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Lugano (Svizzera). Al Consolato Generale d’Italia organizza la conferenza “Archeologia e Archeoastronomia. Magie di luce negli antichi edifici romani” dell’archeologa Marina De Franceschini. Villa Adriana di Tivoli, Pantheon e Castel Sant’Angelo (mausoleo di Adriano) a Roma: tre grandiosi edifici costruiti quasi duemila anni fa visti sotto una nuova luce

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Effetti di luce dall’oculus del Pantheon a Roma (foto mic)

Il Progetto Accademia in collaborazione con il Consolato Generale d’Italia organizza la conferenza “Archeologia e Archeoastronomia. Magie di luce negli antichi edifici romani” dell’archeologa Marina De Franceschini. Appuntamento lunedì 6 maggio 2024, alle 18, a Lugano, nella sala Carlo Cattaneo del Consolato Generale d’Italia. La Villa Adriana di Tivoli, il Pantheon e Castel Sant’Angelo (mausoleo di Adriano) a Roma: tre grandiosi edifici costruiti con straordinaria maestria quasi duemila anni fa per durare in eterno (e senza computer). Visti sotto una nuova luce: Marina De Franceschini (archeologa) e Giuseppe Veneziano (archeoastronomo) sono i pionieri dello studio dell’orientamento astronomico negli antichi edifici romani, dove la luce del Sole crea speciali magie luminose, come a Stonehenge in Inghilterra o ad Abu Simbel in Egitto, che tutti conosciamo. Le loro scoperte hanno avuto inizio nell’Accademia della Villa Adriana di Tivoli, costruita dall’imperatore Adriano nel II sec. d.C.: il Sole la attraversa da una parte all’altra nei giorni del Solstizio estivo e invernale. L’archeoastronomia ha fornito una nuova chiave di interpretazione della sua funzione e significato simbolico, che si è affiancata a quelle tradizionali dell’archeologia. Nel Pantheon di Roma hanno scoperto l’Arco ed il Quadrato di Luce: straordinari fenomeni luminosi di incredibile precisione che si vedono per pochissimi giorni ogni anno. Ed infine hanno proposto una nuova ricostruzione del Mausoleo di Adriano (Castel Sant’Angelo) che si basa su un’altra spettacolare illuminazione che si vede nei giorni del Solstizio estivo.

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L’archeologa Marina De Franceschini

Marina De Franceschini, archeologa, ha studiato in Italia nelle università di Genova e Pisa e negli Stati Uniti al Bryn Mawr College (Pennsylvania). Si è dedicata alle ville romane con la loro architettura e decorazione, studiando la loro funzione e significato anche storico ed economico. Ricercatrice indipendente, ha collaborato con l’università di Trento, con le soprintendenze di Roma e del Lazio e con studiosi europei ed americani soprattutto per la Villa Adriana di Tivoli, della quale è una delle maggiori studiose. Il suo primo libro Villa Adriana. Mosaici, pavimenti, edifici (vincitore del premio l’Erma di Bretschneider) è tuttora un testo fondamentale per lo studio della Villa Adriana di Tivoli, sulla quale ha pubblicato altri due volumi. Altri studi riguardano le Ville romane della Venetia et Histria e quelle dell’Agro romano intorno a Roma. Allo studio delle fonti antiche ha sempre affiancato il lavoro di ricerca ed esplorazione sul campo. A partire dal 2005 ha creato e diretto il Progetto Accademia, per studiare l’Accademia della Villa Adriana di Tivoli, tuttora in proprietà privata e mai aperta al pubblico, adoperando per la prima volta il Laser Scanner. Assieme all’archeoastronomo Giuseppe Veneziano è pioniera dello studio dell’archeoastronomia negli edifici romani antichi. Ha scoperto straordinarie magie luminose a Villa Adriana, nel Pantheon e a Castel Sant’Angelo, capolavori di architettura dell’imperatore Adriano.

Egitto. Nel tempio di Abu Simbel si è rinnovato il “miracolo del Sole”

Il 22 febbraio 2023 nel tempio di Abu Simbel, in Egitto, si è rinnovato il “Miracolo del Sole”: un fenomeno unico che, due volte l’anno, il 22 ottobre e il 22 febbraio appunto, illumina la principale sala reale del tempio. Anche se i due grandi templi rupestri, fatti erigere da Ramses II nel cuore della montagna nel XIII sec. a.C., non sono più nella loro posizione originaria, smontati e ricostruiti in una posizione più elevata per salvaguardare il sito dall’allagamento in seguito alla creazione del bacino artificiale con la costruzione della grande diga di Assuan, il fenomeno è stato “salvaguardato”. Nel ricostruire – tra il 1964 e il 1968 – i templi, circa 210 metri più indietro e 65 metri più in alto, fu mantenuto infatti l’originale orientamento rispetto agli astri e al sole, in modo da consentire (seppur con lo sfalsamento di un giorno) al sorgere del sole, due volte l’anno – il 22 febbraio e il 22 ottobre – di illuminare la camera centrale del tempio maggiore dove troneggiano le quattro divinità sedute: Ptah, Amon, Ramses II e Ra.

Milano. L’università statale e l’Ambasciata d’Italia in Egitto dedicano una giornata a ricordare il salvataggio dei templi di File a 40 anni dalla straordinaria impresa con la presentazione del volume “File, la Perla del Nilo salvata dalle acque. Il contributo italiano”: incontro in presenza su invito e in streaming

File, tempio sommerso durante la piena del Nilo, secondo pilone, veduta da ovest. Foto di Alexandre Varille, anni 1940. Stampa su carta fotografica (Archivi Egittologia Università di Milano)

Quarant’anni fa, era il 1980, grazie alla collaborazione tra Egitto e Italia, si concludeva l’epica impresa del salvataggio del magnifico complesso faraonico sorto sul Nilo: i templi di File. A quella straordinaria impresa l’università statale di Milano e l’Ambasciata d’Italia in Egitto dedicano la giornata del 21 settembre 2021  con l’incontro “File salvata dalle acque. Alla Statale gli archivi di un’impresa straordinaria”, promosso con la partecipazione dell’Istituto Italiano di Cultura – Centro Archeologico Italiano al Cairo. Appuntamento in Sala Rappresentanza della sede di via Festa del Perdono dell’Università Statale, alle 11 (ingresso su invito e solo con Green Pass), in diretta sul canale YouTube d’Ateneo @UnimiVideo. L’evento sarà l’occasione per presentare il volume “File, la Perla del Nilo salvata dalle acque. Il contributo italiano”, curato dall’Ambasciata d’Italia al Cairo e dall’Istituto Italiano di Cultura – Centro Archeologico Italiano al Cairo e stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato attraverso il prestigioso marchio Libreria dello Stato.

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Giampaolo Cantini, ambasciatore d’Italia al Cairo

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Patrizia Piacentini, egittologa dell’università di Milano (foto mudec)

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Giuseppina Capriotti Vittozzi (Centro Archeologico Italiano – Istituto Italiano di Cultura del Cairo)

La giornata sarà aperta, alle 11, dai saluti istituzionali del rettore Elio Franzini, della prorettrice a Ricerca e Innovazione Maria Pia Abbracchio, e da Claudia Berra, direttrice del dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici dell’Ateneo milanese. Ai saluti istituzionali seguirà l’intervento (da remoto) di Giampaolo Cantini, ambasciatore d’Italia in Egitto, su “L’Italia in Egitto: l’anniversario di una grande impresa”. Quindi, alle 11.30, gli interventi in presenza: Patrizia Piacentini, ordinario di Egittologia (Università di Milano), su “L’archivio Condotte negli Archivi di Egittologia dell’Università degli Studi di Milano”; Matteo Uggetti, commissario straordinario della Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.A., su “Le Condotte in Egitto”; Giuseppina Capriotti Vittozzi, Centro Archeologico Italiano – Istituto Italiano di Cultura del Cairo, presenta il volume “File, la Perla del Nilo salvata dalle acque. Il Contributo dell’Italia”, Roma, Poligrafico e Zecca dello Stato, 2021; Antonio Palma, presidente del Poligrafico e Zecca dello Stato Italiano, su “Il volume su File nel Catalogo della Libreria dello Stato”. Chiude, alle 12.10, la proiezione del video “Egyptian-Italian Cooperation for the Preservation of the Egyptian Cultural Heritage”.

Il tempio di Iside sull’isola di File vicino ad Assuan (Egitto)

Il volume raccoglie gli Archivi della Società Italiana per Condotte d’Acqua SpA (donati nel dicembre 2020 all’università di Milano) che ripercorrono la straordinaria impresa che 40 anni fa permise di salvare dalle acque, in seguito alla costruzione della Grande Diga di Assuan a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, i monumenti dell’antica File e altri monumenti della Nubia, come quelli di Abu Simbel, che sarebbero andati definitivamente perduti. Nell’ambito della Campagna UNESCO (1960-1980), infatti, i monumenti furono salvati grazie a un intervento di traslazione altamente specialistico, nel quale l’Italia ebbe un ruolo importante. L’ultimo salvataggio fu quello di File, dove i lavori furono portati a temine dalla Società Italiana Condotte – Mazzi Estero (mentre il precedente intervento ad Abu Simbel era stato messo in atto da Impregilo).

Egitto. Al Cairo mancano due giorni alla grande parata dei faraoni del 3 aprile col trasferimento di 22 mummie reali dal museo Egizio di piazza Tahrir al nuovo museo nazionale della Civiltà egizia di Fustat. Il Governo avvia una campagna promozionale e annuncia dirette tv e on line. Oggi conosciamo altri sei protagonisti del corteo

Per la Parata d’oro dei Faraoni al Cairo del 3 aprile previste dirette tv e on line

egitto_cairo_corteo-mummie_golden-pharaohs'-golden-parade_logoMeno due. Tanti sono i giorni che ci dividono dalla “parata d’oro dei faraoni” del 3 aprile 2021 che “sarà un evento globale”: il Governo egiziano ne è convinto, e non vuole lasciare nulla al caso. Così dalla sera di giovedì 1° aprile 2021 il ministero del Turismo e delle Antichità lancerà un’importante campagna pubblicitaria per promuovere la processione delle mummie reali sulle piattaforme dei social media arabi e internazionali, in particolare nei principali mercati per il turismo dell’Egitto. “Questa campagna promozionale”, assicura l’ing. Ahmed Youssef, amministratore delegato dell’Autorità Experience Egypt,  “comprenderà la traduzione di tutto il materiale promozionale e dei filmati dell’evento in 14 lingue diverse, da collocare sulle pagine ufficiali dei siti di social media Instagram, Facebook, Twitter e YouTube nel mercato arabo e internazionale”. L’obiettivo sono alcuni importanti mercati esportatori di turismo in Egitto; tra questi Paesi ci sono Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bielorussia, Ucraina, Inghilterra, Giappone e Stati Uniti d’America, Italia, Francia e Germania. La processione delle mummie reali sarà trasmessa in diretta da diversi canali televisivi internazionali e arabi, oltre al live streaming sul canale YouTube ufficiale del Ministero e dell’Authority Experience Egypt. E in attesa del grande evento il ministero del Turismo e delle Antichità “svela” i nomi di re e regine le cui mummie andranno a stare nella nuova dimora a Fustat: oggi facciamo la conoscenza di altri sei protagonisti della “Golden parade” del 3 aprile 2021.

La mummia del re Amenhotep III fu trovata nel 1898 nella tomba di Amenhotep II (KV 35), nella Valle dei Re a Luxor (foto ministry of Tourism and Antiquities)

La mummia del re Amenhotep III, trovata nel 1898 nella tomba di Amenhotep II (KV 35) nella Valle dei Re a Luxor, fa parte delle 22 mummie reali protagoniste della parata d’oro dei faraoni. Il re Amenhotep III è il figlio del re Thutmose IV, della XVIII dinastia (Nuovo Regno). Quando si entra nel museo Egizio di Tahrir, si incontra una meravigliosa enorme statua del re Amenhotep III e di sua moglie, la regina Tiye, simbolo del loro forte legame e del loro potere eterno. E a Kom el-Heitan (Tebe Ovest), il suo tempio funerario era fronteggiato da enormi statue oggi conosciute come i Colossi di Memnone. Il re Amenhotep III ha lasciato molti monumenti importanti, tra cui un gran numero di statue.

La mummia del regina Tiye è stata trovata nel 1898 nella sua tomba di Amenhotep II (KV 35) nella Valle dei Re a Luxor (foto ministry of Tourism and Antiquities)

La mummia della regina Tiye, scoperta nel 1898 nella Tomba di Amenhotep II (KV 35), nella Valle dei Re, a Luxor, sarà tra le 22 mummie reali trasferite dal museo Egizio di Tahrir al museo nazionale della Civiltà Egizia a Fustat. La regina Tiye era la figlia di Yuya e Tjuya del Nuovo Regno, e la grande moglie reale di Amenhotep III, uno dei faraoni di maggior successo dell’Egitto.

La mummia del re Seti I fu trovata nel 1898 nella tomba di Amenhotep II (KV 35), nella Valle dei Re a Luxor (foto ministry of Tourism and Antiquities)

La mummia del re Seti I, scoperta nel 1898 nella Tomba di Amenhotep II (KV 35) a Deir El Bahari, è una delle mummie trasferite nella parata d’oro dei faraoni il 3 aprile 2021 dal museo Egizio di Tahrir al museo nazionale della Civiltà Egizia di Fustat. La tomba del re Seti I, figlio del re Ramses I, fondatore della XIX dinastia, Nuovo Regno, è una delle tombe reali più belle nella Valle dei Re, che conserva ancora i suoi colori sgargianti. Seti I condusse una battaglia contro gli Ittiti. Le sue gesta e le sue vittorie militari furono accuratamente registrate nel Tempio di Amon a Karnak.

La mummia del re Ramses II della XIX dinastia (Nuovo Regno) fu trovata nel nascondiglio di Deir el-Bahari (TT320) nel 1881 (foto Ministry of Tourism and Antiquities)

La mummia di Ramses II, scoperta nel nascondiglio di Deir el-Bahari (TT 320), a ovest di Luxor nel 1881, è tra le 22 mummie reali dal museo Egizio di Tahrir al museo nazionale della Civiltà Egizia nella parata d’oro dei faraoni del 3 aprile 2021. Ramses II succedette a suo padre Seti I e godette di un lungo regno. Governando per 67 anni, ha lasciato un’eredità ben documentata. Ricordato come un grande guerriero, il re Ramses II è probabilmente il più famoso dei faraoni del Nuovo Regno. Ha firmato con gli Ittiti il primo trattato di pace conosciuto nella storia, registrato sulle pareti dei templi di Karnak. Ha registrato su più monumenti la sua battaglia di Qadesh, che ha combattuto contro gli Ittiti nel quinto anno del suo governo. Questo faraone costruì templi quasi ovunque in Egitto. I più famosi dei quali sono Abu Simbel e il Ramesseum (dedicato al suo culto funerario). La sua grande moglie reale era Nefertari, per la quale costruì un tempio vicino al suo ad Abu Simbel.

La mummia del re Merenptah fu trovata nel 1898 nella tomba di Amenhotep II (KV 35), nella Valle dei Re a Luxor (foto ministry of Tourism and Antiquities)

La mummia di re Merenptah, scoperta nel 1898 nella Tomba di Amenhotep II (KV 35) nella Valle dei Re, Luxor,  è una delle 22 mummie reali trasferite dal museo Egizio di Tahrir al museo nazionale della Civiltà Egizia, in un evento senza precedenti il ​​3 aprile 2021. Re Merenptah era il figlio del grande Ramses II, della XIX dinastia, Nuovo Regno. A causa del lungo regno di suo padre, salì al trono in età avanzata. Partecipò a numerose campagne militari. Risale al suo regno “il pannello della vittoria”, uno dei manufatti più importanti, esposto nel Museo Egizio di Tahrir.

La mummia del re Seti II fu trovata nel 1898 nella tomba di Amenhotep II (KV 35), nella Valle dei Re a Luxor (foto ministry of Tourism and Antiquities)

La mummia del re Seti II, il quinto re della XIX dinastia, fu trovata nel 1898 nella tomba di Amenhotep II (KV 35) nella Valle dei Re a Luxor, all’interno di molti strati di lino eccezionalmente fine. Per la maggior parte, i tratti del viso di Seti II sono ben conservati. Il 3 aprile, la mummia del re sarà trasferita dal museo Egizio di Tahrir nella processione delle mummie reali al museo nazionale della Civiltà Egizia.

Egitto. Nuovo libro in francese sul grande tempio di Abu Simbel “Le Stanze Nord del Tesoro. Descrizione archeologica e testi geroglifici” a cura di Hisham Elleithy

La copertina del libro “Le grand temple d’Abou Simbel. Les salles nord du trésor” di Hisham Elleithy (Cedae, 2020)

Fu costruito dal faraone Ramses II della XIX dinastia, e scoperto dall’archeologo Giovanni Belzoni nel 1817: parliamo del Grande Tempio di Abu Simbel, nella regione della Nubia, sulla sponda occidentale del Lago Nasser; uno dei siti archeologici inclusi nella lista Patrimonio dell’umanità dell’Unesco, ed è uno dei templi che è stato spostato dalla sua posizione originale in un luogo più in alto sopra la superficie del lago Nasser al momento della costruzione della diga sul Nilo. Su iniziativa del ministero del Turismo e delle Antichità egiziano il Cedae (Centre d’Etude et de Documentation sur l’Ancienne Égypte) ha pubblicato il libro “Le Grand Temple d’Abou Simbel. Les salles nord du trésor. Description archéologique et textes hiéroglyphiques” (Il grande tempio di Abu Simbel. Le Stanze Nord del Tesoro. Descrizione archeologica e testi geroglifici), Il Cairo 2020, a cura Hisham Elleithy, direttore generale del Cedae, sottosegretario di Stato per la Documentazione del ministero delle Antichità e responsabile del Centro documentazione delle Antichità egizie; con l’introduzione del ministro Khaled El-Enany. “Il libro”, spiega Elleithy, “inizia con un’introduzione che tratta di ciò che il centro ha pubblicato in precedenza su questo tempio, e poi passa a descrivere ciò che c’è sul lato settentrionale del tempio: le stanze del tesoro, con descrizione archeologica e traduzione di testi geroglifici. Il libro illustra la pianificazione architettonica del tempio con un’indicazione dell’ubicazione delle camere del tesoro settentrionali, quindi la descrizione archeologica delle iscrizioni e delle scene, quindi una raccolta di fotografie di tali iscrizioni e scene, seguita dai dipinti di disegni al tratto, mappe architettoniche, immagini in bianco e nero e una tavoletta di iscrizioni e scene, oltre a un elenco di offerte e rituali. I nomi di divinità, dipinti e varie calligrafie”. Secondo lo stesso tema delle sale meridionali del Tesoro, quelle del Nord riproducono sulle loro pareti tutta una serie di scene, scolpite in rilievo “nella cavità” con il faraone alla presenza di divinità. Molto spesso Ramses II è raffigurato inginocchiato o più raramente in piedi, di fronte a dee o dei rappresentati seduti. Mentre un certo numero di divinità nubiane sono sotto i riflettori, come Horus de Miâm, Horus de Baki o Buhen o Hathor d’Ibchek, c’è anche un pantheon più classico rappresentato da Rê-Horakhty, Amon, Mut, Khonsou, Ptah, Thot, Iside, Montou e pochi altri. Infine, in alcuni dipinti, Ramses appare sotto un aspetto divino, quello di Ousermaâtrê-Setepenrê, Amon-de-Ousermaâtrê-Setepenrê, Ousermaâtrê il Grande Dio o Ramesses il Grande Dio. Disegnate per la prima volta in inchiostro nero sulle pareti, queste scene furono poi scolpite e dipinte: le figure spiccano in giallo, il colore dell’oro e gli attributi o gli ornamenti (colletto, barba, cintura, bracciali, cavigliere) in nero. Alcuni testi, come nella scena R.14 (dietro il re) non sono stati scolpiti ma sono semplicemente dipinti di giallo.

Il grande tempio di Abu Simbel costruito dal faraone Ramses II

È questo il sesto volume realizzato dal Cedae sul Grande tempio di Abu Simbel: dai diversi volumi relativi alla battaglia di Qadesh, alla facciata (A-E), alle sale meridionali del Tesoro, all’architettura di queste emblematiche specifiche di Ramses II e alla cappella di Ra-Horakhty. E ora si aggiunge il volume dedicato alle sale settentrionali del Tesoro: descrizione archeologica e traduzione di testi, lastre fotografiche e disegni delle scene. “Come le altre pubblicazioni pubblicate dal Cedae”, spiega l’editore, “questa è il risultato di un lavoro collettivo basato sull’indagine sui testi geroglifici effettuata in loco da Sergio Donadoni e verificata da Jaroslav Cerny. Per questo nuovo volume, che compare nella collezione scientifica del Cedae e per il loro gentile sostegno, vorremmo esprimere la nostra gratitudine a Khaled El-Enany, ministro del Turismo e delle Antichità, nonché a Mostafa Waziri, segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità”. I due templi di Abu Simbel – ricordiamolo – furono scolpiti sul fianco della montagna durante il regno di re Ramses II nel XIII secolo a.C., come due monumenti dell’eternità, uno per il sovrano stesso (dove commemorava la sua vittoria nella battaglia di Qadesh) e l’altro per la sua regina Nefertari. La costruzione dei due templi iniziò intorno al 1264 a.C. e durò circa 20 anni, fino al 1244 a.C. A Sud si trova il grande “Tempio di Ramses amato di Amon” dedicato agli dei Ra-Horakhty, Ptah e Amon-Rê, mentre il più piccolo, a Nord, è dedicato alla dea Hathor-Sothis, personificata da Nefertari, la più amata di tutte le molte mogli di Ramses.

Padova. Prorogata di un mese la grande mostra “L’Egitto di Belzoni. Un gigante nella terra delle piramidi”: 150 opere da tutta Europa, disegni e racconti per conoscere la vita, la storia e l’Egitto di un personaggio sui generis, il padovano Giovanni Battista Belzoni, esploratore, attore, ingegnere esperto di idraulica, scopritore dei templi di Abu Simbel, della tomba di Seti I, dell’accesso alla piramide di Chefren

La locandina della mostra “L’Egitto di Belzoni. Un gigante nella terra delle piramidi” a Padova fino al 28 giugno 2020: prorogata al 26 luglio 2020

Un altro mese, ancora un altro mese per una full immersion nell’Antico Egitto sulle orme del padovano Giovanni Battista Belzoni. La grande mostra “L’Egitto di Belzoni. Un gigante nella terra delle piramidi” curata da Francesca Veronese e da Claudia Gambino, con la quale la sua città natale ha voluto celebrare i 200 anni dal suo ritorno dall’Egitto esponendo al Centro Culturale Altinate San Gaetano di Padova reperti originali, disegni e racconti che narrano l’epopea di questo personaggio sui generis, avrebbe dovuto chiudere il 28 giugno 2020. La mostra dedicata all’esploratore Giovanni Battista Belzoni rimarrà aperta fino al 26 luglio 2020. L’evento è promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova, dal Consorzio Città d’Arte del Veneto, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e organizzata dall’agenzia di comunicazione gruppo Icat. Turisti e cittadini di Padova e Provincia hanno quindi qualche settimana in più per conoscere le gesta eroiche di un personaggio straordinario che la mostra ha contribuito a far conoscere in tutta Italia e in Europa grazie all’afflusso di persone da ogni angolo del Paese e dall’estero. Fino al 26 luglio 2020 ci sarà la possibilità di visitare la mostra al Centro Culturale Altinate San Gaetano con particolari sconti e con un’offerta pensata per tutti (famiglie, bambini, gruppi): il biglietto intero sarà a 12 euro invece che 16 euro e i ridotti (quindi i ragazzi dai 6-17 anni, gli studenti universitari dai 18 ai 25 con presentazione documento appropriato, over 65, persone disabili dai 18 anni e convenzionati) saranno a 10 euro invece che 14 euro. La mostra sarà aperta giovedì e venerdì dalle 10 alle 18, sabato e domenica dalla 10 alle 20. È possibile, inoltre, prenotare visite guidate per i gruppi in qualsiasi giorno e orario di apertura; le visite guidate per singoli o gruppi inferiori a 10 persone sono attivate ogni venerdì alle 16, sabato e domenica alle 11 e alle 17. Informazioni e prenotazioni gruppi@legittodìbelzoni.it

Francesca Veronese curatrice della mostra “L’Egitto di Belzoni. Un gigante nella terra delle piramidi” a Padova (foto Graziano Tavan)

“La possibilità di prorogare di un mese la chiusura”, dichiara Andrea Colasio, assessore alla Cultura del Comune di Padova, “è un evento eccezionale, soprattutto perché non era scontato che i prestigiosi musei prestatori concedessero le loro opere. Turisti e visitatori potranno così fare esperienza ancora per qualche settimana della straordinaria vicenda umana e storica di Belzoni in un contesto di sicurezza. È anche un segno importante di ripartenza e di rinascita culturale per Padova e per tutti gli appassionati di storia e dell’Egitto”. E Claudio Capovilla, presidente di Gruppo Icat, anticipa: “Stiamo lavorando anche per ipotizzare un proseguo che coinvolga tutta la città. L’Egitto di Belzoni, infatti, è un progetto che ha vissuto in simbiosi con Padova, coinvolgendo ristoratori, aziende, istituzioni: su questo concept stiamo sviluppando delle idee che potranno prendere vita nei prossimi mesi. Pur avendo subito una chiusura prolungata, dovuta alla pandemia, la mostra è rimasta nei cuori delle persone e questo ci spinge a trovare nuovi modi per coinvolgere turisti e cittadini”.

Una sala della mostras “L’Egitto di Belzoni” (foto Icat)

Il padre della moderna egittologia. Un personaggio fuori dagli schemi che ha avuto il merito di far conoscere l’Egitto in Italia e in tutta Europa. Il padovano Giovanni Battista Belzoni (1778-1823) è stato esploratore, attore, ingegnere esperto di idraulica: è difficile racchiudere in una definizione una personalità esuberante che in pochi conoscono ma che ha contribuito in modo significativo a “importare” nel Vecchio Continente le meraviglie della terra dei Faraoni. Il percorso della mostra racconta la vita del “grande Belzoni” alternando sistemi di visita tradizionali, con teche e pannelli esplicativi, a momenti di grande impatto emotivo con il ricorso a tecnologie innovative, effetti multisensoriali e multimediale a effetto immersivo. Ricostruzioni ambientali e ricostruzioni evocative di oggetti di grandi dimensioni in scala reale suggeriscono l’entità delle imprese belzoniane anche dal punto di vista tecnico.

Il percorso espositivo diventa a tratti uno spazio scenico che coinvolge il visitatore in spettacoli teatrali e in giochi d’acqua virtuali; uno spazio in cui l’alternarsi di passaggi stretti e labirintici, evocativi del percorrere cunicoli all’interno delle sepolture, e di spazi più ampi suscita continuamente il desiderio vedere che cosa accadrà dopo. Il percorso è arricchito da postazioni multimediali interattive, con monitor touch screen, per approfondimenti su temi specifici. Una grande mostra con la ricostruzione fedele degli ambienti grazie ad affascinanti effetti speciali e innovative tecnologie digitali. Tema i tre viaggi compiuti lungo il Nilo agli inizi dell’Ottocento, molti i preziosi reperti presenti provenienti da diversi musei italiani ed esteri, alcuni dei quali esposti per la prima volta al pubblico. Un impatto emozionale forte, rappresentato dall’immersione del visitatore negli scenari che Belzoni si ritrovò davanti ai suoi occhi, per rivivere così, in una sorta di diretta, le esplorazioni e i ritrovamenti di allora. Grazie infatti alle inedite soluzioni tecnologiche creative e multimediali proposte dal team di artisti di DrawLight, scientificamente ideate, “costruite e allestite” per veicolare messaggi ed emozioni, il pubblico si trasforma magicamente in infiniti Belzoni. Si addentra nelle straordinarie tombe, nei meravigliosi templi, nel buio delle Piramidi, lottando per le fatiche e assimilando al tempo stesso il piacere della scoperta.

Giovanni Battista Belzoni nel ritratto del pittore Vincenzo Gazzotto conservato nei musei civici di Padova (foto Graziano Tavan)

Fino agli inizi dell’Ottocento nella vecchia Europa l’Egitto e la sua cultura millenaria erano una realtà pressoché sconosciuta. Le prime, importanti conoscenze iniziarono a diffondersi con la campagna napoleonica del 1798-1801: al seguito di Napoleone era partita, infatti, anche una folta commissione di studiosi con il compito di raccogliere e censire dati sull’archeologia, la storia e la natura di quelle terre lontane e misteriose. Dati poi destinati a confluire nella poderosa Description de l’Égypte pubblicata in più volumi a partire dal 1809. Il processo era solo all’inizio. Uno straordinario avanzamento nella conoscenza di tante realtà che oggi costituiscono mete ben note dei viaggi turistici in Egitto si deve a un padovano, un personaggio tanto eccezionale e ‘fuori dagli schemi’, quanto poco ricordato: Giovanni Battista Belzoni. Nato nel borgo del Portello nel 1778, Belzoni fu uomo dall’intelligenza acuta ed esploratore infaticabile; una figura che, per lo spirito di avventura e le ‘missioni impossibili’ affrontate, ha finito con l’ispirare perfino il mondo del cinema. Non molti sanno, infatti, che George Lucas, il regista di Guerre Stellari, quando nel 1981 creò l’Indiana Jones dei Predatori dell’arca perduta, lo fece pensando proprio alla vita del padovano Belzoni. Figlio di un barbiere, Giovanni Battista fin da giovane si sentì imprigionato in un mondo dagli orizzonti troppo angusti e, sedicenne, riuscì a lasciare l’ambiente padovano per avviarsi a Roma, la città eterna. Qui intraprese la via degli studi, dedicando particolare attenzione al settore dell’idraulica.

La seconda vita: attore e uomo di spettacolo. Dopo aver vissuto a Parigi, e poi in Olanda, nel 1803 approdò in Inghilterra, dove sposò una giovane donna di Bristol, Sarah Banne, ed entrò nel mondo dello spettacolo nella compagnia teatrale di Isac Dibdin. Era infatti divenuto un uomo dall’eccezionale altezza – era un gigante alto 2 metri e 10 – che si faceva notare anche per la bellezza. Avvenenza e prestanza fisica lo portarono a perfezionare sul palcoscenico un numero di abilità, la cosiddetta ‘piramide umana’, nel corso del quale, grazie a un’apposita cintura, riusciva a tenere sulle proprie spalle ben 11 persone. In questo ruolo divenne un personaggio molto popolare e si guadagnò l’epiteto di ‘Sansone Patagonico’. Spesso poi gli spettacoli si concludevano con giochi d’acqua di sua invenzione, molto apprezzati dal pubblico. Ma di questa fase della sua vita successivamente non andò fiero.

Modellino della macchina idraulica realizzata da Belzoni in Egitto (foto Graziano Tavan)

Il primo contatto con l’Egitto. Nel 1813 intraprese un viaggio in Spagna in compagnia di Sarah e del domestico James Curtin; di qui si spostò poi in altre zone del Mediterraneo. L’anno successivo, mentre si trovava a Malta, venne a sapere che il pascià dell’Egitto Mohamed Alì cercava degli europei in grado di sottoporgli un’invenzione utile a risolvere la siccità che affliggeva il paese. Fu così che Belzoni, grazie alle ottime conoscenze di idraulica, nel 1815 sbarcò in Egitto, progettò una macchina per l’irrigazione dei campi e la presentò al pascià. La macchina idraulica fu messa in moto, sia pure con qualche disavventura iniziale, ma il progetto finì con il naufragare a causa del malumore che suscitò tra la popolazione, allarmata nel vedere la manodopera soppiantata dalla macchina. Una volta giunto in Egitto, Belzoni iniziò a subire il fascino di una cultura tanto antica, quanto ancora quasi sconosciuta. In poco tempo conobbe diversi personaggi di rilievo: primo fra tutti Gian Luigi Burckhardt, studioso e noto orientalista svizzero, a cui lo legò una sincera amicizia. Conobbe poi Henry Salt, console inglese al Cairo e appassionato ricercatore di antichità, con cui i rapporti non furono sempre facili. Conobbe, infine, Bernardino Drovetti, console francese al Cairo, di origini piemontesi. Personaggio determinato, ex soldato napoleonico, anche Drovetti era un appassionato di antichità egizie. Inizialmente i rapporti tra i due furono buoni, poi finirono per guastarsi in modo irrimediabile.

Le scoperte archeologiche. Nel 1816 Belzoni decise quindi di intraprendere un viaggio lungo il Nilo, nel corso del quale rimase letteralmente abbagliato da ciò che andava vedendo. Primo a mettere piede in luoghi inesplorati, Belzoni si sottopose a sforzi fisici enormi, si adattò a vivere in condizioni estreme all’interno di tombe usate come riparo di fortuna, a soffrire il caldo, la sete e la fame. Ma il desiderio di scoprire, di comprendere e di documentare ebbe sempre il sopravvento. Al primo viaggio ne seguirono altri due, nel 1817 e nel 1818 e Sarah fu sempre al suo fianco. La sua arguzia, l’intelligenza e la forza fisica si unirono a una straordinaria capacità di dialogo con le popolazioni locali, da cui riuscì a ottenere l’aiuto necessario per compiere imprese al limite dell’impossibile. A lui si deve il trasporto del busto colossale del ‘giovane Memnone’ – in realtà Ramses II, dal peso di circa 7 tonnellate – da Tebe ad Alessandria e da lì a Londra, dove oggi campeggia al British Museum. A lui si deve anche il disseppellimento delle strutture templari di Abu Simbel, nella Nubia: voluti da Ramses II, i due templi, scavati nella roccia, nel corso dei secoli erano stati completamente ricoperti dalla sabbia. Dopo un lavoro estenuante, condotto a temperature al limite della sostenibilità fisica e con la riluttanza della manodopera, Belzoni riuscì ad entrare nel tempio principale il 1° agosto del 1817. Qui, sul muro settentrionale del santuario, appose la sua firma: un segnale indispensabile, vista la corsa alle antichità che si stava mettendo in moto, senza esclusione di colpi da parte dei partecipanti.

La sala dedicata alla scoperta di Abu Simbel con la sfinge a testa di falco conservata British museum di Londra (foto Graziano Tavan)

Ancora a Belzoni si deve il trasporto in Inghilterra dell’obelisco da lui rinvenuto nell’isola di File, oggetto di un’aspra contesa con Drovetti: un monumento alto quasi 7 metri, oggi esposto Kingston Lacy nel Dorset, che si rivelerà fondamentale per la decifrazione dei geroglifici. E ancora sono opera di Belzoni gli scavi nel tempio di Karnak e la scoperta di numerose tombe faraoniche nella Valle dei Re. Tra queste, la tomba Seti I, padre di Ramses II: una tomba sotterranea “grande e magnifica”, come egli stesso la definì, lunga circa 140 metri, dotata di 11 stanze, tutta rivestita di decorazioni e contente uno splendido sarcofago in alabastro. È ancora merito dell’esploratore padovano la scoperta del varco d’accesso alla piramide di Chefren, ritenuta fino ad allora impenetrabile. Dopo giorni di indagini, di osservazioni e tentativi, riuscì finalmente a capire dove scavare per entrare, per poi strisciare lungo cunicoli e corridoi fino alla camera sepolcrale. Anche qui egli pose la sua firma, a scanso di equivoci e rivendicazioni sulla scoperta: “Scoperta da G. Belzoni. 2.mar.1818”. E a lui si deve anche la scoperta di Berenice, ricca città carovaniera affacciata sul mar Rosso, di cui nei secoli era andata perduta la memoria.

Una delle due statue colossali della dea Sekhmet donate da Belzoni alla sua Padova (foto musei civici)

Il ritorno in Europa. Alla fine del 1818 Belzoni decise di rientrare in Europa a causa di dissidi e spiacevoli incidenti con Drovetti. Nel frattempo, per amore nei confronti della sua città natale, inviò a Padova due colossali statue in diorite raffiguranti la dea leontocefala Sekhmet, rinvenute durante gli scavi nell’antica Tebe: inizialmente collocate nel Salone del Palazzo della Ragione, oggi le due statue accolgono il visitatore nella sala dedicata a Belzoni del museo Archeologico. Rientrato in Europa, nel 1819 giunse a Padova, dove venne accolto con grande festa da cittadini e notabili padovani ed entrò in amicizia con l’architetto Giuseppe Jappelli, che si lasciò forse in parte suggestionare dai racconti belzoniani sull’Egitto quando progettò la sala egizia al piano nobile del Caffè Pedrocchi. Di seguito tornò a Londra e nel 1820 pubblicò in inglese il Narrative of the Operations and Recent Discoveries Within the Pyramids, Temples, Tombs and Excavations in Egypt and Nubia and of a Journey to the Coast of the Red Sea, in search of the ancient Berenice; and another to the Oasis of Jupiter Ammon, una sorta di reportage delle sue esplorazioni in Egitto e in Nubia da cui emergono la grande conoscenza acquisita sull’antico Egitto, ma anche osservazioni e considerazioni di notevole rilievo.

Giovanni Battista Belzoni ritratto in una stamoa nelle fogge arabe dell’epoca

Di nuovo in Africa per scoprire le sorgenti del Niger. Divenuto un personaggio assai celebre, ma sempre inquieto e alla ricerca di nuovi orizzonti, nel 1823 decise di partire nuovamente per l’Africa. Questa volta ad attirarlo fu il versante occidentale. Molto si favoleggiava sulle sorgenti del Niger, allora sconosciute, e sulla città di Timbuctu: tutti gli esploratori che si erano addentrati lungo il corso del fiume, non avevano fatto più ritorno. Organizzata la spedizione, alla quale non prese parte la moglie Sarah, Belzoni sbarcò nel possedimento britannico di Cape Coast, con il commerciante John Houtson, il 22 novembre. Di lì, con un salvacondotto del Re del Benin, si avviò verso l’interno, ma il 3 dicembre morì a Gwato (Regno del Benin, oggi Ughoton, Nigeria), a 45 anni, in circostanze non del tutto chiare: forse un avvelenamento, ufficialmente una malattia tropicale. La notizia della sua morte arrivò in Europa 5 mesi dopo. La moglie Sarah gli sopravvisse per 47 anni e trascorse tutta la vita nel ricordo del marito, coltivandone la memoria.

La coppa d’oro di Djehuti conservata al Louvre di Parigi, già parte della collezione Droveti (foto Graziano Tavan)

A Padova reperti dal Louvre e dal Bristish Museum. La storia e le scoperte di Belzoni hanno avuto una grande eco in Europa. Prova ne è il fatto che sono esposte in prestigiosi musei a Londra e a Parigi. Dal British Museum, infatti, è arrivata a Padova una sfinge a testa di falco rinvenuta da Belzoni ad Abu Simbel: in mostra si possono vedere, accoppiati, sia il disegno che l’esploratore fece della sfinge sia il reperto vero e proprio. Dal Louvre, invece, è arrivata una coppa in oro, decorata a sbalzo, che faceva parte di un corredo funerario, e oggi parte della collezione Drovetti, il grande amico e nemico di Belzoni. Da Bristol arrivano invece alcuni disegni, realizzati a mano da Belzoni e da Alessandro Ricci, altro collega esploratore del padovano, che rappresentano le decorazioni della tomba di Seti I. Sempre appartenenti alla tomba di Seti I sono le statuette in legno da Bruxelles, mentre dalla Cambridge University Library sono in mostra alcuni disegni di Johann Ludwig Burckhardt, grande studioso e amico di Belzoni. Di Burckhardt c’è inoltre un interessante quaderno di grammatica araba, utilizzato all’epoca per comunicare con gli egiziani.

Il rilievo della dea Maat conservato al museo Egizio di Firenze (foto Maf)

Le 150 opere esposte – fra scritti, disegni, tavole e reperti – riscostruiscono un panorama suggestivo e inedito dell’Egitto: è, appunto, l’Egitto di Belzoni, quindi quello di inizio ‘800, territorio ancora tutto da esplorare e da conoscere che è stato luogo di amicizie e collaborazioni, ma anche di dispute fra i vari archeologi e personaggi che gravitavano nell’area del Nilo. In mostra, infatti, ci saranno sia reperti che raffigurano il grande culto delle divinità in Egitto, come la statuetta di Thot in forma di Ibis o il rilievo della dea Maat, ma anche alcuni frammenti che raccontano, per esempio, la centralità della musica nella cultura egizia. Infine, le tavole e i disegni che arricchivano il Narrative scritto da Belzoni con le raffigurazioni delle sue “imprese impossibili”: una graphic novel ante litteram, che ha di fatto reso famoso nel mondo, più che in Italia, la figura di Giovanni Battista Belzoni.

Il modello della piramide di Chefren in scala 1:15 realizzato per la mostra “L’Egitto di Belzoni” (foto Icat)

Al San Gaetano la ricostruzione della piramide di Chefren. È la sorpresa finale di tutto il percorso espositivo: nel grande atrio del San Gaetano è riprodotta in scala 1 a 15 la grande piramide di Chefren, alta circa 10 metri e con base di 15 metri. Fra le principali piramidi dell’area di Giza, e all’epoca di Belzoni ritenuta ancora impenetrabile, l’esploratore riuscì, dopo lunghi giorni di tentativi, a scoprire un varco di accesso. Una volta entrato, scavando e strisciando lungo i cunicoli e i corridoi arrivò alla camera sepolcrale dove pose la sua firma: “Scoperta da G. Belzoni. 2.mar.1818”.

È morto il professor Sergio Donadoni, fondatore dell’Egittologia moderna in Italia, decano degli egittologi italiani, protagonista del salvataggio dei templi egizi di Abu Simbel. Il ricordo di chi l’ha conosciuto e della sua allieva più famosa, l’egittologa Edda Bresciani

L'egittologo Sergio Donadoni in una delle sue missioni archeologiche in Egitto

L’egittologo Sergio Donadoni in una delle sue missioni archeologiche in Egitto

L’Egittologia è in lutto. Uno dei suoi più autorevoli protagonisti del Novecento è venuto a mancare: l’archeologo Sergio Donadoni, decano degli egittologi italiani, rispettato e conosciuto in tutto il mondo scientifico non solo per le sue grandi capacità di studioso-ricercatore e di insegnante-accademico ma anche per la sua umanità, protagonista del salvataggio internazionale dei templi egizi di Abu Simbel dopo la creazione della diga di Assuan, è morto a Roma il 31 ottobre 2015 all’età di 101 anni. Era professore emerito di egittologia all’Università “La Sapienza” di Roma e accademico dei Lincei, nonché insegnante all’Université Libre di Bruxelles. I funerali si sono svolti lunedì 2 novembre, alle 11, nella chiesa romana dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Nato a Palermo il 13 ottobre 1914, figlio del critico letterario Eugenio, Sergio Donadoni aveva studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si era laureato nel 1935 con Annibale Evaristo Breccia. La sua formazione di egittologo la maturò alla scuola francese, studiando per due anni a Parigi dove appunto si specializzò in Egittologia, e nel 1948 nella capitale danese di Copenaghen. Donadoni ha insegnato nelle università di Milano, Pisa e infine Roma.

Il museo Egizio al Cairo: fu fondato nel 1902

Il museo Egizio al Cairo: fu fondato nel 1902

Chi scrive ha avuto l’onore di conoscere e frequentare il prof. Donadoni in una occasione speciale: le celebrazioni per il centenario del Museo Egizio del Cairo. Lui era il più grande tra i grandi egittologi convenuti sulle rive del Nilo, ma non lo ha mai fatto pesare. Tanto meno con i suoi interlocutori, anche i più modesti. Il prof. Donadoni aveva una risposta per ogni domanda gli venisse rivolta, anche quando la richiesta rivelava l’assoluta mancanza delle più elementari conoscenze sull’Antico Egitto. E quando si passeggiava per le strade del Cairo era tutto un saluto reverente e riconoscente “al professore” da persone, le più disparate, che erano state al suo servizio o comunque lo avevano conosciuto nei lunghi decenni di missione archeologica in Egitto. Sergio Donadoni era uomo colto e semplice, nonostante la sua statura scientifica. Come più volte ha avuto modo di testimoniare Paolo Renier, fotografo trevigiano ammaliato dall’Egitto in generale e della città di Abido sacra a Osiride in particolare, che a Donadoni si era rivolto per un consiglio sul progetto di valorizzazione e conoscenza del sito di Abido e si ritrovò come risposta la più bella presentazione mai avuta (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2015/04/24/lantico-egitto-a-vittorio-veneto-il-tempio-del-faraone-seti-i-ad-abido-nella-mostra-di-paolo-renier-alla-rotonda/ sul suo impegno e il suo lavoro fotografico nell’Osireion.

Una fase della ricostruzione del sito archeologico di Abu Simbel

Una fase della ricostruzione del sito archeologico di Abu Simbel

Sergio Donadoni ha diretto scavi in Egitto (Antinoe, Qurna), in Nubia (Ikhmindi, Sabagura, Tamit) e in Sudan (Sonki Tino, Gebel Barkal). Nell’ambito della collaborazione internazionale per il salvataggio dei templi egizi dovuto alla creazione della diga di Assuan, l’Italia partecipò con nove spedizioni condotte da Sergio Donadoni tra gli anni ’50 e ’60. Nel 1964 diresse la missione archeologica in Egitto e in Sudan dell’Università di Roma con scavi e ricerche in diverse antiche località, tra cui Tebe. A queste sono da aggiungerne altre quattro organizzate dal museo Egizio di Torino. Partecipò inoltre al salvataggio del tempio rupestre di Ellesija e a quello di Abu Simbel. Dal 1958 al 1969 esplorò sistematicamente con fini archeologi e architettonici, sei siti: Ikhmindi, Farriq, Kuban, Sabagura, Sonki e Tamit arricchendo di testimonianze e documentazioni la storia della Nubia. Sergio Donadoni è autore di una vasta bibliografia, che comprende, tra gli altri titoli “La civiltà egiziana” (1940), “L’arte egizia” (1955), “Storia della letteratura egiziana antica” (1957), “Le pitture murali della chiesa di Sonki Tino nel Sudan” (1968), “L’Egitto dal mito all’egittologia”. Era dottore honoris causa della Université Libre di Bruxelles. Socio dell’Accademia delle Scienze di Torino, della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres di Parigi e dell’Institut d’Egypte. È stato insignito del Premio Feltrinelli per l’Archeologia nel 1975 ed era Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica (2000).

Il professor Sergio Donadoni, fondatore della moderna egittologia in Italia

Il professor Sergio Donadoni, fondatore della moderna egittologia in Italia

Il ricordo più intenso del professor Sergio Donadoni, fondatore dell’Egittologia moderna in Italia, è stato scritto dalla sua allieva più famosa, la professoressa Edda Bresciani, professore Emerito dell’Università di Pisa, una degli altri grandi egittologi italiani del Novecento. La biografia di questi due studiosi è strettamente incrociata e descrive molta parte della storia dell’Egittologia a Pisa e in Italia. Questa disciplina nacque infatti proprio all’Università di Pisa nel 1826, quando Leopoldo II di Lorena decise di istituire una cattedra di egittologia affidandola al ventiseienne pisano Ippolito Rosellini. Alla sua morte, nel 1843, l’insegnamento fu chiuso e per oltre un secolo tacque sia a Pisa che in Italia. Tornò quindi ad essere attivato nell’Ateneo pisano dall’anno accademico 1950-’51, con un incarico affidato proprio al professor Donadoni, allievo della Scuola Normale e laureato nel 1934 con il grande egittologo Annibale Evaristo Breccia, docente dell’Università di Pisa, di cui fu anche Rettore dal 1939 al 1941. Con il trasferimento del professor Donadoni all’Università di Milano nel 1959, la cattedra passò alla sua allieva Edda Bresciani – la prima laureata italiana in Egittologia – che nel 1968 sarebbe diventata ordinario della disciplina all’Università di Pisa. Scrive Edda Bresciani: “Ho parlato al telefono con Sergio Donadoni il 13 ottobre scorso per augurargli, come ogni anno in questo giorno, un gioioso anniversario. Mi rispose con la consueta urbanità, la voce forse un po’ fievole è vero, ma intatto l’eloquio elegante ironico ma insieme affettuoso. Perché il mio maestro ed io ci volevamo bene; anche se aveva l’abitudine di riferirsi a me come “quel diavolo di ragazza”… Adesso nessuno più mi chiamerà così. È morto nei suoi 101 anni, dopo una vita splendida dedicata alla ricerca, ricca di soddisfazioni private, scientifiche, pubbliche. Universalmente conosciuto e ammirato, la sua assenza avrà per anni avvenire il suono del dolore. Non credo che sia il caso qui che elenchi i libri, gli articoli, i contributi i Sergio Donadoni che hanno dato le linee fondamentali dell’egittologia non solo italiana ma mondiale. Io adesso non riesco a comporre altre frasi oltre all’espressione di un vuoto che non saprà essere colmato; adesso piango la grande persona che ci ha lasciati, piango il maestro, piango lo studioso. Alla famiglia, alla moglie Annamaria, antica amica, ai suoi figli ai nipoti che tanto amava, l’espressione della partecipazione sincera al loro dolore”.