che nel corso dei secoli, proprio per la presenza del fuoco, subì numerosi incendi e distruzioni. Uno degli ultimi fu quello del 191 d.C. cui seguì il restauro ad opera di Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo. Dopo l’abolizione dei culti pagani da parte dell’imperatore Teodosio I nel 391-392 d.C. il sacro fuoco venne spento e l’ordine delle Vestali venne sciolto. Seguì un periodo di abbandono e di spoliazioni, particolarmente pesanti nel corso del 1500.
“Il 21 aprile è proprio il Natale di Roma”. Alle 17, l’atteso intervento del professor Andrea Carandini del comitato scientifico del Parco archeologico del Colosseo. “Oggi è il 21 aprile, noto come Natale di Roma. Chiedo: è una falsità, un’invenzione tarda – per dire del III sec. d.C. riguardo ad avvenimenti dell’VIII sec. a.C.? o è una verità per cui ha un senso celebrare i Natali di Roma? Io credo che abbia una verità perché, anche se la leggenda dice che Roma è nata dal nulla, i grandi antiquari di Roma come Varrone dicevano che “dove ora è Roma c’era un tempo il Septimontium”. Quindi prima di Roma esisteva un abitato che si chiamava Septimontium, e questo dato è confermato pure dallo stesso 21 aprile che noi sappiamo essere il più antico Capodanno dei latini legato alla vita pastorale, anteriore al 1° di marzo che è il Capodanno della città fondata da Romolo. Quindi è un più antico Capodanno ed è su quel Capodanno antico che Romolo ha voluto fondare la città intorno alla metà dell’VIII secolo, quindi intorno al 750 a.C. Il 21 aprile era la festa di Pales, una divinità che non si capiva bene se era maschio o femmina, che non si capiva se era uno o due, ma era legata alla pastorizia, agli armenti, ed era la divinità soprattutto del Cermalus, che era un angoletto del Palatino dove Roma era stata effettivamente fondata. Quindi era la dea locale del luogo dove è stata fondata Roma. Tutto questo era ragionevole. Poi io ho scavato per 35 anni sul Palatino, tra il Palatino e il Foro, e ho scoperto la grande Roma dei Tarquini, alla quale molti storici non credevano, e addirittura la Roma romulea, alla quale gli storici in gran parte non credono per niente, e addirittura la Roma prima di Roma, cioè il Septimontium. Quindi con l’archeologia ho riguadagnato secoli e secoli di storia, almeno tre e mezzo, che erano stati negati dagli storici nel più grande fallimento della cultura umanistica occidentale. È molto molto probabile che un abitato, che si chiamava Settemonti e che quindi era un aggregato di monti ma non era ancora una città, sia stato trasformato da un primo capo o re, come Romolo, intorno alla metà dell’VIII sec. in una città che aveva un colle benedetto, il Palatino, quindi superiore agli altri colli, e poi aveva un centro politico-sacrale nel Foro e nel Campidoglio dove il re governava davanti ai rappresentanti dei vari rioni. Tutto questo è stato trovato negli strati, scavandoli uno a uno, e scendendo nel VII, nell’VIII e nel IX, e a volte addirittura nel X sec. a.C. Non dimentichiamo che nell’antichità le città non si fondavano, erano degli atti religiosi e sacrali che segnavano un nuovo inizio che ovviamente aveva bisogno di una grande personalità come Romolo, ritenuto addirittura figlio di Marte, quindi una specie di eroe, che potesse dare effettivamente un nuovo inizio a Roma come città, quindi come urbs”.
La Colonna Traiana: i restauri a cura del Parco archeologico del Colosseo. “Più lo si contempla [il Foro di Traiano], più sembra un miracolo: chi sale all’Augusto Campidoglio scorge un’opera che è al di sopra del genio umano”. Così Cassiodoro (Varia, VII, 6) e in effetti da sempre ci si interroga sull’ingegno, la sapienza e il lavoro degli uomini che resero possibile quel mirabile monumento che è la Colonna Traiana, per la cui realizzazione fu cavato il marmo delle Alpi Apuane, furono trasportate tonnellate di blocchi sulle navi marmorarie da Luni al porto di Traiano e poi furono scaricati, movimentati, lavorati e messi in opera i blocchi fino a più di 40 metri di altezza dal suolo. Oggi ripercorriamo una parte di questa vicenda, “srotolando” i 200 metri di Storia raccontata sulla Colonna, in occasione delle campagne daciche condotte tra il 101 e il 106 d.C. I lavori di restauro in programma nei prossimi giorni sul basamento che in antico doveva ospitare le ceneri dell’imperatore e forse della moglie Plotina sono stati l’occasione per realizzare un modello digitale della Colonna e poter così fruire, finalmente da vicino, di quel testo istoriato che ha reso eterne le gesta dell’Imperatore Traiano. I lavori di restauro del basamento sono diretti da Federica Rinaldi e Barbara Nazzaro con Angelica Pujia, Antonella Rotondi e Alessandro Lugari. Il rilievo e le riprese da drone della Colonna sono della società Di Lieto & C. srl. Editing video di Mario Cristofaro.
2773° Natale di Roma, siamo all’ultima tappa della giornata: l’arco di Settimio Severo. Dopo quasi mille anni dalla Fondazione di Roma l’imperatore venuto dall’Africa, Settimio Severo, “per il ripristino dello Stato e l’ampliamento dell’impero del Popolo Romano” fece erigere ai piedi del Campidoglio sulla Sacra Via l’Arco celebrante le due campagne militari contro il popolo dei Parti. La posizione dell’Arco fu scelta abilmente a nord dei Rostra Augusti, volutamente elevata tra la tribuna e l’area del Comizio, in modo che il monumento fosse attraversato direttamente dal cammino della Sacra via. L’arco poteva così essere percorso solamente attraverso scalini, che ne limitavano la funzionalità. Successivamente, in periodo tetrarchico, fu creato un passaggio centrale con una rampa continua su strada. Mirabile l’impegno decorativo. L’esperienza narrativa della Colonna Traiana e in particolare della Colonna di Marco Aurelio si riflette nell’Arco nei quattro pannelli collocati sulle due fronti principali, tutti da leggere dal basso verso l’alto: i modelli erano probabilmente i dipinti inviati da Settimio Severo al Senato con la narrazione degli eventi bellici, per la preparazione del trionfo che però non fu celebrato. Oggi il monumento si trova in un precario stato di conservazione a causa di processi di deterioramento di tipo chimico fisico, biologico, e antropico. Dopo i restauri compiuti negli anni Ottanta e Novanta è in programma a partire da settembre un intervento di manutenzione straordinaria che dovrà ripristinare lo stato di protezione delle superfici. I lavori di restauro sono diretti da Cristina Collettini e Federica Rinaldi con Raffaella Forgione, Angelica Pujia e Alessandro Lugari.
Parco archeologico del Colosseo, giornata di studi e mostra sulle maestose statue di Orientali in marmi colorati, a partire da quelle della Basilica Emilia: presentazione delle novità dal Foro Romano e da Terracina

La locandina della giornata di studi e della mostra “Statue di barbari in marmi colorati. Novità dal Foro Romano e Terracina”
Maestose statue di Orientali, grandi oltre il vero, realizzate in pregiati marmi colorati importati dalle province dell’Impero conquistano un posto di rilievo nell’architettura pubblica a partire dall’epoca augustea. Sulla scia del modello attestato per la prima volta a Roma nella serie di statue della Basilica Emilia, il motivo si diffonde negli spazi pubblici di diverse città del Mediterraneo, con una eccezionale testimonianza dal teatro di Terracina poco distante dall’Urbe. Accanto a un valore puramente estetico o di semplice manifestazione di luxuria, tali sculture dovevano veicolare significati simbolici importanti, strettamente legati alla propaganda imperiale ed ancora oggi da approfondire. Giovedì 6 giugno 2019, alla Curia Iulia nel Foro Romano, per gli eventi speciali del Parco archeologico del Colosseo di Roma, giornata di studi “Statue di barbari in marmi colorati. Novità dal Foro Romano e Terracina” per presentare i nuovi dati emersi dal riesame del materiale già noto e dalle testimonianze inedite di recente acquisizione, per offrire nuovi spunti di riflessione su una tipologia statuaria che desta grande ammirazione.

La statua di Orientale emersa dal teatro di Terracina (foto da http://www.latinaoggi.eu)
La giornata di studi apre alle 9.30 con i saluti del direttore del Parco archeologico del Colosseo, Alfonsina Russo. Quindi, dalle 10, gli interventi della prima sezione, moderata da Alessandro Viscogliosi. Inizia Patrizia Fortini (“La ri-scoperta della Basilica Emilia”), seguita da Francesca Consoli e Sabrina Violante (“Disiecta membra. Nuovi dati sui barbari del Foro Romano”). Dopo la pausa caffè, Lucrezia Ungaro (“Dalla Basilica Emilia al Foro di Augusto: una testa frammentaria di Orientale ritrovata”), Alessandra Capodiferro e Sabrina Violante (“Note sul “Dace” Mattei”), Nicoletta Cassieri (“Una monumentale statua di Orientale dal teatro romano di Terracina”), Gianluca Gregori (“Una nuova “eccezionale” iscrizione del triumviro Lepido dal teatro di Terracina”). La sezione pomeridiana, moderata da Lucrezia Ungaro, apre alle 15 con Susanna Bracci, Emma Cantisani, Donata Magrini (“Teste di Orientali della Basilica Emilia: analisi archeometriche”), seguite da Rolf Schneider (“Un quarantennio dopo Bante Barbaren: spunti di riflessione”), Patrizio Pensabene (“Estetica e policromia: l’uso dei marmi colorati in età imperiale tra architettura e scultura”). Alle 16.30 la discussione. La giornata si chiude con la visita alla mostra “Statue di barbari in marmi colorati. Novità dal Foro Romano e Terracina”, una selezione delle teste marmoree dei Barbari provenienti dalla Basilica Emilia, a conclusione di un intervento di restauro con il quale si è voluto mantenere traccia delle vicissitudine legate alla storia del monumento. La mostra rimarrà aperta al pubblico dal 7 giugno al 17 giugno 2019 negli orari di normale accesso al Parco archeologico del Colosseo.
La maggior parte dei 718 frammenti delle statue di Orientali della Basilica Aemilia è stata rinvenuta circa cento anni or sono nella Basilica da Giuseppe Boni e Alfonso Bartoli, altri nel contesto degli scavi di Ernesto Monaco nella chiesa di S. Teodoro. “Le statue portano la veste tipica degli orientali attestata nell’iconografia romana”, scrive Tobias Bitterer, “seppure in una redazione più raffinata e puntuale a confronto di altre raffigurazioni romane dello stesso soggetto. In luogo di una veste con molti giri di cintura, gli orientali indossano qui due vesti: una più sottile coperta da una più spessa, fermata da due giri di cintura. Questa seconda veste inoltre non è fissata sulla spalla ma inserita nella cintura sul lato corrispondente al piede di appoggio con un complicato motivo. Anche il berretto è leggermente modificato, in quanto non è dotato di lacci. Pantaloni e scarpe coincidono, invece, con l’iconografia usuale. Sebbene le statue costituiscano un gruppo omogeneo, nei particolari si differenziano per numerosi dettagli. Le statue, stanti e alte m. 2,30 ca, sono realizzate in tre diverse qualità di marmo: pavonazzetto e giallo antico mentre un grande frammento di veste scoperto recentemente è lavorato in marmo pentelico. Alle statue di orientali in marmo colorato, possono essere attribuite anche diciotto teste in marmo bianco con abbondanti resti di colore. Ad esse vanno aggiunti, infine, i frammenti in pavonazzetto pertinenti ad un’unica statua di orientale inginocchiato, rinvenuti durante i lavori di catalogazione. La posizione inginocchiata è testimoniata da un frammento di ginocchio piegato coperto da un mantello”.
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Graziano Tavan, giornalista professionista, per quasi trent’anni caposervizio de Il Gazzettino di Venezia, per il quale ho curato centinaia di reportage, servizi e approfondimenti per le Pagine della Cultura su archeologia, storia e arte antica, ricerche di università e soprintendenze, mostre. Ho collaborato e/o collaboro con riviste specializzate come Archeologia Viva, Archeo, Pharaos, Veneto Archeologico. Curo l’archeoblog “archeologiavocidalpassato. News, curiosità, ricerche, luoghi, persone e personaggi” (con testi in italiano)
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