Archivio | settembre 19, 2021

“Etiopia. Lontano lungo il fiume”: l’ultimo film di Lucio Rosa è stato scelto per la rassegna di Rovereto e per la rassegna di Licodia Eubea. Foto e immagini, rese più potenti dal viraggio in B/N, raccontano un viaggio che testimonia l’agonia dei popoli indigeni della valle dell’Omo la cui esistenza è gravemente minacciata

La valle dell’Omo, in Etiopia, raccontata dal film di Lucio Rosa (foto lucio rosa)

licodia-eubea_rassegna-del-documentario-e-della-comunciazione-archeologica-logorovereto_ram-film-festival_logo-colori_foto-fmcr.jpg.pngIl suo cuore è sempre in Africa. Lo dimostra anche il suo ultimo film “Etiopia. Lontano lungo il fiume” (Italia, 2021, 43’). Ma stavolta il regista Lucio Rosa, veneziano di nascita e bolzanino di adozione, farà fatica a essere presente in sala alla premier della sua opera, lui che ama confondersi tra il pubblico per cogliere le reazioni in diretta al messaggio lanciato dal grande schermo, perché il film “Etiopia. Lontano lungo il fiume” è stato selezionato sia per la prima edizione di Ram – Rovereto Archeologia Memorie (32ma Rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto), dal 13 al 17 ottobre 2021 (dove sarà proiettato il 13 ottobre) che per l’11ma Rassegna del Documentario e della Comunicazione archeologica di Licodia Eubea, dal 14 al 17 ottobre 2021 (dove sarà presentato il 16 ottobre), . E quest’anno – per una scelta incomprensibile – sono programmate entrambe nella seconda settimana di ottobre (tradizionalmente appannaggio della rassegna siciliana). “Mi sono sempre interessate le culture lontane“, confessa Rosa, “ed eccomi con questo film, che racconta di gruppi etnici che vivono in Etiopia, nel Sud della valle dell’OMO. Conosco abbastanza l’Etiopia per averci lavorato per alcune mie produzioni di film, in tempi ormai lontani. La vera scoperta di questi viaggi è stata l’Africa, un continente dalla storia millenaria, fatto di realtà molteplici e caleidoscopiche, che diventa per me un luogo dell’anima”.

Il regista Lucio Rosa, il “ragazzo con la Nikon (foto lucio rosa)

E così è tornato in campo “il ragazzo con la Nikon” (vedi Il regista Lucio Rosa regala un messaggio di speranza al 2019 con il nuovo film “Il ragazzo con la Nikon”, realizzato assemblando migliaia di foto di antichi villaggi, antiche dimore, antichi magazzini berberi: omaggio d’amore alla Libia che oggi per lui è “irraggiungibile” | archeologiavocidalpassato) ed ecco il nuovo film, con foto e immagini filmate originariamente a colori, e poi virate in BN, “il vero colore della fotografia e del cinema…”: “Con la macchina fotografica e  l’essenzialità del bianco e nero – che strappa via l’inutile colore che rende troppo vasto, e nello stesso tempo ridotto, il campo delle emozioni da tradurre -, abbiamo voluto documentare  quello che, oggi ancora, rimane di questa “anima originaria”  di popoli eredi di storie millenarie e di una cultura che li rende unici al mondo, “storie” di realtà complesse e sfuggenti”. E continua: “Adopero il mio obiettivo per raccontare il presente e il passato di questa Terra, delle sue genti, alcune delle quali oggi a rischio di estinzione. Tutto ciò mi ha condotto a una ricerca continua nel Continente che ci ha dato la vita, e mi ha permesso di “raccontare” infinite storie di varia umanità, di entrare nella gente per comprenderne l’animo e la loro vicenda umana colma di insidie ma  non solo”.

Il regista Lucio Rosa tra i Mursi in Etiopia (foto lucio rosa)

Per realizzare il film Lucio Rosa si è avvalso di immagini realizzate negli anni 2014, 2015, 2016, mixate con filmati, alcuni dei quali (come l’abbattimento delle foreste, o l’agricoltura con aratro) sono stati raccolti nel suo “enciclopedico archivio”. Ma il testo è attuale, ed è al contempo un appello disperato per queste popolazioni a rischio e al contempo un atto di denuncia in un contesto geo-politico difficile: “Descrivo la situazione attuale di decadenza e di pericolo di estinzione di queste genti, di queste fragili culture. Le usanze, gli stili di vita ancestrali di queste genti, rimasti intatti per millenni grazie al loro totale isolamento, costituivano un vero museo etnografico vivente. Ma ci ha pensato l’uomo moderno a distruggere questa umanità diversa e straordinaria, “strappandola” dal proprio mondo”. Alla fine di questo viaggio, Lucio Rosa si chiede: “Siamo stati, forse, testimoni dell’agonia di questi popoli indigeni che hanno la loro esistenza gravemente minacciata e che vanamente lotteranno contro “golia” per mantenere intatta la loro identità?”.

La cartina della valle dell’Omo, nel Sud dell’Etiopia, con i gruppi etnici che qui vi vivono (foto lucio rosa)

La valle dell’OMO. “È un’Africa profonda, quella del Sud della valle dell’Omo”. Il racconto di Lucio Rosa si snoda tra frammenti di filmati e fotografie che fissano volti, gesti, tradizioni di questi popoli lontani. “Il tempo resta sospeso, quasi voltando le spalle. Si cela nel lungo passato, dal quale emergono tracce tuttora vivide. Natura e uomo indissolubilmente intrecciati danno forma e razze ed etnie adagiate su un mosaico inclinato e multiforme. Noi occidentali dobbiamo denudarci senza indugio per tentare di cogliere le anime originarie e ancestrali della valle dell’Omo. Solo così può emergere un pensiero d’Africa remota, in equilibrio sui pilastri ancestrali della magia e delle origini dell’uomo. Un microcosmo fragile e compatto preserva i tratti dei Karo, dei Konso, dei Mursi, degli Hamer, dei Dassanech… Eppure, perfettamente visibili, queste isole arcaiche non si sottraggono del tutto alla vista delle nostre presunte civiltà globalizzate. La minaccia resta intatta. La distruzione di queste fragili culture è sempre una previsione per taluni fin troppo facile. Sarà così?”.

Donne Dassanech al lavoro davanti a una capanna del villaggio (foto lucio rosa)

Gruppo etnico DASSANECH. Nella parte più meridionale della valle dell’Omo, non lontano dal delta del fiume che si spinge in Kenya verso il lago Turkana, vivono i Dassanech, il “Popolo del delta”. I Dassanech sono  una popolazione seminomade di circa 30mila individui. Parlano un idioma che appartiene al ceppo linguistico delle lingue cuscitiche ed è il gruppo tribale che vive nella zona più meridionale dell’Etiopia. I Dassanech sono tradizionalmente dediti alla pastorizia e gli uomini sono spesso lontani dai villaggi con le mandrie costretti a spostarsi alla ricerca di nuovi pascoli e dell’acqua necessaria per la vita degli armenti. L’agricoltura non è comunque estranea alla cultura dei Dassanech che riescono a praticarla  esclusivamente in prossimità del corso del fiume Omo, dato che il clima estremamente arido lo impedisce nel resto del loro territorio. Il fiume fornisce in abbondanza l’acqua necessaria. È una lotta continua per avere qualche alternativa al pasto quotidiano, solitamente composto da latte, miglio o sorgo, l’alimento principale nella dieta dei Dassanech. La carne appare solo in certe particolari occasioni di festa.

Le ricche collane e l’elaborata acconciatura di una donna Dassanech (foto lucio rosa)

I Dassanech prestano molta cura al loro aspetto. Donne, ma anche gli uomini, non si sottraggono al voler apparire. Collane, bracciali, orecchini, la fanno da padroni. Si indossano a tutte le età. Sono  come una seconda pelle. Le donne raccolgono i capelli in complicate acconciature che identificano anche il loro status sociale. Una consuetudine delle giovani Dassanech è quella  di praticarsi un foro sotto il labbro inferiore per inserirvi delle piume. Può sembrare una civetteria, ma si tratta di una usanza molto antica.

Uomini Karo lungo la riva orientale del fiume Omo (foto lucio rosa)

Gruppo etnico KARO. Lungo le rive dell’Omo inferiore si incontrano i villaggi dei Karo, una popolazione di poco più di 1000 individui la cui sopravvivenza è seriamente minacciata. “Un tempo, i Karo, vivevano su entrambe le sponde del fiume ma, a causa dei conflitti sanguinosi degli anni tra il 1980 ed il 1990 con la tribù dei Nyangatom, loro storici avversari, sono stati costretti a migrare sulla riva orientale. Per il continuo pericolo di aggressioni, sempre possibili, i villaggi dei Karo sono protetti da recinti di rami e piccoli tronchi. Guerrieri armati vigilano giorno e notte, sulla vita della comunità. Per le armi ci pensa il Sudan, sempre un solerte fornitore”. Il popolo dei Karo è comunque destinato ad estinguersi e nei pochi villaggi ancora esistenti sopravvivono solo alcune centinaia di individui. Basterebbe una epidemia per causare la loro estinzione. Inoltre sono molte le ragazze Karo che preferiscono sposare uomini di un gruppo etnico più forte che offra loro maggior sicurezza. È nel gruppo etnico degli Hamer, che le giovani Karo sperano di trovare “l’anima gemella” che possa offrire loro una vita confortevole.

Donna Borana con il figlioletta (foto lucio rosa)

Gruppo etnico BORANA, “genti dell’aurora” in lingua Boru. Sono un gruppo etnico che vive distribuito nel sud dell’Etiopia, Oromia, tra il lago Stefania e l’arido Nord del Kenya. Appartengono al vasto gruppo degli Oromo che occupa buona parte dell’Etiopia e di cui ritengono  essere “l’etnia primigenia”. Parlano un dialetto della lingua Oromo l’afaani Boraana. Si stima siano tra i 400 e i 500mila individui, sparsi nei due paesi e divisi in più di un centinaio di clan. Sono pastori semi-nomadi. Allevano zebù, mucche, ovini, che forniscono latte e carne per le esigenze alimentari. Vivono in raggruppamenti di poche capanne circolari. Alla base della cultura dei Borana vige il concetto dell’ordine, dell’equilibrio fra giovani e anziani, fra uomini e donne, e fra tutto ciò che  è fisico e quello che è spirituale. Se perdi l’equilibrio, entri nel regno del caos.

Una delle strette stradine che corrono all’interno di un villaggio Konso (foto lucio rosa)

Gruppo etnico KONSO. Tra le colline a sud del lago Chamo, in un territorio montagnoso che si estende lungo il margine orientale della valle dell’Omo ad una altezza intorno ai 1500 metri, vivono i Konso, un popolo di agricoltori sedentari. I villaggi dei Konso, a scopo difensivo, sono arroccati sulle falesie che dominano le ampie vallate. Legno e pietra sono gli elementi che caratterizzano questi insediamenti. I Konso sono una popolazione di circa 20.000 individui. Possono essere di religione cattolica, cristiana-ortodossa o musulmana, ma effettuano ancora riti pagani propri della religione animista. Sono un popolo unito da una forte solidarietà. I Konso abitano un vasto territorio. Vivono sparpagliati in 48 villaggi e suddivisi in 9 clan esogamici.

La decorazione del viso di una donna Hamer (foto lucio rosa)

Gruppo etnico HAMER, una popolazione di circa 50mila individui. Le origini di questo popolo sono ignote, ma alcuni racconti tradizionali riferiscono che gli Hamer discendono dall’unione di tribù che provenivano dal Nord, dall’Est e dall’Ovest, e che, migrate verso Sud, si sono stabilite in questi luoghi sulle montagne a Nord del lago Turkana. Gli Hamer vivono in villaggi tradizionali, dove abitano più famiglie imparentate tra loro ma dove ogni famiglia vive nella propria capanna. Il bestiame per gli Hamer, oltre ad essere una importante fonte per la sopravvivenza e uno status symbol. Un uomo è tanto più ricco quanti più capi di bestiame possiede, inoltre per potersi sposare deve pagare un prezzo ai genitori della sposa quantificato in capi di bestiame. Gli Hamer prestano molta attenzione e dedicano molto tempo alla cura del loro aspetto fisico. Un segno di una certa ambizione nell’apparire si intuisce, sia tra le donne che tra gli uomini, nella cura, quasi maniacale,  con cui ornano il proprio corpo.

La cerimonia del “salto dei tori” tra gli Hamer (foto lucio rosa)

L’usanza più radicata e controversa della cultura Hamer è la cerimonia del “salto dei tori”, Uklì Bulà, una prova di coraggio e di forza, prova che consiste nel correre sulle schiene di una fila di tori affiancati, senza cadere. L’iniziato,”ukuli”, nell’idioma degli Hamer, secondo consuetudine si è rasato metà del capo e attende impaziente che giunga il suo momento per entrare in campo. L’attesa è lunga ed estenuante e il sole è già scomparso oltre la corona di montagne quando si dà il via alla “cerimonia”. Si tratta di un evento molto atteso, che richiama sempre molta gente anche da villaggi lontani. La prova dell’Uklì Bulà è preceduta da un “prologo” che agli occhi di noi occidentali può apparire arcaico e cruento.

Una coppia del gruppo etnico Arbore tra le capanne del villaggio (foto lucio rosa)

Gruppo etnico ARBORE. In vicinanza del lago  Chew Bahir, (si legge ciù bahìr) ex lago Stefania, nella regione sud-occidentale della valle dell’Omo, vive il popolo degli Arbore, un gruppo etnico che non supera i 4mila individui. Sono di religione islamica, ma sono ancora molto presenti credenze tradizionali. L’allevamento del bestiame è la loro principale risorsa, rappresenta la primaria fonte di sussistenza e, come per molti altri popoli che vivono in queste regioni, è anche indice di appartenenza ad una classe socio-economica elevata. Per antica tradizione le ragazze non ancora sposate hanno il capo rasato. È un simbolo di verginità. Dal collo delle donne scendono a grappoli numerose collane di perline multicolori. Oggi le perline hanno perso  il fascino del vetro al quale si è sostituita la volgare e grossolana plastica.

Donne Mursi con il caratteristico piattello labiale (foto lucio rosa)

Gruppo etnico MURSI. Nei territori situati al confine settentrionale del parco Mago, incontriamo i Mursi, un  popolo di circa 8mila individui. Un gruppo tribale che ha vissuto isolato per secoli dal resto della società etiope e dall’influsso straniero. Ma dagli ultimi decenni non è più così e sono rare le possibilità di incontrare un gruppo che abbia mantenuto integri gli elementi culturali originari. Ogni incontro con questa cultura deve avvenire quasi in silenzio, con molto rispetto. L’usanza del piattello labiale, caratteristica delle donne Mursi, per alcuni antropologi, pare abbia avuto origine nel periodo della tratta degli schiavi. Il volto così sfigurato poteva essere un deterrente, un modo per deprezzare la donna e quindi utile a dissuadere gli schiavisti dal portarla via e una opportunità di salvezza per lei. Il piattello labiale è un segno di prestigio per la donna che lo porta ma è anche un segno di ricchezza. Sicuro è il valore economico del piattello. Più grande è, maggiore sarà il numero di capi di bestiame che la sua famiglia chiederà al pretendente per cederla in sposa.

Milano. L’università statale e l’Ambasciata d’Italia in Egitto dedicano una giornata a ricordare il salvataggio dei templi di File a 40 anni dalla straordinaria impresa con la presentazione del volume “File, la Perla del Nilo salvata dalle acque. Il contributo italiano”: incontro in presenza su invito e in streaming

File, tempio sommerso durante la piena del Nilo, secondo pilone, veduta da ovest. Foto di Alexandre Varille, anni 1940. Stampa su carta fotografica (Archivi Egittologia Università di Milano)

Quarant’anni fa, era il 1980, grazie alla collaborazione tra Egitto e Italia, si concludeva l’epica impresa del salvataggio del magnifico complesso faraonico sorto sul Nilo: i templi di File. A quella straordinaria impresa l’università statale di Milano e l’Ambasciata d’Italia in Egitto dedicano la giornata del 21 settembre 2021  con l’incontro “File salvata dalle acque. Alla Statale gli archivi di un’impresa straordinaria”, promosso con la partecipazione dell’Istituto Italiano di Cultura – Centro Archeologico Italiano al Cairo. Appuntamento in Sala Rappresentanza della sede di via Festa del Perdono dell’Università Statale, alle 11 (ingresso su invito e solo con Green Pass), in diretta sul canale YouTube d’Ateneo @UnimiVideo. L’evento sarà l’occasione per presentare il volume “File, la Perla del Nilo salvata dalle acque. Il contributo italiano”, curato dall’Ambasciata d’Italia al Cairo e dall’Istituto Italiano di Cultura – Centro Archeologico Italiano al Cairo e stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato attraverso il prestigioso marchio Libreria dello Stato.

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Giampaolo Cantini, ambasciatore d’Italia al Cairo

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Patrizia Piacentini, egittologa dell’università di Milano (foto mudec)

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Giuseppina Capriotti Vittozzi (Centro Archeologico Italiano – Istituto Italiano di Cultura del Cairo)

La giornata sarà aperta, alle 11, dai saluti istituzionali del rettore Elio Franzini, della prorettrice a Ricerca e Innovazione Maria Pia Abbracchio, e da Claudia Berra, direttrice del dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici dell’Ateneo milanese. Ai saluti istituzionali seguirà l’intervento (da remoto) di Giampaolo Cantini, ambasciatore d’Italia in Egitto, su “L’Italia in Egitto: l’anniversario di una grande impresa”. Quindi, alle 11.30, gli interventi in presenza: Patrizia Piacentini, ordinario di Egittologia (Università di Milano), su “L’archivio Condotte negli Archivi di Egittologia dell’Università degli Studi di Milano”; Matteo Uggetti, commissario straordinario della Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.A., su “Le Condotte in Egitto”; Giuseppina Capriotti Vittozzi, Centro Archeologico Italiano – Istituto Italiano di Cultura del Cairo, presenta il volume “File, la Perla del Nilo salvata dalle acque. Il Contributo dell’Italia”, Roma, Poligrafico e Zecca dello Stato, 2021; Antonio Palma, presidente del Poligrafico e Zecca dello Stato Italiano, su “Il volume su File nel Catalogo della Libreria dello Stato”. Chiude, alle 12.10, la proiezione del video “Egyptian-Italian Cooperation for the Preservation of the Egyptian Cultural Heritage”.

Il tempio di Iside sull’isola di File vicino ad Assuan (Egitto)

Il volume raccoglie gli Archivi della Società Italiana per Condotte d’Acqua SpA (donati nel dicembre 2020 all’università di Milano) che ripercorrono la straordinaria impresa che 40 anni fa permise di salvare dalle acque, in seguito alla costruzione della Grande Diga di Assuan a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, i monumenti dell’antica File e altri monumenti della Nubia, come quelli di Abu Simbel, che sarebbero andati definitivamente perduti. Nell’ambito della Campagna UNESCO (1960-1980), infatti, i monumenti furono salvati grazie a un intervento di traslazione altamente specialistico, nel quale l’Italia ebbe un ruolo importante. L’ultimo salvataggio fu quello di File, dove i lavori furono portati a temine dalla Società Italiana Condotte – Mazzi Estero (mentre il precedente intervento ad Abu Simbel era stato messo in atto da Impregilo).

Agrigento. Al parco archeologico della valle dei Templi va in scena “Cassandra – Ilio in Fiamme” di Daniele Salvo, seduta drammatica a 7 voci da “Troiane” di Euripide

libro_le-troiane_di-euripide“Quando le fiamme di una guerra si spengono, nel momento in cui gli uomini e le donne superstiti si guardano intorno e scorgono inorriditi le macerie che hanno soppiantato le loro case, in quel momento ed in quel luogo e su quelle esistenze si apre la tragedia Troiane di Euripide, che alza il sipario là dove l’Iliade lo aveva fatto calare, per mostrarci la totale insensatezza di una guerra, che diventa simbolo di ogni guerra”, scrive Valeria Tirabasso nel presentare “Troiane” di Euripide per l’Osservatorio teatrale dell’università di Trento.  Nella tragedia, che fu rappresentata per la prima volta nel 415 a.C. durante la Guerra del Peloponneso, Euripide racconta la città di Troia alla fine della guerra. Gli uomini troiani sono stati uccisi, mentre le donne devono essere assegnate come schiave ai vincitori. Cassandra viene data ad Agamennone, Andromaca a Neottolemo, ed Ecuba a Odisseo. Cassandra predice le disgrazie che attenderanno lei stessa e il suo nuovo padrone una volta tornati in Grecia, ed il lungo viaggio che Odisseo dovrà subire prima di rivedere Itaca. Andromaca subisce una sorte terribile, poiché i Greci decidono di far precipitare dalle mura di Troia Astianatte, il figlio che la donna aveva avuto da Ettore, per evitare che un giorno il bambino possa vendicare il padre e porre fine alla stirpe achea. Successivamente Ecuba ed Elena si sfidano in una sorta di agone giudiziario, per stabilire le responsabilità dello scoppio della guerra. Elena si difende ricordando il giudizio di Paride e l’intervento di Afrodite, ma Ecuba svela infine la colpevole responsabilità della donna, fuggita con Paride perché attratta dal lusso e dall’adulterio. Infine, il cadavere di Astianatte viene riconsegnato ad Ecuba per il rito funebre, Troia viene data alle fiamme, e le prigioniere vengono portate via mentre salutano per l’ultima volta la loro città.

La locandina della pièce teatrale “Cassandra. Ilio in fiamme” di Daniele Salvo al parco archeologico della Valle dei Templi

Da “Troiane” di Euripide il regista Daniele Salvo ha tratto la pièce teatrale “Cassandra – Ilio in Fiamme”, seduta drammatica a 7 voci, che andrà in scena presso il Tempio di Giunone, nel parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi (Ag), il 24 settembre 2021. Prenotazione biglietti su https://www.webtic.it/… “Sarà Un viaggio nell’inconscio, nella febbre, nella trance, nel sonno, nel mondo del tempo perduto”, con Selene Gandini, Alfonso Veneroso, Marcella Favilla, Barbara Capucci, Simone Ciampi, Elvio La Pira, Daniele Salvo. Musiche di Marco Podda. Light designer: Giuseppe Filipponio. Costumi: Erminia Bassi. Assistente alla regia: Anna Afteni. Produzione Kairos A.C.